sabato 28 gennaio 2017

LA CORTE DEI MIRACOLI

LA CORTE DEI MIRACOLI




La corte costituzionale ci ha regalato un altro miracolo.
Con la recente sentenza del 25-01-17 ci ha rispediti d’urgenza nella prima repubblica, con i suoi “Inciuci”, le sue liti da pollaio, i suoi governicchi esili e di vita breve, la sua endemica ingovernabilitá !!
Formalmente la governabilitá ci sarebbe, ma essendo legata ad una percentuale di voti pari al 40% è come l’araba fenice ( “che ci sia ognun lo dice, dove sia niun lo sa..).
Quasi mai difatti, nella storia della repubblica, un partito è riuscito, da solo a raggiungere il risultato del 40% dei voti in nessuna elezione politica.
Questo era evidente, questo era scontato, ma la ineffabile corte costituzionale ha salvato la forma dell’apparenza mettendolo in saccoccia ai cittadini, fulgido esempio di specchiata virtú, di patriottico interesse e di saggio buon senso!
Tutto ció soprattutto perché la suddetta ineffabile corte ha stabilito anche di cancellare l’ipotesi del ballottaggio tra le due formazioni piú votate nel caso che nessuno raggiunga il 40% dei voti.
In quasi tutte le altre nazioni Europee il ballottaggio garantisce la governabilitá e non ci risulta che in essi domini il caos o che abbia preso il potere la dittatura …!
Peggio di cosí era difficile fare, ma i nostri vecchioni non si sono risparmiati per raggiungere sempre nuove vette della incongruenza e della insipienza..!
Ora avremo la proporzionalitá  coniugata con la probabilissima, quasi certa, ingovernabilitá il che scatenerá il solito “Mercato delle vacche” parlamentare grazie alla saggezza di quei rincoglioniti e strapagati giudici costituzioinali che ci hanno fatto questo bellissimo regalo!
Per di piú, unico caso in Europa, resterá in piedi anche il senato grazie alla saggezza degli elettori ( altra categoria di intellettualmente super dotati ),  che hanno bocciato la riforma che lo cancellava pur di mandare a casa Renzi il che è come tagliarsi gli zebedei par fare dispetto alla moglie per cui le leggi continueranno a fare Ping Pong tra le due camere aumentando la ingovernabilitá ..!!
Ma forse è quello che ci meritiamo se la validitá della classe politica e della “governance” rispecchia quella dei cittadini..!!
Pessimismo?
A noi pare solamente deduzione logica..

Alessandro Mezzano

                                                                                                                                           

mercoledì 25 gennaio 2017

L'ATTENTATO DI VIA RASELLA

L’attentato di via Rasella

L’attentato di via Rasella è emblematico perchè rivela la strategia dei partigiani comunisti
Si tratta infatti di un’operazione dal valore assolutamento nullo dal punto di vista militare, ma di grande impatto emotivo per la reazione che avrebbe provocato dopo la scontata rappresaglia tedesca.
Era inoltre un’operazione priva di pericoli e che quindi non avrebbe messo in difficoltà coloro che l’avessero eseguita.
Sorto all’indomani della caduta del regime fascista (25 luglio 1943), il governo Badoglio, aveva dichiarato unilateralmente Roma “città aperta” solo trenta ore dopo il secondo bombardamento che l’aveva sconvolta. L’attacco, eseguito da bombardieri statunitensi il 13 agosto 1943, aveva causato danni forse ancora maggiori del primo, che l’aveva colpita il 19 luglio: nei due bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro.
In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile.
La città fu nuovamente bombardata numerose volte, sino alla liberazione[citazione necessaria] il 4 giugno 1944. E’ in questo quadro, segnato dai bombardamenti alleati,  dalle retate contro i partigiani effettuate dai tedeschi e dalla deportazione di circa 1.000 ebrei del ghetto di Roma, che si arriva alla fatidica data del 23 marxo 1944, scelta perchè 25esimo anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento.
I partigiani che eseguirono l’attacco facevano parte dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) che dipendevano dalla Giunta Militare, a sua volta dipendente dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), i cui responsabili erano: il socialista Sandro Pertini, il comunista Giorgio Amendola e Riccardo Bauer del Partito d’Azione.
L’ordine di eseguire l’attacco fu dato dai responsabili della Giunta militare. Anni dopo sia Pertini che Bauer dichiararono di non essere a conoscenza della preparazione dell’imboscata e che l’ordine venne dato da Amendola senza che fossero stati avvertiti. Amendola confermò tutto e rivendicò alla sua persona la responsabilità di aver dato l’ordine operativo ai gappisti.
Per l’esecuzione dell’attacco furono impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all’8 settembre 1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona del centro storico. Numerosi quindi furono i partigiani che avrebbero partecipato all’azione, dei quali uno di essi, travestito da spazzino, avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all’interno di un carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.
Il compito di far brillare l’esplosivo fu affidato al partigiano Rosario Bentivegna (“Paolo”), studente in medicina, il quale il 23 marzo si avviò travestito da spazzino dal deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il carretto contenente l’ordigno. Dopo essersi appostato ed aver atteso circa due ore in più, rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via, alle 15.52 accese con il fornello di una pipa la miccia, preparata per far avvenire l’esplosione dopo circa 50 secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra un punto a valle usato per la segnalazione, ed il carretto, posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.
Poco dopo l’esplosione due squadre dei GAP, una composta da sette uomini l’altra da sei, sotto il comando di Franco Calamandrei detto “Cola” e Carlo Salinari detto “Spartaco”, lanciarono bombe a mano e fecero fuoco sui sopravvissuti all’esplosione.
Nell’immediatezza dell’evento rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili (Antonio Chiaretti ed il tredicenne Pietro Zuccheretti). Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9 militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.
La decisione del comando nazista fu la conta di 10 ostaggi fucilati per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf Hitler, nonostante la convenzione dell’Aia del 1907 e la Convenzione di Ginevra del 1929 nel contemplare il concetto di rappresaglia ne limitassero fortemente l’ ampiezza secondo i criteri della proporzionalità rispetto all’entità dell’offesa subita, nella selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili.
L’ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all’attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente, causa la “fretta” di completare il numero delle vittime e di eseguire la rappresaglia, furono aggiunte 5 persone in più nell’ elenco ed i tedeschi, per eliminare scomodi testimoni, uccisero anche loro.
Nel dopoguerra, Herbert Kappler venne processato e condannato all’ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell’ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. La rappresaglia infatti doveva riguardare secondo l’accusa i soli 32 militari morti sul colpo e no quelli morti successivamente che portarono a 33 i morti il giorno dopo e men che meno i successivi 9 che morirono nei giorni successivi.
Le critiche che vengono mosse alla vicenda sono:
  • Secondo i critici, e secondo alcuni militari tedeschi sopravvissuti, i 156 uomini della 11ª compagnia del battaglione Bozen coinvolti nell’attacco, comandati dal maggiore Helmut Dobbrick, non erano un reparto operativo ma solo riservisti altoatesini entrati nell’esercito tedesco per affinità etniche ed aggregati al Polizei Regiment della Wehrmacht, con compiti di semplice vigilanza urbana[8]. Altre testimonianze al contrario documentano la partecipazione del Bozen ad alcuni rastrellamenti.
  • L’esplosione non uccise solo trentatre militari tedeschi, ma anche due civili italiani (di cui un bambino di 13 anni), ferendone anche altri quattro. Ai famigliari dei due civili morti nell’attentato non è mai stato riconosciuto alcun risarcimento dalla magistratura italiana, in quanto l’attacco è stato catalogato come legittimo atto di guerra.
  • L’attentato fu perpetrato dai partigiani nonostante fosse noto che i tedeschi applicassero sommariamente la rappresaglia per ogni attacco subito, come in numerosi altri casi.
  • La rappresaglia di 330 prigionieri si sarebbe potuta forse evitare (secondo quanto affermato dallo stesso generale Kappler che la ordinò), se gli attentatori si fossero consegnati alle autorità tedesche, come nel noto caso di Salvo_D’Acquisto.
Dall’accaduto si possono trarre alcune conclusioni:
  • in sè e per sè la rappresaglia era assolutamente giustificata e legale (Convenzione dell’Aja e Tribunale di Norimberga). Quello che non tornava era il numero dei morti: 335 invece dei 320 (o 330 tenendo conto del soldato morto prima della rappresaglia stessa). Sui 15 (o 5) morti in più c’è chi sostiene si trattasse di soldato tedeschi che si erano rifiutati di sparare e che Kappler non avrebbe nominato per non infangare l’esercito tedesco.
  • lo scopo tutt’altro che militare di tutta l’operazione fu raggiunto in pieno. L’eccidio delle Fosse Ardeatine è diventato un simbolo della Lotta di Liberazione‘, dell’eroismo dei’ combattenti per la libertà‘ e un sicuro baluardo contro qualsiasi nostalgia.
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domenica 22 gennaio 2017

2017, l’anno del fallimento mondialista?


