domenica 30 aprile 2017

INVASIONE : ADDIO ALLA CASA

INVASIONE : ADDIO ALLA CASA



Perché i prefetti requisiscono le case vuote per gli immigrati e non per i terremotati?

Forse i lettori ricorderanno una  nota  nella quale prevedevo che, a breve, per dare alloggio agli invasori clandestini, dopo le caserme vuote e i locali non utilizzati si sarebbe passati ad occupare le abitazioni vuote (seconde case).

Nella stessa nota si rilevava che il diritto di proprietà  sarebbe stato superato dal dovere di fornire un tetto a chi arriva. Non è consentito lasciare esseri umani senza un tetto. Che il senso umano cancelli ogni altra legge è nell’ordine delle cose.

Il problema non nasce da criteri etici, umanitari, conseguenti ad un evento catastrofico come il terremoto, ma dalla necessità di fronteggiare “uno stato emergenziale” che per il protrarsi e il moltiplicarsi nel numero e nel tempo diventa realtà quotidiana. Peccato poiche l’ emergenza venga fabbricata apposta, dal momento che orami gli africani vengono prelevati in Africa, per portarli qua per gli interessi ideologici ed economici delle centrali del globalismo  e non è vero che sono “poveri naufraghi che affrontano il mare aperto per sfuggire alle guerre” .

Tutta questa è una commedia strappalacrime anema e core. All’ italiana, appunto.

Si trasforma scientemente lo straordinario in ordinario.  Fino all’ autodistruzione finale in nome del buonismo.

Questo è il nuovo vangelo del buonismo , che impone di strappare di bocca il cibo ai propri figli per sfamare gli stranieri parassiti che vengono importati a valanghe.

Questo è il nuovo vangelo buonista : sovvenzionare l’ invasione della negritudine inetta e islamica, per abbassare i salari sia ai nuovi schiavi che agli italiani, secondo un criterio di concorrenza di forze lavoro al ribasso.

Questo è il nuovo vangelo buonista : creare le premesse di un nuovo sfruttamento fra classi, come nel primo ottocento europeo.

Questo è il nuovo vangelo del buonismo : accogliere gli stranieri con tanto ammore  al punto di farsi mussulmani per loro e non metterli a disagio.

La tv  l’altro giorno ha dato notizia che il Prefetto di una città della  Sicilia, non sapendo come sistemare i clandestini, ha ordinato l’utilizzazione delle case vuote (seconde case o abitazioni non affittate). L’accoglienza prevale sul diritto di proprietà. Si deve essere generosi e ovviamente i proprietari, sudditi disciplinati, dovranno farsi carico di tutte le tasse – non poche- che gravano sull’edilizia privata. Non basta. Anche le utenze dovranno pagarle i proprietari, colpevoli di possedere un seconda casa, molte vuote perché ancora di cerca dell’affittuario. Il “ padrone” spesso è un pensionato con modesto vitalizio che con la seconda casa sperava di integrare il modesto reddito. Non conta. Il clandestino prima di tutto!

Le risorse questo lo hanno ben percepito, sanno di poter avanzare diritti di ogni sorta senza trovare resistenze degne di questo nome : è notizia recente che a Milano hanno okkupato delle case popolari armati di trapani, seghe elettriche ed altri armi occasionali.

Ma,  si è certi che ogni italiano  sia un “babbu leto” (scemo contento)? 

Esaurite le seconde case o case  non abitate e continuando come è certo l’afflusso di clandestini – attualmente quasi  il 10% della popolazione italiana -, si passerà alla coabitazione , imposta  prima a chi dispone di alloggi ampi, per giungere a quanto avvenne nella Russia  nell’era di Stalin? 

La “ kommunalka “ era l’abitazione dove varie famiglie convivevano con una cucina e un cesso in comune. Usavano pentole con lucchetto per difendere il proprio cibo. Si vive in un stato che non difende, non è capace, ma offende e ci riesce. Chi ha disposto in Sicilia  l’occupazione delle  case  libere?  Il Prefetto. Già, i prefetti, rappresentanti dello stato. Governo debole con i potenti, arrogante e prevaricatore con i deboli.

I sudditi sono tali perché deboli : non raccolgono  i sassi e non li scagliano contro chi li opprime. Cercano solo di ottenere , con la corruzione, qualche briciola dal desco imbandito del ceto politico che ci dissangua.

Le prefetture impongono di utilizzare le case non abitate per gli sbarchi ma non per il sisma, questa è la verità : paga molto di più il business dell’ accoglienza fasulla che non la coscienza pulita di avere fatto il proprio dovere come amministratori del popolo italiano. Evidentemente , i politici hanno messo la coscienza in un cassetto, preferendo mettere le mani nella dispensa del popolo italiano…

Il quale, appunto , si accontenta di ottenere qualche briciola di quello che già era suo...

Settima potenza industriale del mondo, addio ! Arrivano i barconi……


Observer
 
                                                                                                                                              

