giovedì 2 novembre 2017

AL SERVIZIO DEL MONDIALISMO



Mario Consoli
Al servizio del mondialismo

La paradossale vocazione del comunismo e dei governi di sinistra a favorire il potere dell'alta finanza internazionale

Il rapporto tra governi di sinistra e «poteri forti» - La truffa della guerra fredda - Possibilità di giungere ad una corretta interpretazione della storia del XX secolo - Chi volle veramente la II Guerra Mondiale? - L'autentico significato dello scontro Imprevedibilità dell'esito bellico - Il ruolo di Stalin e del regime sovietico - La battaglia di Berlino - L'Armata Rossa,gli stermini, le violenze e gli stupri - Il vero vincitore dei conflitti del XX secolo - L'ininterrotto filo di collusioni tra comunismo e mondialismo
 
I primi provvedimenti del governo della coalizione di sinistra presieduta da Romano Prodi confermano i timori emersi nella vigilia elettorale. Come previsto, si è già dimostrato governo dei poteri forti.
Un esempio molto significativo: il decreto Visco ha reso obbligatorio l'utilizzo della transazione bancaria per i pagamenti ai professionisti. Tutti i movimenti finanziari superiori a cento euro - sia in attivo che in passivo - che riguardano gli «esercenti arti e professioni» dovranno passare attraverso un istituto di credito.
Chi non è titolare di un conto in banca - per necessità o per scelta poco importa - e ha mal di denti, o trova un odontoiatra disposto a fare l'evasore fiscale, o ha un parente od amico pronto a soccorrerlo col suo libretto d'assegni, o si tiene il mal di denti.
Chi non è inserito nella struttura bancaria non ha più diritto d'esistere!
Il provvedimento apparentemente potrebbe sembrare ispirato al desiderio di combattere l'evasione ed incrementare gli introiti fiscali, ma nella realtà, considerando la questione da tutti i punti di vista, è più probabile che provocherà un ulteriore aumento delle attività «in nero».
Quel che invece è certo è che il numero dei conti correnti subirà un vistoso incremento. Le banche, grazie al decreto Visco, otterranno un deciso accrescimento del loro già cospicuo bottino a danno dei cittadini. E, inoltre, di fatto si delega al controllo dei contribuenti italiani una struttura che, oltre ad essere assolutamente privata, oltre ad essere ispirata esclusivamente dall'utile usurario - quindi estranea ad ogni valore morale e ad ogni vincolo etico - ha più volte, sfrontatamente, affermato la propria determinazione di porsi fuori della normale applicazione delle leggi.
Si ricordi la questione dell'anatocismo: le banche furono condannate - nei tre canonici gradi di giudizio - a restituire ai propri clienti gli interessi sugli interessi indebitamente conteggiati ed incassati. Complessivamente una cifra enorme: 120.000 miliardi delle vecchie lire. Le banche, a questo punto, proprio come in una scena del «Padrino», fecero semplicemente sapere che «non avrebbero pagato». La Comunità Europea corse subito ai ripari e rimandò la questione alla Corte di Giustizia Europea, mettendo a disposizione delle banche italiane altri due gradi di giudizio. Eravamo nel novembre del 2004; da allora nessun correntista ha ricevuto un euro di risarcimento e dell'anatocismo non si è più parlato.
È dunque a queste organizzazioni fuori legge che il governo chiede aiuto nella lotta all'evasione fiscale.
E siamo solo ai primissimi provvedimenti. Si tratta ancora di questioni sicuramente di piccolo cabotaggio, ma sufficienti a indicare quali interessi si vogliono tutelare e a quali poteri si intende ubbidire.
Da Prodi non ci si poteva aspettare nulla di diverso: uomo della Goldman Sachs, lo abbiamo visto alla guida dell'IRI quando fu l'epoca dell'indegna svendita delle aziende di Stato, fu il privatizzatore delle banche pubbliche Credito Italiano e Banca Commerciale -, fu persino chiamato e pagato da George Soros per far parte di una speciale commissione internazionale di «esperti» costituita per organizzare la vendita delle aziende di Stato in Russia; una curiosità, che potrebbe anche essere eloquente: Prodi fu l'unico non ebreo dei sette componenti di quella commissione.
Ripetutamente lo si ritrova a lavorare nella direzione indicata dai poteri forti assieme agli altri privatizzatori doc: Amato, Draghi, Ciampi e compagnia. Diversi poi sono i nomi presenti nell' attuale governo che ci riconducono al mondo della finanza: Tommaso Padoa Schioppa (che è stato nella BCE, in Bankitalia, nel Comitato di Basilea e che è membro nel Gruppo dei Trenta e dell' Advisary Board dell' Institute for International Economics di Washington); Enrico Micheli (che è stato vice presidente della Banca di Roma) e Massimo Tononi (che è passato direttamente dalla Goldman Sachs al Ministero dell'Economia). A ben guardare si riscontrano anche curiose parentele: uno dei massimi facitori della nuova super-banca, San Paolo-Intesa, Pietro Modiano, è il marito del ministro Barbara Pollastrini, chiamata da Prodi a ricoprire un prestigioso incarico di governo nonostante non fosse riuscita a farsi eleggere né al Senato, né alla Camera.
Tutti uomini delle banche, amici o diretti dipendenti dei centri finanziari internazionali. Tutti ciurma del Britannia; quei pirati che si sono trovati nel mare di Civitavecchia il 2 giugno del 1992 ad organizzare il saccheggio delle proprietà del popolo italiano.
D'altronde il governo D'Alema, seguito al primo governo Prodi nel 1998, si distinse nell'essere ancor più filo-americano - in economia e in politica internazionale - dei governi di destra e di centro che lo avevano preceduto.
Fu proprio lui, un comunista entrato a Palazzo Chigi come presidente, a portare l'Italia in guerra, a fianco degli USA, contro un paese europeo -la Serbia contravvenendo, per la prima volta dal 1947, la Costituzione che all' art. 11 recita: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Fu lui ad autorizzare il decollo dei nostri bombardieri con destinazione Belgrado ancor prima che il dibattito su quell'intervento approdasse in Parlamento. Fu lui a consentire che gli aerei americani usassero come pattumiera per le bombe inutilizzate e altre «scorie» del genere i laghi e i mari italiani. E fu ancora lui ad americanizzare il mercato del lavoro nel nostro Paese, introducendo le assunzioni interinali, e a dare potenti colpi al già sconquassato Stato Sociale. Un compito che peraltro oggi Prodi ha già dimostrato di voler portare vigorosamente avanti.
Peraltro, proprio in queste settimane, a far da contrappeso ai sempre più diffusi dubbi sulle effettive responsabilità degli attentati dell' 11 settembre 2001, in Italia è sceso in campo, come avvocato difensore degli USA e dei mondialisti, con la sua rivista Diario, l'ex direttore di Lotta Continua, Enrico Deaglio.
Appare dunque sempre più chiaro come le attuali dirigenze «di sinistra» non abbiano più nulla a che fare con le istanze delle masse lavoratrici, né con la grande utopia marxista, né con la rivoluzione socialista, e ormai nemmeno con quello spirito genericamente solidaristico che sembrerebbe essere l'ultimo collante rimasto per aggregare consensi elettorali. Un falso mito che aiuta a non comprendere e non accettare quel che realmente avviene. Un mito - siccome l'autocritica è sempre virtù rara - che riesce ancora a far moda e forse esprime l'insopprimibile vocazione a rimanere nostalgicamente fedeli a un sogno giovanile, anche se ormai definitivamente evaporato.
Il cantautore Giorgio Gaber, uomo che scelse l'intelligenza e la libertà come pilastri della propria esistenza e della propria produzione artistica, anche quando scomodi e controproducenti per il successo professionale, in una delle ultime canzoni ha scritto:
«La mia generazione ha visto migliaia di ragazzi pronti a tutto che stavano cercando
magari con un po' di presunzione di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso».
In realtà, la sinistra in Italia è approdata al totale ribaltamento delle posizioni politiche, economiche e sociali che perseguiva all'inizio. Esattamente come quel certo neo-fascismo che, partito per rappresentare i valori e le proposte politiche dei combattenti della Repubblica Sociale, si è trovato ad abbracciare posizioni conservatrici, filo capitalistiche, filo americane, fino a recarsi ripetutamente aTei Aviv, col capo coperto di cenere... e di kippah, accattonando assurde legittimazioni e innaturali benedizioni.
Ma, pur non potendo in alcun modo giustificare involuzioni di tal genere, si possono almeno ricostruire le tappe storiche e le condizioni ambientali che hanno accompagnato percorsi così insensati e contraddittori.
