giovedì 30 novembre 2017

QUELLE GRANDI MENZOGNE SULLA SECONDA GUERRA MONDIALE

 
Quella grande ipocrisia sulle cause e gli scopi della Seconda guerra mondiale
 
di Francesco Lamendola -
 

 
La Vulgata storiografica antifascista, sia nella versione liberaldemocratica sia in quella (oggi obsoleta) marxista-leninista, ci ha sempre spiegato che la seconda guerra mondiale fu scatenata interamente dalla follia di un uomo solo, Hitler; e che essa fu combattuta dal «mondo libero» (nonostante l’imbarazzante presenza, in esso, e in un ruolo decisivo, del compagno Stalin) per salvare la Polonia, un po’ come nel 1914 era stato fatto per il «poor little Belgium», il cui triste destino aveva profondamente commosso le dame britanniche.
Per quanto possa sembrare incredibile, questa risibile ricostruzione dei fatti ha retto per oltre sessant'anni, segno che non è una frase fatta quella secondo cui la storia viene scritta dai vincitori: perché, se gli Alleati non avessero vinto, impadronendosi della cultura e dell'informazione mondiale (basata, quest'ultima, sulle cinque grandi agenzie di stampa internazionale: due statunitensi, una britannica, una francese ed una sovietica), ben difficilmente sarebbe stato possibile puntellare tante menzogne e tante mezze verità per un tempo così lungo, insegnandole nelle aule scolastiche e universitarie e diffondendole a mezzo di migliaia e migliaia di libri ed articoli.
Per dirne una: come giustificare che quelle stesse potenze democratiche che, nel 1938, avevano gettato in pasto a Hitler la democratica Cecoslovacchia, nel 1939 firmarono una cambiale in bianco che incoraggiava la Polonia semifascista ad opporsi con la massima intransigenza alle richieste di Hitler (che, per mesi, furono pacifiche e decisamente moderate?).
Oppure: come spiegare che il 3 settembre 1939 Francia e Gran Bretagna dovevano per forza dichiarare guerra alla Germania per salvare la Polonia, mentre non presero la minima iniziativa contro l'Unione Sovietica allorché, il 17 dello stesso mese, quest'ultima invase a sua volta la sventurata Polonia (altro che «pugnalata nella schiena»!), prendendola alle spalle?
E come spiegare il fatto che la Francia e la Gran Bretagna non mossero un dito per soccorrere la Finlandia, aggredita dall'Unione Sovietica senza alcuna dichiarazione di guerra, proprio sul finire di quello stesso anno, eccezion fatta per il tardivo e mal concepito sbarco nel fiordo di Narvik, dopo l'occupazione tedesca della Norvegia?
Inoltre: come mai, se la guerra era stata scatenata per salvare la Polonia, né la Francia, né la Gran Bretagna mossero un dito per aiutarla, restandosene sulla difensiva sul fronte occidentale, mentre le divisioni corazzate della Wehrmacht scorrazzavano per la pianura polacca e conquistavano Varsavia in poco più di due settimane? Infatti, se davvero si desidera aiutare qualcuno in difficoltà, e se, per farlo, si è disposti a scatenare niente meno che un conflitto mondiale, un tale atteggiamento risulta semplicemente incomprensibile.
Oppure le vere ragioni della dichiarazione di guerra franco-inglese alla Germania erano completamente diverse? Non sarebbe più onesto ammettere che la Polonia fu gettata cinicamente in pasto ad Hitler, dopo averla aizzata ad una folle intransigenza, pur di avere il desiderato «casus belli» contro i Tedeschi, così come, nel dicembre 1941, Roosevelt e il governo statunitense avranno disperatamente bisogno dell'attacco di Pearl Harbor per poter dichiarare guerra ai Giapponesi, con tutte le apparenze della ragione e del buon diritto?
Ancora: come è possibile sostenere che le potenze democratiche scatenarono la guerra per difendere la libertà e l'indipendenza della Polonia, se nel 1945 furono così accomodanti ai disegni di Stalin volti a trasformarla in una pedina dell'impero sovietico?