2017, l’anno del fallimento mondialista?

E' gennaio 2017 ed è finito anche un particolarissimo 2016. Quando sarà studiato sui libri di storia, probabilmente sarà indicato come l’anno che ha segnato l’inizio della fine del progetto mondialista che voleva cancellare gli Stati nazionali ed imporre il dominio del potere della finanza al globo intero. Questo disegno – che sembrava avviato a trionfare rapidamente – ha subìto una serie di colpi durissimi, decisivi, nel 2016: la Brexit e l’elezione di Trump, ma anche la vittoria della Russia in Siria e la sconfitta del progetto di consegnare l’intero Medio Oriente all’ISIS ed ai suoi finanziatori occulti e meno occulti. Quello che è successo nell’anno appena trascorso non è poca cosa. L’addio dell’Inghilterra all’Unione Europea sbugiarda e rinnega l’essenza stessa dell’Unione, nata per asservire l’Europa al progetto di globalizzazione economica che aveva proprio a Londra, nella City, una delle sue “capitali morali”. Né meno clamorosa è stata la vittoria dell’isolazionista Trump nell’altra capitale morale del progetto mondialista: nell’America di Wall Street e delle grandi banche d’affari, di quel gigantesco apparato di sanguisughe che aveva puntato tutte le sue carte sull’accoppiata Obama-Clinton e che oggi schiuma di rabbia. E che dire del quadro strategico? Il disegno di provocare a sangue Putin per avere il pretesto di muovere guerra alla Russia è fallito miseramente, con grande scorno di George Soros e degli altri “filantropi” che avevano investito miliardi per provocare “rivoluzioni colorate” ed altre porcherie che facessero precipitare la situazione. Putin è ancora in sella, saldamente in sella, ed anche Assad è ancora al suo posto. Obama, invece, non c’è più, e il suo addìo rabbioso non è che la confessione di un fallimento colossale, senza appello e senza attenuanti. I primi frutti di questi enormi sommovimenti cominciano già a vedersi, e sono dolci frutti. In Inghilterra non c’è stata la tragedia prevista dalle Cassandre europeiste nel caso di una vittoria del Brexit, ma – al contrario – in questi pochi mesi l’economia britannica ha dato forti segnali positivi. Ha dovuto ammetterlo proprio in questi giorni – col capo cosparso di cenere – l’analista-capo della Banca d’Inghilterra (privata, di area Rothschild) che in campagna elettorale s’era lasciato andare a previsioni assai fosche per il caso di una vittoria degli euroscettici. «Avevamo previsto – ha detto il banchiere – un netto rallentamento dell’economia, che non c’è stato.» Si è consolato – leggo su “Milano Finanza” – ricordando che il medesimo errore di valutazione era stato compiuto «da tutti gli altri principali analisti». Appunto. Idem per quanto riguarda Trump. Gli stessi analisti con la puzza sotto il naso avevano giurato che la sua elezione avrebbe rappresentato un disastro per l’economia americana, con chiusura di aziende, licenziamenti in massa, e così via catastrofando. E, invece, è bastato il solo annunzio di alcune sacrosante misure protezionistiche (prima ancora dell’insediamento del nuovo Presidente) per determinare l’improvviso rinsavimento di alcune grandi industrie americane, che hanno precipitosamente sospeso le comode delocalizzazioni all’estero per tornare a produrre in terra americana, creando ricchezza reale (e non finanza virtuale) e dando posti di lavoro agli americani. Di Putin e della Siria non occorre neanche parlare. L’intervento russo ha segnato l’inizio dell’annientamento dell’ISIS, costringendo anche gli americani a fare qualcosa di concreto. Con tanti saluti agli sceicchi del petrolio e ai tanti fiancheggiatori dello jahidismo – beninteso “moderati” – sostenuti dalla CIA. Bilancio positivo per il 2016? Certamente. E in tale bilancio includo anche il nostro modesto contributo: la vittoria a valanga del NO al referendum sulle riforme Renzi-Boschi-J.P.Morgan. Ma il cammino per liberarci dal cappio mondialista e globalista è ancora lungo. Il 2017 sarà forse l’anno-chiave, con l’appuntamento decisivo per la sopravvivenza dell’Unione Europea: le elezioni presidenziali che si svolgeranno nella primavera prossima in Francia. E quand’anche la “battaglia di Francia” dovesse essere vinta, non saremo che all’inizio. In attesa di quella che immancabilmente dovrà essere la battaglia finale: quella degli Stati – di tutti gli Stati del mondo – per riappropriarsi del diritto di creare la propria moneta e per togliere tale prerogativa alle banche “centrali”. Sarà, come si diceva una volta, la lotta del sangue contro l’oro. Anche contro l’oro nero.

                                                                                                      

venerdì 20 gennaio 2017

ULTIMO!



Riflessioni durante un mitragliamento..   “minchia..,io ti riconosco e tu mi spari” ??
Questo deve aver pensato il comandante del peschereccio “Principessa I” di Mazara del Vallo quando, a circa 20 miglia dalle coste libiche, si è visto bucare lo scafo a colpi di mitraglietta da una motovedetta libica che gli aveva intimato l’alt mentre pescava gambero rosso.
Quelli (i libici) hanno sparato perché il nostro comandante (forte di poco rassicuranti precedenti) ha subito “preso il largo” a tutta macchina..il diritto i internazionale fissa a 20 miglia le acque nazionali, loro (sempre i libici) le hanno portate decenni fa a 74 miglia dalla costa. Così, troppo spesso, ci si ritrova in questa situazione: o i nostri pescatori vengono “catturati” e poi devono pagare il riscatto per tornare a casa (e la imbarcazione in porto) oppure si scappa rischiando (come accaduto) pure la pelle.
Ma oggi,a differenza di quanto accadeva pure con Gheddafi, ci sono dei particolari che lasciano (spero non solo me) perplessi : l’assenza (non nuova) della Marina Militare e la mutata (recentissimamente) situazione politica tra Roma e la Libia.
Punto primo : come è possibile che le nostre navi da guerra,presenti in forze nel Canale di Sicilia fin davanti le spiagge libiche, non abbiano rilevato la presenza di una motovedetta che attaccava il peschereccio italiano ?
Presumo che lo stesso abbia lanciato una richiesta di aiuto in tal senso..ci sono in volo pure Awacs della Nato e stazioni radio satellitari che raccolgono le disperate (o meno) richieste di soccorso dei migranti persino su gommoni !!
O forse le segnalazioni di richiesta di aiuto dei nostri pescatori non sono degne di  attenzione  da parte delle istituzioni militari e politiche ??
Già,perché c'è pure il punto secondo da esaminare: i rapporti politici tra noi (governo) e la Libia..proprio ieri si annunciava trionfalmente il ripristino dei voli tra Roma e Tripoli,segno per Alfano di stabilizzazione ed amicizia tra i due stati (assieme alla riapertura della ambasciata italiana).
Peccato che,proprio giorni fa, un golpe (in salsa libica,non sudamericana) avesse visto occupare i ministeri del governo Sarraj quale preavviso di sfratto da Tripoli stessa..questo signore,imposto dagli occidentali come capo di stato mai eletto da nessuno, risulta “riconosciuto dall’Onu” ma non dalla gran parte del popolo libico che preferisce Tobruk con Haftar o Isis con Sirte e dintorni ed addirittura Gheddafi nel sud..pensa tu che casino !
Risultato del tutto ??
Intanto,giorno 15 scorso, le mitragliate libiche alla “Principessa I”, sparate dalla motovedetta (per inciso,probabilmente una di quelle donate dai governi italiani) !!
E,visto che Renzi e Gentiloni hanno “unificato” forzatamente la Libia riconoscendo un unico governo, trovo sia forse da modificare quanto il comandante Asaro possa aver pensato in quei momenti : “figghiu di buttana..,quelle teste di (omissis)di Roma ti riconoscono e tu mi spari addosso” ??