domenica 23 aprile 2017

IL PD E IL CRIMINALE COMUNISTA PALMIRO TOGLIATTI

IL PD E IL CRIMINALE COMUNISTA PALMIRO TOGLIATTI

Voglio evidenziare il fatto che i comunisti italiani, compresi coloro che attraverso vergognose fasi di polimorfismo si sono dati il nome di "democratici", tengano ancora in grande considerazione dei veri e propri criminali, nemici dell'umanità, a cui fanno riferimento con stima e ammirazione.
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Mi riferisco in particolare a Palmiro Togliatti, noto criminale e assassino dei suoi stessi compagni, numero due del Komintern, secondo solo a Stalin, di cui era servile esecutore.
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Nonostante il fatto che a questo schifoso personaggio, incarnazione del più bieco comunismo, siano da ascrivere responsabilità pesanti in termini di vite umane, palesate e confermate da studiosi e storici di fama mondiale, i pidiessini italiani ne celebrano gli anniversari della scomparsa.
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Non riescono quindi, i compagni, a nascondere la loro vera indole, che è quella di un camaleontico stereotipo bagnato dal sangue di vittime innocenti, e annualmente quindi osannano al carnefice, che hanno chiamato addirittura "il Migliore".
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Riporto di seguito un estratto da un articolo che è sintomatico degli anni in cui Togliatti imperava, scodinzolando dietro a Stalin, il più grande criminale della Storia.
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L'equazione : Togliatti = PCI = Stalin = sangue = PD esprime la crudezza di un anacronistico sistema di potere su cui tutti dovremmo riflettere, per evitare ai nostri figli e nipoti che si ripresenti loro un modello come quello tristemente famoso già sperimentato.
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Dissenso
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TOGLIATTI E I CRIMINI DEL PCI IN UNIONE SOVIETICA.
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Il mito comunista, dio vorace, s’è nutrito anche del sangue dei suoi fedeli, tra cui non pochi italiani, emigrati in Unione Sovietica per sfuggire al fascismo.
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Questi ultimi vennero poi epurati, e dall’Italia nessuno mosse un dito per impedirlo.
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E’ comprovato storicamente che anzi, Togliatti, come n° 2 del Komintern, ne avvallò l’esecuzione.
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Ma a tutt’oggi si è preferito preservare la leggenda Togliatti e il mito del “Migliore”, così come è ancora definito oggi questo criminale dai comunisti, che ne hanno celebrato l’anniversario della scomparsa proprio ieri, 21 agosto 2010.
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Facciamo un po’ di chiarezza su quanto avvenne in Unione Sovietica nel periodo in cui Togliatti era secondo solo a Stalin nella guida del Komintern, l’organo per la diffusione internazionale del comunismo:
Va sottolineato che le condanne a morte di antifascisti furono ben più numerose in Unione Sovietica sotto Stalin che non in Italia sotto Mussolini.
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Solo tra il 1935 e il 1939 – nel corso del “Grande terrore” - sono 110 gli italiani fucilati subito dopo l’arresto in seguito a processo sommario.
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Nel complesso la persecuzione riguardò 1.020 antifascisti della comunità degli esuli italiani.
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Le ricerche continuano tuttora da parte del Centro studi Memorial di Mosca e delle sue filiali nel territorio dell’ex Unione Sovietica con sempre nuove scoperte come il caso dei 550 italiani che vivevano lontano dalla capitale, ormai con la nazionalità russa, e che nel 1942 vennero deportati nel Kazachstan del Nord in quanto originari di un paese che era in guerra con l’Urss :
cittadini sovietici, ma stranieri, anzi nemici da internare.
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A questa vicenda e alla ricostruzione delle singole storie, Giancarlo Lehner, dal crollo dell’Unione Sovietica, ha dedicato più libri e ricerche, insieme a Francesco Bigazzi, da "Dialoghi del terrore" (Ponte alle Grazie, Firenze 1991) a "La tragedia dei comunisti italiani" (Mondadori, Milano 1999).
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Ora con “Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica” (Mondadori, Milano 2006, pp.436) Lehner traccia un quadro organico avvalendosi di nuovi documenti inediti che riguardano in particolare gli interrogatori degli incriminati :
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un museo degli orrori dove vediamo comunisti accusati di essere fascisti e agenti controrivoluzionari ;
prima protestano e poi sono costretti a firmare verbali in cui ammettono fatti assolutamente falsi e assurdi.
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Ma Lehner pone soprattutto una questione storica :
dov’è, e in che cosa consiste la soluzione di continuità con questo passato ?
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Questo è, in sostanza, il quesito circa la resa dei conti con il comunismo in Italia.
In che misura si può scindere il Pci da Togliatti ?
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E ancora :
si può scindere il Togliatti segretario del Pci nel dopoguerra dal Togliatti-Ercoli, dirigente del Komintern negli anni Trenta ?
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Si può scindere il Togliatti italiano” a sua volta in due :
il Togliatti sotto Stalin dal Togliatti dopo Stalin ?
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Il partito nuovo costituito da Togliatti nel dopoguerra ha i suoi dirigenti e “quadri nazionali e locali che sono iscritti al partito dagli anni Trenta, e vede al suo vertice numerosi dirigenti direttamente coinvolti in quei fatti :
una “storia segreta” i cui custodi erano definiti dai più giovani – ricorda Fabrizio Onofri (dirigente comunista) – «quelli che sapevano».
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Infatti su questa vicenda – la persecuzione e il massacro degli antifascisti - le denunce non sono mai mancate da parte dell’antifascismo non comunista, ma in Italia il “muro di gomma” predisposto dal Pci ha inesorabilmente retto lungo i decenni :
fino allo scioglimento del Pci questo argomento è stato ritenuto un’invenzione, una provocazione e comunque un’esagerazione, ordite con intento di sabotaggio dell’antifascismo.
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Eppure le prime proteste risalgono proprio all’inizio del “Grande terrore” stalinista, in cui Togliatti fu subito attivo e zelante.
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Già nel dicembre 1934, poco dopo la misteriosa uccisione di Sergej Mironovic Kirov, il segretario del Pcus di Leningrado, quando Stalin ordina l’epurazione di massa, il Pci su disposizione di Togliatti espelle immediatamente dieci emigrati esponendoli alla polizia sovietica, e stende una lista di 501 nominativi che diffonde anche all’estero indicandoli come spie e provocatori.
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L’epurazione riguarda anche le altre comunità di esuli stranieri ;
tra questi il caso più noto in Europa è quello di Victor Serge, conosciuto soprattutto a Parigi in quanto fino ad allora era stato il traduttore “ufficiale”delle opere di Lenin in francese.
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Nel giugno del 1935, al “Congresso Internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, una tra le più famose iniziative di unità antifascista promosse dal propagandista del Komintern, Willy Munzenberg, esplode il caso dell’antifascismo perseguitato a Mosca.
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Nel suo intervento Gaetano Salvemini denuncia l’arresto di Serge accomunando Stalin a Hitler :
«Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’Ovra – afferma – se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica.
In Germania vi sono i campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica vi è la Siberia.
È in Russia che Victor Serge è prigioniero
».
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L’intervento di Salvemini scuote la platea, scoppiano tafferugli con i comunisti che aggrediscono gli antifascisti che applaudono.
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André Malraux, che è il presidente effettivo, per calmare i comunisti, assicura che non permetterà più che dalla tribuna si parli di Serge.
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Ma Carlo Rosselli pubblica l’intervento di Salvemini nel numero del 28 giugno di Giustizia e Libertà e si diffonde così una protesta che mette in imbarazzo gli intellettuali come André Gide (che presiedeva l’assise insieme ad André Malraux) impegnati a fianco dei comunisti.
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Gide è quindi costretto a recarsi all’ambasciata sovietica per chiedere informazioni sulla sorte di Serge.
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La costellazione dei “comitati unitari antifascisti” ne fu talmente scossa che Stalin decise di chiudere il caso espellendo Serge dall’Unione Sovietica (andrà in Belgio perché Francia e Gran Bretagna rifiutarono di accoglierlo).
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Fu quindi proprio Victor Serge che alla caduta del fascismo, quando Togliatti diventa ministro della Giustizia nel governo Bonomi, invia una “lettera aperta” al Guardasigilli comunista scrivendo :
«Signor Ministro che ne è degli antifascisti italiani rifugiati in Urss dall’epoca in cui la rivoluzione russa offriva generosamente asilo ai perseguitati di tutto il mondo ?».
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In particolare Serge chiede notizie di Luigi Calligaris.
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Calligaris era appunto nell’elenco di Togliatti del 1934.Arrestato e deportato, scomparve nel nulla.
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Nell’ultimo verbale di interrogatorio eseguito l’8 gennaio 1935 faceva appello a Togliatti-Ercoli.

