giovedì 30 novembre 2017

QUELLE GRANDI MENZOGNE SULLA SECONDA GUERRA MONDIALE

 
Quella grande ipocrisia sulle cause e gli scopi della Seconda guerra mondiale
 
di Francesco Lamendola -
 

 
La Vulgata storiografica antifascista, sia nella versione liberaldemocratica sia in quella (oggi obsoleta) marxista-leninista, ci ha sempre spiegato che la seconda guerra mondiale fu scatenata interamente dalla follia di un uomo solo, Hitler; e che essa fu combattuta dal «mondo libero» (nonostante l’imbarazzante presenza, in esso, e in un ruolo decisivo, del compagno Stalin) per salvare la Polonia, un po’ come nel 1914 era stato fatto per il «poor little Belgium», il cui triste destino aveva profondamente commosso le dame britanniche.
Per quanto possa sembrare incredibile, questa risibile ricostruzione dei fatti ha retto per oltre sessant'anni, segno che non è una frase fatta quella secondo cui la storia viene scritta dai vincitori: perché, se gli Alleati non avessero vinto, impadronendosi della cultura e dell'informazione mondiale (basata, quest'ultima, sulle cinque grandi agenzie di stampa internazionale: due statunitensi, una britannica, una francese ed una sovietica), ben difficilmente sarebbe stato possibile puntellare tante menzogne e tante mezze verità per un tempo così lungo, insegnandole nelle aule scolastiche e universitarie e diffondendole a mezzo di migliaia e migliaia di libri ed articoli.
Per dirne una: come giustificare che quelle stesse potenze democratiche che, nel 1938, avevano gettato in pasto a Hitler la democratica Cecoslovacchia, nel 1939 firmarono una cambiale in bianco che incoraggiava la Polonia semifascista ad opporsi con la massima intransigenza alle richieste di Hitler (che, per mesi, furono pacifiche e decisamente moderate?).
Oppure: come spiegare che il 3 settembre 1939 Francia e Gran Bretagna dovevano per forza dichiarare guerra alla Germania per salvare la Polonia, mentre non presero la minima iniziativa contro l'Unione Sovietica allorché, il 17 dello stesso mese, quest'ultima invase a sua volta la sventurata Polonia (altro che «pugnalata nella schiena»!), prendendola alle spalle?
E come spiegare il fatto che la Francia e la Gran Bretagna non mossero un dito per soccorrere la Finlandia, aggredita dall'Unione Sovietica senza alcuna dichiarazione di guerra, proprio sul finire di quello stesso anno, eccezion fatta per il tardivo e mal concepito sbarco nel fiordo di Narvik, dopo l'occupazione tedesca della Norvegia?
Inoltre: come mai, se la guerra era stata scatenata per salvare la Polonia, né la Francia, né la Gran Bretagna mossero un dito per aiutarla, restandosene sulla difensiva sul fronte occidentale, mentre le divisioni corazzate della Wehrmacht scorrazzavano per la pianura polacca e conquistavano Varsavia in poco più di due settimane? Infatti, se davvero si desidera aiutare qualcuno in difficoltà, e se, per farlo, si è disposti a scatenare niente meno che un conflitto mondiale, un tale atteggiamento risulta semplicemente incomprensibile.
Oppure le vere ragioni della dichiarazione di guerra franco-inglese alla Germania erano completamente diverse? Non sarebbe più onesto ammettere che la Polonia fu gettata cinicamente in pasto ad Hitler, dopo averla aizzata ad una folle intransigenza, pur di avere il desiderato «casus belli» contro i Tedeschi, così come, nel dicembre 1941, Roosevelt e il governo statunitense avranno disperatamente bisogno dell'attacco di Pearl Harbor per poter dichiarare guerra ai Giapponesi, con tutte le apparenze della ragione e del buon diritto?
Ancora: come è possibile sostenere che le potenze democratiche scatenarono la guerra per difendere la libertà e l'indipendenza della Polonia, se nel 1945 furono così accomodanti ai disegni di Stalin volti a trasformarla in una pedina dell'impero sovietico?
Ci vuole un bel coraggio per continuare a sostenere a testa alta tutte queste verità di facciata, espressione di una storiografia di comodo, ad uso e consumo dei vincitori, volta a fornire una giustificazione per il loro cinismo, per la loro brama di dominio mondiale, per l'ipocrisia delle loro parole d'ordine liberali e democratiche.
Ha osservato il grande storico francese François Furet nel suo libro «Il passato di un’illusione» (titolo originale: «Le passé d’une illusion», Paris, Laffont, 1995; traduzione italiana a cura di Marina Valensise, Milano, Mondatori, 1995, pp. 392-94):
«Il caso polacco è […] tristemente simbolico, poiché riguarda  il paese che è stato all’origine della seconda guerra mondiale, prima di diventarne una delle grandi vittime. Causa del conflitto nel settembre  1939 e primo teatro di operazioni militari, la Polonia ha continuato a essere l’epicentro del terremoto europeo, dapprima divisa, saccheggiata, mortificata dalla Germania e dall’Urss, poi oggetto di disaccordo tra l’Urss e le democrazie anglosassoni, per perdere infine la propria indipendenza al termine d’una guerra che era scoppiata per assicurarla. La Polonia rivela ciò che prima e dopo il 22 giugno 1941 vi è d’immutato nella volontà di Stalin, attraverso un succedersi di alleanze contraddittorie. Nel 1939 e del 1940, il segretario generale aveva ottenuto dal negoziato con Hitler un vasto insieme di territori nell’Europa orientale. Voleva ancora quello che Molotov era andato a chiedere a Berlino nel novembre del 1940: una sorta di protettorato su Romania, Bulgaria, Finlandia e Turchia, il controllo dei Balcani, lo statuto d superpotenza mondiale a fianco della Germania nazista. Di tutto questo, nulla è veramente cambiato con la nuova disposizione delle alleanze. Anche se ci sono due differenze:  Stalin grazie ai successi del suo esercito ha continuato ad accrescere le sue ambizioni verso l’Ovest. E ormai deve negoziare non più con Hitler, ma con Churchill e Roosevelt.
La vicenda polacca dimostra che egli incontra meno difficoltà con i responsabili delle democrazie  che con il dittatore nazista. Sebbene dopo il 22 giugno abbia rapidamente riconosciuto il governo polacco di Londra, preludio alla formazione d’un esercito polacco in territorio sovietico, Stalin rifiuta d’includere nell’accordo qualsiasi menzione della frontiera polacco-sovietica. E sin dall’autunno 1941 manifesta chiaramente agli inglesi la propria volontà di conservare i territori che ha comunque ottenuto dai tedeschi. Churchill e Roosevelt cercano di prendere tempo, rinviando a dopo la pace il tracciato dei confini. Ma se non possono aprire subito un secondo fronte europeo, richiesto con insistenza da Stalin, devono pur concedere qualcosa ai loro alleati, che temono sottoscriva - sulla base del precedente del 1939 - una pace separata con Hitler. Le democrazie pagano lo stato d’impreparazione militare in cui le ha sorprese la guerra, cedendo in anticipo ala volontà d’espansione sovietica. Ma bisogna considerare il peso delle illusioni: Churchill non ne ha affatto, Roosevelt invece sì. Sull’Unione Sovietica e il suo capo, il presidente americano s’è dimostrato ignorante e al tempo stesso ingenuo. Su Stalin nutre stranamente idee ottimistiche al punto che è difficile immaginare che appartengano davvero a un brillante statista.  L’epoca, certo, vi si presta. Il ricordo del patto tedesco-sovietico sfuma con gli anni, l’Armata Rossa ha pagato con i suoi sacrifici il caro prezzo della redenzione. Stalingrado ha cancellato gli scambi di cortesia tra Ribbentrop e Molotov. La guerra impone la sua logica manichea, che diventa a poco a poco un’opinione obbligata.