Grazie per l'attenzione
                                                                                                                                                 

martedì 17 gennaio 2017

ALCUNE SCOMODE VERITA' SULLA 2 GUERRA MONDIALE

ALCUNE SCOMODE VERITA' SULLA 2 GUERRA MONDIALE



di Enrico Montermini.

Badoglio, l'uomo chiave.

Il maresciallo Pietro Badoglio, capo di Stato Maggiore Generale, era il massimo esponente della massoneria castrense e l’uomo di fiducia di re Vittorio Emanuele III per mantenere il controllo delle Forze Armate Regie. Come scrisse la penna illuminata di Indro Montanelli, egli non era né fascista né antifascista: era semplicemente badogliano. Solange Manfredi ha messo in rilievo il fatto che fin dall’epoca della crisi abissina i servizi segreti alleati individuarono in lui l’uomo chiave per distruggere dall’interno il Regime fascista (S. Manfredi, “Psyops”).
Il 1 settembre 1939 scoppiava la Seconda guerra mondiale: quello stesso giorno Pietro Badoglio prendeva contatto col presidente americano Roosevelt per mezzo del console portoghese Da Vega. A fare le presentazioni era stato il mago Giuseppe Cambareri, che dal 1934 si era infiltrato nei vertici politici e militari italiani per conto dell'Intelligent Service britannico. Attraverso uno scambio segreto di messaggi cifrati trasmessi per via diplomatica dal consolato portoghese Badoglio (nome in codice: "Immigrant") comunicò a Roosevelt (nome in codice: "Manager") che in Italia c’era un gruppo di alti ufficiali che si opponevano al fascismo e che erano pronti a rovesciare Mussolini se avesse voluto spingere il Paese in guerra. “Manager” e “Immigrant” concordarono che quest’ultimo avrebbe garantito la neutralità dell'Italia; e se ciò non fosse stato possibile avrebbe almeno differito il più possibile la nostra entrata in guerra. Queste scioccanti rivelazioni si trovano nell'autobiografia di Da Vega (Cfr. Silverio Corvisieri, Il mago dei generali, Odradek).
Dalla fine del 1938 l'anziano maresciallo si era impuntato affinché le forze meccanizzate del Regio Esercito fossero trattenute nella Pianura padana e in Albania scontrandosi con Italo Balbo, che, spalleggiato dal generale Baistrocchi, avevano garantito a Mussolini che si poteva raggiungere facilmente l'Egitto con un raid dalla Libia. Nel settembre 1939 la brigata di riservisti inglesi che difendeva il canale di Suez poteva essere facilmente sopraffatta dall'agguerrito reggimento di paracadutisti libico di stanza alla base aerea di Castel Benito, nei pressi di Tripoli, se solo avesse ricevuto immediati rinforzi da terra e dall'aria: Badoglio troncò questi preparativi avvisando Balbo che era "esercizio inutile e ozioso" fare piani che non si potevano realizzare. Badoglio si confermava così l'uomo chiave per compromettere tutti i piani di guerra dell'Italia fascista, che senza la sua autorizzazione non potevano essere nemmeno predisposti.
La neutralità italiana promessa da Badoglio a Roosevelt rientrava nei desideri di Londra e di Parigi in quel periodo passato alla storia come la "strana guerra". Tuttavia tra febbraio e marzo del 1940 gli orientamenti di Londra cambiarono. Dobbiamo al giornalista Franco Bandini l'intuizione che l'entrata in guerra dell'Italia fu una fredda decisione presa dal governo inglese per impedire che il completamento dei programmi di riarmo navale predisposti fin dal 1934 trasformassero l'Italia nella maggior potenza militare del Mediterraneo. Per l’Ammiragliato inglese non c’era più tempo da perdere: bisognava colpire subito con una guerra preventiva. L'embargo di carbone deciso a Londra alla fine di febbraio del 1940 mirava a paralizzare l'industria bellica italiana e per costringere Mussolini a scendere immediatamente in guerra: o al fianco dell’Inghilterra, per avere il carbone inglese, o contro l’Inghilterra, per avere il carbone tedesco.
In entrambi i casi la Wermacht sarebbe stata obbligata a distogliere verso Sud quelle forze che invece si stavano preparando per l'imminente offensiva sul Fronte occidentale: o per sostenere militarmente l'Italia in difficoltà o per combatterla come nemica. Se tutto fosse andato secondo i piani la Francia forse sarebbe risparmiata dalla blitzkrieg nel corso del 1940, mentre già a partire dall’anno seguente l’equipaggiamento degli alleati sarebbe stato nettamente migliore. (Cfr. F. Bandini, "Tecnica della sconfitta", I libri di IF). Questo tipo di operazione in termini militari si chiama “diversione strategica”.
L'asso nella manica.
Secondo Corvisieri nei primi mesi del 1940 i rapporti tenuti da Da Vega tra Badoglio e Roosevelt si interrompono per riprendere alla fine di aprile. L’autore non fornisce una spiegazione esauriente della faccenda, ma io credo che la faccenda possa agevolmente spiegarsi con la visita a Roma dell'incaricato personale del presidente americano, Wells, che viene ricevuto da Pio XII e da Mussolini. E’ più che credibile che Roosevelt non volesse turbare i rapporti con l’Italia proprio in quel difficile momento. Il suo incaricato promette al Duce una conferenza coloniale alle Isole Azzorre dove otterrà non ben precisati compensi coloniali. Poiché tali compensi da vent’anni venivano rifiutati da Inghilterra e Francia, Mussolini comprende che si tratta di offerte truffaldine che mirano a dilatare l’ingresso in guerra dell’Italia mentre i ritardi nei programmi di riarmo si fanno sempre più preoccupanti a causa della penuria di carbone. Perciò, dopo aver rifiutato le proposte americane, egli annuncia ai capi militari che l’Italia entrerà in guerra al fianco della Germania appena possibile: tale decisione viene comunicata a Hitler durante l’incontro del Brennero (marzo 1940). Proprio in quel momento, secondo Corvisieri, il console Da Vega riavviò i contatti tra Badoglio e Roosevelt: a mio avviso è difficile non mettere in relazione i due fatti.
Se gli Alleati sapevano che l’Italia in qualsiasi momento poteva entrare in guerra contro di loro e se questi erano esattamente i loro propositi, è curioso il fatto che il loro dispositivo militare contro l'Italia non fu affatto rafforzato, anzi. Nei mesi di marzo, aprile e maggio intere divisioni dell’Armée vengono trasferite dal confine alpino e dalla Tunisia per opporsi alla Wermacht. In aprile gli inglesi sciolgono persino la Royal Navy per trasferire l’intera squadra da battaglia nel Mare del Nord per partecipare alla campagna di Norvegia. Per alcune settimane Malta e il canale di Suez restano indifesi dalla flotta italiana, ma nessuno a Roma pensa di approfittarne. Perché? Si tratta solo della miopia dei nostri vertici militari e politici, come sostiene Franco Bandini? Ciò potrebbe spiegare l’inazione italiana, ma non giustifica l’assoluta tranquillità di un nemico che pure è già informato dell’imminente entrata in guerra dell’Italia. Pare quasi che gli Alleati abbiano più informazioni sulle intenzioni italiane di quante ne abbia lo stesso Mussolini, che pure era il capo del Governo.
Secondo Domizia Carafoli proprio nella primavera del 1940 Badoglio iniziò i preparativi per rovesciare re Vittorio Emanuele III e Mussolini. Egli non tenta azioni violente, ma si limita a tessere nell'ombra intese e alleanze: con la fronda di Corte, capeggiata dalla principessa Maria Josuè, moglie del principe ereditario, che si tiene segretamente in contatto con alcune personalità antifasciste; con alcuni gerarchi notoriamente filo-inglesi come Ciano e Grandi; e infine con gli intermediari di alcuni grandi gruppi industriali, come Fiat e Pirelli, che non vogliono rinunciare alle lucrose commesse che arrivano dall'Inghilterra e della Francia. Il piano, però, abortì perché il capo della Polizia, che all'epoca era Arturo Bocchini, all'ultimo minuto ritirò la sua adesione: lo rivela Carmine Senise, che fu il suo braccio destro e poi successore. La Carafoli ha raccolto numerose testimonianze degli sfoghi di Bocchini con i suoi collaboratori contro gli intrighi nei quali Badoglio e altri lo avrebbero messo in mezzo quando lui, invece, avrebbe voluto rimanerne fuori (Cfr. D. Carafoli, "Il Viceduce", Mursia).
L’indizio più significativo dell’intenzione di Badoglio di rovesciare Mussolini consiste nel fatto che da marzo a giugno egli non prepara nessun piano di guerra: evidentemente egli dava per certo che l’Italia non sarebbe entrata in guerra, malgrado le istruzioni che aveva ricevuto, e riteneva che non sarebbe stato chiamato a render conto al capo del Governo della sua condotta. E’ possibile ipotizzare che dietro la cautela di Mussolini, che faceva presente a Hitler che l’Italia non si sarebbe mossa prima di considerevoli successi inziali tedeschi, c’era la consapevolezza che una sua mossa non concordata con la Corona avrebbe provocato la sua destituzione. Eppure certe scadenze imposte dall’Inghilterra si avvicinavano: alla fine di maggio la maggiore industria bellica, l'Ansaldo, comunicò alle autorità preposte di possedere scorte di carbone sufficienti per soli 15 giorni, dopo di che avrebbe dovuto sospendere la produzione. Immaginiamo allora uno scenario nel quale le industrie chiudono, gli operai scioperano e il Governo si dimostra incapace di risolvere la situazione: la sola soluzione possibile per la monarchia sarebbe stato il licenziamento di Mussolini. Come un ragno al centro della tela che attende la sua preda, Badoglio aspettava pazientemente che il potere gli cadesse tra le mani. Uno scenario che anticipa di molti anni il colpo di stato del 25 luglio 1943.
A questo proposito voglio aggiungere che nel maggio 1940, grazie all’azione di intelligence dell’OVRA, la Polizia Politica smantella una rete di antifascisti organizzatisi come una società segreta con una struttura piuttosto complessa e ramificata. L’organizzazione, che aveva i suoi quadri dirigenti in Francia, si proponeva di far insorgere i lavoratori contro il Regime quando si fosse presentata l’occasione. Essa si era costituita nei grandi centri industriali e portuali del Nord-Ovest. L’azione sovversiva di questo gruppo, che non poteva essere sconosciuto ai Servizi segreti, probabilmente sarebbe scoppiato nell’imminenza della crisi degli stabilimenti produttivi generato dall’embargo del carbone imposto dagli Alleati. La retata della polizia scatta nel maggio 1940 che, come abbiamo visto, segna una data limite per i piani golpisti. Forse è questa azione della polizia che mette Badoglio sull’avviso del fatto che Arturo Bocchini non è più favorevole al piano.
In guerra.
L'emozione provocata dall'inatteso crollo della Francia generò in tutto il Paese, compresa la Corona, un subitaneo mutamento di atteggiamenti. Così il 10 giugno l’Italia entra in guerra, per volontà concorde del re e del Duce, mandando inoltre a monte i piani golpisti di Badoglio. Era arrivato il momento della verità per il traditore, che aveva avuto tre mesi per preparare la guerra ma non aveva alcun piano; e nemmeno aveva un’idea di cosa fare. Mussolini avrebbe dovuto mandarlo sotto corte marziale, ma non lo fa. Al contrario autorizza Badoglio a emanare a suo nome una direttiva strategica che prevede una rigida difensiva su tutti i fronti (cfr. G. Giorgerini, "La guerra italiana sul mare", Mondadori). Perché dunque dichiarare guerra se non si intende combattere?
