giovedì 6 ottobre 2016

Quei filmati di Al Qaeda? Li faceva il Pentagono


Quei filmati di Al Qaeda? Li faceva il Pentagono

di Marcello Foa - 05/10/2016
Quei filmati di Al Qaeda? Li faceva il Pentagono
Fonte: Marcello Foa

I video di Al Qaeda? Così falsi da sembrare veri e commissionati non da Bin Laden, ma dal Pentagono, per il tramite dell'agenzia di PR britannica Bell Pottinger che per almeno cinque anni ha lavorato in Iraq su mandato del Dipartimento della difesa americano ottenendo un compenso di oltre 100 milioni di dollari all'anno. Totale: 540 milioni di dollari, una cifra esorbitante.
Sì, sì, avete letto bene: certi filmati di Al Qaeda erano "made in USA". A rivelarlo è il Bureau of Investigative Journalism in un'ottima inchiesta appena pubblicata sul web, incentrata sulla testimonianza di un video editor, Martin Wells, che quei filmati li ha fatti in prima persona, e riscontri nei documenti ufficiali.
La storia è intrigante, quasi da film. Siamo a Londra. Wells, un video operatore free lance, nel maggio del 2006 viene contattato con la prospettiva di un contratto in Medio Oriente e al primo colloquio si accorge che il committente è molto particolare. Non è la solita società di produzione ma l'ambiente in cui viene accolto è militare; anzi di intelligence militare. Viene scortato da guardie armate all'ultimo piano di un palazzo. Il colloquio è breve e gli comunicano subito l'assunzione perché hanno fatto delle verifiche sul suo conto e lo hanno trovato «pulito». Tempo 48 ore e si trova a Baghdad in una base ultraprotetta, una centrale dove vengono pianificate operazioni di guerra psicologica, in gergo le psyops, alcune delle quali tradizionali. "Dovevamo produrre filmati "bianchi" ovvero nei quali la fonte era dichiarata, tendenzialmente si trattava di spot contro Al Qaeda", spiega Wells.
Ma altre erano decisamente meno trasparenti. "La seconda tipologia era 'grigia': finti servizi giornalistici che poi venivano mandati alle Tv arabe". E poi c'era quella "nera" in cui la paternità dei video era "falsamente attribuita". Insomma false flag, che Wells spiega così: "Producevamo finti filmati di propaganda di Al Qaeda, secondo regole e tecniche precise; dovevano durare dieci minuti ed essere registrati su dei CD, che poi i marines lasciavano sul posto durante i loro raid, ad esempio durante un'incursione nelle case di persone sospettate di terrorismo. L'obiettivo era di disseminare questi video in più località, possibilmente lontani dal teatro di guerra perché scoprire filmati di quel genere in località insospettabili avrebbe aumentato il clamore e l'interesse mediatico". Dunque non solo a Baghdad, ma anche "in Iran, in Siria (prima della guerra) e persino negli Stati Uniti".
Capito? Certi angoscianti scoop che rimbalzavano sul web o in Tv in realtà erano fabbricati a tavolino da una società di PR britannica all'interno di una base statunitense in Iraq. E vien da sorridere pensando che poi erano la CIA o la Casa Bianca a certificarne l'autenticità.
Wells conferma modalità che gli esperti di spin conoscono bene. Il mandato viene affidato da un governo a società di consulenza esterne per aggirare la legge, evitare il controllo di commissioni parlamentari e proteggere le istituzioni nell'eventualità che queste operazioni vengano scoperte e denunciate dalla stampa, cosa che peraltro non accade quasi mai. I fatti svelati dal Bureau of Investigative Journalism infatti risalgono al periodo 2006-2011; nel frattempo la Bell Pottinger è passata di mano e le truppe americane si sono ufficialmente ritirate dall'Iraq. Lo scoop è sensazionale ma difficilmente assumerà rilevanza internazionale perché riguarda un passato lontano e infatti la maggior parte dei grandi media lo ha ignorato.
Intendiamoci. Il fatto che in un contesto di guerra, seppur particolare come quella al terrorismo, si possano concepire operazioni di questo tipo non sorprende. Lo insegnano, da secoli, Sun Tzu e Machiavelli. Il problema è che di solito sono limitate al teatro di guerra, mentre negli ultimi anni hanno assunto una valenza globale. Quella propaganda non è rivolta solo agli iracheni e agli attivisti di Al Qaeda ma anche ai cittadini del resto del mondo, persino agli americani nonostante la legge statunitense lo vieti espressamente. Ed è diventata sistematica. Sappiamo che la guerra in Iraq è stata proclamata su accuse inventate a tavolino. Sappiamo che i report sull'andamento della lotta ai telabani in Afghanistan sono stati falsificati per anni ingigantendo i successi dell'esercito americano, sappiamo delle manipolazioni mediatiche di alcuni drammatici episodi del conflitto in Siria e sappiamo anche che alcuni filmati dell'ISIS sono stati postprodotti e manipolati, in certi casi anche con risvolti comici, come quello in cui i terroristi scorrazzano per il deserto iracheno su un pick-up con le insegne di un idraulico del Texas.
La frequenza e l'opacità di questi episodi pone un problema di fondo, molto serio: quello dell'uso e soprattutto dell'abuso delle tecniche di psyops, che non può diventare un metodo implicito di governo attraverso il condizionamento subliminale ed emotivo delle masse. Non nelle nostre democrazie.

                                                                                                                                                      

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