Nel 1943, la scoperta da parte dei nazisti dell'ossario di Katyn complica l'imbroglio polacco, provocando da una parte la rottura tra l'Urss e il governo polacco di Londra, dall'altra la formazione a Mosca di un'altra équipe polacca, che annuncia il futuro potere comunista. I giochi sono già fatti anche in campo sovietico, proprio quando (fine 1943) l'Urss proclama come suoi obiettivi di guerra la restaurazione dell'indipendenza delle nazioni e la libera scelta del proprio governo da parte di ciascuna di esse. Nello stesso momento Churchill e Roosevelt, a Teheran, accettano come frontiera orientale della Polonia la linea Curzon. È una misura che implica un ampio spostamento del territorio polacco verso ovest, a detrimento di milioni di tedeschi che dovranno essere espulsi, il che comporta la stretta dipendenza della futura Polonia nei confronti dell'Urss.
A quel punto, il resto della storia è già scritto. L'avanzata militare sovietica all'ovest rende inevitabile anche quella parte della storia che non è stata stabilita in anticipo. L'insolubile problema che oppone il governo Mikolajczik a Stalin è risolta sul campo nell'agosto 1944. Al termine d'una rapida avanzata, l'Armata Rossa giunge sino a un sobborgo di Varsavia, sulla riva destra della Vistola. Allo stesso momento, il governo polacco di Londra decide d'affermare il suo diritto: con le sue unità militari clandestine, fa scoppiare l'insurrezione a Varsavia. Ma il dramma è che per vincere di fronte alle truppe tedesche ha bisogno d'una mano dell'Armata sovietica, accampata sull'altra sponda del fiume. E questa non si muove. Il 2 ottobre, assiste da lontano alla capitolazione dell'Esercito nazionale polacco e alla distruzione della città vecchia a Varsavia. In dicembre, il Comitato di liberazione nazionale della Polonia, formato a Lublino su iniziativa dei russi, si trasforma in governo provvisorio del paese, subito riconosciuto da Mosca A Jalta, nel febbraio 1945, Churchill e Roosevelt riescono a ottenere da Stalin soltanto la partecipazione dei polacchi di Londra a questo governo provvisorio: è una "unione nazionale" fittizia, che non resisterà molto tempo alla situazione sul campo.
All'epoca però nessuno si preoccupa di questo trionfo della forza sul diritto, che corona una guerra combattuta in nome del diritto contro la forza. L'idea comunista segna in quegli anni il culmine del secolo, trionfando contemporaneamente nei fatti e nei pensieri».
In questa ricostruzione e in questa interpretazione, vi sarebbe molto da dire su un punto importante, quello relativo alla ormai tradizionale versione della «impreparazione militare» delle democrazie rispetto a Hitler, nel settembre del 1939.
Che si tratti di una leggenda, lo hanno fatto notare solo pochi storici controcorrente, ad esempio Franco Bandini che, nel suo studio «Tecnica della sconfitta», ha mostrato come specialmente la Gran Bretagna non fosse affatto impreparata e, anzi, Churchill avesse freddamente deciso di provocare una guerra contro la Germania entro il 1939-40, vale a dire prima che questa riuscisse a surclassare la flotta inglese, ricalcando la politica inglese del 1914.
Se, poi, gli scopi di guerra degli Alleati erano il ripristino del diritto internazionale, della libertà di navigazione e di commercio, del diritto all'autodecisione dei popoli, secondo lo schema contenuto nella Carta Atlantica firmata da Churchill e Roosevelt il 14 agosto 1941 (allorché gli Stati Uniti d'America, fatto degno di nota, non erano ancora in stato di guerra né contro il Giappone, né contro l'Asse), come si spiega il fatto che, nel 1945, metà dell'Europa venne gettata, senza batter ciglio, sotto il tallone di un sistema totalitario quale non si era mai visto in qualsiasi epoca della storia moderna, eccezion fatta per il solo nazismo?
Si dice che, quando ebbe notizia dello sfondamento delle proprie forze corazzate sul Volga e dell'accerchiamento della VI Armata Tedesca, prodromo della decisiva vittoria di Stalingrado, il dittatore sovietico si sia abbandonato ad uno dei suoi rarissimi momenti di sincerità: adesso il gioco era fatto, nessuno gli avrebbe mai più domandato di rendere conto dei suoi crimini: né delle stragi di massa della collettivizzazione forzata, né delle Grandi Purghe, né del patto coi nazisti del 23 agosto 1939, preludio alla spartizione della Polonia, né delle esecuzioni di parecchie migliaia di ufficiali polacchi nella foresta di Katyn. 
E nemmeno di quelli che si accingeva a compiere: la cacciata di milioni di Tedeschi dalle province orientali del Reich; la vile dichiarazione di guerra al Giappone, già prostrato militarmente e sconvolto dalle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki; l'instaurazione di ferree dittature comuniste sui Paesi dell'Europa centro-orientale; la deportazione di intere popolazioni «infedeli», come i Tartari di Crimea e o i Cosacchi del Kuban; l'incitamento alla Corea del Nord affinché scatenasse una offensiva contro la Corea del Sud, rischiando - niente di meno - di precipitare una terza guerra mondiale fin dal 1950.
La storia non processa i vincitori, ma gli sconfitti. Questo sapeva Stalin; e questo sapevano anche Churchill e Roosevelt. 
Il primo, autore della distruzione sistematica delle città tedesche mediante bombardamenti aerei terroristici di proporzioni apocalittiche e militarmente ingiustificati (Amburgo, Dresda, ecc.), che volle la seconda guerra mondiale per il miope ed egoistico disegno di preservare l'impero coloniale britannico, che invece la Gran Bretagna dovette liquidare poco dopo la fine della guerra (l'India ottenne l'indipendenza già nel 1947, sia pure fatalmente mutilata dalla secessione del Pakistan, ultimo colpo di coda del colonialismo inglese).
Il secondo, che si era fatto eleggere dai suoi connazionali promettendo di tenerli fuori dalla guerra, mentre fece di tutto per trascinare il suo Paese nel conflitto a sostegno della Gran Bretagna, l'antica madrepatria; e che riuscì perfettamente a creare la leggenda di un'America costretta a intervenire controvoglia, ma decisa a battersi disinteressatamente per il trionfo della libertà e della giustizia, mentre fin dall'immediato dopoguerra non esitò a servirsi delle cause più discutibili, prima fra tutte quella sionista, pur di affermare l'egemonia mondiale americana e per porre l'intero pianeta sotto la tutela della bandiera a stelle e strisce e dei finanzieri di Wall Street.
Proprio gli stessi che - vale la pena di sottolinearlo -, provocando la crisi economica del 1929, avevano avuto una responsabilità così grande nell'avvento del nazismo e, quindi, nelle vicende che avevano portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quanta ipocrisia nella versione ufficiale circa le cause e gli scopi della seconda guerra mondiale, rinnovata ad ogni anno con le trionfalistiche celebrazioni dell'anniversario del «D-day» (6 giugno 1944), ossia dello sbarco angloamericano in Normandia!
Un solo esempio in proposito: gli storici della Vulgata liberaldemocratica si guardano bene dal ricordare che, nei primi giorni dopo quello sbarco, che segnava l'inizio della conquista e del successivo dominio americano sull'Europa, buona parte delle popolazioni francesi nelle retrovie del teatro di operazioni si auguravano la vittoria tedesca e speravano ardentemente che le forze d'invasione venissero rigettata nelle acque della Manica.
Ma queste cose, solo pochi storici controcorrente, come David Irving, hanno avuto il coraggio di dirle; e hanno pagato un prezzo molto salato per averle affermate, e sia pure sulla base di una documentazione inoppugnabile.
Altro che tramonto delle ideologie!
L'Europa e il mondo non hanno mai vissuto all'ombra di una cappa ideologica pesante come quella che regna oggi, dopo la fine della «guerra fredda»: il Pensiero Unico della democrazia liberale e del capitalismo trionfante.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it 