I fascismi avevano perduto la guerra e conseguentemente il potere all'interno delle nazioni sconfitte; i loro migliori esponenti erano morti in battaglia o per mano partigiana. I sopravvissuti, sbandati, senza chiari punti di riferimento, hanno vissuto una diaspora durata decenni e costellata di pesanti difficoltà pratiche e forti disagi psicologici.
Il neo-fascismo, quello coerente ed autentico - che è andato via via discostando si da quello parlamentare, sempre più manifestamente disposto ad abiure, anche sostanziali, pur di garantirsi un maquillage democratico e una operatività elettorale - ha vissuto un lungo e difficile periodo di «ritorno alle origini»sviluppatosi soprattutto con metodi da autodidatta, agglomerazioni elitarie, collocazioni metapolitiche; testimonianze ideologiche e culturali di enorme importanza, ma sempre molto lontane dai mezzi di comunicazione. Non è mai riuscito insomma a raggiungere la pubblica opinione e, quindi, spazi di consenso popolare. Un patrimonio di analisi, valori e proposte tenuto eroicamente in vita e - consapevolmente o no - lanciato oltre le trincee del tempo, per incontrare quelle future generazioni che saranno chiamate a vivere l'epoca dell'ineluttabile, devastante crisi del sistema mondialista.
Per il comunismo e i variegati movimenti di sinistra invece le cose sono andate molto diversamente. La guerra loro l'hanno vinta e sono rimasti al potere indisturbati in tutte le nazioni già sovietizzate prima del conflitto e, in più, hanno avuto a disposizione tutta quell' enorme area che gli accordi di Yalta hanno condannato a sottostare al tallone dell'URSS.
Poi, dopo decenni di potere incontrastato, un bel giorno, all'improvviso, un gran botto e l'impero sovietico è imploso.
Non hanno avuto la giustificazione di una guerra persa, di una carestia, di una pestilenza, di un qualsiasi accidente estraneo alla propria responsabilità: hanno fatto tutto loro.
Le nazioni del blocco orientale si sono trasformate in nuovi mercati a disposizione del consumismo e della finanza internazionale; la gran madre di tutti i proletari del mondo evaporata, il paradiso comunista sparito, il muro di Berlino abbattuto; ed ora anche in Cina si respira aria di capitalismo.
D'improvviso un gran botto. E in tutto il mondo la gran massa di marxisti è rimasta col naso all'insù, in silenzio, lo sguardo attonito, stretto tra le mani l'ultimo brandello d'utopia, incapace di comprendere cause, significato e conseguenze di quel cataclisma.
E molti comunisti sono ancora così, nello stesso stato di stordimento e di inconsapevolezza. E sarebbe ora che qualcuno riuscisse a farli ragionare e spiegasse loro molte cose che sinora si sono rifiutati di capire o di accettare. Ad esempio la guerra fredda, che è stato un enorme bluff organizzato da USA ed URSS a danno di un'Europa spezzata in due; metà soggiogata dai cingoli dei carri armati sovietici e l'altra metà convinta che, senza la protezione atlantica, l'Armata Rossa avrebbe raggiunto Roma, Parigi e Madrid.
D'altronde, quella di far arrivare i sovietici al centro dell'Europa fu una precisa scelta politica anglo-americana fatta anche in contrasto con i comandi militari.
"Avremmo dovuto sbarcare nei Balcani. A quest'ora la Russia non sarebbe a Berlino».
Affermò il generale Mark W. Clark. Privilegiando l'obiettivo greco a quello italiano; sbarcando a Salonicco invece che in Sicilia e poi a Salerno e ad Anzio, a guerra finita, l'influenza sovietica non sarebbe arrivata in Jugoslavia e nelle altre nazioni balcaniche e sicuramente molte aree dell'Europa orientale sarebbero rimaste nella sfera occidentale. L'Armata Rossa si sarebbe dovuta fermare molto più ad Est.
I sovietici invece furono fatti arrivare sino al centro dell'Europa e, per consentire che la battaglia di Berlino fosse combattuta e vinta dai rossi, Patton fu trattenuto in Cecoslovacchia.
Da allora gli americani videro nel blocco sovietico più un complice da aiutare che un concorrente da combattere. Fuori dal chiasso della propaganda, gli USA hanno fatto di tutto perché in URSS la crisi economica non scoppiasse prima del dovuto. Le derrate di grano americano destinate ai porti sovietici non si fermarono neanche nei momenti più tesi della cosiddetta guerra fredda.
In effetti si è trattato di un teatrino organizzato ai nostri danni che gran parte della pubblica opinione, non solo di sinistra, ancora non è disposta a metabolizzare. L'autocritica, torniamo a ribadirlo, è sempre virtù rara. Una pantomima che ricorda quella organizzata da Totò in un film degli anni' 50. Facendo finta di litigare con un «compare», il comico convinceva un turista americano a comprare la Fontana di Trevi. Più che l'evidenza della finzione valeva l'abilità degli attori e il folclore della messinscena. Nella realtà, per cinquant'anni, i «compari» USA e URSS, grazie all'effetto psicologico prodotto dalla guerra fredda, la fregatura l'hanno affibbiata a noi europei. I sovietici oggi non esistono più, ma gli americani, nonostante i sessant' anni trascorsi, sono ancora qui con «armi e bagagli» e non mostrano nessuna intenzione di andarsene.
Giacché appare chiaro che il vincitore finale di tutti gli sconvolgimenti avvenuti nel mondo, dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, sia proprio quella concentrazione di poteri forti che chiamiamo mondialismo. Banche, grande finanza internazionale, i signori del denaro che, con il loro codazzo di camerieri sparso in tutto il mondo, hanno sotteso l'operare dell'Occidente e, più particolarmente, degli Stati Uniti d'America.
Questa constatazione risulta estremamente preziosa per offrire una nuova luce alla rilettura di quegli avvenimenti storici - bellici e post-bellici - che sinora ci erano stati presentati esclusivamente attraverso la lente deformante della propaganda dei vincitori. E l'apertura di sempre più numerosi archivi storici, e la maggiore disponibilità degli studiosi, grazie al lasso di tempo trascorso, a giudicare quel periodo con maggiore libertà, possono facilitare il compito di chi vuole affrontare questi argomenti con una certa obbiettività.
E molte questioni, sia pure con una gradualità a volte esasperante - causata dal fatto che la falsa informazione dei vincitori ha tutt' altro che smesso di circolare e risulta anzi potenziata dai sempre più sofisticati sistemi di comunicazione mediatica - cominciano a prender nuova forma, a mettersi a fuoco, e mostrano di somigliare sempre più a quella «verità» affermata da quella coraggiosa pattuglia di storici - i revisionisti - che hanno pagato, e pagano tutt' ora, il prezzo di pesanti persecuzioni personali per la loro scelta di libertà.
Nonostante rimangano ancora in vigore in molti paesi europei leggi speciali che pretendono di incanalare entro precisi paletti la ricerca storica e colpiscono penalmente chi invece ritiene la libertà di opinione e di espressione un inalienabile diritto dell'uomo, oggi, nonostante ciò, qualcosa di diverso si comincia a intravedere e qualcosa di più si riesce a comprendere.
È un po' come in una mattina autunnale, quando piano piano si dirada la nebbia e prima appare un panorama indefinito, ovattato, poi, con sempre maggiore chiarezza, si scorgono le linee che definiscono le figure e infine i dettagli. Solo a questo punto ci si rende conto che prima il panorama lo si era solo immaginato, fidandosi dell'interessato racconto di altri e, soprattutto, lavorando molto di fantasia.
Numerosi dubbi stanno emergendo sul fatto che sia stata proprio la Germania a volere uno scontro mondiale. Se, ad esempio, Ciano non avesse sbandierato ai quattro venti la decisione di Mussolini di non partecipare al conflitto, Gran Bretagna e Francia, il 3 settembre 1939, avrebbero presentato la dichiarazione di guerra alla Germania? Se fossero stati convinti che le forze dell' Asse, automaticamente - come stabilito nel Patto d'Acciaio - avrebbero fatto fronte comune, inglesi e francesi avrebbero mandato i propri soldati a come si diceva allora - «morire per Danzica» ?
E poi, a lasciare perplessi ci sono parecchie cifre e la corsa agli armamenti. La Germania disponeva di un quarto delle risorse - alimentari, energetiche e di materie prime - della Gran Bretagna, un quarto di quelle statunitensi, metà di quelle sovietiche.
Nel 1939 gli inglesi avevano 26 squadriglie aeree contro le cinque dell'anno precedente; una produzione di 3.000 aerei contro i 1.600 tedeschi destinata ad assegnare alla Gran Bretagna una superiorità in progressivo aumento; 15.000 aerei contro 7.000 nel '40 e 20.000 contro 8.000 nel '41. Gli effettivi di terra inglesi si incrementarono dal '39 al ' 40 dell' 80%, mentre quelli tedeschi solo del 25%. La leva obbligatoria è stata introdotta in Gran Bretagna nel 1939. Nello stesso periodo in Francia la leva è portata da un anno a diciotto mesi e poi a due anni.