Ci vuole un bel coraggio per continuare a sostenere a testa alta tutte queste verità di facciata, espressione di una storiografia di comodo, ad uso e consumo dei vincitori, volta a fornire una giustificazione per il loro cinismo, per la loro brama di dominio mondiale, per l'ipocrisia delle loro parole d'ordine liberali e democratiche.
Ha osservato il grande storico francese François Furet nel suo libro «Il passato di un’illusione» (titolo originale: «Le passé d’une illusion», Paris, Laffont, 1995; traduzione italiana a cura di Marina Valensise, Milano, Mondatori, 1995, pp. 392-94):
«Il caso polacco è […] tristemente simbolico, poiché riguarda  il paese che è stato all’origine della seconda guerra mondiale, prima di diventarne una delle grandi vittime. Causa del conflitto nel settembre  1939 e primo teatro di operazioni militari, la Polonia ha continuato a essere l’epicentro del terremoto europeo, dapprima divisa, saccheggiata, mortificata dalla Germania e dall’Urss, poi oggetto di disaccordo tra l’Urss e le democrazie anglosassoni, per perdere infine la propria indipendenza al termine d’una guerra che era scoppiata per assicurarla. La Polonia rivela ciò che prima e dopo il 22 giugno 1941 vi è d’immutato nella volontà di Stalin, attraverso un succedersi di alleanze contraddittorie. Nel 1939 e del 1940, il segretario generale aveva ottenuto dal negoziato con Hitler un vasto insieme di territori nell’Europa orientale. Voleva ancora quello che Molotov era andato a chiedere a Berlino nel novembre del 1940: una sorta di protettorato su Romania, Bulgaria, Finlandia e Turchia, il controllo dei Balcani, lo statuto d superpotenza mondiale a fianco della Germania nazista. Di tutto questo, nulla è veramente cambiato con la nuova disposizione delle alleanze. Anche se ci sono due differenze:  Stalin grazie ai successi del suo esercito ha continuato ad accrescere le sue ambizioni verso l’Ovest. E ormai deve negoziare non più con Hitler, ma con Churchill e Roosevelt.
La vicenda polacca dimostra che egli incontra meno difficoltà con i responsabili delle democrazie  che con il dittatore nazista. Sebbene dopo il 22 giugno abbia rapidamente riconosciuto il governo polacco di Londra, preludio alla formazione d’un esercito polacco in territorio sovietico, Stalin rifiuta d’includere nell’accordo qualsiasi menzione della frontiera polacco-sovietica. E sin dall’autunno 1941 manifesta chiaramente agli inglesi la propria volontà di conservare i territori che ha comunque ottenuto dai tedeschi. Churchill e Roosevelt cercano di prendere tempo, rinviando a dopo la pace il tracciato dei confini. Ma se non possono aprire subito un secondo fronte europeo, richiesto con insistenza da Stalin, devono pur concedere qualcosa ai loro alleati, che temono sottoscriva - sulla base del precedente del 1939 - una pace separata con Hitler. Le democrazie pagano lo stato d’impreparazione militare in cui le ha sorprese la guerra, cedendo in anticipo ala volontà d’espansione sovietica. Ma bisogna considerare il peso delle illusioni: Churchill non ne ha affatto, Roosevelt invece sì. Sull’Unione Sovietica e il suo capo, il presidente americano s’è dimostrato ignorante e al tempo stesso ingenuo. Su Stalin nutre stranamente idee ottimistiche al punto che è difficile immaginare che appartengano davvero a un brillante statista.  L’epoca, certo, vi si presta. Il ricordo del patto tedesco-sovietico sfuma con gli anni, l’Armata Rossa ha pagato con i suoi sacrifici il caro prezzo della redenzione. Stalingrado ha cancellato gli scambi di cortesia tra Ribbentrop e Molotov. La guerra impone la sua logica manichea, che diventa a poco a poco un’opinione obbligata.