                                                                                                                                                            

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domenica 26 novembre 2017

La mafia israeliana controlla il traffico di ecstasy in Europa e negli USA


La mafia israeliana controlla il traffico di ecstasy in Europa e negli USA

Nel 2004 il giornale Haaretz, appartenente all’area liberale di sinistra, pubblicò un articolo intitolato “The Agony of the Ecstasy” dove – anche con un certo coraggio – si comunica al pubblico europeo e statunitense che il 75 % del traffico di ecstasy, negli Usa, è controllato dalla mafia israeliana.
 L’articolo è un esempio di ottimo giornalismo e ci arriva proprio da Israele. Leggiamolo: According to a report issued in 2003 by the U.S. State Department, Israel is at the center of international trafficking in Ecstasy and Israeli crime organizations, some of them linked to similar organizations from Russia, achieved a dominant status in the Ecstasy market in Europe, and went on to control the drug’s distribution in the States. “Israeli drug-trafficking organizations are the main source of distribution of the drug to groups in the U.S, using express mail services, commercial airlines, and recently also using air cargo services,” the report states. The authorities do not provide official data on the scope of the Israeli trade in Ecstasy, but the most commonly heard estimate is that Israeli criminals control no less than 75 percent of the Ecstasy market in the U.S. 1
Si tratta di un giro malavitoso denominato Las Vegas connection in cui: “A lot of the Ecstasy we see in Las Vegas comes from Israeli dealers.” Le stesse autorità statunitensi – quasi sempre supine al volere del potente alleato sionista – hanno esternato la loro preoccupazione. A parlare, nel lontano 2009, è James Cunningham con un documento eloquentemente intitolato Israele, una terra promessa per la criminalità organizzata? (Julian Assange gli ha copiato il titolo) dove leggiamo che la criminalità organizzata in Israele: ‘’ha radici di lunga data in Israele, ma negli ultimi anni  si è notevolmente potenziata’’ 2.
La forza della mafia sionista si evince da queste parole di Cunningham: ‘’Molti criminali  sono ‘in possesso di passaporti stranieri,  possono circolare liberamente nei paesi europei, molti  usufruiscono  dell’esenzione del visto  per gli  Stati Uniti. I tentativi  dell’ambasciata per impedire ai criminali di raggiungere gli Usa  non sono sempre riusciti .  Cinque o sei clan dominano in Israele: Abergil, Abutbul, Alperon, e Rosenstein. Arresti  e omicidi hanno creato un vuoto di potere al vertice. Nuovi clan come Mulner, Shirazi, Cohen e Domrani si sono mossi rapidamente per colmare il divario. Ci sono anche clan rivali  nel settore arabo.  
“L’ambasciatore americano ha ammesso che “non è del tutto chiaro in quale misura questi elementi  siano penetrati  nell’ establishment israeliano e hanno corrotto  funzionari pubblici”’’. Un sistema capitalista come quello israeliano può facilmente trasformare la burocrazia statale in una immensa ‘’macchina del malaffare’’: la mafia israeliana – a poco, a poco – è diventata tutt’uno con gli apparati del Mossad, a loro volta ben incastonati nelle intelligence dei paesi europei. Forse è questo il motivo per cui le forze di polizia ‘’non catturano mai’’ i boss mafiosi israeliani? Israele è uno dei paesi con la classe politica più corrotta del mondo: vi ricordate dell’ex ministro Gonen Segev che tentò di contrabbandare migliaia di pillole di ecstasy in Israele? E che dire dell’elezione di Inbal Gavrieli, figlia di un boss, alla Knesset, nel 2003? Per l’ex ambasciatore:“Dato il volume di viaggi e gli scambi tra gli Stati Uniti e Israele, non è sorprendente che tali organizzazioni criminali si siano diffuse in America”.
Un giro d’affari sporco di fango e di sangue, forse peggiore di quello made in Italy gestito un tempo da Totò Riina e associati. E’ il caso che gli apologeti dell’occidentalismo ne prendano atto, smettendola – una volta per tutte – di propinarci un indigesto legalitarismo di facciata. Perché Roberto Saviano, noto per le sue posizioni politiche russofobe, non scrive un articolo sui traffici di droga made in Tel Aviv? Domanda: quella di Saviano è malafede o semplice ignoranza ?
Quanti, fra i lettori di quest’articolo, hanno mai sentito parlare di Mayer Lansky? La fonte della criminalità organizzata negli Usa fu, durante la seconda metà del secolo scorso, la Murder Incorporated (Omicidio incorporato) di chiara origine israeliana:
Il giornalista Hank Messick, con un libro praticamente sconosciuto intitolato Lansky, ci ha spiegato che:
3. Il sottotitolo del libro accennava alla presenza di una mafia sionista globale. Nulla di cui stupirsi: tutte le mafie, a partire da Cosa Nostra, sono ‘’internazionali’’ – ma l’editore ha rimosso il riferimento. Qual sarebbe il problema? Tutti noi sappiamo che la camorra campana è una multinazionale che opera su scala planetaria favorita dalle dinamiche del capitalismo neoliberista. Perché la stessa cosa non si può dire della mafia israeliana (e delle sue relazioni con le altre mafie, compresa quella russa), peraltro più potente e più feroce della camorra? Qualcuno ha paura di cadere sotto i colpi della potentissima lobby sionista?
La giornalista italiana Donatella Poretti, nel lontano 2002, trattò l’argomento con un articolo, molto breve ma altrettanto chiaro ed inoppugnabile. Grazie a lei sappiamo che:
‘’Le autorita’ statunitensi segnalano che e’ la mafia israeliana il maggior gruppo che controlla il traffico di ecstasy, anche se altre organizzazioni di trafficanti colombiani e domenicani stanno cercando di penetrare il mercato’’
‘’Un’indagine congiunta della Dea e dei Servizi Doganali realizzata nel 1999, aveva rilevato che organizzazioni criminali originarie di Israele utilizzavano giovani ebrei ortodossi per introdurre la droga nel Paese, ritenendo che i loro abiti religiosi e la loro fama di estremo rigore li rendessero meno sospetti nel momento in cui oltrepassavano la dogana’’
‘’ Un esperto della polizia israeliana, Yifat Steinberg, conferma che gli israeliani sono stati i primi ad intuire il potenziale di questo mercato. “Si sono posizionati in un mercato vuoto. Sono stati i primi a capire l’enorme potenziale di guadagno sull’ecstasy”, precisa Steinberg’’ 4
Domanda: la Poretti dice che come ‘’piede di porco’’ vengono utilizzati ‘’giovani ebrei ortodossi’’. La mafia siciliana ha usato, per decenni, la religione come un ‘’manganello’’ a disposizione dei capi famiglia. I criminali israeliani ricorrono, anch’essi, ad un utilizzo strumentale del fenomeno religioso quanto meno per garantire l’intoccabilità dei padrini?
L’anno scorso in un analogo articolo riportavo le parole dell’ebreo antisionista, Gilad Atzomon che diceva: ”Il regime sionista gestisce una delle “più sporche ed immorali economie del mondo”’ 5. Certo, questa considerazione non riguarda soltanto Israele però, difficile dargli torto.