Da 70 anni si dice che le Forze Armate in quel momento non erano in grado di combattere e che Mussolini desiderava solo qualche migliaio di morti per potersi sedere al tavolo della pace. Tutto ciò mi sembra una mistificazione storica che nasconde una realtà molto più inquietante. Andiamo per ordine e cominciamo col dire che l'efficienza di un esercito va confrontata con quella dei suoi possibili avversari. Come spiegano Bandini e De Risio, in quel momento di fronte a un esercito italiano numeroso ma male armato e addestrato gli inglesi potevano contrapporre... il nulla o quasi! Infatti la Royal Army aveva abbandonato a Dunquerk tutto ciò che aveva in termini di carri armati, autoblinde, cannoni, autocarri, munizioni, granate, pezzi di ricambio: nell'estate del 1940 c'erano solo 2 divisioni operative a difendere le isole inglesi dalla temuta invasione tedesca! In quello stesso periodo la Royal Air Force era impegnata quasi al completo nella battaglia d'Inghilterra. Tali valutazioni trovano riscontro anche nella testimonianza del critico militare inglese Basill Liddell Hart ("Storia di una sconfitta", Bur). Lo storico navale Giorgerini afferma che persino la Mediterranean fleet in quel momento era inferiore alla Regia Marina. Gli ordini emanati da Badoglio a nome di Mussolini a questo punto appaiono ancora più incomprensibili. Eppure una spiegazione può e deve essere trovata.
Secondo lo studioso dei servizi segreti Carlo De Risio, il generale Carboni fin da settembre 1939 aveva dato il via, di sua iniziativa, a un gioco molto pericoloso per tenere l'Italia fuori dalla guerra. Nella sua posizione di direttore del SIM iniziò a tempestare il capo del Governo con informative che accreditavano gli Alleati di forze soverchianti in tutto il bacino del Mediterraneo. Quando l’Italia entrò in guerra delle valutazioni non furono riviste e continuarono a ispirare gli ordini di somma cautela emanati da Badoglio a nome del Duce (C. De Risio, "Generali servizi segreti e fascismo", Mondadori). Perché il generale Carboni continuò questo gioco quando ormai le finalità iniziali erano impossibili da raggiungere? Quello che De Risio non dice, ma che apprendiamo da Corvisieri (op. cit.), è che Giacomo Carboni era un protetto del maresciallo Badoglio ed era un frequentatore abituale di casa Cambareri, che era già stata identificata dall'OVRA come un covo dell'Intelligent Service britannico.
Si può dire che la scelta di Mussolini di entrare in guerra nel giugno del 1940, con la Francia sul punto di arrendersi e l'Inghilterra in ginocchio, fu di un tempismo eccezionale. Tra giugno e ottobre ci furono tre mesi di tempo per marciare indisturbati fino al canale di Suez e ai pozzi di petrolio del Golfo Persico. Secondo Bandini quella fu l'unica occasione che abbiamo mai avuto di sferrare un colpo mortale all'Inghilterra prima dell'intervento americano e russo. Ciò non accadde perché il depistaggio del SIM continuò: secondo De Risio il generale Carboni continuò ad accreditare gli inglesi di forze soverchianti che in realtà non esistevano. Chi aveva intuito il bluff inglese fu probabilmente Hitler, secondo il quale una divisione panzer e una divisione meccanizzata leggera sarebbero bastati per far sloggiare gli inglesi dall'Egitto nell'estate del 1940. Fu Badoglio ad allarmare Mussolini sulle conseguenze politiche di accettare l'aiuto tedesco: "un aiuto che poi si sarebbe dovuto pagare a ben caro prezzo" (B. L. Hart, op. cit).
Scacco matto in tre mosse.
Per consentire all'Impero britannico di superare la crisi dell'estate del '40, Badoglio escogitò una diversione di forze: convogliare uomini e mezzi da Malta e dalla valle del Nilo, che per gli inglesi erano indifendibili, ai Balcani dove era possibile costruire un ampio fronte di Paesi ostili all'Asse. Tale fronte avrebbe anche influenzato l'atteggiamento dell'Unione Sovietica, all’epoca filo-tedesca. Mentre il maresciallo Graziani, da Tripoli, continuava a invocare disperatamente carri armati e autocarri per avanzare in Egitto il capo di stato maggiore generale presentò a Mussolini prima un piano di invasione contro la Jugoslavia, poi un altro contro la Grecia.
Mussolini fu ingannato da Badoglio e da Ciano, che sostenevano che l'esercito greco era inferiore per numero mezzi e addestramento alle truppe italiane schierate in Albania, che la Bulgaria avrebbe partecipato alla guerra, che la popolazione greca non aveva voglia di combattere e infine che un gruppo di generali greci era pronto a rovesciare il governo filo-inglese del generale Metaxas. Nessuna di queste informazioni, naturalmente, era vera. Eppure, secondo Badoglio l'impresa era "facile e opportuna" (C. De Risio, op. cit). Solo nel corso dell'ultima riunione egli fece mettere a verbale di essere contrario a quella guerra: non prima, però, di aver congedato 20 divisioni che erano di riserva in Puglia. Questo fatto è menzionato anche da Solange Manfredi ("Psyops").
L'invasione della Grecia scattò alla fine di ottobre e nel giro di pochi giorni si trasformò in una catastrofe. Lo stato maggiore italiano valutava che10 divisioni italiane, superi per artiglieria, fossero contrapposte a 6 divisioni greche. Il generale Cesare Amé, subentrato a Carboni solo alla vigilia dell'invasione, poté invece constatare che a 10 divisioni binarie italiane si contrapponevano a 16 divisioni ternare greche con una inferiorità italiana di 1 a 2 in fatto di uomini. Anche in potenza di fuoco dell'artiglieria eravamo sovrastati dai Greci. C'era una certa superiorità aerea da parte italiana, che nei mesi invernali non potè essere sfruttata adeguatamente. Non appena si profilò il disastro il Duce inviò in Albania il generale Pricolo, all’epoca Sottosegretario di Stato all’Aeronautica, come suo fiduciario per valutare la situazione: evidentemente egli non aveva più alcuna fiducia sulle informazioni e sui giudizi dell’Alto comando che fino a quel momento gli aveva mentito spudoratamente.
La nuova situazione venutasi a creare consentì agli inglesi di insediare truppe, aerei e navi a Creta e nei porti della Grecia col consenso del governo ellenico. Anche Malta, che ai primi di luglio era data per persa dal governo britannico, era stata rifornita di uomini e mezzi al punto da trasformarsi in una munita base navale senza che la nostra marina muovesse un dito. Al termine di una queste operazioni di rifornimento dell’isola, precisamente nella notte tra 11 e il 12 novembre, una dozzina di aerei inglesi decollati da una portaerei sorprese la flotta italiana all'ancora nel porto di Taranto: la corazzata Cavour fu affondata e altre 3 unità gravemente danneggiate su un totale di 6 corazzate. I movimenti navali inglesi erano stati conosciuti per tempo, ma i vertici della marina si erano rifiutati di far uscire la flotta per dar battaglia e avevano atteso passivamente l'attacco inglese. Si seppe poi che, malgrado la decisione adottata, l'ammiraglio comandante della base navale non aveva preso tutte le misure previste per difendersi da un attacco aereo. Così la superiorità nel Mediterraneo passò dalla Regia Marina, che non aveva saputo approfittarne, alla Royal Navy.
A questo punto l'opera di infiltrazione ai più alti livelli attuata dai suoi servizi aveva consentito all’Inghilterra di rovesciare a proprio vantaggio la situazione nel Mediterraneo prima ancora che una sola battaglia degna di questo nome fosse combattuta. Del rovescio della Fortuna fecero le spese Badoglio e l'ammiraglio Cavagnari, quest'ultimo Sottosegretario di Stato alla Marina e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina. Il cambio però arrivò troppo tardi: mentre Graziani continuava a invocare carri armati e autocarri, che invece Badoglio si ostinava a inviare in Albania in previsione della campagna di Grecia, il 18 ottobre un convoglio scaricava nel porto di Alessandria d’Egitto i moderni carri armati e blindati di cui fino a quel momento la 8° Armata inglese era sprovvista. Occorreranno ancora due mesi di preparativi agli inglesi prima di scatenare quel raid in profondità che si concluderà con la distruzione della X Armata del maresciallo Graziani a Beda Fomm nel gennaio 1941. Questo nuovo rovescio privò l'Italia del porto di Bengasi e inoltre consegnò alla RAF gli aeroporti della Cirenaica, che assieme al rafforzamento di Malta davano ora agli inglesi la supremazia anche nel settore del Mediterraneo centrale. La guerra, a quel punto, era già persa: certo, però, si sarebbe potuto continuarla in modo più degno.
La vendetta di Badoglio.
Dopo essere stato destituito da Mussolini (dicembre 1940) Badoglio non si accontentò certo di giocare a boccette come raccontano gli storici, ma riprese i suoi complotti per rovesciare Mussolini. Il ricercatore José Mario Cereghino ha pubblicato i cablogrammi inviati dalla stazione del SOE in Svizzera al Governo inglese con i dettagli delle trattative condotte a titolo personale da Badoglio. I documenti pubblicati abbracciano tutto il 1942 e i primi 7 mesi del 1943. E' sorprendente la differenza di toni tra Mussolini e Badoglio all'indomani delle vittorie di Gaza-Tobruk e di Sidi el Barrani che spalancarono alle forze dell'Asse le porte dell'Egitto: mentre Mussolini annunciava trionfalmente che gli italo-tedeschi inseguivano gli inglesi in rotta verso il delta del fiume Nilo, il SOE informava in segreto Churchill che Badoglio era pronto a inviare in Africa un generale di sua fiducia per organizzare un esercito badogliano con disertori italiani col quale attuare il colpo di stato che andava preparando. (Cfr. Storia in Rete, non ricordo il numero: potete controllare voi sul sito).
Secondo Corvisieri i preparativi del golpe vennero portati avanti nell'appartamento della spia Cambareri dal generale Carboni e dal colonnello Prefetti del SIM. Già dal 1941 essi avevano predisposto un piano per catturare Mussolini. Alla fine le manovre di Grandi e Ciano, notoriamente filo-inglesi, convinsero la Corona a dare via libera a un piano che Badoglio meditava già dal 1939. Il colpo di stato militare ebbe luogo il 25 luglio 1943 e fu seguito passo a passo dal SOE come dimostrano i cablogrammi pubblicati da Cereghino.
La storia non è ancora chiusa, vi è ancora una postilla da fare. Mentre Badoglio iniziava i preparativi per sganciarsi dai tedeschi, il generale Carboni riprendeva il suo posto a capo del SIM: si ricostituiva il binomio che da 4 anni lavorava in modo indefesso per distruggere l'Asse Roma-Berlino. L' 8 settembre 1943 la flotta italiana si consegnava quasi intatta agli inglesi nel porto di Malta, proprio come auspicato dal governo britannico fin dal marzo 1940. Curiosamente all'indomani dell'ingresso in guerra dell'Italia Churchill aveva promesso un premio a ogni comandante italiano che si fosse arreso con la sua nave: c'era un vero e proprio tariffario che girava in ambienti vicini ai servizi segreti. Quando costò la consegna dell'intera flotta italiana? Io non lo so. Bisognerebbe chiederlo all'ammiraglio Maugeri, che all'epoca era capo del Servizio Informazioni Segrete della marina e che successivamente fu decorato al valore dal Governo americano per i servigi resi alla US Navy in tempo di guerra....
Con questo intervento spero di essere stato d'aiuto a quanti vogliano comprendere come perdemmo la guerra.