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Togliatti in seno al partito così liquida Serge quando qualcuno gli chiede una spiegazione :
«Un provocatore trotzkista belga che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini
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Per valutare questi primi passi del Togliattiitaliano” va ricordato che per l’occasione egli pubblicò nell’Italia liberata il testo dell’articolo da lui scritto proprio nel 1936, a giustificazione dei processi degli anni Trenta, caratterizzati dalle confessioni a pioggia degli accusati di fronte al Tribunale moscovita.
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«Nessuno – sono le parole riproposte dal nuovo Ministro della Giustizia – può mettere in dubbio l’autenticità di fatti confermati da una riprova che è sempre stata considerata, da quando esistono al mondo una giustizia e dei giudici, come decisiva e irrefutabile : la confessione degli accusati.»
Titolo della pubblicazione :
"Il complotto contro la rivoluzione russa" (edizioni Ear).
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Il Pci nel dopoguerra, nel segno dell’unità antifascista, ha gioco più facile che nella Parigi del 1935 nel far calare il sipario sul caso della persecuzione degli emigrati antifascisti in Unione Sovietica.
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A far eco a Togliatti sulla bontà dei processi di Mosca è proprio Joseph E. Davies che, nel 1936-1938, li aveva seguiti in prima persona come “osservatore” di Franklin D. Roosevelt in quanto ambasciatore americano a Mosca.
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Nel 1945 viene infatti pubblicato a Roma il suo libro di memorie – "Missione a Mosca"(Donatello De Luigi, Roma) – in cui rassicura l’Occidente sulla nomenklatura sovietica («I dirigenti dell’Unione Sovietica hanno convinzioni sincere e propositi onesti»), sulla regolarità dei processi e la colpevolezza degli imputati.
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Commentando il processo Radek del 1937 Davies scrive :
«Presumere che tutto il processo fosse una montatura equivarrebbe ad ammettere l’esistenza di un genio creativo grande quanto Shakespeare e con la capacità di regia di un Belasco.
Lo sfondo storico e le attuali circostanze danno inoltre una certa attendibilità alle deposizioni
.»
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Per Davies «i ragionamenti» di Radek nel confessare la sua attività criminale sono perfettamente logici».
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«Inoltre» – sentenzia il fiduciario di Roosevelt - «i particolari venuti alla luce hanno veramente confermato le accuse, e il comportamento degli accusati ha avuto il suo peso nel mio giudizio.»
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E ancora sul processo del 1938 contro Bucharin il rooseveltiano dichiara di condividere la versione datagli dal ministro degli esteri, Litvinov :
«Evidentemente tutti gli imputati sono colpevoli perché se non lo fossero non avrebbero certo confessato d’aver commesso delitti che sanno essere punibili con la pena di morte.»
«Anche gli altri diplomatici presenti al processo – aggiunge Davies – si sono convinti dell’esistenza di un vasto complotto.»
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Del resto il rappresentante diplomatico sovietico in Italia all’inizio del ’44 era appunto l’ex pubblico ministero di quei processi, Andrei Vysinskij, nominato da Stalin viceministro degli Esteri.
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Il Pci nel dopoguerra ha sempre negato l’esistenza di persecuzioni e condanne d’innocenti, e quindi in Italia alla sorte degli esuli antifascisti in Urss non si è dedicata alcuna attenzione se non da parte di circoli molto ristretti dell’antifascismo anticomunista.
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La posizione di copertura del Pci non mutò sostanzialmente neppure dopo la morte di Stalin, quando cominciarono a essere liberati anche i prigionieri italiani.
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Molti di loro per ragioni di salvaguardia dell’assistenza pensionistica che ricevevano dall’Urss furono silenti, ma dura fu la sorte anche di chi osò contestare il silenzio voluto dal Pci.
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Illuminante è il caso del sacerdote don Pietro Leoni, che aveva trascorso dieci anni di lavori forzati in Urss.Rientrato in Italia nel 1955, cerca inutilmente di richiamare l’attenzione.
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Il Pci reagisce orchestrando una campagna di stampa secondo cui il vero don Pietro era morto nel 1948 e il sacerdote sarebbe un impostore che ha ricevuto due milioni di lire da Pio XII per fare propaganda anticomunista.
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Don Pietro – come ricorda Lehner – è pertanto costretto a emigrare in Canada, dove è morto nel 1995.
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Anche le denunce successive sono sempre state neutralizzate.
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Nel 1964 Renato Mieli – che dopo le leggi razziali era emigrato e aveva aderito al Pci, rientrato in Italia aveva fondato l’Ansa ed era poi stato direttore dell’Unità e responsabile esteri del Pci, da cui era uscito dopo i fatti di Ungheria nel 1957 – pubblica “Togliatti 1937”, un corposo e documentato saggio storico in cui parla in modo organico delle persecuzioni e delle responsabilità di Togliatti.
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La Rizzoli per cautelarsi si premura di dare in anteprima a Togliatti il testo attraverso Davide Lajolo.
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Sia Lajolo sia Massimo Caprara nei loro libri di memoria convergono nel ricordare come il segretario del Pci in privato non contestasse la veridicità delle affermazioni di Mieli, arrivando anche ad ammettere che al suo posto Antonio Gramsci si sarebbe comportato diversamente, ma come scusante Togliatti invocava la paura di essere a sua volta ucciso.
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Una ipocrita esagerazione rispetto al ruolo invece attivo che svolse in quel contesto.
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La stessa moglie di Luigi Longo, Teresa Noce, ha sottolineato il primato conformista di Togliatti a Mosca in quel momento rispetto agli altri dirigenti comunisti stranieri :
«Persino i tedeschi, persino Ulbricht e Pieck si occupavano dei loro compagni scomparsi. Togliatti mai.»
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Per quante attenuanti invochi Togliatti per giustificare il proprio personale comportamento, rimane il fatto che il Pci sistematicamente occulti il proprio passato, cancelli le tracce, si inventi una luminosa e salvifica storia di partito e demonizzi chi afferma la verità.
Con ampia comprensione.
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La Rizzoli infatti, quando Togliatti pochi mesi dopo muore a Yalta, rifiuta di continuare a pubblicare il libro di Mieli nonostante il successo e la seconda edizione sia già esaurita :
la terza edizione già stampata non viene più distribuita e se ne decide la distruzione (salvo un quantitativo consegnato a casa dell’autore).
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Sempre nel 1964 Guelfo Zaccaria, espulso nel 1951 dal Pci per titismo, sarà bollato come “Zaccaria-cane spia” per aver sostenuto – a un convegno del “Comitato italiano per la verità sui crimini dello stalinismo (a cui partecipano, tra gli altri, insieme a Renato Mieli anche Ignazio Silone, Giuseppe Faravelli, Giulio Seniga, Antonio Landolfi, Carlo Ripa di Meana e Pier Carlo Masini) – che erano duecento (su seicento emigrati tra il 1928 e il 1932) i comunisti italiani uccisi sotto Stalin.
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Bisognerà aspettare la caduta dell’Urss e lo scioglimento del Pci perché finalmente – dopo trent’anni – anche l’ex giornalista dell’Unità, Romolo Caccavale (che su sollecitazione dell’ex segretario del Pci, Alessandro Natta, ha condotto una ricerca sugli italiani scomparsi) affermasse che aveva ragione Zaccaria :
«sono intorno ai duecento … il numero ipotizzabile degli antifascisti italiani colpiti dal terrore staliniano nell’Urss degli anni Trenta» ("Comunisti italiani in Unione Sovietica", Mursia, Milano 1995).
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Un’ammissione tormentata, il cui primo spiraglio di verità – in area comunista e filocomunista – si era registrato solo da parte di Paolo Spriano quando nel 1970 aveva ammesso che gli italiani vittime dei sovietici ammontano a «104 persone tra caduti e dispersi» aggiungendo la constatazione che sull’argomento, purtroppo, l’archivio del Pci è «muto».
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Il “muro di gomma” si è protratto a lungo fino agli anni Novanta nel panorama storiografico dominante.
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La questione infatti investe direttamente la figura di Togliatti.
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È significativo come la tesi della assoluta estraneità di Togliatti venisse insistentemente sostenuta nel 1982 da Aldo Agosti in un ampio saggio dedicato al Pci a Mosca negli anni Trenta, pubblicato dagli Annali Feltrinelli, e quindi ribadita da Agosti anche dopo l’apertura degli archivi sovietici nella biografia dedicata al leader del Pci edita dalla Utet nel 1995.
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In Italia è prevalsa la linea di sostenere l’estraneità di Togliatti o addirittura che sarebbe intervenuto a tutela di alcuni, proseguendo sulla linea difensiva che egli si era inventata.
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Infatti quando nel corso della campagna elettorale del 1963 l’argomento venne sollevato dal giornalista socialdemocratico nel corso della sua conferenza-stampa televisiva del 22 febbraio, il segretario del Pci aveva replicato :
«Quanto al fatto che ci siano stati degli operai, dei compagni nostri che sono stati perseguitati nell’Unione Sovietica, è verissimo che vi furono simili casi.
Noi, quando lo abbiamo saputo, siamo intervenuti ed abbiamo ottenuto la necessaria soddisfazione