                                                                                                                                                          
 

mercoledì 22 novembre 2017

DA PARVUS A SOROS LA SOVVERSIONE DEI RE DI DENARI

DA PARVUS A SOROS LA SOVVERSIONE DEI RE DI DENARI


Pochi conoscono oggi il nome di Parvus, la cui vera identità è Izrail' Lazarevič Gel'fand, colui che ha coniato il concetto di "rivoluzione permanente", poi attribuito a Trockij.

Parvus nacque da genitori ebrei a Berezino nel 1867, in Bielorussia; passò parte della gioventù a Odessa (nell'odierna Ucraina, dove si associò a circoli rivoluzionari ebraici del Bund).

Trasferitosi in Turchia e poi in Germania, svolse un ruolo importante con lo Stato Maggiore tedesco nel 1917 per fare rientrare Lenin in Russia sul "vagone piombato" che dalla Svizzera lo portò a San Pietroburgo, dove sotto la sua guida i bolscevichi fecero il famoso Colpo di Stato d'Ottobre (Oktjabr'skij perevorot, come lo chiamavano i russi dell'epoca).

Le due attività che Parvus svolse per tutta la vita furono lo speculatore internazionale e il rivoluzionario, specialità nelle quali eccelse al massimo grado. Il suo identikit attuale corrisponde in modo quasi perfetto con George Soros, che di nome fa György Schwartz, nato in Ungheria nel 1930 e anch'egli ebreo. Soros non solo ha tratto profitti stratosferici grazie alle sue attività di speculatore "illuminato" (nel 1992, per esempio, mise in ginocchio la sterlina inglese e la lira italiana), ma può essere considerato uno dei maggiori ideatori-finanziatori delle "rivoluzioni colorate" e "guerre umanitarie" che stanno mettendo a ferro e fuoco Medio Oriente ed Est Europa.

 È sempre lui che, dietro una spessa cortina fumogena di benefattore internazionale e filantropo, sostiene e foraggia l’esodo di immigrati (frutto delle guerre e del caos generato dall’Occidente) che sta scardinando il sistema sociale e l’identità dell’Europa. Speculatori e rivoluzionari al medesimo tempo, un apparente ossimoro che ricorre di continuo nella bimillenaria storia ebraica.

Reporter



PER SAPERNE DI PIU’….          


                                                                                                                                                  

sabato 18 novembre 2017

Otto figli, otto soldati

 

Otto figli, otto soldati

Pagine poco note di eroismo familiare: i giovani Pazzaglia, tutti combattenti

 GIORNALE D´ ITALIA

Otto figli, otto soldati
Le due guerre mondiali, non solo per l’Italia ma anche per gli altri Paesi coinvolti, hanno visto spesso intere famiglie consumarsi nel sacrificio, con più di un componente mobilitato e in uniforme. E pronto a rispondere alla chiamata delle armi. A tal proposito risultano particolarmente esemplari le vicende di una famiglia di Montemonaco, in provincia di Ascoli Piceno, che il blog “I segreti della storia” ha brevemente ripercorso in un articolo recentemente pubblicato.
Siamo nel periodo della conquista italiana dell'Eritrea e della Seconda Guerra mondiale. E i Pazzaglia – questo il nome del nucleo familiare – vedono ben otto giovani vestire l'uniforme, alcuni quella grigio-verde dell'Esercito, alcuni quella nera dei Carabinieri Reali.
Sull'edizione del 10 maggio 1942 della Domenica del Corriere, in proposito, c'è trafiletto che recita: “Ecco un superbo primato, che forse nessun’altra famiglia italiana potrà contendere alla famiglia Pazzaglia di Montemonaco, sui monti del Piceno. Ammirate questo ruolino degli otto figli: Giovanni, Carabiniere; Giulio, Paolo e Antonio, Fanti; Quinto, Cavalleggero; Sesto, Settimio e Ottavio, Carabinieri. Tutti, salvo l’ultimo che è appena diciottenne, combattenti. Ma ciò che rende ancor più fulgida la balda schiera degli otto fratelli è la medaglia proposta per Sesto (campagna albanese) e, soprattutto, la Medaglia d’Oro già conferita al primogenito Giovanni, caduto in Africa Orientale Italiana: esempio glorioso per i suoi fratelli e per tutti gli Italiani”.
Il Carabiniere Giovanni Pazzaglia infatti, dopo essere stato destinato alla Legione di Asmara (di stanza in Eritrea), si trovò coinvolto nella ribellione di alcune bande locali che scoppiò tra l’8 e il 10 ottobre 1937: sebbene in licenza – si legge su I segreti della Storia - preferì rientrare al suo comando, offrendosi come addetto ad una mitragliatrice in caso la situazione fosse peggiorata. E la situazione, purtroppo, effettivamente peggiorò.
Alle 12.00 del 10 ottobre, infatti, una folta schiera di assalitori attaccò la piccola ridotta dei Carabinieri, i quali contrastarono con tutto il loro coraggio le preponderanti forze nemiche. Gli scontri continuarono per tutto il pomeriggio, mentre i militari cadevano uno dopo l’altro o rimanevano feriti. Alle 18.00 finirono le munizioni. I pochi carabinieri ancora vivi, tra cui Giovanni Pazzaglia, si riunirono attorno alla bandiera italiana. E lì, senza possibilità di difendersi, trovarono la morte.
Questa la motivazione della Medaglia d'Oro al Valore Militare alla memoria conferita al coraggioso militare: “Carabiniere di una stazione, sede di residenza in territorio di recente conquista, trovandosi per servizio lontano dalla sede e venuto a conoscenza di gravi sintomi di ribellione serpeggianti nella giurisdizione della propria stazione, insistentemente chiedeva di raggiungerla. Due giorni dopo il suo arrivo, attaccato il fortino da preponderanti forze ribelli, addetto all’unica mitragliatrice di cui disponevano i difensori, per ben sette ore di accanito combattimento, con mano salda e cuore intrepido, teneva testa al nemico facendone strage. Esaurite le munizioni, unico nazionale ancora illeso fra i difensori, rendeva inservibile l’arma, e sublime esempio di consapevole eroico sacrificio, si adunava con i superstiti attorno alla bandiera innalzata al cielo al centro del fortino e, fronte al nemico, trovava morte gloriosa. Arbì Gherbià, Beghemeder, 10 settembre 1937.