Enrico Montermini, 12/11/2016

TRATTO DA:
https://www.facebook.com/groups/albamediterranea/1500940669946692/?notif_t=group_activity&notif_id=1478888022826734
                                                                                                                                                     

sabato 14 gennaio 2017

JUNG CHANG

Jung Chang

Se esistessero ancora dubbi sulla criminale politica maoista in Cina, in un contesto intriso di comunismo obbligatorio che si respirava a tutti i livelli della società, sarebbe sufficiente per fugarli, leggere “Cigni selvatici”, il libro di Jung Chang scritto con il supporto di John Halliday.
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L’autrice narra il percorso di vita che ha accompagnato l’esistenza della nonna materna, della mamma, e di lei stessa, in un intreccio di esperienze condizionate dalle imposizioni dei regimi che nel frattempo imperversavano.
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Cigni selvatici è stato scritto solo nel 1991 nonostante il fatto che Jung Chang sognasse di scrivere anche molto tempo prima.
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l fatto è che all’epoca in cui l’autrice viveva in Cina era impossibile scrivere libri e testi destinati alla pubblicazione.
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Mao infatti, nel biennio 1966-67 aveva promosso la cosiddetta “Rivoluzione culturale”.
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Per soddisfare le prerogative di questa nuova “invenzione” maoista, che si estese e si radicò poi in Cina per un decennio, furono dati alle fiamme quasi tutti i libri esistenti trovati nelle abitazioni private, e fu proibito di scrivere per se stessi.
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Il divieto comprendeva perfino la stesura di semplici poesie, ritenute espressione di appartenenza alla borghesia, e identificava chi commetteva questo grave reato come seguace del capitalismo.
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Il racconto dell’autrice inizia con la collocazione storica datata al 1924, anno in cui la nonna, Yu-Fang, all’età di 15 anni, divenne concubina di un potente Signore della guerra”, in terra di Manciuria, una delle innumerevoli regioni cinesi.
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L’unione fu combinata secondo le usanze dell’epoca, e cioè tramite un accordo tra la famiglia e il futuro “sposo”, senza tenere conto dei desideri della donna, che a quel tempo non aveva alcuna voce in capitolo.
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La cosa che più importava alle due parti erano da un lato, il progetto di maritare la figlia mediante un matrimonio il più conveniente possibile, oppure di darla come concubina ad un qualche personaggio potente e ricco, e dall’altra di ottenere una moglie o una concubina che rispondesse il più possibile ai canoni di bellezza e di tradizione corrispondenti a quelli in voga al momento.

