domenica 29 aprile 2018

Jolanda Crivelli, uccisa dai partigiani e lasciata giorni appesa a un albero

Jolanda Crivelli, uccisa dai partigiani e lasciata giorni appesa a un albero

 
Il 25 aprile abbiamo assistito a centinaia di celebrazioni da parte delle istituzioni per la cosiddetta liberazione, celebrazioni sistematicamente riportate da tutte le tv e grandi giornali. Nemmeno una parola di ricordo o di pietà per tutti coloro che combatterono dall’altra parte, per coloro che tennero fede alla parola data, per coloro che liberamente fecero delle scelte. Scelte che poi pagheranno carissime. Addirittura abbiamo assistito a proibizioni da parte delle autorità di tenere celebrazioni in ricordo di quei caduti dalla parte sbagliata. Finché si proseguirà con l’insegnamento e la propaganda di una storia a senso unico, manichea, nella quale tutti i buoni stanno da una parte e tutti i cattivi dall’altra, l’Italia non sarà mai veramente una nazione. E dopo il 25 aprile, vogliamo ricordare il 26 aprile, a guerra finita, a Italia liberata. Ecco cosa succedeva, ecco cosa facevano certi liberatori.

Jolanda Crivelli aveva vent’anni

La storia dell’ausiliaria della Saf (Servizio ausiliario femminile della Repubblica Sociale Italiana) Jolanda Crivelli. Aveva solo 20 anni ed era la giovanissima vedova di un ufficiale del Battaglione M, ucciso a Bologna durante la guerra civile, in un agguato dei “sapisti” (costola della banda comunista dei gap). Il 26 aprile Jolanda Crivelli raggiunse Cesena, la sua città natale, per tornare dalla madre, che viveva sola. Immediatamente, come capitava in quei terribili giorni, fu riconosciuta e additata da suoi concittadini ad alcuni partigiani comunisti:”È una fascista, moglie di fascista!”. Percossa a sangue, torturata, verosimilmente violentata, denudata, fu trascinata per le strade di Cesena tra gli sputi della gente. Davanti alle carceri fu legata a un albero e fucilata. Il cadavere nudo, rimase per due giorni esposto a tutti come ammonimento per tutti i fascisti. Poi fu permesso alla madre di seppellirla. Non abbiamo altre notizie di questa sfortunata ed eroica ragazza né del suo giovane marito. Non esistono cifre certe sul numero delle ausiliarie e comunque delle donne fascista o presunte tali assassinate dai partigiani prima e dopo questo celebrato 25 aprile 1945. Alcune fonti parlano di circa mille donne uccise in quei mesi, tutte giovanissime, moltissime torturate e violentate prima di essere assassinate. La cifra si riferisce non solo alle impegnate politicamente o militarmente, ma anche figlie, mogli, madri di soldati della Repubblica Sociale, colpevoli solo di questo. E moltissime di loro sono rimaste per sempre senza nome, ingoiate dai meandri della storia.

La Crivelli fu solo una delle tante donne assassinate

Ad esempio, nell’archivio dell’obitorio di Torino il giornalista Giorgio Pisanò scrisse di aver ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del Saf. Altre cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco poi, a Milano, sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Inoltre, dicono altre fonti certe, un numero imprecisato di ausiliarie della X Mas in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidii, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate. L’elenco è interminabile quanto atroce: Annamaria Bacchi era la sorella di un ufficiale della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana. Il suo cadavere fu ritrovato in un campo del Modenese a due anni dalla scomparsa. Rosaria Bertacchi Paltrinieri e Jolanda Pignati, entrambe fasciste, furono prelevate dalle loro case, violentate di fronte ai mariti e figli e quindi sepolte vive. Ines Gozzi, 24 anni, fidanzata di un fascista, fu violentata e finita con un colpo alla nuca. Laura Rava, 66 anni, fu seviziata ed uccisa ad Ivrea con l’accusa di essere una spia. Come anche Camilla Durando Chiappirone, di 73 anni. Maria Deffar Delfino, 55 anni, fu assassinata perché madre di un marò della X Mas. E le stragfi proseguirono anche dopo la fine della guerra: Rosa Amodio aveva 23 anni quando fu assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado. Jole Genesi e Lidia Rovilda furono torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945 perché si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante. Angela Maria Tam, terziaria francescana, fu assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale. Adele Buzzoni, Maria Buzzoni, Luigia Mutti, Dosolina Nassari, Rosetta Ottarana facevano parte di un gruppo di ausiliarie catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza e messe al muro per essere fucilate. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca, ma non ci fu nulla da fare, morirono tutte. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Allora, quando si “festeggia” il 25 aprile, la liberazione, la fine della guerra, si ricordino doverosamente anche queste vittime innocenti: non è possibile che l’Anpi per giustificare questi crimini orrendi liquidi sbrigativamente la faccenda dicendo “c’era la guerra, erano tempi brutti”. Non basta per giustificare questi eccidi. Per qualcuno, i morti non sono tutti uguali, è ora di cambiare questa prospettiva e riconoscere onestamente gli errori fatti.

                                                                                                                                          

mercoledì 25 aprile 2018

ECCO UNA STORIA DI AUSILIARIE ITALIANE

Ecco la storia delle ausiliarie di guerra stuprate ed uccise dai partigiani.