 

martedì 14 novembre 2017

PALESTINA CENT´ANNI DI MENZOGNE E SOPRUSI

Palestina 1917-2017: cent’anni di menzogne e soprusi


di Enrico Galoppini (*)
 
Il 2 novembre di quest’anno si compiono cent’anni esatti dalla “Dichiarazione Balfour”, che, come tutti dovrebbero sapere, consisté nella promessa formale – indirizzata dal Ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour ad un importante referente della “comunità ebraica” inglese e del nascente Movimento sionista, “Lord” Lionel Walter Rothschild – concernente l’impegno inglese nella costituzione di un “Focolare Nazionale Ebraico” (Jewish National Home) in Palestina.Per comprendere la portata di un simile impegno da parte della principale superpotenza dell’epoca a favore di un influente settore dell’Ebraismo le cui aspirazioni comprendevano l’edificazione di uno “Stato Ebraico” sulla cosiddetta “Terra Promessa” (da Yahwè agli Ebrei) bisogna collocare questo documento nel contesto che indubbiamente ne favorì la genesi.

Sul finire del 1917 l’Impero Ottomano, schierato nel campo della Triplice Alleanza col Reich tedesco e l’Impero d’Austria-Ungheria, non aveva ancora perso i territori palestinesi, per cui è opportuno sottolineare che l’Inghilterra “promise” ciò che ancora non possedeva, in quanto le sue truppe entreranno a Gerusalemme solo il 9 dicembre dello stesso anno. Ma tanto per mettere le mani avanti, nella solenne dichiarazione a garanzia delle aspirazioni sioniste si puntualizzava che le “comunità non ebraiche” colà residenti non avrebbero avuto leso alcun loro diritto.

Nella Dichiarazione Balfour troviamo dunque già due elementi caratteristici dell’ipocrisia moderna: vendere quello che non si possiede (come nel mercato finanziario dei “futures”) ed ammantare intenzioni non proprio benevole di altisonanti idealità candidate all’immediato sacrificio in nome della politica del “fatto compiuto”.

A parte la strana coincidenza del 2 novembre (Commemorazione dei defunti per il calendario cristiano cattolico), vi è da dire che in quei giorni di novembre di cent’anni fa si susseguirono e s’intrecciarono eventi di portata epocale, tra i quali la Rivoluzione cosiddetta “d’Ottobre” in Russia (la conquista di Pietrogrado e Mosca da parte dei bolscevichi avverrà tra il 7 e l’8 novembre). Una rivoluzione, quella dei bolscevichi, aiutata in ogni modo dalle grandi banche d’affari di proprietà ebraica stabilite in America e che vide tra i suoi agenti in loco il fior fiore del revanscismo anti-zarista caratterizzato da una preponderante presenza ebraica nel primo Soviet supremo. Dunque, nel giro di pochissimi giorni, l’Ebraismo aveva piazzato due carichi sul tavolo della partita per il dominio mondiale: da un lato l’impegno della principale superpotenza di assegnargli l’agognata “Terra Promessa”, dall’altro lo stabilimento in Russia di un centro di propalazione della “rivoluzione mondiale”. Il tutto con la benedizione ed i quattrini dei correligionari dell’alta finanza che con la Prima guerra mondiale erano riusciti a ridurre l’Inghilterra in una condizione d’indebitamento fino al collo, per cui ne andava ad ogni costo impedita la débacle

Ora, se tutto questo, col clima insopportabile di caccia alle streghe dei nostri giorni, può sembrare una disamina “complottista”, vi è da dire che se si osservano quei fatti e la loro concatenazione scevri da ricatti moralistici ed autocensure si evince come la Prima guerra mondiale, tra i suoi esiti, rappresentò una vittoria su tutta la linea per l’Ebraismo, o meglio per un suo settore che a poco a poco finì per identificarsi col Sionismo e soppiantare, quanto meno nei rapporti di forza interni all’Ebraismo stesso, tutte quelle correnti e personalità indifferenti o addirittura ostili al Sionismo per vari motivi, che vanno dalla “profanazione del nome di Israele” al rifiuto di ridurre una religione ad una forma di nazionalismo esasperato.

La questione non è affatto di dettaglio, poiché è bene sapere che all’inizio (quanto meno simbolico) di tutta questa storia gli ebrei disseminati ovunque per il mondo (che naturalmente non potevano discendere dagli “ebrei della Diaspora” in quanto sono attestate ovunque conversioni di popoli interi all’Ebraismo) non erano affatto conquistati in maggioranza alla causa del “Focolare Ebraico” in Palestina (termine, quest’ultimo, che con gli anni avrebbero cercato di cancellare persino dalla memoria collettiva).

In tutti questi cent’anni, l’impegno dei fautori del progetto sionista, a cominciare proprio dai Rothschild, è stato quello di “convincere”, con le buone o le cattive, gli ebrei di tutto il mondo a stare dalla parte del loro progetto, sostenendolo idealmente e materialmente, per esempio rimpolpando i ranghi dell’emigrazione ebraica in Palestina col pretesto del “ritorno”. Con le buone o le cattive: si dà il caso, infatti, che le autorità del Terzo Reich attribuirono ad ebrei o mezzi ebrei la gestione della “questione ebraica”, a riprova che la carta sionista è stata giocata da tutti quanti, allo scopo di costituire – al di là delle attese “messianiche” dei più convinti sionisti – una base sicura per la propria influenza in un’area di vitale importanza dal punto di vista strategico, commerciale ed energetico.

Pertanto, se la Germania – prima e durante il Terzo Reich – non ha mai disdegnato l’appoggio del Sionismo per fondare una testa di ponte nell’area del Levante arabo, la Francia fece ancora di più, proponendo già alcuni mesi prima della Dichiarazione Balfour una sua analoga “dichiarazione” a favore delle aspirazioni sioniste, tant’è che quella britannica sembra ricalcata sul modello francese (com’è documentato nel libro di Philippe Prévost La France et l’origine de la tragédie Palestinienne. 1914-1922, Centre d’Études Contemporaines, Paris 2003).

Come sono andate le cose è storia risaputa: l’Inghilterra, senza tanti complimenti (ed alla faccia della “Cordiale Intesa” del 1904), ridimensionò le pretese francesi nella regione ed istituì un “Mandato speciale” per la Palestina dove, un poco per volta, il Sionismo impiantò la sua base operativa che perdura ancora oggi. Ciò a prescindere dagli atteggiamenti tattici dell’Inghilterra stessa, contro le cui rappresentanze civili e militari, al momento di realizzare lo “Stato d’Israele” – riconosciuto per primi, nel 1948, da Stati Uniti e Urss… -, si sarebbe scagliata la furia del terrorismo sionista, dentro e fuori la Palestina.

Ma nel 1917, con l’America che era entrata in guerra per un solo ed unico motivo – tutelare l’enorme massa di crediti che vantava nei confronti dell’Inghilterra – i giochi non sembravano ancora fatti. Ed ecco che per favorirli intervenne per l’appunto la Dichiarazione Balfour, che in fin dei conti non fu altro che il riconoscimento britannico per l’impagabile favore fatto dalla rete dei banchieri legati ai Rothschild ed influentissimi a New York con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti (ufficialmente, il 2 aprile 2017), per lungo tempo riluttanti a gettarsi nel teatro bellico europeo (il pretesto per entrare in guerra, ovvero l’affondamento del piroscafo Lusitania da parte di un sommergibile tedesco, era del 7 maggio 1915!). Un intervento, quello americano, praticamente senza senso se tentiamo di spiegarcelo solo con categorie come “l’imperialismo” e “l’espansionismo” a danno di altri Stati a Nazioni, oppure con la diffusione del Capitalismo e del Fordismo.