Per ciò che riguarda il potenziale marittimo, la sproporzione risulta ancor più evidente e significativa: tra corazzate, portaerei, incrociatori e cacciatorpediniere, nel 1939 la Germania disponeva di 33 navi contro le 85 della Francia, le 270 dell'Inghilterra e le 270 degli USA.
Quando Hitler dette il via alla campagna contro l'Unione Sovietica, la Germania riuscì a mettere in campo 3.500 carri armati e 2.000 aerei. Ebbene, nel solo 1942, gli americani costruirono 45.000 carri armati e 60.000 aerei.
Tutta l'escalation bellicista messa in atto dagli Stati Uniti in direzione antitedesca ancor prima del '39 - nonostante fino a tutto il '41, si fossero ufficialmente dichiarati neutrali - sta a dimostrare quali fossero gli interessi che premevano verso un conflitto mondiale contro quell'Europa che si ostinava a proporre modelli socio-politici alternativi a quelli tipici delle demoplutocrazie e riconoscersi in valori di segno opposto a quelli già dominanti negli USA, del profitto e del consumismo.
Oggi che sul campo è rimasto un solo vincitore, è più agevole riconoscere il vero significato di quell'immane scontro: una scelta di campo, di valori, di concezioni della vita. Da una parte il denaro, la ricchezza, le banche, i battitori di moneta, dall'altra lo spirito più autentico dell'Europa, i contenuti delle sue millenarie civiltà e la libertà dei suoi popoli.
Lo avevano compreso con lucidità i capi dell'Italia e della Germania; lo avevano inteso numerosi esponenti delle emergenti classi dirigenti, come, per rimanere in Italia, i Giani, i Pallotta, i Ricci, i Mezzasoma, i Pavolini.
Lo aveva visto con estrema chiarezza, nella purezza della sua intuizione poetica, Ezra Pound:
«Contro natura
Ad Eleusi han portato puttane
Carogne crapulano
ospiti d'usura»
E da questa profonda consapevolezza derivò la sua netta scelta di campo che gli procurò pesantissime, inaudite conseguenze da parte dei nuovi barbari, delle «carogne» vittoriose. L'aver compreso e denunciato con passione e chiarezza ciò che non si doveva sapere gli costò assai caro.
Quello che molti ritengono sia stato il più grande poeta del XX secolo, fu rinchiuso in una gabbia di ferro nel campo di concentramento di Coltano, tra Pisa e Livorno, esposto al sole, al freddo, alla pioggia, di notte illuminato da fari accecanti; fu poi recluso per tredici anni negli USA, in un manicomio criminale, in una cella priva di finestre. In tutto il mondo continuavano ad essere pubblicate le sue opere e ad essergli conferiti premi letterari. La Corte Suprema statunitense fu bersagliata da ricorrenti appelli per la liberazione del poeta, provenienti sia dall'Europa che dalla stessa America, presentati dai più prestigiosi nomi del mondo culturale. L'ultimo aveva, tra i primi firmatari, Thomas S. Eliot, Robert Frost, Archibald MacLeish e Ernest Heminguay. Solo il 18 aprile del 1958 la Corte decise di dar fine a questo incancellabile crimine.
Grande lucidità dunque in Pound e profonda consapevolezza del suo periodo storico. Anche se i soldati che combattevano e i cittadini che vivevano quei tempi raramente, come spesso accade, avvertivano la portata globale e il significato autentico di quegli avvenimenti.
Anche se si cantava:
«Contro Giuda, contro l'oro
sarà il sangue a far la storia»
e ancora
«Europa insorgi! Sulle tue rovine
la Patria fonderemo proletaria,
Europa non sarai più tributaria
dell' oro, ma del popolo fedeli»
i combattenti della Repubblica Sociale mettevano in gioco la propria vita soprattutto per l'onore, la coerenza, la fedeltà a una bandiera. Il peso della finanza internazionale non lo avevano ancora conosciuto direttamente. L'America era ancora lontana.
Molti ufficiali tedeschi sopravvissuti, che ho avuto occasione d'incontrare, alle mie domande circa il significato della Seconda Guerra Mondiale hanno parlato della questione dei Sudeti, di Danzica, della lotta al bolscevismo.
Ma l'aggressione mortale lanciata dalle forze mondialiste incombeva, pur se talvolta inconsciamente, su tutti. Ne troviamo ricorrente traccia, oltre che negli inni, nei libri, nei giornali, nelle trasmissioni radiofoniche, negli studi universitari e nei manifesti di Gino Boccasile.
Oggi, dopo il crollo del muro di Berlino e l'implosione dell'impero sovietico, i dubbi su quale fosse stato l'autentico motore scatenante il secondo conflitto mondiale si sono moltiplicati.
Inoltre, anche se le forze dell' Asse erano impreparate a una guerra di così ampia portata, malgrado lo squilibrio delle risorse e dei mezzi, l'esito finale degli eventi risultò, quasi sino alla fine, estremamente incerto. Nonostante l'opera distruttrice dei bombardamenti anglo-americani - 2.615.000 tonnellate di esplosivo scaricate sulle città europee - non è sul piano della capacità di resistenza dei nostri popoli che la guerra si è persa.
Al contrario della potenza delle incursioni terroristiche operate dal cielo, le azioni di terra mostrarono nelle truppe anglo-americane goffaggine, scarso valore, tendenza all'insubordinazione. Ben diversamente dalla rappresentazione che ne è stata fatta dall'industria di Hollywood, gli «alleati» non hanno certo vinto per merito dei propri soldati. E la storia ha continuato a ripetersi anche nei decenni successivi: quando si è passati dai bombardamenti alle azioni di terra sono stati sempre guai: in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq.
Brucia ancora ai britannici la resa, a Singapore, di 138.000 loro soldati ai pochi contingenti nipponici del generale Yamashita nel febbraio del 1942. Churchill parlò, senza mezzi termini, di «scandalo militare». E che dire, pochi mesi dopo, dei 35.000 inglesi che si consegnarono, a Tobruk, nelle mani di Rommel ?
Ovviamente nessun film ha celebrato l'ammutinamento dei tremila soldati britannici che a Salerno si rifiutarono di proseguire la salita dell'Italia contro i tedeschi; riuniti sulla spiaggia, seduti sulla sabbia, presero a sassate gli ufficiali che volevano convincerli a rientrare nei ranghi.
Quando gli americani, all'alba del 22 gennaio 1944, approdarono ad Anzio, si trovarono di fronte uno schieramento di forze dell' Asse più debole del previsto; Kesselring, che aveva a disposizione sei divisioni e quattro battaglioni di fanteria, era convinto che lo sbarco sarebbe avvenuto a Livorno e aveva spostato il grosso verso Nord. La Repubblica Sociale si era costituita da poco più di tre mesi e in fatto di truppe addestrate non poteva certo dare un gran contributo.
I numeri sono quindi a favore degli americani in un rapporto di tre a uno e il potenziale di fuoco in un rapporto di dieci a uno. Ora, per percorrere la cinquantina di chilometri che conducono da Anzio a Roma la quinta Armata americana del generale Clark ci mise più di quattro mesi, subendo perdite quantificate in 52.130 uomini.
Nel dicembre del 1944 le divisioni tedesche, ormai costituite solo da ragazzi diciassettenni della Hitlerjugend, attaccarono gli americani sul fronte delle Ardenne. Si respirava già aria di «guerra finita» e non era nemmeno più il caso di parlare di rapporto di forze. Ebbene, 9.000 uomini della 106" Divisione statunitense si arresero in blocco e, in pochi giorni, tra gli americani si contarono 16.000 caduti e 100.000 tra prigionieri e disertori; in 25.000 si procurarono ferite per non proseguire il combattimento. E questi sono solo flash scattati a caso tra i mille analoghi che si potrebbero ricordare.
No, non si può certo affermare che l'esito della guerra fosse scontato grazie al valore degli eserciti anglo-americani. E nemmeno si può parlare di un divario scientifico e tecnologico svantaggioso per il nostro continente, giacché, nonostante la sproporzione dei mezzi, in Italia e Germania si correva molto più che in America. Si è saputo dopo quanto il tanto sbandierato progresso americano fosse solo il risultato del saccheggio di scienziati e tecnici perpetrato in Europa a fine guerra. Valga ricordare, tra tutti gli esempi, la conquista dello spazio e il ruolo di Wernher von Braun; il frenetico sviluppo delle telecomunicazioni e il ruolo avuto da Guglielmo Marconi e dalla nutrita schiera di fisici e ingegneri elettromagnetici che hanno operato in Italia nei primi decenni del XX secolo.