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Tra l’altro i parametri su cui si basavano la scelta dell’uomo e l’approvazione della sua famiglia di appartenenza, richiedevano per la futura sposa che lei avesse fatto ricorso alla “fasciatura dei piedi”.
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Tale pratica era applicata fin dalla più giovane età per contenere le dimensioni dei piedi entro il limite di 8 o 10 cm. di lunghezza.
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Per conseguire questo risultato, era necessario che i piedi della donna venissero fasciati fin dall’età di due anni.
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La pratica consisteva nell’avvolgere attorno ai piedi una pezza di stoffa lunga alcuni metri, piegando tutte le dita verso il basso (fuorché l’alluce) e al di sotto della pianta del piede.
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Poi occorreva frantumare l’arco del piede mediante una grossa pietra.
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Le malcapitate donne solitamente svenivano e urlavano per il dolore lancinante che provavano durante questo trattamento disumano, che si protraeva per parecchi anni, anche dopo che le ossa erano state spezzate.
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I piedi dovevano inoltre restare fasciati giorno e notte per evitare che, liberati, potessero iniziare il naturale processo di guarigione.
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Inoltre i piedi erano ricoperti di pelle putrescente e mandavano cattivi odori se venivano tolte le bende.
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Il dolore era incessante,le unghie crescendo si conficcavano nell’avampiede, e tormentavano la donna continuamente.
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Per questi motivi i piedi erano sempre nascosti da scarpette di seta ricamate.
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A quei tempi, quando una donna si sposava, la prima cosa che la famiglia dello sposo faceva, era esaminarle i piedi.
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Si riteneva che i piedi grandi, cioè normali, fossero da disprezzare e disapprovare, e che portassero disonore.
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Questa barbara usanza era in uso da un migliaio di anni, e andò piano piano scomparendo, iniziando il suo declino proprio negli anni in cui la nonna dell’autrice, fu sottoposta invece al supplizio.
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Sono gli anni del rovesciamento dell’Impero, in cui i signori della guerra rappresentavano un reale potere, basato sulla forza dei loro eserciti, e che governavano regioni intere del vasto territorio cinese.
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La famiglia della nonna vede quindi di buon grado la richiesta del potente Xue Zhi-heng, che diverrà infatti capo della polizia nel governo dei signori della guerra a Pechino.
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Il ruolo di concubina della nonna prosegue, anche dopo che viene lasciata sola dal suo signore e padrone, impegnato altrove nelle sue vicende politiche e militari.
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La sua vita, nel contesto sociale da cui è isolata, in una sorta di prigione dorata, si snoda in solitudine, ma a disposizione di colui che poi, dopo sei lunghi anni torna da lei.
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Il nuovo incontro tra i due, dopo tanto tempo, è il preludio alla nascita di una bambina, chiamata Bao Qin, la madre dell’autrice.
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Nel frattempo la società cinese assiste alla unificazione di gran parte del territorio sotto Chiang Kai-Shek, grazie alla struttura politica del kuomintang, e alla contemporanea invasione giapponese della Cina, a partire dalla Manciuria.
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Alla morte del generale Xue, la nonna si trasferisce con la figlia e conosce un medico, il Dr. Xia, con il quale poi si sposa.
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La sua nuova vita inizia a Jinzhou, dove la coppia decide di stabilirsi.
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In Manciuria si supponeva di vivere in uno stato indipendente, nonostante l’occupazione giapponese, la quale tramite le istituzioni scolastiche, tra l’altro, diffondeva l’idea che il Paese (il Manchukuo) confinasse con due repubbliche cinesi, una ostile, guidata da Chiang Kai-shek, e l’altra amica, capeggiata da Wang Jing-wei (un burattino dei giapponesi che governava parte della Cina ).
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Nessuno inculcava ai giovani il concetto di una “Cina” di cui facesse parte la Manciuria.
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Gli insegnanti dicevano che il Manchukuo era un paradiso in terra, ma questo era vero solo per i bambini giapponesi, che potevano disporre di scuole riservate a loro, con materiale didattico a disposizione, ben riscaldate, con pavimenti lucidi e finestre pulite, mentre per i bambini cinesi erano previsti come scuole solamente vecchi templi abbandonati, o case diroccate dono di privati, quasi mai riscaldate.
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Le punizioni corporali facevano parte della tradizione nipponica e i bambini erano quindi percossi con bastoni, anche sulla testa.
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Quando i bambini cinesi (e spesso anche gli adulti) incontravano per la strada un giapponese, dovevano inchinarsi e cedere il passo, e non di rado i bambini giapponesi fermavano quelli cinesi per schiaffeggiarli senza altro motivo che quello di affermare la loro superiorità.
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Nelle vaste distese della Manciuria settentrionale i villaggi cinesi venivano bruciati e i sopravvissuti radunati in “agglomerati rurali strategici”.
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Oltre cinque milioni di persone ( un sesto della popolazione) persero la casa, e i morti furono decine di migliaia.
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L’imperatore cinese, Pu Yi inizialmente prigioniero virtuale dei giapponesi, si esprimeva riferendosi a loro come ”nazione confinante amica”, poi come “nazione sorella” e infine come “madrepatria”.
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Negli anni ’40 l’esercito giapponese era impegnato su più fronti, tra la Cina, l’Asia sud orientale e l’Oceano Pacifico, per cui iniziò a reclutare come mano d’opera anche le donne cinesi, naturalmente obbligandole con vessazioni a piegarsi ai loro interessi.
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La mamma dell’autrice visse in prima persona queste vicissitudini e fu testimone di come i giapponesi cercarono di sradicare le tradizioni locali per sostituirle con quelle più vicine alle terre del “Sol levante”.
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Le notizie erano censurate e la radio trasmetteva solamente propaganda ma nonostante ciò iniziarono a trapelare alcune notizie sulle difficoltà in cui versava il Giappone, specie dopo la resa di uno dei suoi alleati, l’Italia, nel 1943.
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La situazione trascese, e gli episodi di intolleranza da parte dei giapponesi sfociarono in episodi quotidiani di torture e uccisioni di cinesi, individuati come bersagli della loro furia di onnipotenza.
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Nel 1945 si sparse a Jinzhou la notizia che la Germania si era arresa e che la guerra in Europa era finita.
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I bombardieri americani B-29 bombardavano le città della Manciuria e si diffuse la sensazione che presto il Giappone sarebbe stato sconfitto.
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Il 9 agosto le truppe sovietiche e mongole entrarono nel Manchukuo.
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Nei giorni seguenti si iniziarono a trovare cadaveri di giapponesi linciati dalla folla, troppo a lungo oppressa, e molti di loro si suicidarono.
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L’Armata rossa dilagava a macchia d’olio, moltiplicando le guarnigioni e liberando ogni zona dai giapponesi.
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I Russi però portarono anche nuovi problemi.
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Infatti era loro abitudine smantellare anche interi stabilimenti, per spedirne i materiali in Unione Sovietica, oppure entrare nelle case e impadronirsi di qualsiasi cosa potesse essere di loro interesse.
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Si moltiplicarono gli stupri e le violenze nei confronti delle donne, e le zone “liberate” iniziarono a ribollire di rabbia.
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Iniziarono le reazioni, sia dei comunisti che del kuomintang, che con le loro manovre ripresero a tentare di prevaricarsi reciprocamente, allo scopo di conquistare il potere.
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Il kuomintang, guidato da Chiang Kai-shek, godeva dell’appoggio degli americani che garantirono loro l’appoggio aereo.
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Nella Cina settentrionale sbarcarono più di cinquantamila marines americani, che occuparono Pechino e Tianjin.
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I Russi riconobbero ufficialmente il kuomintang come governo della Cina.
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L’armata rossa si ritirò dalla Manciuria, lasciando ai soli comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong, il controllo delle città.