Nel frattempo, la stampa “autorevole” europea, e soprattutto i bollettini interni alle “comunità ebraiche”, denunciavano, riprendendo motivi già comparsi in altri precedenti contesti (anche vecchi di decenni), il “massacro di sei milioni di ebrei” in corso sul suolo europeo a causa delle violenze perpetrate dai tedeschi. Un particolare, questo, facilmente verificabile ma mai spiegato da coloro che, non appena qualcuno chiede conto di simili “coincidenze”, lanciano come un dardo mortale all’indirizzo del “blasfemo” studioso l’accusa di “complottismo” e, ovviamente, di “antisemitismo”.

Il contesto nel quale si colloca la Dichiarazione Balfour è dunque quanto mai interessante e ci induce a pensare che se per un verso i Rothschild ed i loro affiliati perseguono finalità (ricostruzione del Terzo Tempio, Gerusalemme capitale mondiale eccetera) che vanno oltre ciò che ingenuamente denunciano gli “antimperialisti” ed i vari “amici della Palestina”, per un altro è valida l’analisi, suffragata da dati storici, per la quale il “Focolare Ebraico” svolge la funzione di destabilizzare l’area vicino-orientale ma anche quella mediterranea onde evitare l’emersione di potenze contrarie al “dominio del dollaro” (trionfo della moneta-merce prestata ad interesse) che potrebbe sfociare in quell’integrazione eurasiatica a guida russa (di una Russia libera dal cappio al collo postole dagli usurocrati) in grado di serbare sgradite sorprese ai fautori di un “Nuovo Ordine Mondiale”. Sorprese tra le quali si annovera un’alleanza tra la Chiesa Ortodossa e l’Islam tradizionale non infettato dalle ideologie provenienti da un altro baluardo dell’influenza sionista nel mondo, l’Arabia Saudita.

In quest’epoca di riassestamento dei poteri mondiali, anche la Russia ha aumentato la sua influenza nello Stato Ebraico, a conferma che “Israele”, nazione ideocratica artificiale, sotto un certo aspetto funziona come una “società a quote” che ricorda la funzione degli Stati crociati di mille anni fa, con la non secondaria differenza che i ‘crociati’ di oggi sono armati fino ai denti – anche di testate nucleari – e capaci di coinvolgere a loro difesa la principale superpotenza militare, gli Stati Uniti d’America.

In tutto questo, resta da dire qualcosa su quelli che hanno subito le peggiori conseguenze dirette dalla Dichiarazione Balfour, ovvero gli abitanti della Palestina. Cominciamo col dire che forse, anche perché sono rimasti direttamente e pesantemente coinvolti, non sono riusciti a comprendere appieno la dimensione del problema che gli ha rovinato l’esistenza. Essi ovviamente hanno venduta cara la pelle (noi italiani ci saremmo estinti da un pezzo), opponendosi, coi limitati mezzi a disposizione, i tradimenti “arabi” ed un’incredibile faziosità interna, all’esproprio dei loro averi e persino della loro identità. I palestinesi (musulmani, cristiani, drusi eccetera, e persino ebrei!) hanno fatto la fine dei cosiddetti “pellerossa”. Umiliati, raggirati e diffamati anche quando avevano ragione al 100% di fronte a “coloni” che, per continuare la calzante analogia col Far West, somigliano per molti versi ai cowboy, sia come modalità d’intervento in terre non loro sia per l’ideologia “puritana” e “suprematista” che li anima.

I palestinesi hanno perso tutto (a parte le loro dirigenze ben pasciute dall’occupante), eppure, in questo mondo orwelliano di parole usate per esprimere il loro esatto contrario, dovrebbero perennemente “scusarsi” per non aver “accolto” i “poveri ebrei”, tant’è vero che la tesi dominante nella scuola e nell’intrattenimento mediatico è quella del “rifiuto arabo” che fa pendant con lo slogan della “terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Trascorsi cent’anni dalla Dichiarazione Balfour, al di là di tutto, possiamo senza dubbio affermare una cosa: che il popolo senza terra è quello palestinese!
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venerdì 10 novembre 2017

SUOLO, SANGUE, SPIRITO







“Suolo, sangue, spirito”. Intervista a Massimo Pacilio (Edizioni di Ar)