Non poteva ritenersi decisiva nemmeno la questione della bomba atomica. Innanzitutto perché le inutili carneficine di Hiroshima e Nagasaki furono effettuate a guerra finita - i giapponesi avevano chiesto già due volte di arrendersi e l'intendimento statunitense era stato solo quello di creare a proprio vantaggio un deterrente da sfruttare in tempo di pace. Poi perché la ricerca atomica anche questa - era nata in Europa e non in Texas.
Non era quindi ineluttabile che si arrivasse a realizzare quell' ordigno nel deserto americano anziché nel Terzo Reich. E, infine, perché gli stessi scienziati che sono considerati i padri della bomba, fino agli esperimenti pratici finali, eseguiti nel deserto di Alamogordo in New Mexico, ignoravano il potenziale di quella esplosione e le sue conseguenze; quindi la possibilità di un suo efficace impiego militare.
L'aneddoto che segue è in questo senso molto eloquente, oltre a rappresentare un preoccupante esempio dell'estremo cinismo americano ed anche della mentalità di un certo tipo di scienziati.
Fermi ed Oppenheimer, mentre si preparava la prima esplosione, fecero il giro di tutti i presenti raccogliendo un dollaro a testa per scommettere sull'esito dell'esperimento. Le opzioni erano: fallimento completo; un botto equivalente a una bomba di trecento tonnellate di tritolo; un'esplosione molto maggiore, pari a diverse migliaia di tonnellate; la distruzione totale del New Mexico; quella di tutti gli Stati Uniti d'America; l'incendio totale dell'atmosfera della terra.
No, nemmeno la questione atomica può puntellare il mito dell'ineluttabilità dell' esito finale.
Lo stesso Fermi, giunto negli Stati Uniti dall'Italia, era convinto che le forze dell' Asse avrebbero potuto vincere. Molti altri ebrei in fuga dall'Europa, arrivati in America, si ribellarono alla prassi di prender loro le impronte digitali: «se vinceranno i tedeschi» affermavano «useranno queste impronte per rintracciarci e ucciderci tutti». Erano dunque convinti che la sconfitta degli angloamericani fosse tutt'altro che un'ipotesi peregrina.
* * *
Diversamente da quanto affermato nel dopoguerra, Mussolini e Hitler ricevettero numerose e significative attestazioni di stima da parte degli uomini di cultura e degli statisti di allora.
Lenin e Trotzki se la presero con i socialisti italiani, rei di avere espulso quel Benito Mussolini che, secondo loro, era l'unico uomo capace di realizzare una rivoluzione in Europa. Il mondo della cultura riservò al dittatore italiano consensi entusiasti: da Ungaretti a Soffici, Prezzolini, Pirandello, Pareto, Papini, Mascagni, per non parlare di D'Annunzio e Marinetti. Ed anche all'estero, come nei casi di Le Corbusier, Stravinskij e George Bernard Shaw. Al Duce del fascismo giunsero giudizi lusinghieri da ogni parte del mondo, compresi i futuri nemici Chamberlain e Churchill. Il Mahatma Gandhi definì Mussolini un «superuomo». Un Papa, Pio XI, lo chiamò «uomo della Provvidenza» e un altro, Pio XII, «il più grande uomo da me conosciuto».
Anche il Fuehrer del nazionalsocialismo ricevette significativi apprezzamenti dagli statisti a lui contemporanei; basti ricordare il presidente americano Herbert Hoover e, in Gran Bretagna, il monarca Edoardo VIII e il primo ministro David Lloyd George.
A distanza di tempo si può affermare che tra i grandi estimatori di Hitler ci fu anche il suo acerrimo e, come vedremo, decisivo antagonista: il capo dell'Unione Sovietica, Josif Stalin.
Ben lontano dal giudicare il Flihrer un visionario o un pazzo, lo temette più di qualsiasi altro avversario e, a guerra finita, tardò molto a credere che fosse veramente morto. Ordinò numerose inchieste tendenti a verificare i particolari del suicidio e per due mesi non consentì agli anglo-americani di visitare il cortile della Cancelleria, a Berlino, dove, nei pressi dell'uscita del bunker, erano stati cremati i corpi di Hitler e di Eva Braun.
Il capo dell'Unione Sovietica era affascinato dalla personalità di quell'uomo, al punto di volerne conoscere anche i tratti meno noti. Stalin, a tal fine, fece arrestare i due uomini che più di tutti negli ultimi anni erano vissuti a strettissimo contatto con il capo del Terzo Reich: Heinz Linge e Otto Gunsche. Linge era stato al servizio di Hitler dal 1939, prima come attendente, poi come capo del personale di servizio. Gunsche era stato negli ultimi due anni aiutante personale del Fuehrer.
Furono chiusi ognuno in una cella d'isolamento, piena di cimici, senza la possibilità di vedere anima viva. Investigatori interrogavano, tutti i giorni, i due prigionieri usando spesso le stesse domande poste in ordine diverso per indurli a cadere in contraddizione e controllare la veridicità delle risposte con il metodo del riscontro incrociato. E poi, Linge e Gunsche dovevano ricordare tutto ciò che avevano affermato nella giornata, e metterlo per iscritto.
Il giorno dopo si ricominciava daccapo. Questo trattamento durò quattro anni, durante i quali i due testimoni furono anche riportati a Berlino per rispondere alle stesse domande nei posti degli avvenimenti; per indicare nuovamente, a distanza di tempo, il luogo dove avevano bruciato i cadaveri di Hitler e Eva Braun. Linge in seguito disse di essere giunto alla disperazione e di avere avuto paura di superare il confine che porta alla follia.
Furono liberati nel 1955 insieme agli ultimi prigionieri di guerra detenuti nell'Unione Sovietica.
A conclusione di queste puntigliose e interminabili indagini si ebbe un dossier ampio, dettagliato che, redatto in 413 pagine, fu consegnato a Stalin il 29 dicembre 1949. Il dittatore lo lesse e rilesse con attenzione e lo collocò nel suo studio personale. Ancora oggi è conservato nell' archivio del Presidente della Repubblica della Russia, dove non è accessibile ai ricercatori di altre nazioni.
Ma Nikita Chruscev ne aveva fatto fare una copia che fece collocare negli archivi del partito dove, confuso tra migliaia di altri documenti, è rimasto ignorato sino a poco tempo fa quando lo ha rintracciato lo storico Matthias Uhl. In Italia, tradotto da Andrea Casalegno, è stato pubblicato l'anno scorso dall'UTET.
Documento redatto con la evidente, condizionante preoccupazione di non risultare sgradito al committente - Stalin - si rivela ugualmente ricco di dettagli, sfumature, rivelazioni ambientali e personali, precisazioni sugli incontri dei vertici tedeschi, sulle decisioni strategiche, sul come fu vissuta la sconfitta, dalle prime avvisaglie alla tragica fine. Tutto materiale prezioso per chi svolge indagini storiche e vuole continuare a farlo all'insegna della libertà di ricerca, di opinione e di espressione.
* * *
Se non furono l'efficienza, le qualità e lo spirito degli eserciti anglo-americani a segnare la differenza e determinare l'esito del conflitto, sarà opportuno focalizzare il dove e il quando gli avvenimenti presero una direzione opposta a quella dell'inizio della guerra, che era stata decisamente favorevole alle forze dell' Asse.
Qual è stato il fronte nel quale le armate del Reich sono state fermate e le previsioni di Hitler contraddette dai fatti? È ad Est che bisogna guardare, agli esiti dell'Operazione Barbarossa e, quindi, all' Armata Rossa.
Ma l'esercito sovietico non era certo più valoroso, o meglio addestrato di quelli anglo-americani. Anzi, le testimonianze e le ricerche storiche sinora effettuate ci descrivono una massa di impreparati, di incapaci, di disperati più votati alla morte che al combattimento. Nel luglio 1941 il capo di stato maggiore Franz Halder scrisse: «I sovietici fanno avanzare i loro uomini in contrattacco, senza il minimo appoggio di artiglieria, anche in dodici ondate una dopo l'altra. Spesso sono reclute inesperte che si prendono fra loro sottobraccio e, con i moschetti ancora a tracolla, caricano le nostre mitragliatrici, spinti dal terrore dei commissari politici e dei loro ufficiali. La superiorità numerica è sempre stata la forza dell'URSS, e adesso il comando sovietico ci sta costringendo a massacrare quei poveracci che nulla fanno per evitare la morte».
Le cifre che, col passare degli anni e con l'accesso agli archivi, divengono sempre più precise, ci indicano un rapporto di caduti in battaglia impressionante: 8-10 soldati sovietici per ogni tedesco.