Probabilmente questa è una parte della storia d’Italia appena finita la II guerra che pochi conoscono. A fianco delle truppe regolari di Mussolini, cioè dell’esercito, principalmente, erano presenti diverse donne e giovani ragazze che prestavano il loro servizio come ausiliarie. Appena la guerra ebbe fine, Mussolini ucciso e le brigate partigiane presero più potere, molte di queste giovani donne vennero uccise dagli stessi partigiani, perché ritenute responsabili di aver aiutato i soldati dell’esercito e quindi fasciste da fucilare, nonostante le stesse si fossero arrese.
L’elenco è lungo e comprende diverse regioni del nord Italia. Ecco alcuni casi: era il 30 aprile del 1945 quando Batacchi Marcella e Spitz Jolanda, 17 anni, di Firenze, assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Alcune di loro, seguendo il suggerimento dei miliatri, si dichiarano prostitute al seguito della colonna, ma Marcella e Jolanda non cedono a questa vergogna e si dichiarano volontarie della RSI.
Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte dei partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945. Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo.
Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano  e le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere. Minardi Luciana, 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po.
La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica. Queste sono alcune delle numerose storie che hanno avuto per tristi protagoniste le ausiliarie italiane. Erano donne, non militari. Ma di queste storie tragiche, nessun libro di storia ha mai parlato.


                             