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Ancora negli ultimi anni è infatti continuato questo tentativo di occultare la diretta responsabilità di Togliatti in quei procedimenti giudiziari come emerge, ad esempio, dal libro edito nel 2001 da Einaudi di Didi Gnocchi, “Odissea Rossa sulla vicenda di Edmondo Peluso”, uno dei fondatori del Pci giustiziato nel 1942, in cui si “assolveTogliatti citando una lettera in cui in modo molto formale Togliatti, attraverso il Komintern, chiedeva informazioni sul processo a Peluso.
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Miriam Mafai all’epoca (giugno 2001) ne prese spunto per sostenere su la Repubblica la tesi di un ruolo umanitario svolto da Togliatti a Mosca.
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Una tesi assolutamente falsa e già smentita quasi trent’anni prima da Giorgio Bocca che nella sua biografia dedicata nel 1973 al leader del Pci aveva ricostruito l’episodio raccontando di come Togliatti, quando gli portarono un appello di Peluso, «lo strappasse in pezzi minutissimi e si dimenticasse poi di lui».
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Lehner ha addirittura redatto un Dossier Peluso in cui ricostruisce dettagliatamente la vicenda dimostrando come Togliatti, innanzi alle ripetute richieste di Peluso di udirlo come testimone a propria difesa, abbia temuto manovre per coinvolgerlo e che quindi, tramite il Komintern, ne abbia accelerato l’eliminazione.
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In realtà anche Paolo Spriano aveva affermato che «non risulta che egli [Togliatti, ndr] sia intervenuto in favore di un prigioniero, un inquisito, già in mano al Nkvd.»
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Dopo l’apertura degli archivi sovietici, Elena Dundovich nelle sue ricerche tra le fonti moscovite su Togliatti per gli anni ’36-’38 (in “Tra esilio e castigo” del 1998, edito da Carocci, e in “Italiani nei lager di Stalin” realizzato con Francesca Gori e pubblicato da Laterza) ha trovato che «portano non di rado la sua firma documenti rinvenuti negli archivi del Komintern che trattano il delicato tema degli emigrati italiani considerati sospetti dai funzionari italiani e sovietici della Terza Internazionale, per questo poi indagati e arrestati dalla Nkvd.»
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«In prima persona – prosegue la DundovichTogliatti per esempio autorizzò che una parte di costoro, e non casualmente proprio di coloro la cui sorte era più incerta e sui quali gravavano maggiori sospetti, venisse inviata all’ambasciata italiana per richiedere i documenti necessari a un eventuale espatrio, conoscendo perfettamente le conseguenze che poteva avere nel clima politico di quegli anni il minimo contatto con le autorità diplomatiche fasciste. [...]
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L’insieme di questi documenti provano in maniera inequivocabile come egli fosse informato delle singole fasi della tragedia che stava colpendo gli antifascisti italiani in Urss e come a quella tragedia, seppur non continuativamente, egli prese parte.»
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Lehner enumera i vari documenti che riguardano i procedimenti giudiziari e gli elenchi con relative condanne vistati personalmente da Togliatti, con scritta di suo pugno Soglasen Sono d’accordo»).
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Sul piano storico certamente vi sono state evoluzioni, contraddizioni e novità nel Pci e nel suo leader, ma è difficile contestare la sostanziale continuità tra il Togliattiitaliano” e il Togliatti sovietico” in questa tragica vicenda.
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Basti pensare al fatto che nell’ultimo anno di vita, ancora nell’aprile del 1963, il Togliatti italiano” scriveva al segretario del Pc cecoslovacco, Antonin Novotny, chiedendogli di differire a dopo le elezioni politiche italiane la riabilitazione di Slansky e degli altri dirigenti comunisti impiccati nel 1952 :
«La riabilitazione di Slansky, venendo pochi giorni prima delle elezioni, darebbe luogo a una campagna forsennata contro di noi.
Tutti i temi più stupidi e provocatori dell’anticomunismo verrebbero al centro dell’attenzione pubblica, spostandola dai problemi reali del nostro paese
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Ancora nel ’58 non aveva fatto mancare la sua voce per approvare l’impiccagione di Nagy e proprio nello stesso anno aveva dichiarato :
«La destalinizzazione è una di quelle parole che servono per erudire i fessi.
Cioè a creare nozioni cui non corrisponde nulla di reale.
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La questione storica posta dal libro di Lehner sulla mancanza di soluzione di continuità prospetta quindi una soluzione antropologica.
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E’ cioè un fatto antropologico in quanto – ed è questa l’importanza della ricostruzione di Lehner – vediamo casi in cui sfuma il confine e manca appunto una soluzione di continuità nella stessa persona tra carnefice e vittima.
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Vediamo cioè i comunisti vivere incapsulati in una “condizione umana” in cui domina il Partito, la Classe, la Storia, il Bene della Causa, il Pericolo del Nemico.
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La vicenda della corresponsabilità prima, dell’occultamento poi di questi fatti e della perdurante sostanziale apologia di Togliatti (che è il filo comune delle recenti autobiografie di personalità comuniste anche molto diverse tra loro come Giorgio Napolitano, Pietro Ingrao e Rossana Rossanda) ci riporta quindi alle origini della fede comunista :
la lettura classista della storia del Novecento, la teorizzazione della superiorità – nonostante errori e difetti – del Pci e di Togliatti rispetto agli avversari, il primato della giustizia sociale sulle libertà “borghesi”.
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Per i comunisti la libertà può attendere e per questo Carlo Rosselli aveva invece nominato il proprio movimentoGiustizia e Libertà”.
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Il libro di Lehner ci riporta così alla conclusione dello storico Richard Pipes :
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«Il comunismo non è stato una buona idea che ha avuto un cattivo esito ;
è stata una cattiva idea. ».
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Tratto da uno scritto di Ugo Finetti dal sito :
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http://www.fattisentire.org/modules.php?name=News&file=article&sid=2057