Nel 1943, la scoperta da parte dei nazisti dell'ossario di Katyn complica l'imbroglio polacco, provocando da una parte la rottura tra l'Urss e il governo polacco di Londra, dall'altra la formazione a Mosca di un'altra équipe polacca, che annuncia il futuro potere comunista. I giochi sono già fatti anche in campo sovietico, proprio quando (fine 1943) l'Urss proclama come suoi obiettivi di guerra la restaurazione dell'indipendenza delle nazioni e la libera scelta del proprio governo da parte di ciascuna di esse. Nello stesso momento Churchill e Roosevelt, a Teheran, accettano come frontiera orientale della Polonia la linea Curzon. È una misura che implica un ampio spostamento del territorio polacco verso ovest, a detrimento di milioni di tedeschi che dovranno essere espulsi, il che comporta la stretta dipendenza della futura Polonia nei confronti dell'Urss.
A quel punto, il resto della storia è già scritto. L'avanzata militare sovietica all'ovest rende inevitabile anche quella parte della storia che non è stata stabilita in anticipo. L'insolubile problema che oppone il governo Mikolajczik a Stalin è risolta sul campo nell'agosto 1944. Al termine d'una rapida avanzata, l'Armata Rossa giunge sino a un sobborgo di Varsavia, sulla riva destra della Vistola. Allo stesso momento, il governo polacco di Londra decide d'affermare il suo diritto: con le sue unità militari clandestine, fa scoppiare l'insurrezione a Varsavia. Ma il dramma è che per vincere di fronte alle truppe tedesche ha bisogno d'una mano dell'Armata sovietica, accampata sull'altra sponda del fiume. E questa non si muove. Il 2 ottobre, assiste da lontano alla capitolazione dell'Esercito nazionale polacco e alla distruzione della città vecchia a Varsavia. In dicembre, il Comitato di liberazione nazionale della Polonia, formato a Lublino su iniziativa dei russi, si trasforma in governo provvisorio del paese, subito riconosciuto da Mosca A Jalta, nel febbraio 1945, Churchill e Roosevelt riescono a ottenere da Stalin soltanto la partecipazione dei polacchi di Londra a questo governo provvisorio: è una "unione nazionale" fittizia, che non resisterà molto tempo alla situazione sul campo.
All'epoca però nessuno si preoccupa di questo trionfo della forza sul diritto, che corona una guerra combattuta in nome del diritto contro la forza. L'idea comunista segna in quegli anni il culmine del secolo, trionfando contemporaneamente nei fatti e nei pensieri».
In questa ricostruzione e in questa interpretazione, vi sarebbe molto da dire su un punto importante, quello relativo alla ormai tradizionale versione della «impreparazione militare» delle democrazie rispetto a Hitler, nel settembre del 1939.
Che si tratti di una leggenda, lo hanno fatto notare solo pochi storici controcorrente, ad esempio Franco Bandini che, nel suo studio «Tecnica della sconfitta», ha mostrato come specialmente la Gran Bretagna non fosse affatto impreparata e, anzi, Churchill avesse freddamente deciso di provocare una guerra contro la Germania entro il 1939-40, vale a dire prima che questa riuscisse a surclassare la flotta inglese, ricalcando la politica inglese del 1914.
Se, poi, gli scopi di guerra degli Alleati erano il ripristino del diritto internazionale, della libertà di navigazione e di commercio, del diritto all'autodecisione dei popoli, secondo lo schema contenuto nella Carta Atlantica firmata da Churchill e Roosevelt il 14 agosto 1941 (allorché gli Stati Uniti d'America, fatto degno di nota, non erano ancora in stato di guerra né contro il Giappone, né contro l'Asse), come si spiega il fatto che, nel 1945, metà dell'Europa venne gettata, senza batter ciglio, sotto il tallone di un sistema totalitario quale non si era mai visto in qualsiasi epoca della storia moderna, eccezion fatta per il solo nazismo?