giovedì 12 aprile 2018

DUE PAROLE SULLA RESISTENZA E IL 25 APRILE

Italia Sociale

Due parole sulla resistenza e il 25 aprile
di Maurizio Barozzi
«Il 25 Aprile 1945, dopo quasi due anni di guerra civile e di lotta antifascista, all’invito del CLN alla insurrezione, il popolo si sollevò a fianco dei partigiani cacciando via i tedeschi e sbaragliando i fascisti».
Con questo ritornello, che ha anche l’avallo delle autorità costituite ed è immortalato in festività, ricorrenze e quant’altro, si ha la sintesi di quello che è un mito: la Resistenza del popolo italiano contro i nazi fascisti, una “vulgata” totalmente falsa.
L’esaltazione unilaterale di imprese, di episodi stravolti, spesso inventati è sempre avvenuta da parte del potere costituito: è un modo come un altro di darsi una dimensione storica, di dipingersi come buoni ed eroici. Non a caso spesso le guerre sono iniziate dall’aggressore con una false flag, una finta offesa ricevuta, in modo da giustificare l’aggressione.
Anche il Risorgimento, parliamoci chiaro, è per buona parte una invenzione a posteriori e l’agiografia risorgimentale copre molte mascalzonate, nasconde gli gli sporchi interessi anglo francesi e le porcherie massoniche e piemontesi, oltre a diverse stragi e assassini. Ma almeno il Risorgimento ebbe una, seppur contenuta, partecipazione da parte della borghesia, sia intellettuale che mercantile e l’idea-Nazione riuscì a mobilitare diversi giovani. Anche sul piano “militare” poi, pur ridimensionandolo nelle esagerazioni, si può annoverare la presenza di Garibaldi.
Dietro la Resistenza invece c’è il nulla.
Non che sia falso che ci siano stati degli antifascisti, anche dei partigiani e persone che hanno lottato contro la RSI e i tedeschi, ma il falso è costituito dal fatto che, semmai, la minoranza di italiani che hanno partecipato alla RSI di Mussolini fu più numerosa, ma sopratutto gli episodi di carattere militare di questa presunta “Resistenza” furono talmente scarsi da risultare insignificanti.
Non ci fu affatto una partecipazione di popolo alla lotta antifascista, perchè il popolo la gente comune, rimase in massima parte estranea alle diatribe politiche e in attesa di una sperata e celere conclusione della guerra. Ed infine, è falso che il 25 Aprile ci fu una insurrezione che sbaragliò e caccio via fascisti e tedeschi, che invece, incalzati dalle truppe nemiche angloamericane, cercarono di ritirarsi verso l’estremo nord (i fascisti) oppure si arresero e si chiusero nei loro acquartieramenti (i tedeschi).
La “verità” è sempre una sola, anche se spesso nascosta o confusa e per uno storico, qualunque siano le sue convinzioni politiche, sarebbe assurdo cambiarla o edulcorala per sostenere la propria ideologia o visione politica. In questa sede (articolo) tralasciamo riferimenti e documentazioni a sostegno della nostra tesi che, in ogni caso, è sotto gli occhi di tutti.
Personalmente, essendo il sottoscritto nato nel 1947, sono arrivato a queste conclusioni per ricerche, studi, analisi del periodo in questione, come un qualsiasi storico contemporaneo che analizzi, per esempio, la rivoluzione francese.
In ogni caso, avendo ascoltato tantissimi reduci o contemporanei a quegli avvenimenti, ho trovato conferma alla mia asserzione (del resto condivisa da tanti storici, molti dei quali per prudenza o per carriera non lo dichiarano apertamente), ma ho percepito anche la convinzione che molti contemporanei ai quei fatti, oggi anziani, in particolare persone politicizzate, oltre al trascorre del tempo che nel ricordo sfuma o esagera i fatti, spesso sono talmente contraddittori e quindi non in grado di dare un quadro realistico degli avvenimenti.
Alquanto realistica ed esaustiva risulta invece la letteratura di qualche decennio addietro, quella che non affrontava argomenti bellici o politici, ma narrava, indirettamente o di passaggio, semplici vicende quotidiane di vita vissuta tra il 1943 e il 1945. Incrociandoli con i fatti conosciuti ed accertati, sono questi i racconti che ci danno il quadro reale della situazione.
LA RESISTENZA
In tutta obiettività possiamo oggi dire che la cosiddetta “Resistenza” è una invenzione a posteriori ed ogni serio ricercatore storico sa benissimo che, militarmente parlando, la Resistenza fu letteralmente inesistente.
Siamo quindi in presenza di una agiografia dove sono stati ingigantiti o inventati fatti, episodi e altro, per descrivere una inesistente lotta del popolo italiano contro i fascisti e il tedesco invasore. A latere, infine, tutta una editoria e pubblicistica, soprattutto quella orientata a sinistra, ma non solo, sfornò a getto continuo racconti, rievocazioni, memoriali, testimonianze che, da un punto di vista storiografico lasciano molto a desiderare.
Sulla base dell’opera dello storico ed ex partigiano Roberto Battaglia Storia della Resistenza Italiana – Einaudi, 1953, iniziò così poco a poco a crearsi un mito: il “mito della Resistenza” che prese forma e si impose verso la fine degli anni ’60, primi anni 70, anche sulla scia delle fiction, ovvero di una certa filmografia che fin dal primo dopoguerra si impegnò in questo campo: tra gli altri, ricordiamo per esempio: Roma città aperta del 1945 di Roberto Rossellini; Achtung! Banditi! del 1951 di Carlo Lizzani; Le quattro giornate di Napoli del 1962 di Nanni Loy; e soprattutto Mussolini ultimo atto, del 1974 di Carlo Lizzani.
Così come nel film di Loy sulla presunta sollevazione di Napoli, anche in questo sulla fine di Mussolini del Lizzani, veniva abbondantemente travisata la realtà dei fatti e inventati episodi mai avvenuti. Il film di Lizzani poi, non era altro che la messa in pellicola della “vulgata” ovvero della versione falsa e di comodo che elementi del Pci ebbero a fornire sulla morte del Duce addebitandone oneri e onori a tal Walter Audisio. Una “vulgata” che lo stesso regista Lizzani nel 2007, in un suo libro di memorie ebbe oltretutto a smentire clamorosamente (e con essa il suo stesso film in cui Franco Nero interpretava l’”eroico” colonnello Valerio) laddove, riportando una lettera che gli scrisse nel 1975 Sandro Pertini, questi ebbe ad affermare: “...e poi non fu Audisio a eseguire la ‘sentenza’, ma questo non si deve dire oggi”.