Quando la XX Armata del generale Andrej Vlassov viene bloccata ad ovest del Volchov, cominciano a scarseggiare viveri e rifornimenti. Succede di tutto; i soldati dimostrano di non possedere nessuna capacità di tenuta e, in breve, dilagano casi di cannibalismo, suicidi, diserzioni; a gruppi gettano le armi e si arrendono ai tedeschi. Lo stesso Vlassov, rimasto isolato, si nasconde in una fattoria, ma il contadino si affretta a denunziarne la presenza ai tedeschi; vestito di cenci, con voce flebile e sguardo terrorizzato, il generale è condotto di fronte al comandante della XVIII Armata tedesca, generale Lindemann.
E tutto ciò non avvenne solo per merito dei soldati tedeschi; anche in Finlandia si era verificata la stessa cosa: il rapporto dei morti tra sovietici e finlandesi è anche qui di 8 a 1. La prima campagna contro quella piccola nazione - novembre 1939, marzo 1940 - costò alla Russia, secondo le varie fonti, da 400.000 a un milione di uomini. La cifra più alta è quella fornita da Nikita Chruscev nelle sue memorie.
I soldati dell'esercito sovietico scappavano, venivano colpiti e cadevano come mosche; le Armate si disperdevano, si dissolvevano, eppure i tedeschi ne incontravano sempre di nuove, altre masse di soldati a sbarrar loro la strada. Nelle memorie di un ufficiale tedesco impiegato a nord di Mosca si legge: «L'offensiva nemica che avanzava sulla neve era formata da successive ondate di immensi reparti. Le nostre mitragliatrici sparavano senza sosta, al punto che non riuscivamo neppure a udire le nostre stesse voci. Davanti a noi, sulla neve, si stendeva uno scuro e macabro tappeto di morti e di moribondi, ma quelle masse di umanità continuavano ad avanzare, sempre più vicine, come se fossero inesauribili. Gli ultimi sovietici cadevano sotto i colpi delle nostre mitragliatrici solo quando erano a portata delle bombe a mano. Ma subito dopo, mentre i nostri mitraglieri cercavano di riprendere fiato, ecco in distanza qualcosa che si muoveva, una spessa linea scura sull'orizzonte. E tutto ricominciava» .
Il generale Ferdinand Schorner, comandante del Gruppo Armate Nord scrisse a Hitler: «I bolscevichi diventano più inetti giorno dopo giorno. I prigionieri catturati recentemente vanno dai ragazzi di quattordici anni ai vecchi. E la cosa più sbalorditiva è continuare a vedere avanzare queste animalesche orde di esseri umani».
Durante lo scontro tedesco-sovietico i russi ebbero perdite medie che si aggirano sui 25.000 uomini al giorno. In totale ne morirono undici milioni. Trenta milioni furono i feriti, i congelati e i mutilati: di questi, diciassette milioni furono rimessi in servizio e rimandati al fronte.
L'Armata Rossa fu distrutta cinque volte, e cinque volte ricostituita. Alla fine i sovietici mobilitati risultarono circa trentacinque milioni. Quando cominciò a scarseggiare l'elemento umano i soldati furono rimpiazzati con i feriti, con le donne, con le reclute asiatiche prive di ogni addestramento o qualità militari.
Ad ogni battaglia vinta cresceva l'ottimismo tra i vertici tedeschi. Scriveva Goebbels nel marzo 1943: «/ russi stanno già chiamando alle armi le classi 1926, il che prova che hanno subito perdite gravissime nel loro materiale umano» .
Ma poi, puntualmente, la doccia fredda: «Le divisioni sono sempre lì: ne distruggiamo una dozzina, ne compaiono altre dodici nuove» scrive nel suo diario di guerra il maggiore generale Franz Halder. L'Armata Rossa è come l'Idra dalle mille teste, più ne tagliano più ne ricrescono. «Abbiamo cominciato la guerra affrontando 200 divisioni nemiche, siamo già a 360».
Il 2 agosto 1942 il capo dell'Est dei servizi segreti dell'esercito tedesco, colonnello Gehlen, fece sapere che nel solo mese di luglio Stalin aveva messo in campo 54 nuove divisioni di fanteria e 56 nuove divisioni corazzate.
Anche in Hitler lo stupore cresceva col passare dei mesi: «Dove prendono questa forza i russi? Secondo i miei calcoli dovrebbero essere senza fiato da un pezzo. Non lo capisco», affermò nel febbraio del 1943. Ciò nonostante era a conoscenza delle perdite sovietiche - in un documento nemico intercettato si quantificavano in 11.200.000 tra morti, dispersi e feriti - e la logica lo induceva a credere che questo ricreare armate che puntualmente venivano distrutte, prima o poi dovesse finire. «Non dobbiamo pensare che questo esercito sovietico sia una specie di gigante medioevale che diventa più forte ogni volta che cade a terra. Un giorno anche la sua forza finirà».
Ma, alla mancanza di qualità, addestramento, eroismo, faceva da contrappeso il terrore che Stalin incuteva e che, attraverso la fitta rete di commissari politici, teneva vivo e costante in ogni settore della vita civile e presso ogni reparto dell' Armata Rossa. Un terrore presente anche a livello di vertice. L'assistente militare di Churchill, generale Ismay, che si recò a Mosca nel 1941, riferì che «quando Stalin entrava nella stanza tutti i russi si irrigidivano in silenzio e lo sguardo di belve braccate negli occhi dei generali dimostrava fin troppo chiaramente il terrore costante in cui vivevano. Era una cosa nauseante vedere degli uomini valorosi ridotti in un tale stato di asservimento».
Per i soldati, l'essersi arresi ai tedeschi voleva dire automaticamente esser segnati sul libro nero. I reduci dai campi di prigionia erano sospettati di tradimento: alcuni venivano rimandati al fronte nei Strafnoi batal' on, i battaglioni di punizione dell' Armata Rossa cui erano affidate le missioni suicide; il grosso finì fucilato, altri furono mandati nei Gulag. Chi sopravvisse a quell' inferno fu liberato solo dopo la morte di Stalin.
Accusati di non aver svolto attività partigiane durante l'occupazione tedesca, furono falcidiate intere popolazioni di caucasici, uzbeki, bielorussi, baltici, estoni, lituani, russi e ucraini. Questi ultimi, già nel biennio 1932-33, avevano subito dai bolscevichi un genocidio di sette milioni di persone e la deportazione in campo di concentramento di altri due milioni.
Il numero delle vittime delle purghe staliniane raggiunse cifre da capogiro; molte ricerche storiche sono arrivate a contarne fino a trenta milioni. Durante la conferenza di Yalta, Stalin si vantò con Churchill di aver fatto uccidere, solo tra i contadini, oltre dieci milioni di esseri umani.
Per terrorizzare le popolazioni coinvolte direttamente nella guerra, Stalin nell'àmbito della politica della terra bruciata - escogitò anche uno stratagemma di rara ferocia: costituì dei gruppi speciali che, travestiti da tedeschi, andavano a mettere a ferro e fuoco paesi vicini al fronte; le popolazioni venivano trucidate; si lasciava in vita solo qualche individuo perché facesse da testimone e propagandasse l'odio per il tedesco occupante.
Questo ordine di Stalin, sinora poco noto, che pubblichiamo integralmente nella pagina accanto, è stato rintracciato nell'archivio nazionale di Washington.
I civili poi, in generale, pagarono il clima bellico con privazioni di ogni tipo. Vi furono in molte zone casi di cannibalismo; particolarmente si ricordano quelli di Leningrado, durante l'assedio. Nel mercato di Kujbysev si vendeva carne umana, facendola passare per carne di maiale macinata.
Tra morti in guerra, morti per fame, vittime delle purghe staliniane, le conseguenze per il popolo russo furono devastanti. Circa 38 milioni è stata la sottrazione demografica accorsa alle nazioni dell'URSS, una cifra pari a quella dell'intera popolazione francese all'epoca di Napoleone III ed equivalente al 22% della popolazione sovietica del 1940.
Nei conteggi degli storici spesso si è arrivati anche a cifre più elevate. Franco Bandini, nel suo ultimo libro - pubblicato postumo nel 2005 - probabilmente grazie alla possibilità che ebbe di attingere a dati più completi e aggiornati, arriva a scrivere di un «buco reale di circa 60 milioni di russi».
La decimazione fu ovviamente, a netta prevalenza, maschile. Tra i russi, a guerra finita, si ebbe un disavanzo tra donne e uomini come non si è avuto, nella storia recente, in nessun popolo. Nel 1959 si registrava ancora un esubero di 21 milioni di donne rispetto al numero degli uomini. E questo procurò non poche conseguenze: dall'importazione di popolazioni maschili dell'Est al ripetuto tentativo di legalizzare la bigamia. Per molti aspetti la femminizzazione della popolazione russa si è cronicizzata e ha provocato profonde mutazioni nel costume e nella morale popolare.