Sempre in vista della conferenza che si terrà a Roma, presso Raido, il “Suolo, sangue, spirito – la difesa delle identità oltre lo ius soli, durante la quale verrà presentata la nuova edizione di “Sintesi di dottrina della razza” di Julius Evola, curata dalle Edizioni di Ar, proponiamo oggi un’intervista esclusiva con il relatore della conferenza, Massimo Pacilio, professore di storia e filosofia e storico collaboratore ed autore delle Edizioni di Ar, con cui ha pubblicato “Conoscenza tradizionale e sapere profano – René Guénon critico delle scienze moderne”(1998) e, da pochissimi giorni, l’importante saggio a tema “L’invasione – prodromi di una eliminazione etnica”.
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Introduzione (a cura di Rigenerazionevola.it):
Massimo Pacilio, membro del sodalizio del Gruppo di Ar, nonché fra gli animatori delle omonime Edizioni, sarà il relatore di una conferenza che si svolgerà a Roma presso la sede di Raido il prossimo 14 ottobre. In quell’occasione, oltre alla presentazione della nuova edizione di Sintesi di Dottrina della Razza di Julius Evola,  ci si concentrerà sul tema della difesa delle identità oltre lo ius soli. Ne abbiamo approfittato per porgli qualche domanda decisamente “politicamente scorretta”.
“Suolo, sangue, spirito” è il titolo dell’incontro, ed effettivamente se si riuscisse a seguire come prospettiva ideale un concetto di identità in senso ampio, che si estenda ad ogni ambito (culturale, storico, naturale, spirituale, ecc.), all’interno del quale l’essere umano venga concepito secondo la tripartizione tradizionale, così come è stata ripresa e sviluppata da Evola, si potrebbe trovare il vero antidoto contro l’infezione diffusa dalle forze sovversive. Il suolo come il corpo, il sangue come l’anima, tutti sotto l’egida dello spirito, che in esse, in perfetta armonia, troverebbe piena e compiuta espressione. L’uomo nuovo, completo, armonicamente inquadrato in un contesto etnico, territoriale e culturale, spiritualmente indirizzato e protetto, sarebbe in grado di respingere ogni virus antitradizionale.
Professor Pacilio, tra i vari testi che le Edizioni di Ar stanno ristampando negli ultimi mesi, spicca senz’altro Sintesi di dottrina della razza, il celebre saggio in cui, com’è ampiamente noto, Evola espose in forma compiuta la sua ricostruzione della nozione di razza, seguendo la tripartizione tradizionale dell’essere umano, individuando una razza del corpo, dell’anima, e dello spirito. Può darci alcune indicazioni sulla nuova edizione di questo saggio, ampliata nei contenuti, e sui motivi che hanno spinto le Ar a ristampare un testo che anche noi di “Rigenerazione Evola” consideriamo centrale nell’opera evoliana e spesso, volutamente, dimenticato?
Sintesi di dottrina della razza ‒ come è stato opportunamente sottolineato dal prof. Di Vona nella Presentazione a questa nuova edizione ‒ è “il più difficile libro politico di Evola”. Vi sono esposte idee, concetti, vedute e interpretazioni che costituiscono, per certi versi, una ‘summa’ dell’insegnamento dell’Autore. Studiare quest’opera ‒ al di là di quegli aspetti che sembrano vincolarla esclusivamente alla politica fascista dei tardi anni Trenta ‒ vuol dire, infatti, ripercorrere i contenuti delle principali opere di Evola e assumere il punto di vista dal quale viene affrontata la lettura della modernità. Numerosi, del resto, sono i rimandi – espliciti – che vengono fatti a Rivolta contro il mondo moderno, a Il mito del sangue o – impliciti – a Imperialismo pagano e ai temi affrontati negli articoli apparsi sulle riviste con cui collaborava. Sintesi si presenta, dunque, come un compendio teorico e, allo stesso tempo, come un disegno politico indirizzato a chi, in quegli anni, ancora era al governo dell’Italia. Proprio quest’ultimo aspetto potrebbe indurre a imprigionarne le proposizioni entro una fase storica definita e conclusa, ma sarebbe una limitazione ingiustificata, sul piano politico, e illegittima, su quello filosofico. Lo testimonia ‘il punto di vista’ dal quale Evola tratta l’intera materia del suo saggio. In numerosi passi, infatti, leggiamo il riferimento al “punto di vista tradizionale”, che deve costituire – secondo il pensiero dell’Autore – il fulcro di una dottrina della razza, che non si limiti alla descrizione degli aspetti esteriori e contingenti di un popolo, ma indichi, soprattutto, le modalità con cui risvegliare un tipo umano superiore. Ciò che è “tradizionale”, del resto, non può esaurirsi nell’arco temporale di una fase storica. Sintesi, pertanto, si conferma nella sua funzione di testo-guida, per un’azione efficace di contrasto al processo di decadenza della modernità. Gli scritti che gli fanno da corollario – dalla Presentazione di Di Vona agli Exerga del Gruppo di Ar – dimostrano che questo libro, anche in questa particolare contingenza, è in grado di generare approfondimenti, suscitare interpretazioni e segnalare direzioni.
La nuova edizione di Sintesi viene pubblicata in un periodo storico molto particolare: i flussi migratori che hanno ad oggetto l’Europa, frutto di strategie ben precise pianificate a tavolino, sono volti ad una vera e propria opera di graduale alterazione dell’equilibrio etnico-culturale del vecchio continente, già sufficientemente prostrato dagli altri processi di decadenza e ibridazione in corso, endogeni o allogeni che siano, altrettanto indotti nel tempo. Ormai, oltre ai continui inviti all’“accoglienza” ed all’“integrazione”, sono sulla bocca di tutti espressioni come ius soli, ius sanguinis, nonché il terribile recente neologismo latineggiante dello ius culturae. A suo giudizio cosa scriverebbe Evola oggi di tutto questo?
Niente di più di quello che già espose in Rivolta o in Sintesi. In effetti, Evola, nell’indicare “il punto di vista tradizionale” come fondamento dell’opposizione alla modernità – in ciò raccogliendo e reinterpretando l’insegnamento guenoniano –, riesce a mettere bene in luce le premesse della situazione attuale. Ciò che oggi accade, infatti, non è che lo sviluppo delle precedenti condizioni, e si sostanzia nell’affermarsi di una concezione dell’uomo che pretende di fare a meno delle qualità distintive, per far prevalere, invece, solo ciò che è quantificabile. Le etnie, le razze sono giudicate, dal pensiero unico imperante, come ostacoli all’avvento della nuova sub-umanità indifferenziata. Per Evola la distinzione comincia dall’alto, dallo spirito, e prosegue nei piani, gerarchicamente sottoposti, dell’anima e del corpo. La qualità, dunque, ha sede in alto e si trasmette secondo una sua particolare linea ereditaria. Oggi le qualificazioni interiori degli uomini sono del tutto disconosciute; ad esse sono subentrate le cosiddette “competenze” individuali, le quali sono acquisibili da ognuno secondo una prospettiva affatto egualitaria. La differenza è un ingombrante ostacolo, se non è riducibile ad una quantità misurabile. Assunta la prospettiva quantitativa, non sorprende che anche la ‘cittadinanza’ vada via via slegandosi dalla discendenza e dalla stirpe e si vincoli esclusivamente ad un àmbito burocratico-statistico. Nelle condizioni generali di esistenza che si vanno imponendo, essa non è più espressione del radicamento di un popolo in un territorio – retaggio di un periodo storico in cui si sono formate le nazioni moderne –, ma è un semplice strumento amministrativo, di cui la burocrazia si avvale – non sappiamo fino a quando – per esercitare il suo controllo sugli individui. Quando saranno elaborate soluzioni giuridiche meglio rispondenti al destino di sradicamento di questo nuovo composto umano, anche lo ‘ius soli’ verrà abbandonato, in favore di una cittadinanza completamente deterritorializzata.
Ritiene che occasioni come questa conferenza, e non solo, potrebbero offrire l’opportunità di porre nella giusta prospettiva i concetti di patria, suolo, identità, sangue, e di collocare su di un piano superiore anche lo stesso ius sanguinis?
La visuale materialistica dominante non è che una conseguenza dell’affermazione del “polo quantitativo” dell’esistenza. Ogni aspetto del mondo appare decifrabile all’uomo moderno solo se tradotto numericamente, secondo una concezione meramente funzionale del numero. Ciò che è superiore al mero dato quantitativo, invece, rientra nell’àmbito della qualità. In ogni suo aspetto, l’uomo differenziato deve caratterizzarsi per una preminenza della qualità. Noi abbiamo visto come, storicamente, i concetti di ‘nazione’ e di ‘patria’ si siano legati alle dichiarazioni rivoluzionarie del giacobinismo. Il ‘popolo’ – e quindi la continuità di sangue di un gruppo umano in un territorio definito – ha potuto fungere da strumento sovvertitore dell’aristocrazia, per imporre un’ideologia egualitaria nello spazio politico-culturale europeo. Questi sono alcuni esempi di una visuale materialistica e ‘quantitativa’ con cui vengono distorti e imposti taluni concetti, inculcati poi nell’uomo moderno per condizionarne le facoltà cognitive. Oggi è arduo sfuggire alla degradazione quantitativa della conoscenza, pertanto risulta viepiù complicato vedere nitidamente le ‘idee’ che permettono un’azione “in ordine”. Tuttavia, ogni spazio conquistato alla lettura – che, non dimentichiamolo, è una severa disciplina dell’animo –, o agli incontri con l’opera di autori come Evola, costituisce la riconquista di uno spazio e di un tempo nei quali si manifesta ancora la possibilità di riavvicinarsi alle ‘idee’ e di confermarsi in esse.
Professor Pacilio, oltre a Sintesi di dottrina della razza, quali altri testi pubblicati dalle edizioni di Ar, sia classici che più recenti, suggerisce ai lettori per approfondire le tematiche legate a identità, etnia, sangue, spirito, ecc. secondo l’impostazione di cui parlavamo?
Le opere pubblicate dalle Edizioni di Ar si rivolgono ad un Lettore che ha a cuore – e ha nel cuore – proprio queste tematiche, anche quando esse sono mediate da incursioni nel campo della filosofia, dell’economia o della sociologia. Lo stesso vale per le opere di letteratura. Ma dovendo, come Lei mi chiede di fare, restringere la scelta dei testi, non potrei non ricordare la pregevole collana de I testi di Julius Evola  – in particolare i volumi che raccolgono gli articoli pubblicati su La Vita Italiana e su La Difesa della Razza – e, dello stesso autore, Il mito del sangue; il volume collettaneo Il gentil seme; il testo di Giovanni Damiano, Elogio delle differenze; il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, di de Gobineau; Il Campo dei Santi, il romanzo di Jean Raspail che presentammo nella sede di Raido lo scorso gennaio; infine, consiglierei la lettura della raccolta dei documenti del Fronte Nazionale, dal titolo I lupi azzurri, di Franco Freda, una testimonianza della capacità di prevedere – una volta che si è assunta la prospettiva della storia come campo del conflitto razziale – quali saranno gli esiti dell’arrivo delle masse afro-asiatiche, per sviluppare un’azione politica e culturale adeguata.
Le Edizioni di Ar hanno appena pubblicato un suo testo dal significativo titolo L’invasione. Prodromi di una eliminazione etnica. Ritiene che sia in atto un’aggressione delle nazioni europee con lo scopo di cancellare i popoli autoctoni?
In nessun’altra fase della storia moderna abbiamo assistito a un avvenimento paragonabile all’attuale invasione da parte delle popolazioni extraeuropee. Ciò nonostante, dai mezzi di comunicazione proviene quasi esclusivamente la versione edulcorata, se non addirittura travisata, di una ‘emigrazione’ causata dalla guerra o dalla fame. Nel libro ho invece assunto una diversa prospettiva – quella della verità – da cui giudicare questo avvenimento, avvalendomi degli insegnamenti di autori fondamentali (Sombart, Spengler, Schmitt, de Gobineau, Guénon), interpreti del rivolgimento culturale, politico ed economico che ha segnato l’ultimo secolo. Ho indicato quelli che considero gli attori principali e gli strumenti con cui si persegue l’obiettivo non di una graduale “sostituzione” – come viene purtroppo definita, per non rischiare di turbare la vita tranquilla dell’uomo civilizzato europeo –, ma di una soppressione, di una eliminazione definitiva di quel particolare tipo umano che è stato il capostipite delle popolazioni europee. Ho ritenuto indispensabile chiarire, inoltre, anche alcuni aspetti che la propaganda globalista – particolarmente agguerrita su questi temi – non smette di infondere nelle masse: dai numeri degli sbarchi fino alle spese che i cittadini sono obbligati a sostenere.  Nelle conclusioni di questo breve saggio si mostra come il rapido avanzamento dello sfiguramento etnico comporterà, giocoforza, una fase di conflittualità culminante nella ‘catastrofe’. Occorre, allora, fronteggiare questo destino incombente sulle nazioni europee, trovando la risolutezza di un agire assoluto, di una nuova Reconquista.
Perché questo attacco contro i popoli europei? Che senso può avere questa azione?
Consideri la nostra storia, magari passeggiando per il centro di Roma, o di Firenze, portando con sé una copia della Commedia di Dante, dopo aver osservato gli affreschi delle Stanze Vaticane o il museo archeologico di Napoli; provi a riflettere sul valore epico della battaglia di Lepanto, mentre il rumore dei suoi passi risuona in una calle nebbiosa di Venezia; osservi il perfetto disegno geometrico delle città antiche, la valle dei templi, gli anfiteatri che sfidano i millenni o i marmi possenti, in cui i nostri antenati hanno impresso le figure ideali della nostra razza. I miei suggerimenti, si badi, non sono che azioni quotidiane di tanti italiani, che hanno perso, tuttavia, l’abitudine di meravigliarsi della propria grandezza. Concludo, allora, con una domanda: chi potrebbe davvero sorprendersi se altri popoli, con altre storie e altri caratteri, fossero mossi dalla volontà di indebolirci, fino a cancellare ogni traccia della nostra presenza?