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La politica di Mao prevedeva di abbandonare le città, impadronendosi delle campagne, per rendere possibile poi circondarle e impadronirsi di loro.
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A Jinzhou, la città in cui viveva mia madre, i comunisti lasciarono quindi il territorio, ritirandosi, e permettendo così ad un nuovo esercito di insediarsi al suo interno.
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Il kuomintang entrò trionfalmente, e i suoi soldati si presentarono vestiti come un vero esercito, con divise pulite e con scintillanti armi americane nuove di zecca.
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L’autrice racconta che la nonna pensò che finalmente il Kuomintang avrebbe ristabilito la legge e l’ordine, assicurando la pace.
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La disillusione però fece presto capolino tra gli abitanti, non appena gli ufficiali del kuomintang iniziarono a rivolgersi loro come a “schiavi che non avete una terra vostra”, oppure come a “schiavi del Giappone”.
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Inoltre la corruzione divenne tanto diffusa che Chiang Kai-shek dovette costituire un organismo speciale per combatterla.I taglieggiamenti erano all’ordine del giorno e a chi si opponeva veniva contestato di essere comunista, accusa per la quale erano previsti l’arresto e la tortura.
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La realtà che si percepiva era quella che fosse necessario un nuovo cambiamento, più radicale, per eliminare tutte queste ingiustizie, compresa l’impotenza delle donne, e le barbarie di certe tradizioni come, per esempio, il concubinaggio, e si affacciava per questo nelle coscienze cinesi l’idea che una sola forza politica potesse far avverare un radicale e sostanziale mutamento, quella comunista.
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Le angherie del kuomintang assunsero proporzioni che si avvicinavano ad un furore parossistico, e i nuovi detentori del potere iniziarono una “caccia alle streghe” che faceva largo uso di tortura e di violenza fisica.
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Iniziò un periodo di energici giri di vite, alla ricerca di oppositori, di comunisti, di ex simpatizzanti dei giapponesi, e le accuse formulate sfociavano spesso in esecuzioni sommarie.
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Le posizioni terroristiche del kuomintang favorirono la rinascita di simpatie verso l’opposizione comunista che, clandestinamente, raccoglieva proseliti e consensi.
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La situazione progressivamente portò ad attacchi militari dei comunisti verso le città, che dopo un periodo di assedio più o meno lungo, iniziarono a capitolare.
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I bombardamenti crearono dei varchi, attraverso cui le truppe comuniste fluirono nelle città, conquistandole.
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A Jinzhou l’assedio durò 31 ore, e l’estenuante battaglia provocò ventimila vittime tra i soldati del kuomintang, e altri ottantamila furono catturati.
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In questo contesto la madre dell’autrice conobbe quello che sarebbe poi diventato suo sposo, e avrebbe generato, appunto, Jung Chang, e i suoi fratelli.
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Gli inizi dei nuovi conquistatori furono improntati a procacciarsi la benevolenza della popolazione, e il favore di quanti potessero divenire alleati per controbattere eventuali rappresaglie o ritorsioni del kuomintang, così come possibili tentativi di riprendersi il potere.
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Non vi furono saccheggi o stupri, e furono riaperte scuole e uffici, nonostante le strade fossero ancora disseminate di cadaveri.
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Riaprirono le banche e le forniture di energia elettrica e di acqua potabile, e ripresero a funzionare le ferrovie.
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La madre dell’autrice provò subito il desiderio di dedicarsi completamente alla rivoluzione e alla causa comunista, impaziente di esserne compartecipe.
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Prese così appuntamento per conoscere il responsabile dell’organizzazione del movimento giovanile, un certo compagno Wang Yu, che sarebbe diventato il padre di Jung.
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La loro storia di amore nacque, crebbe, e si sviluppò sempre in un contesto che vedeva come interprete principale l’ideologia del partito e le sue prerogative, lasciando all’amore dei due un ruolo che diveniva marginale rispetto a quello prioritario della rivoluzione.
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Le emozioni, gli slanci affettivi, la convivenza, gli aiuti reciproci, erano interpretati, soprattutto da lui, integerrimo idealista, come sintomo di una decadenza borghese da combattere.
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La convivenza non era possibile così come noi la intendiamo, continua nel tempo, vissuta quotidianamente, in quanto era considerata espressione di decadenza borghese, in quanto ogni aspetto personale della vita doveva essere considerato politico.
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Per questo motivo i funzionari statali, come lei, dovevano dormire in ufficio, salvo il sabato sera, come segno di una riorganizzazione radicale non solo delle istituzioni ma anche della società.
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Era quindi un passo necessario per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, e comunque molti dei valori tradizionali precedenti erano ormai osteggiati e puniti, durante le assemblee di autocritica verbale che quotidianamente si tenevano dappertutto.
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Bastava dimostrarsi appena affettuosi con il consorte, per essere accusati di aver messo l’amore al primo posto anziché la rivoluzione.
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La madre dell’autrice, nonostante la giovane età (diciotto anni) e il matrimonio, si sentiva infelice, confusa e isolata. .
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Il marito era l’impersonificazione del partito e non prendeva mai posizione per schierarsi con lei su qualsiasi aspetto della vita quotidiana, ma addiceva sempre pretestuose argomentazioni che riconducevano alle direttive di una rivoluzione traboccante di suggerimenti.
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Una piccola gentilezza, così come l’indossare un vestitino dissimile dalla solita uniforme grigia da rivoluzionaria, oppure la richiesta di un aiuto in condizioni magari di stanchezza, o il pianto, erano considerati come oggetto di critica.
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Nonostante le privazioni, la spersonalizzazione delle coscienze e degli individui, quando Mao annunciò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, lei si mise a piangere come una bambina : finalmente, dopo il dominio Giapponesi, dopo la tirannia del kuomintang, era nata la Cina che aveva sempre sognato, e a cui avrebbe potuto consacrare il suo cuore e la sua anima.
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La guerra civile in Cina tra comunisti e kuomintang era ben lungi però dall’essere terminata e Wang Yu, seguendo le direttive del Partito, doveva occuparsi del comando della guerriglia nei territori in cui la situazione era incerta e difficile.
.Fu così che si trasferirono spesso finendo per attraversare mezza Cina, e finalmente trovarono un periodo di stabilità nella vecchia città natale di lui, Ybin.
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Lei nel frattempo, dopo un aborto, era in stato interessante, ma questo non fu sufficiente per organizzarsi in alcuni dettagli che le avrebbero semplificato la vita.
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Chiamò a sé sua madre, mia nonna, ma fu criticata violentemente per il suo atteggiamento borghese, fino a che mio padre non le chiese di rimandarla indietro.
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La rivoluzione proibiva di cucinare in casa, poiché tutti dovevano mangiare alla mensa pubblica, e la regola valeva per tutti.
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Mia nonna aveva confezionato dei vestitini nuovi per il nascituro, ma fu ancora più duramente criticata per le sue abitudini borghesi.
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La stessa pratica di lavarsi tutti i giorni era osteggiata, poiché la pulizia era considerata anti proletaria.
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Durante i periodi di guerriglia, si faceva a gara a chi avesse più insetti-rivoluzionari, i pidocchi.
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Tutte le intrusioni, e le sue molteplici sfaccettature, della vita privata delle persone facevano parte di un progetto noto come “riforma del pensiero” .
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L’ideatore, Mao, tendeva con il conseguimento di questo obiettivo all’assoggettamento totale di tutti i pensieri.
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Ogni settimana si tenevano riunioni dedicate all’esame del pensiero, in cui ognuno doveva criticare se stesso per i propri pensieri scorretti e sottomettersi alle critiche degli altri.
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Le riunioni tendevano a essere dominate da persone meschine e supponenti convinte di essere nel giusto, che se ne approfittavano per dare sfogo alla propria invidia e frustrazione ; in particolare, le persone di origine contadina le sfruttavano per attaccare quelli che avevano origini “borghesi”.