Lo scrittore Fedor Abramov pubblicò nel 1968 un racconto nel quale riferì,piuttosto fedelmente, la storia di un villaggio del nord della Russia, lungo il fiume Pinega. Una storia simile a quella degli innumerevoli altri villaggi sparsi a nord, est e ovest di Mosca.
Durante la guerra la campagna si svuotò di uomini, dato che l'Armata Rossa era costituita soprattutto di contadini, e la mano d'opera fu sostituita con quella delle donne, dei vecchi, degli adolescenti e dei bambini. Vivere in quel posto divenne molto duro. Si mangiava di meno, ci si ammalava più spesso, sovente si moriva. La speranza era quella che, a guerra finita, le cose potessero tornare come prima. Ebbene, da quel villaggio erano partiti un centinaio di uomini: ne tornarono tre; uno mutilato, uno debilitato da una lunga prigionia e solo uno in salute.
* * *
Nelle memorie del maresciallo dell'Unione Sovietica V. D. Sokolovskij, il capitolo dedicato alla conquista della capitale del Terzo Reich comincia così: «Vincendo la tenace resistenza delle truppe tedesche, il primo fronte bielorusso avanzava verso Berlino».
Sino alla fine, dunque, la caratteristica dello scontro russo-tedesco rimane immutata. Un dispiegamento di uomini e mezzi impressionante contro un numero di soldati molto inferiore, ma ben addestrati, valorosi e determinati. Anche quando, giunti al ripiegamento totale, con scarsità di mezzi e senza più prospettive di vittoria, le potenzialità dell'esercito tedesco avrebbero dovuto essere ancor più ridotte.
Contro Berlino i sovietici si muovono con 20 armate, 150 divisioni 2.500.000 uomini (le fonti sovietiche riportano addirittura la cifra di 3.500.000) - più di 50 mila cannoni e mortai, 8.000 carri armati e pezzi d'artiglieria semoventi corredati di 7 milioni di granate, oltre 4 armate aeree: 8.400 apparecchi.
Berlino, città martoriata di giorno e di notte dai bombardamenti aerei - il centro era distrutto dal 50 al 75% - era irriconoscibile; molte strade erano sparite. Ci si muoveva lungo stretti camminamenti ricavati tra le montagne di macerie. Delle case rimanevano spezzoni, scheletri di muri sinistramente illuminati dagli incendi che divampavano senza sosta. Una colonna di fumo, densa, scura, enorme, si ergeva sopra la città, ondeggiando come un lugubre drappo visibile ad oltre cento chilometri di distanza.
Berlino era difesa da 300.000 uomini di cui solo 90.000 all'interno della città. Molti di costoro erano ultrasettantenni o giovani tra i 12 e i 15 anni. La popolazione si era ridotta a 2.700.000 abitanti, di cui 2.000.000 donne.
Nonostante tutto, incredibilmente, era ancora una città viva: funzionavano i mezzi pubblici, la metropolitana, la posta, la nettezza urbana, erano aperti cinema, teatri e ristoranti. I giornali uscivano, il 65% delle imprese funzionavano e 600.000 berlinesi andavano al lavoro ogni mattina. Nelle officine di Spandau uno dei dodici quartieri di Berlino - si fabbricavano a pieno ritmo granate e munizioni. La Siemens di Siemensstadt continuava a produrre materiale elettrico; nelle fabbriche di Marienfelde, da Weissensee ed Erkner uscivano ancora grandi quantità di cuscinetti a sfere e macchine utensili; la Rheinmetall-Borsig di Tegel fabbricava bocche da fuoco e affusti di cannone; carri armati, autocarri e semoventi uscivano dalle catene di montaggio di Alkett e Ruhleben.
Il 16 aprile 1945 si scatenò l'offensiva finale. Il generale Konev spingeva da sud; il generale Zukov da nord-est: come un «leone inferocito» - così lo definì il generale Popiel- urlò agli ufficiali e a quei soldati che gli stavano più vicino: «Prendete Berlino!».
Ma, nonostante la macroscopica differenza di mezzi, di uomini e di munizioni, l'avanzata dei russi stenta a procedere. Ci vogliono due interi giorni d'inferno, d'ininterrotta pioggia di granate e proiettili, di fiumi di fuoco, per riuscire a forare le prime due linee di resistenza tedesca fuori Berlino.
«Siamo bloccati!» esclamò il generale Ivan Yushchuk al colonnello generale Mikhail Katukov, comandante della prima armata corazzata che, rivolto ai propri ufficiali si sfogò: «Questi diavoli di hitleriani! Non ho mai visto una resistenza simile in tutta la guerra».
Lo storico sovietico A. Jerusalimskij nel suo diario di guerra, il 26 aprile, dopo dieci giorni di offensiva, scrisse: «Le truppe tedesche continuano a resistere furiosamente».
Goebbels, nel suo ultimo messaggio ai berlinesi e ai soldati posti alla difesa della capitale, trasmesso attraverso l'organo ufficiale del partito - Volkischer Beobachter - incitava: «Stringete i denti! Combattete come diavoli! Non cedete un palmo di terreno! L'ora decisiva esige l'ultimo e più grande sforzo!».
I tedeschi ubbidirono. Nonostante la guerra fosse palesemente arrivata a conclusione, nonostante la vita nelle ultime settimane si fosse svolta all'insegna delle più pesanti privazioni, nonostante la distruzione delle case, nonostante lo sconforto, i tedeschi ubbidirono.
Il rapporto di perdite sovietiche per ogni combattente germanico caduto a Berlino fu ancor più pesante di quello riscontrato nel corso dell'Operazione Barbarossa.
I difensori della capitale - molti i volontari giunti da tutta Europa - prendono velocemente dimestichezza con i lanciarazzi controcarro Panzer-faust; i carri armati che tentano di affacciarsi sulla Kurfurstendamm sono colpiti e vanno in mille pezzi. L'Alexanderplatz per diversi giorni continua ad essere imprendibile. Ad Hallensee cinque carri T-34 vengono distrutti da ragazzi in pantaloni corti, che poi vanno al contrattacco riconquistando il quartiere, casa dopo casa, piano dopo piano, stanza dopo stanza.
Ovunque ci sono focolai di resistenza. Lo Hochbunker, la torre di difesa antiaerea dello Zoo, rimane inespugnabile sino alla fine. Un soldato che vi si era rifugiato poi riferì: «Avevo tre anni di fronte sul groppone, tuttavia rimasi terrorizzato dal rimbombo dei pezzi da 88 nella cassa di risonanza del cemento armato. I civili invece non battevano ciglio».
Due milioni e mezzo, e forse più, di uomini armati fino ai denti, per entrare in una città distrutta e difesa da 90.000 combattenti: furono obbligati a procedere passo passo e impiegarono due lunghe settimane. La bandiera rossa fu issata sul Reichstag solo la notte del 10 maggio. Hitler si uccise nel bunker della Cancelleria il 30 aprile. Ciò nonostante, i berlinesi continuarono a combattere per altri due giorni.
Diverse città resisterono ancora più a lungo. I russi riuscirono a entrare a Breslavia solo il 6 maggio, lasciando sul terreno, tra morti e feriti, 60.000 loro soldati.
L'Armata Rossa pagò per l'operazione Berlino un prezzo enorme. Le truppe che entrarono nella capitale tedesca avevano lasciato alle proprie spalle perdite che sono state complessivamente quantificate nella cifra di 304.887 uomini.
Il maresciallo Zukov aveva aizzato i propri uomini a scatenare ogni istinto violento: «Soldato sovietico vendicati! Comportati in modo tale che non soltanto i tedeschi di oggi, ma i loro lontani discendenti tremino ricordandosi di te. Tutto ciò che appartiene al sottouomo germanico è tuo. Soldato sovietico, chiudi il tuo cuore a ogni pietà».
E i rossi si scatenarono: solo dentro Berlino 100.000 donne furono violentate; 10.000 fino alla morte. I berlinesi furono aggrediti, derubati, uccisi; 6.400 sono risultati i suicidi per disperazione.
A guerra finita, quando le popolazioni non ebbero più uomini in armi a difenderle, i popoli vinti subirono massacri e violenze senza precedenti.
Tre milioni furono i morti, prevalentemente donne, vecchi e bambini - il triplo di quelli che erano stati uccisi dai bombardamenti anglo-americani - nelle popolazioni costrette all'esodo dalle regioni orientali dopo l'8 maggio 1945. Un esodo di 16.500.000 tedeschi; una cifra equivalente a quella degli abitanti di Norvegia, Svezia e Finlandia messi assieme.