martedì 18 aprile 2017

"MISSIONI" ANGLOAMERICANE IN VALTELLINA - 1945

"MISSIONI" ANGLOAMERICANE IN VALTELLINA - 1945
Giuseppe Rocco


Un amico francese mi ha fatto leggere recentemente il testo di tre relazioni tenute nel corso di una riunione a Venezia, cui partecipavano numerosi ex componenti delle cosiddette "missioni'' che gli "alleati'' inviavano nel territorio della RSI. Missioni divenute più frequenti negli ultimi mesi di guerra, in zone montuose non presidiate dalle nostre FF.AA., allo scopo di aiutare i partigiani a liberare le nostre città e le nostre valli dai fascisti e dai tedeschi che "seviziavano e terrorizzavano le popolazioni''.
Le relazioni si riferiscono in particolare all'attività delle "missioni'' denominate "Santee'', "Spokane'' e "Sewanee'' in Alta Valtellina, nei mesi di marzo e aprile 1945. Gli angloamericani lanciavano armi solo in Alta Valle, perché non si fidavano dei partigiani della Basse Valle, troppo impregnati di comunismo.
Con una fervidissima fantasia, favorita probabilmente dalle libagioni del convivio e dalla lievitazione dovuta al tempo trascorso, Michael A. De Marco descrive le peripezie di tre O.G. (Gruppi di Osservazione o Gruppi Operativi). A fine aprile, i componenti di queste "missioni'' erano circa trenta, paracadutati nella Valle di Livigno a partire dal 4 marzo fino alla metà di aprile. Questi Gruppi, coadiuvati da pochi (secondo lui) "sprovveduti'' partigiani locali, in seguito armati ed addestrati, riuscirono a costringere i Comandi italiani, tedeschi e francesi a ritirarsi, liberando così tutta l'Alta Valle e di conseguenza tutta la provincia di Sondrio.
Ritengo che a questo punto sia necessaria una precisazione: il De Marco accenna indirettamente al timore che i primi "lanciati'' avevano di essere catturati da elementi ostili e consegnati alle autorità della RSI, per ottenere qualche ricompensa. Questi oriundi degeneri (dai cognomi si intuisce che erano figli di italiani) dovevano sapere che in Italia il barbaro costume delle taglie non esisteva ancora. È stato anche quello un regalo dei "liberatori''.
Una seconda considerazione di carattere specifico è che la Valle non venne liberata da nessuno. Le Forze Armate del legittimo governo repubblicano e quelle nostre alleate erano impegnate in particolari operazioni di polizia contro ribelli sobillati da stranieri. Esse subirono tante imboscate, ma un solo attacco frontale, e mai furono costrette ad arretrare a causa di azioni nemiche.
La cosiddetta "liberazione'' avvenne quando, in seguito alla mancata resistenza tedesca sul Po ed alla imminente invasione dell'Italia Settentrionale da parte degli angloamericani, il governo della RSI aveva ordinato di cessare le ostilità. In particolare, nell'Alta Valtellina tutti i reparti ricevettero, il 26 aprile, l'ordine di rientrare. Allora scesero i "liberatori''.
La sera del 25 aprile erano ancora efficienti: il presidio di Isolaccia in Valdidentro, a difesa degli impianti idroelettrici di Cancano; il presidio di Bormio della Gnr, comandato dall'aiutante Iozzelli; il presidio di Grosio della GNR, comandato dal S. Ten. Ravot e quello della Brigata Nera "Gatti'' comandato da Giorgio Pisanò; un Battaglione di formazione composto da Gnr, Brigate Nere, Guardia del Duce, Confinaria, Alpini del Comando di Sondrio, formanti una linea dalla località Roncale al passo della Foppa (o Mortirolo), dove si collegava con la Legione "M'' Tagliamento schierata in Valcamonica.
Tale Battaglione, comandato dal Maggiore Vanna della Gnr di Frontiera, aveva il compito di provvedere per gradi alla "ripulitura'' di tutta l'Alta Valle; dalla linea di Mazzo era in attesa dell'ordine di procedere ad un secondo balzo fino all'altezza di Sondalo e Val Rezzalo. A questa formazione era stato aggregato un Battaglione della Milice Française, al comando del Capitano Carus, presente il Ministro degli Interni del governo di Vichy, Joseph Darnand, e la B.N. "Gentile'' rimasta di presidio a Tirano.
La superiorità numerica dei fascisti consentiva di bloccare le infiltrazioni dalle convalli, come la Valgrosina collegata con Livigno e con la Svizzera, e quelle di sinistra collegate con la Valcamonica, dove operavano le Fiamme Verdi ed altre formazioni di partigiani bergamaschi.
* * *
Le esagerazioni contenute nelle relazioni hanno inizio già con la presentazione delle condizioni meteorologiche che, contrariamente a quanto affermato dagli americani, non erano più rigide come nell'inverno appena trascorso, bensì in marzo le giornate erano miti e soleggiate, fino al 26 di aprile.
Senza nulla togliere al valore dei veri partigiani che difendevano le proprie idee pagando di persona, va rilevato che l'attività offensiva degli O.G. in Alta Valtellina fu ben poca. Il Maggiore Lorbeer e il Capitano Vic. Giannino, a quanto afferma De Marco, distribuirono grandi quantità di armi lanciate in Valgrosina, località Eire, ma organizzarono solo due azioni vere e proprie. Una fu l'imboscata a due Compagnie di francesi che dovevano spostarsi da Tirano a Grosio. Il 13 aprile due gruppi di partigiani li sorpresero all'altezza della centrale elettrica, causando diciotto morti e facendo saltare un camion di armi e viveri. I legionari della Milice poterono comunque raggiungere Grosio, lasciarvi una Compagnia e rientrare a Tirano.
L'altra azione fu tentata contro l'ala sinistra delle nostre linee (costituì l'unico vero e proprio attacco frontale da parte di una formazione partigiana) fra Roncale e San Martino, con l'intento di aggirare tutto il nostro schieramento. Obiettivo non raggiunto per la saldezza del plotone O.P. del Tenente Paganella e della B.N. fiorentina "Manganiello''. Chi scrive, arrivato col Maggiore Vanna da qualche minuto, non aveva ancora assunto alcun comando, per cui partecipò al combattimento con due giornalisti e un portaordini. Per l'occasione, i partigiani indossavano una specie di divisa, costituita da tute da netturbino appena giunte dall'America. Ricordo ancora chiaramente il coraggio col quale avanzavano fino alle nostre postazioni, a colpi di bombe a mano.
Dopo quel giorno non vi furono più attacchi, ma un continuo martellamento di mortai da 100 mm. e colpi di cecchini da posizioni più elevate delle nostre. Era diventato quasi un gioco: noi alzavamo l'elmetto con un bastone, ed immediatamente arrivava il colpo del cecchino.
La mattina del 26 aprile ci fu un rapporto ufficiali al Comando di Mazzo ed il Maggiore Vanna ci comunicò di aver ricevuto, dal Generale Onori, l'ordine di rientrare a Sondrio, dopodiché si interruppero i contatti.
Nella notte facemmo tutti i preparativi, scendemmo dalla montagna e, sotto la pioggia, arrivammo a Tirano dove, caricati su camion, partimmo alla volta di Sondrio. Bloccati a Madonna di Tirano da un'imboscata, lasciammo gli autocarri e alcuni feriti, e verso sera sfilammo lungo il greto dell'Adda. Un tentativo di fermarci a Stazzona non ebbe alcun esito, per cui raggiungemmo Ponte in Valtellina, sede del Comando della 3.a Legione Confinaria dalla quale dipendeva il Maggiore Vanna.
Alle cinque del pomeriggio i partigiani portarono a Mazzo un nostro colonnello prigioniero con l'ordine di resa del Battaglione. L'ordine venne rifiutato. Volevamo riceverlo di persona dal Federale. Dopo circa un'ora arrivarono il Generale Onori e il Federale Parmeggiani con il capo comunista Maio. Il Battaglione, venuto a conoscenza della situazione generale, accettò di arrendersi, dopodiché cominciarono le bastonature e le sevizie.
A Tirano erano rimasti i Francesi e la Brigata Nera "Gentile'', che si arresero il giorno successivo, dopo parecchie ore di sparatorie dalle finestre e dopo aver appreso che tutta la provincia aveva cessato le ostilità.
Come si vede, i partigiani liberarono la Valtellina dopo che i fascisti l'avevano lasciata.
Quanto sopra, non per rivendicazioni polemiche, ma per la verità storica.


I dettagli di quelle giornate sono descritti nel libro "Com'era Rossa la mia valle'' dello stesso Autore. Per quanto riguarda la Milice del Comandante Darnard, vedi il n. 187 di Nuovo Fronte (novembre 1998).