Ma anche le presunte “4 giornate di Napoli”, ci consentono di fare un paragone ed elevare una osservazione storica: si prenda ad esempio l’episodio di Firenze, dove nutriti gruppi di “franchi tiratori” fascisti, accolsero a fucilate dai tetti gli invasori americani. Di questo avvenimento ne abbiamo innumerevoli prove, testimonianze, anche statunitensi, riscontri e documentazioni.
Viceversa, della immaginaria sollevazione del popolo napoletano che caccia i nazisti, non c’è nulla, se non racconti distorti di episodi affatto diversi che poi sono stati travisati, ed appunto la fiction filmica.
Ergo i “franchi tiratori” fascisti sono un fatto storico acquisito, le “4 giornate di Napoli”, viceversa, appartengono alla fantasia o alla propaganda.
Ora, storicamente, non possiamo negare che nei due anni che stiamo prendendo in considerazione, 1943 – ’45, ci furono diversi italiani antifascisti, che, come naturale che accada, presero ad aumentare, mano a mano che si andava verso la sconfitta.
Del pari ci furono partiti e gruppi che in qualche modo avversarono il fascismo e i tedeschi e nel corso degli eventi, molti furono catturati, imprigionati e passati per le armi. Una seria indagine storica ci dice però che, sostanzialmente, il cosiddetto fenomeno “partigiano”, con tanto di presunta partecipazione popolare, fu talmente esiguo che non se ne ha traccia sensibile negli avvenimenti di quel tempo.
Ma ancor più insignificante è il riscontro militare di una effettiva lotta partigiana, quello che dovrebbe caratterizzare il valore e la portata di una vera e propria Resistenza, e che invece manca assolutamente.
Qualche imboscata, attentati nell’0mbra, occupazioni di località sgombrate dal nemico, ripiegamenti in montagna, ecc., non possono costituire un serio elemento per dare a questi episodi il carattere di una resistenza armata ai “nazifascisti”.
Mancano quindi i due elementi fondamentali: azioni ed eventi bellici significativi e partecipazione di popolo, per poter parlare di Resistenza.
Ingigantire qualche episodio e inventarne altri, con la complicità dei partiti e della editoria embedded, può creare un mito, non descrivere la storia.
I cosiddetti partigiani, di cui oggi se ne decantano le gesta, furono poche migliaia in tutto e su tutto il territorio nazionale e i renitenti alla leva che ne costituivano il grosso delle fila, erano andati in montagna, proprio per non combattere.
Gli idealisti antifascisti, comunisti e non, erano una presenza veramente minimale, comunque bisogna riconoscere che c’erano, e spesso furono proprio quei pochi a pagare con la vita.
Ma parlare di “liberazione”, di sollevazioni popolari, ovvero di Resistenza è non solo una esagerazione, ma un falso storico, perchè questa minoranza di antifascisti “attivi”, idealisti, renitenti o occasionali, alla macchia o clandestini nelle città, frange dell’Esercito monarchico, ecc., non compirono alcun atto bellico di rilievo.
Attentati, come quello di via Rasella, a Roma, compiuti da cinque, sei persone, che fanno scoppiare una bomba, nascosta in un carrettino, lo storico non può considerarli vere imprese di guerra.
Li considerarono purtroppo come atti di guerra a loro danno, con le conseguenze che sappiamo (rappresaglia delle Ardeatine) i tedeschi.
I dirigenti e i pochi membri del CLNAI, con i loro altisonanti nomi di “battaglia” svolazzavano nei conventi o in sicuri rifugi delle città, riunendosi, parlando e scrivendo di lotta al fascismo e di guerra ai nazifascisti, ma facendo poco o nulla sul piano militare. Anche qui, quindi, abbiamo una Resistenza più che altro sulla carta.
A guerra finita si tramutarono in gesta ed imprese, quelli che al massimo erano i loro intenti o quel poco di “trafficare” e contatti che ebbero a intraprendere.
Certo, leggendo i diari, i libri e i memoriali di questi antifascisti, sembra chissà quali gesta stessero compiendo, quali grandi attività antifasciste e armate, stessero portando avanti, ma non è così e le cronache storiche smentiscono o non registrano queste imprese
Non basta un “diario”, un memoriale, un articolo, per scrivere la storia!
Una qualche nefasta presenza la fecero sentire i GAP e le SAP, con le azioni terroristiche in incognito e usi a colpire alle spalle, istigati, da Radio Londra. Costoro importarono in Italia, metodi terroristici che poco ci avevano appartenuto e vien dal ridere che anni dopo, quegli stessi metodi del “mordi e fuggi”, colpisci alle spalle, praticati dalla Brigate Rosse, furono considerati “criminali” da parte del “padre della Resistenza”, quel Sandro Pertini divenuto ossequioso Presidente di una Italia liberal capitalista e colonia americana.
Ma tornando ai Gap, anche qui stiamo parlando di poche decine di componenti, nascosti tra la popolazione nelle grandi metropoli.
Ricapitolando: l’esiguo numero di partecipanti attivi alla lotta contro il fascismo e soprattutto le poche e insignificanti loro gesta militari, smentiscono la dimensione di quelli che pomposamente si definiscono: Resistenza, Insurrezione, Liberazione.
Le stesse fonti partigiane, per esempio, ci dicono che a Como, tra la sera del 25 aprile 1945, quando vi giunse indisturbato Mussolini con i membri del suo governo e la mattina successiva vi arrivarono circa 4 mila fascisti in armi, i membri clandestini del CLN locale ammontavano a circa 50, ovviamente, più che altro di nome che non come vera presenza attiva.
E pensare che era con questi “fantasmi” che le rinunciatarie autorità della RSI di Como: Questore, console della Milizia e Prefetto repubblicani, da alcuni giorni stavano trattando in segreto il passaggio dei poteri e il loro defilarsi.
A questo si aggiunse la scempiaggine, l’idiozia, la assoluta mancanza di senso militare e in alcuni casi la voglia di farla finita se non il tradimento, da parte di alcuni comandanti fascisti ivi sopraggiunti, che in poche ore fecero squagliare come neve al sole quei 4 mila uomini armati e a notte alta del 27 aprile firmarono una ignobile “tregua” che in realtà era una vera e propria resa che finì per avere tragiche conseguenze per molti fascisti oramai fatti arrendere, ma non per alcuni loro comandanti che evidentemente avevano concordato il modo per squagliarsi e che poi, alcuni di loro, troveremo a far carriera nel partito di destra, neofascista per nomina, ma antifascista di fatto.