La sorte dei soldati tedeschi sopravvissuti alla guerra non fu migliore. In 3.242.000 morirono nei campi di concentramento; due milioni in quelli sovietici, un milione in quelli americani, 242.000 in quelli francesi, jugoslavi, polacchi e cechi.
Otto milioni di persone abbandonarono le loro case in Prussia, Pomeriana e Slesia per fuggire dall' Armata Rossa e rifugiarsi nei territori occupati dalle truppe anglo-americane.
Il terrore suscitato nelle popolazioni civili dai soldati sovietici era ben motivato. Ovunque erano passati avevano lasciato il segno: devastazioni, fucilazioni in massa e, sempre, stupri di ogni tipo. Complessivamente due milioni di donne tedesche furono violentate, di cui più della metà in gruppo. Un dirigente sovietico si vantò che in Germania, a guerra finita, erano nati quasi due milioni di bambini figli degli stupratori.
Esistono innumerevoli raccapriccianti testimonianze: un' amica di Ursula von Kardorff, la spia sovietica Schulze-Boysen, «venne violentata da 23 soldati», uno dopo l'altro, e all'ospedale dovettero applicarle punti di sutura.
«l nostri ragazzi erano così affamati di sesso che spesso violentarono donne di sessanta, settanta e addirittura di ottant'anni».
«Sembrava che i soldati sovietici avessero bisogno di farsi coraggio con l'alcool per aggredire una donna. Ma poi, fin troppo spesso, eccedevano nel bere e, nell 'incapacità di raggiungere l'orgasmo si servivano della bottiglia, con risultati spaventosi. Numerose vittime venivano mutilate in modo osceno».
«I soldati dell'Armata Rossa non credono ai legami individuali con le donne tedesche» scrisse il giornalista Zachar Agranenko nel suo diario «nove, dieci, dodici uomini alla volta, le violentano su base collettiva».
A Dahlem, suor Kunigunde, madre superiora di una clinica per la maternità e di un orfanotrofio, riferì che «all'arrivo dei sovietici, suore, ragazze, vecchie, donne incinte e madri che avevano appena partorito furono tutte violentate senza pietà». Ma c'era anche chi non si accontentava di «pescare nel mucchio», come era avvenuto nella Prussia orientale: i soldati dell' Armata Rossa si aggirarono a lungo nei rifugi di Berlino, armati di torce elettriche, per scegliere le loro prede.
Il corrispondente di guerra Vasilij Grossman riportò che: «l'orrore domina negli occhi delle donne e delle ragazze. Cose terribili stanno succedendo alle donne tedesche. Un tedesco istruito spiega con gesti espressivi e poche parole di russo che sua moglie quel giorno è stata violentata da dieci uomini [...] anche le ragazze sovietiche che sono state liberate dai campi soffrono molto. La scorsa notte alcune si sono nascoste nella stanza assegnata ai corrispondenti di guerra. Nella notte siamo stati ridestati da forti urla. Uno dei corrispondenti non aveva saputo trattenersi». E ancora: «una giovane madre tedesca veniva violentata di continuo in un capannone di una fattoria. I parenti andarono al capannone e chiesero ai soldati di lasciarle il tempo di allattare il bambino, perché non smetteva di piangere. Tutto questo succedeva nelle vicinanze di un comando e sotto gli occhi degli ufficiali».
E, dunque, non solo le tedesche furono vittime della brutalità dell' esercito di Stalin: in Polonia i soldati sovietici violentarono, dopo averle «liberate» dai campi di lavoro tedeschi, donne e ragazze ucraine, russe e bielorusse, anche di 16, 15 e 14 anni. La testimonianza di una di loro, tal Maria Sapoval: «Ho atteso per giorni e notti l'Armata Rossa. Ho atteso la mia liberazione e ora i nostri soldati ci trattano peggio di quanto facessero i tedeschi. Non sono contenta di essere viva». Lasciò scritto Klaudia Malascenko: «È stato molto duro stare sotto i tedeschi, ma ora qui non c'è felicità. Questa non è una liberazione. Ci trattano in modo terribile. Ci fanno cose terribili».
Milovan Djilas, che era stato il capo della missione militare jugoslava a Mosca, in una sua famosa intervista a Stalin si lamentò per gli stupri e le atrocità commesse dai soldati dell' Armata Rossa nei Balcani. Il dittatore rispose: «Lei non riesce a capire che un soldato che ha fatto migliaia di chilometri fra il sangue e il fuoco possa divertirsi con una donna o fare qualche altra sciocchezza?» .
Peraltro, barbarie di questo tipo non furono appannaggio esclusivo delle armate sovietiche. Soldati americani dal 1942 al 1945 si dilettarono in questo «sport» oltre che in Germania, in Giappone, in Francia e addirittura nel territorio della loro alleata Inghilterra.
Ovviamente le indagini storiche su questi avvenimenti sono state sabotate in ogni modo, quindi i dati numerici che si possono documentare sono solo parziali e limitati ai casi nei quali le vittime si sono rivolte ad autorità di polizia, per denunciare l'accaduto, o sono state ricoverate in ospedali per ricevere le cure necessarie. Ebbene, in Occidente, si arriva già alla considerevole cifra di 17.080 casi di stupri, tra singoli e di gruppo, di cui 11.040 in Germania, 3.620 in Francia e 2.420 in Gran Bretagna.
Peraltro noi, nell'Italia del centro-sud, fummo vittime delle barbare azioni delle truppe marocchine al seguito dell'esercito francese.
Anche qui le autorità militari occupanti hanno impedito ogni accertamento e ogni precisa quantificazione. Ciò nonostante recenti studi storici sono riusciti a mettere a fuoco molti di questi avvenimenti, offrendocene un triste resoconto. Ci riferisce Tommaso Baris nel suo recente «Tra due fuochi»: «Per circa due settimane, dal 15 maggio all'inizio di giugno, le truppe francesi si abbandonarono a una serie impressionante di saccheggi, omicidi e stupri in tutti i paesi conquistati, soprattutto contro gruppi ristretti di persone o individui isolati, finché non fu ordinato loro di arrestare la marcia a Val Montone».
Una nota del 25 giugno del 1944 del Comando generale dell' Arma dei carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio segnalava nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno), 418 violenze sessuali, di cui tre su uomini, 29 omicidi, 517 furti compiuti da soldati marocchini, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzando le. Numerosissime donne, ragazze e bambine [...] vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate ed incendiate.»
Ad Esperia, altro paese del centro Italia teatro delle scorribande di quella soldataglia, ci riferisce ancora Baris: «furono violentati anche gli uomini, lo stesso parroco e molte donne anziane». Il medico condotto del paese riferì di oltre 700 casi di stupro.
Migliaia e migliaia furono le donne «marocchinate» in Italia. Fecero il giro del mondo la canzone napoletana che raccontava la nascita di Ciro, un bambino «niru, niru» e il film di Vittorio De Sica, con Sofia Loren, «La Ciociara».
Ovunque, insomma, queste nazioni di «liberatori», i cui rappresentanti a Norimberga non esitarono a sedersi sul banco dei giudici, si macchiarono di ignominia e barbarie.
* * *
In conclusione, è legittimo porsi una domanda: se all'inizio degli anni Quaranta, al posto del regime sovietico in Russia ci fosse stato qualcos' altro, un sistema politico più morbido, tollerante e pluralista; se al posto di Stalin ci fosse stato un normale presidente della repubblica o un monarca, o anche un dittatore, ma con meno «pelo sullo stomaco», non disposto cioè a mandare al macello a cuor leggero milioni di soldati e a fucilarne altrettanti, per essere sicuro di essere ubbidito, le cose come sarebbero andate a finire?
E, senza Stalin e i suoi sistemi, se l'Operazione Barbarossa non fosse stata fermata, i combattimenti nei vari fronti - a nord, in Africa, nei Balcani - che piega avrebbero preso, e quale sarebbe stato l'atteggiamento degli Stati Uniti; quale il loro impegno militare, quale la loro partecipazione nei vari teatri di guerra?
Insomma, la Seconda Guerra Mondiale come sarebbe finita? Con una pace contrattata, o addirittura con il prevalere delle forze dell' Asse?
Sicuramente si sarebbe giunti ad un assetto internazionale profondamente diverso da quello stabilito a Yalta e il ruolo dell'alta finanza e dei centri di potere mondialisti che la sottendono oggi non sarebbe quello di dominio planetario. Perché, dopo 60 anni, il volto del vincitore finale di tutti gli scontri del XX secolo si è svelato senza possibili equivoci: è proprio quello del mondialismo usurario. Un potere che va al di là del proprio attuale santuario, gli Stati Uniti d'America, giacché quando questo non fosse più funzionale ai propri disegni di prevaricazione globale - se ne è già avuta qualche piccola avvisaglia - non esiterebbe ad abbandonarlo per far vela verso lidi più propizi.