NUOVO FRONTE

                                                                                                                                     

mercoledì 12 aprile 2017

1918. Il tradimento degli Alleati contro l’Italia

1918. Il tradimento degli Alleati contro l’Italia

 
Non si erano ancora fermati gli ultimi combattimenti della Grande Guerra, che già gli imperi dell’est e dell’ovest andavano in frantumi. Prima il russo, poi il turco e infine, con uno stillicidio di dichiarazioni d’indipendenza, l’austro-ungarico: il 24 ottobre 1918 l’Ungheria spezzava il vincolo dualistico e se ne andava per la sua strada; il 28 ottobre si dichiarava indipendente la Boemia (l’odierna Cechia); il 29 era la volta di Croazia e Slovenia; il 30 della Slovacchia.
di Michele Rallo da La Risacca n.62
Il 1° novembre, infine, l’esercito austriaco abbandonava i territori balcanici conquistati e si ritirava a nord del Danubio. Quella data segnava, di fatto, la fine delle ostilità sul nostro fronte orientale, anche se l’armistizio sarebbe intervenuto ufficialmente due giorni dopo.
Apparentemente l’Italia aveva non soltanto vinto la guerra, ma anche ottenuto un grande risultato geo-strategico: l’eliminazione dell’inquietante presenza austriaca ai nostri confini orientali e sull’altra riva dell’Adriatico. Questo – si ricordi – era stato il principale motivo del nostro intervento nel conflitto. Adesso sarebbe stato il momento di mettere all’incasso le cambiali rilasciateci dai nostri cari alleati; prima tra tutte, quella che avrebbe dovuto vederci succedere all’Austria in un ruolo egemonico non soltanto nell’Adriatico, ma nell’intera area danubiano-balcanica.

GELOSIE FRANCESI
Se nonché – come si è già accennato – a quel ruolo aspirava anche la Francia, sebbene non potesse rivendicarlo apertamente a causa degli impegni assunti per coinvolgerci nel conflitto. Già durante la guerra, Parigi si era fatto un dovere di metterci i bastoni tra le ruote nei Balcani. Non in prima persona, naturalmente, ma ricorrendo a fiancheggiatori esterni: in Albania come nell’Epiro, come nel Montenegro che – dopo il matrimonio della principessa Elena con Vittorio Emanuele III – era di fatto transitato nella sfera d’influenza italiana.
Poi, quando l’armistizio con la Bulgaria (29 settembre) aveva chiaramente delineato l’imminente conclusione della guerra, i francesi avevano apertamente assunto il ruolo di referenti della Serbia. In quei giorni – si tenga presente – ai confini meridionali dell’Austria e nella penisola balcanica le truppe italiane e le serbe procedevano all’occupazione di porzioni del territorio nemico che erano teoricamente destinate alla loro amministrazione provvisoria, o al loro possesso definitivo dopo la firma degli armistizi e dei trattati di pace.
Era in quella fase che si dispiegava una manovra francese tendente a favorire al massimo l’espansionismo serbo; e ciò, oltre che sul piano politico-diplomatico, anche fornendo il maggior sostegno militare possibile alle forze di Belgrado nella loro corsa ad occupare tutto l’occupabile, nell’evidente proposito di invocare poi l’uti possidetis in sede armistiziale.
Ciò, evidentemente, costituiva una chiara manifestazione di ostilità da parte della Francia (appoggiata da Inghilterra e Stati Uniti) nei confronti dell’Italia, i cui obiettivi di egemonia adriatica erano del tutto incompatibili con le spropositate ambizioni della Serbia. Belgrado, infatti, mirava – tra l’altro – ad acquisire l’intero versante nord-occidentale della penisola balcanica: Istria, Quarnaro, Slovenia, Croazia-Slavonia, Dalmazia, Montenegro, Albania settentrionale e centrale; tutti territori che Roma aspirava o a rendere indipendenti (sia pur egemonizzandoli), o – in piccola parte – ad annettere al proprio territorio nazionale.
Resasi conto di quanto andava preparandosi ai suoi danni, l’Italia intraprendeva a sua volta una marcia forzata per prendere possesso di tutto quanto possibile, ma le situazioni spazio-temporali le consentivano libertà di movimento solo nel settore centrale, occupando quanto restava del vecchio dominio austriaco del Lombardo-Veneto, e cioè il Trentino-Bolzanino e la Giulia-Istria.
Anche questo risultato minimale, peraltro, faceva montare su tutte le furie il presidente americano Wilson, che – in evidente accordo coi cugini inglesi – avrebbe voluto circoscrivere l’Italia a quella che lui riteneva essere «la sua facilmente riconoscibile frontiera etnografica» (come recitava il nono dei Quattordici Punti). Ciò – nella mente del grande disegnatore di confini – avrebbe dovuto portare ad attribuire all’Italia il solo Trentino, trasformando il SudTirolo/AltoAdige e la Giulia-Istria in due regioni autonome «senza ingerenze italiane». L’Italia, invece, aveva la tracotanza di far avanzare le sue truppe fino alle Alpi, la qual cosa – come si diceva – faceva infuriare il presidente americano, perché ciò era avvenuto «senza il mio permesso».

ARROGANZA AMERICANA
A questo punto, la manovra ostile contro i nostri interessi appariva evidente, così come evidente era l’evolversi della stessa secondo tappe ben precise: gli accordi Sykes-Picot, i Quattordici Punti, e adesso – in prospettiva – l’armistizio. Il capofila degli interventisti italiani, Gabriele d’Annunzio, coniando uno slogan destinato ad una grande fortuna, tuonava vanamente dalle pagine del “Corriere della Sera” il 24 ottobre 1918: «Vittoria nostra, non sarai mutilata.»
Ma l’unica cosa che Roma riusciva ad ottenere era – pochi giorni appresso – che il Comando interalleato stabilisse genericamente i limiti e le pertinenze delle zone d’occupazione. Quando ciò avveniva, era comunque tutto già praticamente concluso: l’impero austrungarico si era dissolto, mentre francesi e anglosassoni avevano insediato al potere i loro amici in quasi tutte le nazioni successorie. All’Italia era riconosciuto soltanto il minimo indispensabile: Trentino-AltoAdige, Giulia-Istria, una porzione di Dalmazia, l’Albania centrale, ed una piccola partecipazione all’occupazione congiunta del Montenegro e dell’Alta Albania; ma le era inibito di concorrere all’occupazione dell’Austria, della Slovenia e della Croazia.
Il 3 novembre si giungeva così, infine, all’armistizio di Villa Giusti, armistizio che confermava le linee che abbiamo appena riferito.
A quel punto, il disegno antitaliano e serbofilo era evidente anche per i più prudenti. «Avevo con dolore e con sdegno – scriveva il generale Caviglia – conosciuto gli articoli dell’armistizio di Villa Giusti, il quale abbandonava la nostra vittoria nelle mani di alleati infidi.»