É noto che quando Mussolini il pomeriggi del 25 aprile 1945 si recò in Arcivescovado per trattare un passaggio indolore dei poteri (non una resa, come si volle poi far credere) tra le sue milizie che si ritiravano verso la Valtellina e le nuove autorità cielleniste che sarebbero subentrate nel vuoto dei poteri di quei giorni, i rappresenanti ciellenisti, presenti in Curia con il Cardinale Shuster, avrebbero dovuto chiedere a Mussolini di “lasciargli” alcuni reparti della RSI, per mantenere l’ordine nel caos di quei momenti, perchè loro, i delegati del CLN e del CLV, non ne avevano affatto. Un Cadorna, comandante, più che altro nominale del CVL, il braccio armato della Rsistenza che si muoveva solo dietro l’arrivo delle truppe angloamericane, e addirittura in quella sede pretendeva una resa senza condizioni da Mussolini, si indignò e disse “Ho 50 mila uomini!”. Battendo il pugno sul tavolo, il maresciallo Rodolfo Graziani gli rispose: “Tu hai 50 mila c...!”
Queste cose qualche storico o osservatore storico più onesto e serio o con meno remore (come fu ad esempio Franco Bandini) le ha spesso scritte apertamente.
La tanto decantata 57esima Brigata Garibaldi che alle 7 di mattina del 27 aprile, ebbe la ventura di incappare in Mussolini e la sua colonna comprensiva dei carri tedeschi in ritirata, mentre cercavano di defluire verso la Valtellina, era composta da poco più di una decina circa di partigiani. Furono le circostanze, la defezione tedesca, la strada impervia e a fettuccia facilmente sbarrabile e controllabile dalla soprastante altura (il “Puncet”) che consentirono a questi partigiani di fermare la colonna motorizzata bloccata appena fuori dell’abitato di Musso.
Questa era la consistenza numerica della Resistenza almeno che non vogliamo prendere in considerazione le adesioni a cose fatte, quelle che videro precipitarsi ad ingrossare le fila dei CLN o delle Brigate partigiane centinaia di “eroi dell’ultim’ora, o le grosse aliquote di popolazione che, spariti i tedeschi e arresisi i fascisti, scesero nelle piazze, spesso per curiosità, ma ovviamente facendo massa e partecipando emotivamente con i “vincitori”, ecc.
La resistenza quindi fu, più che altro un operare politico, un darsi da fare e un attività minimamente militare, per conto degli angloamericani e su loro disposizioni, come dimostravano le direttive e le imposizioni di un Promemoria di accordo fra il Comandante Supremo Alleato del teatro di operazioni del Mediterraneo e il C.L.N.A.I del 7 dicembre 1944 firmato dal generale Maitland Wilson, e per il CLNAI da Alfredo Pizzoni, Ferruccio Parri, Giancarlo Paietta ed Edgardo S0gno.
Tra le forze principali che operarono in senso antifascista dobbiamo segnalare l’Alta Finanza, per suoi interessi, attraverso il suo uomo nel CLNAI Alfredo Pizzoni e gli esponenti industriali: i Valletta, i Falk, gli Edison, ecc., ostili al fascismo e preoccupati dalle Leggi sulla Socializzazione varate dal governo di Mussolini.
Nei giorni caldi della “Liberazione” al Nord, partigiani armati furono mandati a difendere le ville dei grandi industriali ai quali poi, a guerra finita, fu fatto il regalo, su ordine Alleato, di cancellare tutte le Leggi, da poco varate sulla Socializzazione.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il Pci, l’unico che poteva contare su gruppi di militanti sparsi nel territorio, il quale però condusse una guerra civile tutta sua, quella che abbiamo accennato dei Gap e Sap, con agguati e imboscate, finalizzata ad assecondare i desiderata di Mosca la quale poi era in accordo con gli Alleati in virtù degli impegni di Jalta.
Togliatti e Longo, quindi, non solo furono fedeli servitori delle direttive di Mosca (che gli imposero la svolta “democratica” di Salerno del 1944, del resto gradita dai dirigenti comunisti), ma anche del SOE, l’Intelligence Britannica, che in varie località organizzò agli uomini del partito comunista i rifugi logistici, le attrezzature e i finanziamenti. Connubi questi che proseguirono anche nel dopoguerra, con la criminale cessione, agli inglesi, di importanti documentazioni di interesse nazionale.
Ma Togliatti fu anche un sodale di monsignor G. B. Montini, il futuro Papa, legato alla massoneria finanziaria statunitense, al tempo organizzatore del servizio segreto Vaticano che per sua natura aveva uomini, o meglio serpi, sia nella Resistenza che nella RSI. Insomma il Pci condusse una sua “lotta privata” che gli doveva far avere un posto politico e una sua funzione nella nuova Repubblica democratica e antifascista.
Altro che rivoluzione comunista in Italia! Solo le destre idiote o in malafede hanno potuto descrivere un PCI rivoluzionario dedito alla sovversione in Italia.
LA REPPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
A conti fatti, la RSI ebbe, seppur sempre una minoranza, una buona partecipazione di popolo, circa 800 mila aderenti, anche se molti vi aderirono “per ufficio”, ovvero perchè trovatisi a proseguire lavori o servizi nell’Italia del Nord.
Considerando però che furono adesioni verso uno Stato che oramai si sapeva andare verso la sconfitta, con tutte le conseguenze per i suoi seguaci, questi adesioni non furono poche.
Anche i fascisti, le Brigate Nere, le formazioni autonome, ecc., che bene o male a differenza dei partigiani, indossavano una divisa, furono una minoranza, ma comunque costituirono una sensibile presenza di popolo, ma ovviamente, anche loro, subivano da parte della popolazione un certo isolamento (non avversione) perchè considerati una presenza “pericolosa” e “fastidiosa”, che comprometteva e “faceva proseguire la guerra”.
Tutto questo gli occupanti, gli angloamericani, lo sapevano benissimo ed ebbero a precisarlo apertamente in varie occasioni, negando anche ai cosiddetti partigiani, privi di divisa e segni distintivi, la qualifica di “combattenti”.
Anche una Sentenza del Tribunale Supremo Militare (n° 747 del 26.4.1954), tribunale, si noti, di questa Repubblica democratica, tra l’altro affermava:
1) I combattenti della RSI hanno diritto di essere riconosciuti belligeranti;
2) gli appartenenti alle formazioni partigiane non hanno diritto a tale qualifica, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza, né erano assoggettati alla legge penale militare.