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Il libro prosegue, narrando le mille contraddizioni insite nel programma maoista di rivoluzione della società, passando per la riforma agraria che causò 30 milioni di morti, e proseguendo per la rivoluzione culturale, che azzerò ogni forma di cultura in Cina per una decina di anni e riportò il paese indietro di 50 anni.
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La madre prima, e l’autrice successivamente erano parte di un disegno che dovevano loro malgrado interpretare, ma che a lungo, intimamente, sostennero con fervore, in nome di un ideale in cui credevano e di un leader a cui facevano riferimento, come milioni di altri cinesi come loro.
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Il “Grande Timoniere” come soleva essere chiamato Mao, commise consapevolmente una serie di nefandezze, compresa quella che instaurò un clima di terrore sociale, mediante l’istituzione delle Guardie rosse e l’invito loro rivolto a “distruggere i quattro vecchi” : le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni, e le vecchie abitudini.
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La moglie di Mao, interpretò un ruolo parimenti feroce, durante la “Rivoluzione culturale” in cui affermava che bisognava saccheggiare le case, distruggere i tesori delle collezioni private, dipinti e saggi, e soprattutto bruciare tutti i libri esistenti.
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I musei vennero così saccheggiati, le tombe devastate, le pagode e i templi presi d’assalto, con il beneplacito di Mao, che sosteneva l’operato delle guardie rosse ostentatamente.
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Composte per lo più da giovanissimi, le Guardie rosse erano per Mao il fertile terreno su cui seminare uno strumento ideale di tirannia, coltivandolo con l’incitamento alla violenza e il fanatismo ideologico.
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Le bande infervorate di giovani comunisti misero a ferro e fuoco le scuole e le università, prendendo in ostaggio i professori, rei di incarnare l’essenza di un potere odioso, da distruggere, e li picchiarono selvaggiamente, li torturarono e li umiliarono, in tutta la Cina.
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Nessuno volle più interpretare il ruolo dell’insegnamento per oltre dieci anni, per cui, insieme agli immensi falò di libri e di volumi di ogni tipo, si persero le radici millenarie della cultura e della tradizione cinese.
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Distruggere per essere poi l’unico riferimento : un po’ come hanno fatto i talebani con le statue del Buddha in Medio oriente.
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L’ennesima caccia alle streghe dilagò ovunque e cambiò per sempre la storia cinese, complice Mao, sua moglie, Jiang Qing, e Lin Biao, unitamente a tutta una schiera di feroci e spietati personaggi che tronfi di potere scaricavano, spesso per vendetta o per speculazione, le loro frustrazioni su chi, ai loro occhi, avrebbe potuto insidiare la loro posizione.
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Una moltitudine di persone si fece largo nella scalata al potere, o anche solo per ottenere il consolidamento di una comoda posizione, prendendo di mira coloro che magari consideravano come ostacoli.
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La società cinese, i comunisti che avevano iniziato la Rivoluzione, combattendo contro i giapponesi e il kuomintang, oppure gli intellettuali, o semplicemente coloro che avevano ancora un residuo di capacità di sintesi intellettiva, iniziarono a nutrire qualche dubbio sulla figura di Mao, e di come il comunismo aveva trasformato le loro famiglie, e la società stessa.
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La cieca e irresponsabile, per non dire criminale, politica maoista dopo aver svelato il suo volto in decenni di catastrofi umanitarie, finalmente trova riscontro solo in affermazioni di autentica criticità e di biasimo universale.
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I cinesi stessi, che per generazioni hanno guardato a lui come un faro che illumina il percorso da seguire, hanno finalmente capito che Mao e sua moglie sono stati due pazzi criminali, malati di mente, avidi di un potere corrotto da un'ambizione smisurata, e simili, nella sostanza ad Hitler ed a Stalin.
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L'odio di questa malvagia coppia verso qualsiasi forma di intelligenza e di cultura, ha fatto sprofondare la Cina in un precipizio di terrore e di ignoranza abissali, tagliando i ponti con ogni pur minima considerazione verso la cultura stessa, in tutte le sue manifestazioni, facendo regredire il Paese agli oscuri periodi medioevali.
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La morte di Mao, ha colto tutti i cinesi in un momento in cui la società stava inconsciamente riesaminando lo stato delle cose, davanti ad una evidenza palese di sfacelo sociale, ponendo il dittatore non più su un piedistallo dorato come in un passato recente in cui era identificato quasi come una divinità, ma collocandolo a livello di critica esistenziale, eviscerando le incontestabili nefandezze a cui li aveva sottoposti.
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Ma l'autrice ha veramente potuto assaporare la libertà vera solamente quando ha potuto recarsi, grazie ad una borsa di studio, in Gran Bretagna, paese che diverrà poi la sua nuova patria.
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Viene istintivo domandarsi : di tutti quei fanatici comunisti che negli anni 60 riempivano le piazze italiane, sventolando il libretto rosso di Mao, e inneggiavano al dittatore cinese, perchè non ne è mai scappato nessuno verso il propagandato "paradiso"cinese ?
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La risposta è che la storia è piena dei "rivoluzionari della domenica", e di coloro che si pasciano di una grassa ignoranza, ingurgitata e fagocitata grazie agli indottrinatori di certa sinistra che, come Mao, fanno solo ciò che gli conviene.
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Dissenso