LA QUESTIONE DI FIUME
Uno dei punti più controversi dell’armistizio di Villa Giusti era quello relativo all’esclusione dalle pertinenze italiane di Fiume, città portuale del Quarnaro a maggioranza italiana, posta al confine con l’Istria, appena al di là della linea armistiziale imposta all’Italia.  Per l’esattezza – secondo il censimento austriaco del 1910 – la metà circa dei 50.000 abitanti era di etnia italiana; seguivano poi 15.000 croati (numerosi dei quali italofili) e 10.000 ungheresi. Adesso, a guerra finita, i numeri erano sensibilmente diversi: 33.000 italiani, 11.000 croati, 1.300 ungheresi.
La motivazione dell’esclusione di Fiume veniva ricondotta al Patto di Londra del 1915, quando – occorre ricordare – la dissoluzione dell’impero asburgico non era prevista, e la città di Fiume ricadeva nell’àmbito della Croazia di pertinenza ungherese. Allora – in previsione di una Croazia ancòra ungherese o indipendente ma comunque non aggregata alla Serbia – era stato deciso di non attribuire la città alla sfera italiana, ma di mantenerne la funzione di sbocco portuale sull’Adriatico per l’Ungheria e per la Croazia stessa.
Adesso, tuttavia, alla vigilia dell’armistizio, la situazione appariva del tutto diversa da quella del 1915, con la Croazia destinata non si sa bene da chi ad essere assorbita dalla Serbia tramite il nascente Stato artificiale “jugoslavo”. L’Italia, quindi, chiedeva di poter includere anche Fiume entro la propria linea armistiziale; non essendo concepibile che si fornisse alla Serbia uno sbocco portuale pericolosamente vicino – per considerazioni di ordine commerciale ma anche di natura militare – a quello di Trieste.
Ma i nostri alleati erano irremovibili: Fiume era evidentemente considerata estranea alla «facilmente riconoscibile frontiera etnografica» dell’Italia, e veniva quindi assegnata alla competenza serba.
Il 29 ottobre, così, Fiume era occupata dai serbi e dai serbofili del Comitato Nazionale croato-sloveno. Il giorno seguente, tuttavia, l’organismo rappresentativo della città – il Consiglio Nazionale Fiumano – ne proclamava l’annessione al Regno d’Italia, invocando esplicitamente il principio di autodeterminazione dei popoli ed i Quattordici Punti. Ma – come i fatti dimostreranno poi al di là di ogni dubbio – il principio di autodeterminazione non sarebbe mai stato applicato alle popolazioni del Regno Serbo-Croato-Sloveno: e non solo alla fiumana, ma anche alla dalmata, alla croata, alla slovena, alla montenegrina, alla macedone, alla kosovara, alla bosniaca.
Ma torniamo a Fiume, dove gli occupanti serbi – sia pure con una certa prudenza – prendevano a maramaldeggiare sulla popolazione italiana, sperando forse che, secondo gli sperimentati cànoni della pulizia etnica, questa si acconciasse a emigrare ed a togliere il disturbo.
Chiamato in soccorso dal Consiglio Nazionale Fiumano, il governo italiano mandava dapprima alcune navi da guerra (4 novembre) e poi – di fronte al perdurare degli atteggiamenti antitaliani dei serbi – il 17 novembre invadeva la città con una forza di terra di 13.000 uomini. Gli americani – nel tentativo di evitare che l’occupazione avesse una matrice univocamente italiana – inviavano anche un loro battaglione, la cui presenza serviva a dare all’occupazione di Fiume una connotazione “internazionale”.  
A quel punto – prudentemente – i serbi facevano le valigie e toglievano il disturbo. La situazione sembrava ormai avviata verso una pur faticosa stabilizzazione. Ma improvvisamente i francesi rimettevano tutto in discussione: con un gesto di scorrettezza inaudita tra alleati, il 28 novembre invadevano a loro volta la città (con una sovrapposizione di occupazioni unica nella storia della diplomazia europea) e il 10 dicembre dichiaravano Fiume come compresa nella sfera d’occupazione dell’Armée d’Orient.
Iniziava una difficile convivenza fra italiani e francesi, fino a quando – sette mesi più tardi – le rispettive truppe non incroceranno le armi. Saranno i “Vespri Fiumani”, che lasceranno sul terreno nove caduti francesi e un italiano. Ma di questo parleremo un’altra volta.


N O T E
Si veda «Il balletto dei Trattati» su “La Risacca” di febbraio.
2 Anno 1918.  www.cronologia.it/ [2006].
3 Anno 1918.  Cit.
4 In realtà, alcuni dei dettagli saranno stabiliti dal lodo Foch del dicembre successivo.
5 Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Garzanti editore, Milano 1948.
6 Il Comitato Nazionale (Narodno Vijece) era una sorta di governo provvisorio di Croazia e Slovenia, sorto dagli ambienti serbofili e favorevoli alla creazione di uno Stato “jugoslavo”, cioè degli Slavi del Sud.
7 Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Cit.

                                                                                       

lunedì 10 aprile 2017

IL PROBLEMA E’ L’ISLAM

IL PROBLEMA E’ L’ISLAM

Non TUTTI i mussulmani sono terroristi, ma TUTTI i terroristi dell’ISIS sono mussulmani !!!!
E’ un dato di fatto incontrovertibile, un postulato da cui discendono inevitabilmente delle conseguenze, che piaccia o che non piaccia alle anime belle che.al solito, chiacchierano, chiacchierano, ma non risolvono mai!
Nessuno è in grado di distinguere tra i mussulmani chi è disposto a uccidere ed a morire per Allah e chi invece non giunge a prendere alla lettera il Corano quando ordina di “UCCIDERE GLI INFEDELI”.
Per questo motivo, quale conseguenza logica del postulato sopra esposto, l’occidente ha il diritto ed il dovere di difendersi nell’unico modo possibile.
Si deve ISOLARE il mondo mussulmano chiudendo i confini agli arrivi, da QUALSIASI RAGIONE MOTIVATI, dai Paesi islamici ricordando che la sicurezza è piú importante delle importazioni e delle esportazioni.
Si devono individuare, isolare e DEPORTARE nei Paesi islamici quei mussulmani residenti in occidente anche se di seconda o terza generazione che parteggiano piú o meno apertamente per l’ISIS ed a questo proposito ricordiamo come una recente indagine francese svolta tra i liceali mussulmani di Parigi e quindi NON nelle banlieux e nei ghetti, ma tra la media borghesia,  ha stabilito che il 40% degli intervistati si dice pronto a combattere per l’ISIS e che il 70% degli intervistati approva e plaude agli attentati dell’ISIS nel mondo!
Si devono monitorare attentissimamente le comunitá islamiche, i loro luoghi di culto e di ritrovo pretendendo trasparenza e osservanza delle nostre leggi alle quali NESSUNA consuetudine religiosa puó derogare per nessun motivo ( vedi per esempio il velo islamico o la poligamia )
Il non farlo accampando il motivo che non tutti i mussulmani sono terroristi sarebbe come se i chirurghi, prima di entrare in sala operatoria, NON si lavassero accuratamente le mani perché NON TUTTI i microbi sono infettivi e dannosi …!!!!
Se qualcuno ha suggerimenti che portino egualmente e concretamente alla sicurezza dell’Occidente dagli attentati dell’ISIS, senza ricorrere ai mezzi estremi suggeriti saremmo lietissimi di conoscerli e di accettarli, ma temiamo che NON CE NE SIANO..!!
Difficile tenera a bada una religione come quella mussulmana che fa del libro santo, il Corano, l’unica, indiscutibile, inderogabile fonte di dottrina e di comandamenti.
La storia millenaria ci insegna che l’islam NON è mai disponibile al dialogo ed al confronto, ma mira SEMPRE al predominio perché questa è la volontá di Allah e lo ha dimostrato con invasioni, guerre, stermini che fortunatamente non hanno sortito l’effetto voluto anche perché a quei tempi l’occidente aveva capito che alla violenza ed alla guerra l’unica risposta efficace è la violenza e la guerra!!
Se solo l’ISLAM volesse dialogare, saremmo i primi a cercare il confronto e l’accordo, ma questo NON è e dunque manca il presupposto NECESSARIO  per un dialogo!
Resta il diritto ed il dovere alla difesa delle vite, delle convinzioni e dello stile di vita che ci siamo scelti e per raggiungere questo obiettivo, TUTTE le opzioni sono lecite.
Alessandro Mezzano
                                                                                                                                     