IL POPOLO ITALIANO
La popolazione italiana, come si può riscontrare da una infinità di memorie non di parte, ma di gente semplice che magari parla di altre cose, di vita quotidiana, ecc., per lo più viveva nella speranza che la guerra finisse al più presto e con essa fame, miseria e disgrazie. Essendo la Nazione impegnata in una lotta mortale per la sua liberta e sopravvivenza, da un punto di vista “morale”, questo agnosticismo non depone certo a favore del nostro popolo, da sempre privo di grandi doti caratteriali, ma del resto quando si parla di civili, di popolazione, le cose sono sempre andate in questa maniera, seguendo le sorti della guerra: folle osannanti agli inizi o se le cose vanno bene, folle avverse che maledicono alla fine se le cose vanno male.
É la natura umana, tanto è vero che, sempre e comunque, i vincitori, hanno poi trovato uomini, civili e militari, pronti a cambiare casacca, a servirli, a interpretare ruoli di governo fantoccio loro assegnati e anche a fare da spie e da boia.
É ovvio che la popolazione con la sconfitta che pareva inevitabile (dal 1944 si avvicinava ogni giorno sempre più) e con l’Italia spaccata in due, Nord e Sud, dal tradimento badogliano e l’invasione in Sicilia, aveva perso il senso reale di chi fossero i veri invasori (che erano gli Alleati) e chi fossero i nostri alleati (i tedeschi) e tendeva a ragionare in termini utilitaristici e di pura sopravvivenza.
L’arrivo degli angloamericani nelle cosiddette località “liberate”, di conseguenza, era accolto come la fine della guerra, delle privazioni e per questo festeggiato.
I tedeschi erano considerati soldati corretti, ma su di essi pesavano le loro insensate rappresaglie, non considerando ottusamente costoro che, comunque sia, la RSI era uno Stato alleato e quindi non si dovevano applicare con noncuranza le leggi di guerra. I tedeschi erano temuti e si era lieti quando se ne andavano, ma anche qui, più che altro, perchè agli occhi della popolazione rappresentavano la prosecuzione della guerra e delle privazioni. Insomma, per il popolo, non vi era partecipazione politica, tantomeno ideologica e neppure emotiva, né da una parte, né dall’altra.
IL 25 APRILE E LA “LIBERAZIONE”
Sostanzialmente, il “25 aprile” è la data della nostra sconfitta militare, della totale occupazione del suolo italiano e la fine, tutt’ora perdurante, di ogni nostra sovranità nazionale. Qualunque sia il pensiero e l’ideologia di ciascuno, non si può che prendere atto di questa realtà indiscutibile. Tutto il resto è retorica.
La guerra è la soggiogazione delle nazioni sconfitte, rapina in ogni campo, imposizione di un proprio modello economico, culturale e politico.
E il 25 aprile 1945 l’Italia venne sconfitta e occupata dal nemico e nemico vero, anglo americano. Chi: persona singola, gruppo o partito, da questa occupazione ci ha guadagnato, ne ha tratto benefici in qualsiasi modo, personale, ideale, politico o che altro, può esserne soddisfatto, ma la sostanza dell’avvenimento non cambia: Il 25 aprile l’Italia fu definitivamente occupata dallo straniero. Punto.
Ma a proposito di “liberazione” si sappia che a Milano il 25 aprile, data fatta passare alla storia come giorno dell’insurrezione popolare, proclamata dal CLN, ma in realtà non eseguita, tranne uno sciopero dei mezzi in giornata e gli uffici che presero a svuotarsi nel sentore di imminenti avvenimenti decisivi, non accadde proprio nulla e i fascisti restarono padroni della città, fino a notte alta, quando intorno alle 5 del mattino lasciarono, armati e indisturbati, Milano da Piazza S. Sepolcro, via Dante e Corso Sempione, per incamminarsi verso Como.
Solo dopo quell’ora, nella metropoli, rimasta priva di fascisti, le “nuove” autorità della Resistenza, uscite dai loro sicuri rifugi per ricoprire le cariche che si erano assegnati, ma privi di uomini, come abbiamo già accennato, dovettero far occupare il palazzo del Governo, ovvero la Prefettura di Corso Monforte, lasciata da Mussolini, da uomini della Guardia di Finanza del col. Alfredo Malgeri.
Una G.d.F. da sempre con i piedi in due staffe e ora, a vincitori sicuri, passata ufficialmente dalla parte della Resistenza.
Libri di storia (falsa) e riviste di storia (altrettanto falsa), mostrano sovente foto di gruppi di partigiani e di civili, armi alla mano, che sembrano intenti a formare barricate o studiare imminenti azioni militari. Trattasi quasi sempre di falsi, di pose realizzate da appositi Studi a guerra finita, oppure messe in scena, ben lontani da teatri bellici, atte a mostrare imminenti azioni.
Ma non è raro neppure il caso di alcuni nominativi di fucilati dai tedeschi, in alcune rappresaglie, che vengono dati come “martiri antifascisti, quando invece, addirittura, trattasi di aderenti alla RSI o suo personale che vennero insensatamente rastrellati dai tedeschi infuriati per qualche attentato e passati per le armi.