Si dice che, quando ebbe notizia dello sfondamento delle proprie forze corazzate sul Volga e dell'accerchiamento della VI Armata Tedesca, prodromo della decisiva vittoria di Stalingrado, il dittatore sovietico si sia abbandonato ad uno dei suoi rarissimi momenti di sincerità: adesso il gioco era fatto, nessuno gli avrebbe mai più domandato di rendere conto dei suoi crimini: né delle stragi di massa della collettivizzazione forzata, né delle Grandi Purghe, né del patto coi nazisti del 23 agosto 1939, preludio alla spartizione della Polonia, né delle esecuzioni di parecchie migliaia di ufficiali polacchi nella foresta di Katyn. 
E nemmeno di quelli che si accingeva a compiere: la cacciata di milioni di Tedeschi dalle province orientali del Reich; la vile dichiarazione di guerra al Giappone, già prostrato militarmente e sconvolto dalle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki; l'instaurazione di ferree dittature comuniste sui Paesi dell'Europa centro-orientale; la deportazione di intere popolazioni «infedeli», come i Tartari di Crimea e o i Cosacchi del Kuban; l'incitamento alla Corea del Nord affinché scatenasse una offensiva contro la Corea del Sud, rischiando - niente di meno - di precipitare una terza guerra mondiale fin dal 1950.
La storia non processa i vincitori, ma gli sconfitti. Questo sapeva Stalin; e questo sapevano anche Churchill e Roosevelt. 
Il primo, autore della distruzione sistematica delle città tedesche mediante bombardamenti aerei terroristici di proporzioni apocalittiche e militarmente ingiustificati (Amburgo, Dresda, ecc.), che volle la seconda guerra mondiale per il miope ed egoistico disegno di preservare l'impero coloniale britannico, che invece la Gran Bretagna dovette liquidare poco dopo la fine della guerra (l'India ottenne l'indipendenza già nel 1947, sia pure fatalmente mutilata dalla secessione del Pakistan, ultimo colpo di coda del colonialismo inglese).
Il secondo, che si era fatto eleggere dai suoi connazionali promettendo di tenerli fuori dalla guerra, mentre fece di tutto per trascinare il suo Paese nel conflitto a sostegno della Gran Bretagna, l'antica madrepatria; e che riuscì perfettamente a creare la leggenda di un'America costretta a intervenire controvoglia, ma decisa a battersi disinteressatamente per il trionfo della libertà e della giustizia, mentre fin dall'immediato dopoguerra non esitò a servirsi delle cause più discutibili, prima fra tutte quella sionista, pur di affermare l'egemonia mondiale americana e per porre l'intero pianeta sotto la tutela della bandiera a stelle e strisce e dei finanzieri di Wall Street.
Proprio gli stessi che - vale la pena di sottolinearlo -, provocando la crisi economica del 1929, avevano avuto una responsabilità così grande nell'avvento del nazismo e, quindi, nelle vicende che avevano portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quanta ipocrisia nella versione ufficiale circa le cause e gli scopi della seconda guerra mondiale, rinnovata ad ogni anno con le trionfalistiche celebrazioni dell'anniversario del «D-day» (6 giugno 1944), ossia dello sbarco angloamericano in Normandia!
Un solo esempio in proposito: gli storici della Vulgata liberaldemocratica si guardano bene dal ricordare che, nei primi giorni dopo quello sbarco, che segnava l'inizio della conquista e del successivo dominio americano sull'Europa, buona parte delle popolazioni francesi nelle retrovie del teatro di operazioni si auguravano la vittoria tedesca e speravano ardentemente che le forze d'invasione venissero rigettata nelle acque della Manica.
Ma queste cose, solo pochi storici controcorrente, come David Irving, hanno avuto il coraggio di dirle; e hanno pagato un prezzo molto salato per averle affermate, e sia pure sulla base di una documentazione inoppugnabile.
Altro che tramonto delle ideologie!
L'Europa e il mondo non hanno mai vissuto all'ombra di una cappa ideologica pesante come quella che regna oggi, dopo la fine della «guerra fredda»: il Pensiero Unico della democrazia liberale e del capitalismo trionfante.

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