sabato 1 aprile 2017

COOPERATIVE ROSSE

Cooperative rosse

Cooperative rosse da utopia a cassaforte
Scippate ai «padri» riformisti furono trasformate dai comunisti nel «tesoro privato» del partito Viaggio attraverso le trasformazioni di un soggetto socialedi Antonio Landolfi
Nacque la Lega delle Cooperative e con essa nacque una sorta di repubblica economica autonoma che faceva capo direttamente al PCI, ne costituì una grande forza finanziaria partecipe della vita economica del paese ma in piena indipendenza dal resto della nostra economia. In breve tempo l’organizzazione cooperativa divenne il perno finanziario del partito comunista, visto il suo rigoglioso sviluppo nelle “regioni rosse”. All’interno dell’organizzazione, un certo spazio fu dato anche ad altri partiti della sinistra: il ruolo di vicepresidente nazionale veniva riservato ai socialisti nenniani ed anche saragattiani, sia nell’epoca frontista del PSI, sia nella fase successiva dell’autonomia socialista, compresa l’epoca craxiana. Uno spazio era concesso anche ai repubblicani, data la tradizione cooperativistica di marca mazziniana che aveva consistenti radici nelle zone rosse della Romagna e delle Marche.
I partiti non comunisti ne traevano qualche vantaggio, ma le cooperative e la struttura federale restavano saldamente in mano al PCI, di cui erano sempre di più un supporto elettorale ed anche finanziario indubbio. Furono i politologi che facevano capo alla rivista “il Mulino”, che risiedeva a Bologna, e costituiva quindi un ottimo osservatorio, a coniare il termine “collateralismo”, con cui si definiva il rapporto ombelicale che legava le organizzazioni di massa (e la Lega delle cooperative senz’altro lo era) al partito di Togliatti, Longo, Berlinguer ed Occhetto. Tutto questo si sapeva già nell’Italia degli anni cinquanta. Nessuno era in grado di circoscrivere il fenomeno. Neppure le cooperative cattoliche che la DC si era affrettata a promuovere e che s’erano create un loro campo d’attività specie nelle regioni non rosse erano in grado di competere con quelle “collaterali” al PCI.
Alcuni analisti accreditavano persino la voce che la Lega beneficiava dei rapporti commerciali con L’URSS, l’Est europeo, la Cina e Cuba, gestendo l’attribuzione di licenze di export-import verso tali paesi. I maldicenti vennero tacitati con l’accusa di anticomunismo viscerale, e nessuna indagine confermò tali voci.
Ad illuminare meglio la situazione che si era creata, venne alla fine degli anni cinquanta la testimonianza autorevole di Eugenio Reale. Cioè di uno dei capi più prestigiosi del comunismo italiano che aveva reciso i legami con il suo partito a seguito dei fatti di Ungheria.
Reale era stato incaricato da Togliatti di presiedere al campo delle attività economiche, nazionali ed internazionali del partito e delle organizzazioni collaterali. Il fatto che fosse prescelto a tale compito, confermava in qualche modo che una parte rilevante delle attività di questo tipo avesse una dimensione internazionale, visto la lunga esperienza e la fitta rete di rapporti che egli aveva (era stato ambasciatore a Varsavia, aveva partecipato alla costituzione del Cominform, tra l’altro). Nei “Taccuini” che egli redasse (e riportati in un prezioso volume pubblicato da Giuseppe Averardi, attualmente dirigente del PDS, dopo una lunga esperienza politica e parlamentare nel movimento socialista, dal titolo “Le carte del PCI”, edito da Lacaita nel 2000) Reale scriveva: “Negli anni cinquanta e sessanta il divario di sviluppo della cooperazione nel nostro paese rispetto agli altri paesi industrializzati è cresciuto. Nelle socialdemocrazie del Nord Europa il numero dei soci ha raggiunto il 50% della popolazione attiva, in Francia è raddoppiato dal 12 al 24 %. Persino in Canada ed in Usa è al 20 %. Il numero dei soci espressi in percentuale sul numero degli abitanti attivi è fermo in Italia al 7 %”.
Negli anni successivi questa percentuale non saliva di molto: nel 1980, secondo i dati forniti dalla lega delle Cooperative i soci erano 13.180, con una percentuale che non raggiungeva il 10 %, cui naturalmente andava aggiunto il numero dei soci di altre organizzazioni, quella cattolica ed altre ancora, che però era ben più basso di quelli della Lega. Il numero così limitato dei soci si può spiegare con un dato, ripreso dallo stesso Eugenio Reale, secondo cui “ad opera del sindacato e dei funzionari di partito si è sviluppata la tendenza a privilegiare il rapporto di lavoro indipendente nella cooperazione rispetto a quello di associato autonomo”. Di conseguenza è venuta meno la distinzione tra imprese di natura associativa ed imprese di natura capitalistica. Tutto ciò ha permesso di modellare il sistema cooperativo in funzione del soggetto economico e finanziario più che in funzione associativa e partecipativa.
Ed economicamente il sistema ha indubbiamente funzionato; con il sostegno politico, delle amministrazioni ed anche del consociativismo degli anni settanta ed ottanta nel settore della produzione, del consumo, dell’edilizia ed infine della finanza. Ed ha permesso di accumulare risorse tali da costituire un prezioso polmone per il PCI.
Nella sua opera “Le carte del PCI” ha compiuto un lavoro prezioso che ci permette di ricostruire il percorso dei rapporti tra il movimento cooperativo e quel partito, in tutte le sue varie fasi e trasformazioni. Un rapporto che per lungo tempo è stato improntato a quella prassi di “collateralismo” che si traduceva per la cooperazione rossa in una delle tante “cinghie di trasmissione” del partito di riferimento. I momenti salienti furono nel 1961 con il convegno nazionale del PCI sulla cooperazione, conclusosi con il varo di una strategia di aggregazione del ceto medio assegnata come compito alla Lega nell’ambito di una politica di alleanze. Alla metà degli anni Settanta, nel quadro della politica di solidarietà nazionale, e della scoperta dell’economia di mercato, la cooperazione veniva sollecitata ad assumere forme e dimensioni più squisitamente imprenditoriali: una sorta di ala marciante neocomunista nell’ambito e nella logica dell’economia capitalistica. La vittoria elettorale a livello amministrativo e regionale del PCI permetteva l’espansione delle attività delle cooperative edilizie in ogni zona del territorio nazionale, grazie alla gestione degli appalti delle giunte di sinistra.(da Cooperative rosse da utopia a cassaforte)
Ricordo che il 20 luglio 2007, Clementina Forleo nell’ambito delle indagini sulla tentata scalata della BNL da parte dell’Unipol, inviò al Parlamento un’ordinanza in cui, tra l’altro si legge:
” inquietanti interlocutori di numerose di dette conversazioni soprattutto intervenute sull’utenza in uso a Giovanni Consorte”
(N.d.R. Fassino e D’Alema) “appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata”
Non voglio entrare nel merito dell’indagine, ricordo soltanto che la Forleo fu immediatamente sospesa dall’incarico, l’inchiesta affidata ad altri (di Fassino e D’Alema non si parlò più) e solo dopo un anno, quando ormai l’insabbiamento era avvenuto, la Forleo fu pienamente riabilitata.
Ma naturalmente sono solo coincidenze.