Certo, storicamente, sono esempi poco importanti, ma sono significativi per dimostrare come, di tante tragedie ed eccidi, di povera gente che non era ne “anti”, nè “pro”, si sono fatte generalizzazioni e vi sono state poste etichette di martiri per una presunta “lotta antifascista”.
Il 27 aprile poi, scesi precedentemente dalle montagne grazie all’arrivo delle truppe Alleate o per il rifluire dei presidi tedeschi e fascisti, arrivarono a Milano le “famose” divisioni partigiane, quelle dell’Oltrepò pavese e più avanti ancora le “famose” divisioni Garibaldi, Matteotti, di Moscatelli della Valsesia, ecc., spesso contrassegnate da cervellotiche e altisonanti numerazioni, ma che in realtà tranne gli “arruolamenti dell’ultim’ora”, erano sempre state costituite da pochi elementi.
Arrivarono e sfilarono con armi e belle divise e fazzoletti, nuove fiammanti, fornite dagli americani, a dimostrazione che mai erano state impegnate in veri combattimenti.
A secondo delle varie località del Nord, fu solo nel pomeriggio del 25 aprile, ma più che altro il 26 e 27 aprile, con i tedeschi che oramai avevano smesso di combattere, anzi si erano arresi agli Alleati e si ritiravano nei loro acquartieramenti e i fascisti che lasciavano i presidi e si ritiravano verso Como e la Valtellina, che si ebbero arruolamenti “tranquilli” e festanti nelle Brigate partigiane e nei CLN locali.
Allora sì che il numero “dei guerriglieri” ebbe a crescere con adesioni che in futuro fruttarono spesso una pensioncina a questi “eroi” dell’ultim’ora.
Sui pochi fascisti rimasti isolati, su quelli che si arresero e così via, si abbatté la furia omicida e vendicativa dell’antifascismo.
Gli Alleati, fin dalla fine del 1943, avevano per il fronte italiano la direttiva di procedere con lentezza, altrimenti avrebbero sfondato il “ventre molle” dell’Asse e sarebbero facilmente penetrati alle spalle del Reich mettendo fine alla guerra.
Ma questo non era contemplato, in quanto in base agli accordi di Jalta, l’Europa doveva essere divisa in due zone di influenza, Est - Ovest e quindi bisognava attendere che i sovietici superassero il fronte est e invadessero l’Europa prendendo possesso delle zone a loro assegnate.
Comunque sia, mano a mano che le truppe Alleate occupavano le località del Nord e imponevano il loro governo AMG, le loro direttive impositive emanate dal PWB, ecc., questi invasori ebbero un duplice comportamento: in alcuni casi lasciarono consumare le stragi dei fascisti e presunti tali e anzi le aizzarono; in altri casi invece le fermarono specialmente se c’erano ufficiali e sotto ufficiali della oramai ex RSI da salvare con il nascosto fine di utilizzare poi questo personale per i loro interessi di occupanti.
Le forze di polizia, il personale delle Prefetture, Commissariati, ecc., oltre agli agenti scelti per ricostruire i Servizi, vennero tutti prelevati o racimolati dalle precedenti strutture, formazioni e Istituzioni della RSI, perchè la “polizia partigiana” era inesistente, personale in gamba ancor di più e quelle poche pattuglie armate della resistenza erano formate da comunisti di cui, ovviamente, gli Alleati, non avevano fiducia, nè intendevano armarli e addestrarli.
E quei fascisti che ebbero salva la vita, grazie all’intervento Alleato, spesso furono quelli che poi fecero una fine peggiore: quella di diventare, in nome di uno strumentale e specioso anticomunismo, servi sciocchi degli statunitensi.
La storia del neofascismo del dopoguerra, inizia proprio in quei momenti, dove il dirigente in Italia dell’Oss James Jesus Angleton fu abilissimo nel mettersi in tasca questi oramai ex fascisti. Le Stay behind, le Gladio, il filo atlantismo, la strategia della tensione degli anni ’60, ne furono la logica conseguenza.
Un'ultima osservazione a proposito di liberazione e liberatori.
Fino a quando negli ultimi decenni, sono esistiti comunisti, o presunti tali, oggi scomparsi, collassati con la “casa madre” URSS o con la stessa ideologia marxista disintegrata dal modernismo, dal moderno capitalismo finanziario e dalle ideologie radicali, abbiamo visto come questi comunisti sono sempre stati caratterizzati da una grande contraddizione: consideravano, qui da noi, gli anglo americani dei “liberatori” e di essi ne erano stati fedeli sudditi.
Ora invece, anni ’50 /70, consideravano gli americani, e qui dobbiamo dire giustamente, imperialisti, aggressori della Corea, oppressori dell’America Latina, invasori del Vietnam, padroni delle Multinazionali e così via: USA = Colonialismo, massacri, bombardamenti, Cia, sfruttamento capitalista.
Ebbene: non si erano accorti, questi “comunisti rivoluzionari”, che gli americani non erano altro che gli stessi, loro alleati, loro festeggiati, della “Liberazione” in Italia ?