Il dollaro potrebbe essere sostituito da altra moneta o da una nuova forma di moneta; l' «onore» di svolgere la funzione di braccio armato del mondialismo potrebbe toccare a un'altra nazione o ad una nuova formula di esercito, espressione di coalizioni controllate da un potere internazionale.
Ha vinto il mondialismo. Ad opporsi a questo potere globale è rimasto qualche paese arabo, quelli che ci vengono presentati come «canaglie» e verso i quali USA e Sionisti continuano ad aizzare tutte le altre nazioni; qualche paese latino-americano reso inoffensivo dalla costante minaccia di un colpo di stato organizzato dalla CIA o di uno sbarco di marines; qualche piccolo paese asiatico che si illude di disporre ancora di una impunità derivatagli da importanti protezioni internazionali; ma anche la Cina, ormai, ha dimostrato di essere disponibile a diventare mercato consumistico e terra per capitalisti e speculatori finanziari.
Ha vinto il mondialismo; a questo quindi sono serviti i milioni di morti europei, la distruzione delle nostre città, le persecuzioni, la perdita di sovranità delle nostre nazioni. A questo è servita la carneficina di 38 - o 60? - milioni di sovietici ordinata da Stalin, giacché l'URSS oggi non c'è più ed è ragionevole ritenere che senza questo immane massacro l'esito della Seconda Guerra Mondiale e tutta la storia successiva sarebbero stati molto differenti.
L'esercito dell' Asse è stato battuto da quel poderoso muro di gomma che ha fermato l'Operazione Barbarossa. Un muro fatto di un numero infinito di corpi umani, di disperazione e di terrore; un muro che poteva essere realizzato solo da un regime come quello comunista e da un dittatore sanguinario come Josif Stalin.
Anche se può apparire paradossale, quindi, l'apporto determinante al dominio mondiale del capitalismo e dell'usurocrazia è stato fornito proprio da quelle masse che si erano poste dietro le bandiere rosse in nome di una rivoluzione proletaria, socialista e anticapitalista e dai regimi che erano sorti grazie alla loro spinta.
I giganti della finanza internazionale, i paperoni che decidono il destino di interi popoli spostando moneta virtuale, o creandone dal nulla quantità incontrollate, gli intoccabili nuovi padroni del mondo poggiano i loro piedi sui liquami sanguino lenti lasciati dallo stalinismo così come dagli stermini operati da tutti i loro eserciti e da tutti i loro bombardieri.
Un fiume di sangue che non si è più fermato: che ha riempito le città dell'America latina e le foreste dell'lndocina, le savane africane, e poi la Palestina, il Libano, i Balcani, l'Afghanistan, l'Iraq; ovunque ci fosse un anelito di libertà da reprimere.
Sfoggiando un' ineffabile ipocrisia, la fantasiosa propaganda mondialista continua incessantemente, nonostante siano passati oltre sei decenni, a presentare i vinti come il «male assoluto», il demone, l'origine di ogni sopruso e sopraffazione. Il resto - cioè le violenze perpetrate dal variopinto mondo dei vincitori - deve essere metabolizzato.
Si può cioè condannare Stalin, ma deve essere accettato per «buono» il giudizio da dare sull'assetto del mondo che è derivato dalla collaborazione con quel dittatore. Si può condannare Mao Tzetung - è proprio di queste settimane un serrato dibattito negli ambienti di sinistra su questi giudizi - ma la Cina dove si è appena recato Romano Prodi con il suo codazzo di speculatori e di capitalisti in cerca di affari e di favori, è il risultato storico della costruzione del «Grande Timoniere». Senza la sanguinosa repressione di piazza Tien An Men la Cina di oggi sarebbe un mondo assolutamente diverso. E, in ogni caso, in quella parte del mondo, i metodi repressivi non sono per nulla cambiati.
* * *
Nel 1937, mentre in Germania si nazionalizzava la Banca centrale e lo Stato, a nome del popolo, riacquistava la proprietà della moneta, nell'URSS, patria della rivoluzione proletaria, socialista e anticapitalista, la Gosbank, l'istituto di emissione sovietico, veniva privatizzata.
Tra i massimi realizzatori di questa - in verità ben poco propagandata riforma ci fu l'ebreo Armand Hammer - originariamente Heimann - nato in Russia nel 1898, ma cresciuto negli Stati Uniti dove il padre Julius si era trasferito e aveva fondato il Partito Comunista americano. Il nonno, un ricco costruttore di navi di Odessa, era noto per vantarsi di essere un diretto discendente dei Maccabei.
Armand Hammer entrò nel mondo degli affari grazie all'amicizia con Mortimer Schiff, figlio di Jacob Schiff, socio della Banca d'Affari Kuhn & Loeb (che oggi si chiama Shearson Lehman) e ritornò in Russia recando come cadeau per Lenin, un ingente quantitativo di grano. In seguito accumulò una fortuna grazie al contrabbando di alcool durante il Proibizionismo americano.
Divenuto per tutti il «miliardario rosso», Hammer divenne amico personale di Lenin, poi di Stalin e fino al 1989, anno in cui morì, di tutti i segretari del PCUS. Fu lui il giocoliere della finanza che convinse Stalin ad adeguarsi a tutte le altre banche di emissione del mondo mettendo nelle mani degli speculatori internazionali la proprietà e il controllo della moneta sovietica.
Questa vicenda, unita al determinante contributo che il regime stalinista ha dato all'esito del secondo conflitto mondiale, mette in evidenza la paradossale vocazione del comunismo e, via via sino ai nostri giorni, di ogni governo di sinistra, a favorire concretamente, nei fatti di ogni giorno, il dominio dei «poteri forti».
Entrando, insomma, in uno dei santuari del mondialismo, nella sede centrale di una grande Banca di emissione o d'affari, magari la Federal Reserve, se ci si imbattesse in un busto del «compagno» Josif Vissarionovic Stalin non sarebbe né anacronistico né disdicevole; anzi sarebbe giusto: un doveroso segno di riconoscenza per i benefici ricevuti.
Mario Consoli
BIBLIOGRAFIA
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Ordine di Stalin, N. 0428 del 17 novembre 1941
La Stavka del Comando Supremo ordina quanto segue:
1. Tutti gli insediamentiin prossimità dei quali si trovano truppe tedesche e per una profondità variante da 40 a 60 chilometri dalla linea del fronte devono essere distrutti e dati alle fiamme. Lo stesso vale per quelli situati nella fascia di 20-30 chilometri delle direttrici dell'invasione nemica. Per la distruzione degli insediamenti nel raggio indicato deve utilizzarsi l'arma aerea, oltre che l'artiglieria ed i lanciagranate. Si devono altresì impiegare unità speciali esploranti, unità di sciatori e gruppi di partigiani, appositamente armati di ordigni incendiari.
I gruppi speciali devono condurre le azioni di annientamento indossando divise dell'esercito tedesco e delle Waffen-SS. Tale comportamento deve suscitare l'odio nei confronti degli occupanti fascisti e favorire il reclutamento di partigiani alle spalle dei fascisti. Bisogna fare particolare attenzione a risparmiare alcuni abitanti affinché, sopravvivendo, possano riferire e diffondere le notizie di atrocità commesse dai Tedeschi.
2. A tal fine in ogni reggimento saranno costituiti gruppi speciali di venti, massimo trenta, unità col compito di annientare e incel1diare gli insediamenti suddetti. Devono essere scelti combattenti che abbiano dato prova di coraggio. In particolare quelli che avranno agito con divise tedesche dietro le linee nemiche saranno proposti per una decorazione al valor militare.
Occorre diffondere nella popolazione la voce che i Tedeschi mettono a ferro e fuoco località e villaggi per punire i partigiani.
Archivio Nazionale di Washington, Stati Uniti
(Serie d'archivio 429, Sezione 461,Stato Maggiore dell'esercito, sezione Fremde Heere Ost Il, H 3/70 Fr 6439568)
da: J. Nolywaika - La Wehrmacht- Ritter, 2003
 
"Il dominio di gente trista è dovuto unicamente alla viltà di chi si lascia soggiogare"
Plotino
 
"non esiste né Destra né Sinistra, ma solo il Sistema e chi è contro il Sistema"(Eduard Limonov)
 
"Imporre ad un popolo una religione che gli sia estranea è il modo migliore per fargli abbandonare, prima o poi, qualunque religione.
 Il principale rimprovero che si possa fare al cristianesimo è aver creato le condizioni per l'ateismo."


                                                                                                                                     

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