lunedì 6 novembre 2017

TERREMOTO DEL VULTURE, ITALIA DEL SUD , 1930.

TERREMOTO DEL VULTURE, ITALIA DEL SUD , 1930.



Terremoto del Vulture, 1930.

Il capo del Governo, Mussolini, appena conosciuta notizia del disastro convocò l'allora Ministro dei Lavori Pubblici, l'on. Araldo di Crollalanza e gli affidò l'opera di soccorso e ricostruzione. Araldo di Crollalanza, in base alle disposizioni ricevute e giovandosi del RDL del 9 dicembre 1926 e alle successive norme tecniche del 13 marzo 1927, norme che prevedevano la concentrazione di tutte le competenze operative, nei casi di catastrofe, nel Ministero dei lavori pubblici, fece effettuare nel giro di pochissime ore il trasferimento di tutti gli uffici del Genio Civile, del personale tecnico, nella zona sinistrata, così come era previsto dal piano di intervento e dalle tabelle di mobilitazione che venivano periodicamente aggiornate.

Secondo le disposizioni di legge, sopra ricordate, nella stazione di Roma, su un binario morto, era sempre in sosta un treno speciale, completo di materiale di pronto intervento, munito di apparecchiature per demolizioni e quant'altro necessario per provvedere alle prime esigenze di soccorso e di assistenza alle popolazioni sinistrate.

Sul treno presero posto il Ministro, i tecnici e tutto il personale necessario. Destinazione: l'epicentro della catastrofe.

Naturalmente, come era uso in quei tempi, per tutto il periodo della ricostruzione, Araldo di Crollalanza non si allontanò mai dalla zona sinistrata, adattandosi a dormire in una vettura del treno speciale che si spostava, con il relativo ufficio tecnico da una stazione all'altra per seguire direttamente le opere di ricostruzione. I lavori iniziarono immediatamente.

Dopo aver assicurato gli attendamenti e la prima opera di assistenza, si provvide al tempestivo arrivo sul posto, con treni che avevano la precedenza assoluta di laterizi e di quant'altro necessario per la ricostruzioni. Furono incaricate numerose imprese edili che prontamente conversero sul posto, con tutta l'attrezzatura. Lavorando su schemi di progetti standard si poté dare inizio alla costruzione di casette a pian terreno di due o tre stanze anti-sismiche, particolarmente idonee a rischio. Contemporaneamente fu disposta anche la riparazione di migliaia di abitazioni ristrutturabili, in modo da riconsegnarle ai sinistrati prima dell'arrivo dell'inverno.

A soli tre mesi dal catastrofico sisma, e precisamente il 28 ottobre 1930, le prime case vennero consegnate alle popolazioni della Campania, della Lucania e della Puglia. Furono costruite 3.746 case e riparate 5.190 abitazioni. Mussolini salutò il suo Ministro dei Lavori Pubblici al termine della sua opera con queste parole:"Eccellenza Di Crollalanza, lo Stato italiano La ringrazia non per aver ricostruito in pochi mesi perché era Suo preciso dovere, ma la ringrazia per aver fatto risparmiare all'erario 500 mila lire.".

L'intervento complessivo, difatti era venuto anche a costare meno del previsto. Nonostante il breve tempo impiegato nel costruirle e nonostante i mezzi tecnologici relativamente antiquati di cui poteva disporre l'Italia del 1930, le palazzine edificate in questo periodo resistettero ad un altro importante terremoto che colpì la stessa area 50 anni dopo.

Roberto Libero Bianchi







PER SAPERNE DI PIU’………..

Leggi “ L’ uomo della provvidenza” di Filippo Giannini. E’ un libro della Lanterna :