                                                                                                                                                       

sabato 7 aprile 2018

Chi è italiano, e chi no

Chi è italiano, e chi no

Si parla molto di cittadinanza e si tende a identificare la cittadinanza con la nazionalità: se una persona ha la cittadinanza della Repubblica italiana, allora quella persona è senz’altro italiana; in fondo è molto semplice, no? Appunto: è troppo semplice. Eppure è evidente che le cose sono un po’ più complesse, basta riflettervi un attimo. Gli italiani che non hanno potuto, o non hanno voluto, lasciare la Venezia Giulia, nel 1947, al momento della firma del trattato di Parigi e della definitiva cessione di quelle terre alla Jugoslavia, non meritavano più il nome d’italiani, pur avendo perso, evidentemente, la cittadinanza italiana e avendo acquisito quella jugoslava? Chiaro che no: tanto è vero che, almeno sulla carta, in Jugoslavia esse godevano del riconoscimento d’una certa autonomia culturale e linguistica, peraltro ben presto rimasta lettera morta. E i cittadini svizzeri dei Canton Ticino, che non sono mai stati cittadini italiani, né del Regno, né della Repubblica, non meritano di essere chiamati e considerati italiani? Ma certo che sì: tanto è vero che l’italiano viene riconosciuto come una delle quattro lingue ufficiali della Confederazione Elvetica. Evidentemente, si può essere italiani, incontestabilmente e veracemente italiani, pur essendo sprovvisti della cittadinanza italiana: questo punto ci pare sia chiarito a sufficienza. Ma è vero anche il contrario, cioè che si può avere la cittadinanza italiana senza essere, perciò, veramente e incontestabilmente italiani? Questa sì che è una domanda ad altissimo tasso di scorrettezza politica: perché nel Paese dei diritti inviolabili e insindacabili, nel Paese dove le dispute ideologiche si vincono a suon di querele e di sentenze di tribunale, come la sinistra alla Boldrini insegna; nel Paese dove a settant’anni dalla fine del fascismo si continua a esorcizzare il risorgere della “barbarie” fascista, e vi sono amministrazioni comunali le quali non hanno miglior passatempo che revocare la cittadinanza onoraria concessa a suo tempo al cavaliere Benito Mussolini, e organi di stampa che hanno altro soggetto di cui occuparsi che un bagnino devoto alla memoria del Duce, già il solo fatto di porre un simile interrogativo sa terribilmente di razzismo e quindi, per contiguità logica e ideologica, di fascismo, e manca poco che non faccia venire in mente, a qualcuno, le leggi razziali e l’orrore di Auschwitz. Perché, inutile girarci attorno, porre quella tal domanda, di questi tempi, significa porre sul tavolo la questione incandescente della concessione della cittadinanza agli immigrati: concessione troppo facile, a giudizio di alcuni, oppure, al contrario, troppo lenta e laboriosa, a parere di altri, i quali la vorrebbero come un automatismo legislativo, si nasce in Italia e zac!, la cittadinanza italiana è assicurata. Nessuno può essere così insensibile da negare la cittadinanza a un povero, piccolo bambino che nasce nel nostro Paese e che a tanti preti di sinistra e teologi progressisti fa venire in mente, chi sa perché, il Bambino Gesù nella stalla di Betlemme, che era un migrante pure lui, anzi, addirittura un profugo: o almeno così ha affermato il falso papa Bergoglio nella omelia della santa Messa di Natale; peraltro facendosi immediatamente smentire dai teologi seri, anche se ha strappato gl’immancabili applausi dai suoi soliti tifosi e aficionados della curva sud.
A suo tempo, ci eravamo già posti quella domanda (cfr. il nostro articolo di oltre due anni fa: Che cosa significa acquisire la cittadinanza?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/12/2015), sostenendo che la concessione della cittadinanza non può ridursi ad un fatto meramente opportunistico, cioè fondato sulla convenienza e sull’interesse di colui che la richiede (e magari di colui che la concede, ossia lo Stato, come si deduce dalla dichiarazione dell’ineffabile Tito Boeri, secondo il quale l’Italia ha bisogno dei migranti per pagare le pensioni ai propri cittadini; scordandosi però che anche i migranti, dopo un certo numero di anni, diventeranno cittadini e che anche a loro si dovranno pur pagare le pensioni). Ad ogni modo, quella domanda ci è tornata insistentemente negli orecchi dopo aver assistito al solito servizio del telegiornale di regime, non ricordiamo se della tv pubblica o privata, tanto ormai non c’è più alcuna differenza, che riferiva della manifestazione svoltasi a Macerata domenica scorsa, 18 febbraio. Tale manifestazione è stata pensata dal sindaco di quella città, Romano Carancini, con un vero e proprio colpo di genio: in una Italia che si sta spaccando, sempre di più, fra quelli che piangono la tremenda sorte della giovane Pamela Mastropietro, assassinata e tagliata a pezzi, che poi sono stati occultati dentro due valigie, dagli spacciatori della mafia nigeriana, e quanti vogliono esprimere tutta la loro solidarietà alle vittime del pistolero solitario Luca Traini, il quale ha percorso le strade in lungo e in largo, sparando su tutti gl’immigrati dalla pelle scura che ha visto a portata della sua pistola (e le autorità dello Stato si sono mosse soprattutto per questi ultimi, come se solo quelle persone fossero state vittime di una violenza ben precisa, e la povera Pamela invece fosse morta per una specie di tragica fatalità, insomma per mano di qualche entità evanescente), il primo cittadino di Macerata ha chiamato all’appello i suoi concittadini nel nome di una città libera e antifascista. Geniale: la libertà è un bene preziosi per tutti, e l’antifascismo è un bene prezioso per quelli che contano, cioè gli apparati dello Stato e tutto il carrozzone della cultura e dell’informazione politically correct. Due piccioni con una fava: quanto basta per scongiurare eventuali accuse di faziosità, da sinistra o da destra, in un clima che si sta facendo ormai quasi insostenibile, basti citare i ragazzi dei centri sociali i quali proprio lì, a Macerata, hanno sfilato cantando gioiosamente, il 27 gennaio, giorno della memoria, quant’è bello far le foibe da Trieste in giù, evidentemente per onorare, sputando sul ricordo delle vittime delle foibe, le vittime della sparatoria di Luca Traini, e rassicurare tutti gl’immigrati che gli italiani, nella loro componente sana, sono talmente antirazzisti da non avere alcuna esitazione a diventare razzisti verso i loro stessi connazionali i quali, sulla bontà dell’immigrazione illimitata, hanno delle idee un po’ diverse dalle loro, piene di ottimismo e di fiducia.
Domenica 18 febbraio pioveva a dirotto e faceva freddo, eppure, come hanno riportato tutti i mezzi d’informazione, i partecipanti alla manifestazione voluta dal sindaco non hanno esitato a sfidare eroicamente le proibitive condizioni atmosferiche per far sapere al mondo quanto si sentano antifascisti e amanti della libertà. Erano “parecchie centinaia”, hanno detto televisioni e giornali, per magnificare il loro sprezzo delle crudeli intemperie: il che, per un comune di circa 42.000 abitanti, capoluogo di provincia, senza contare la presenza dei “compagni” i quali, immancabilmente, in simili occasioni vengono mobilitati un po’ dovunque e fatti affluire dall’esterno, a noi pare un po’ pochino: ma guai a dirlo o ad insinuarlo, sarebbe un attentato alla libertà e all’antifascismo. I solerti giornalisti politicamente corretti hanno registrato, e fatto mandare in onda, due interviste (oh, due fra le tante, scelte assolutamente a caso, ben s’intende), colte al volo dai partecipanti al corteo: un signore italiano di mezza età, barba e baffi, ben vestito, che parlava in maniera appropriatissima, come un professore di liceo, e una donna piuttosto giovane, di colore (sì, è vero: di colore non vuol dir niente, non si capisce se giapponese o marocchina, ma insomma è per non dire “negra”, che potrebbe sembrare offensivo, e neppure “nera”, che fa venire in mente una pittura di vernice fresca, mannaggia non salta fuori un aggettivo adatto alla bisogna, di questi tempi nei quali la psicopolizia sorveglia più che mai l’uso del linguaggio, pronta a querelare il malcapitato razzista di turno). Una giovane vestita con proprietà, addirittura elegante, dai tratti molto fini, trucco e rossetto perfetti, che parlava un italiano impeccabile, insomma il vero prototipo dell’immigrato d.o.c., più educato e civile di tanti italiani, ineccepibile, rispettoso della legge, nessuna differenza tranne il colore della pelle: niente veli, niente burqa, nessuna goffaggine, o improprietà, o diffidenza, e una prontezza e una padronanza di sé invidiabili, anche davanti alle telecamere. Insomma, l’equivalente femminile del Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena?, dove Spencer Tracy e Katharine Hepburn scoprono che la loro bionda figlioletta si è fidanzata con un negro, sì, ma più bello di un Apollo e più elegante di un figurino di Hollywood, per non parlare della professione (è un medico molto stimato), del livello sociale, della forbitezza linguistica, cento volte superiori a quelle di un operaio bianco del profondo Sud. E che cosa hanno detto, a beneficio dei telespettatori, queste due persone scelte certamente a caso nella folla dei manifestanti, sotto la pioggia di domenica scorsa, per le vie di Macerata? Neanche a farlo apposta (quando si dice le combinazioni!), esattamente ciò che il potere vuole che i cittadini si sentano dire, dalla mattina alla sera, ogni santo giorno, possibilmente senza contraddittorio: che va tutto bene così; che viviamo nel migliore dei mondi possibili; che non c’è alcuna invasione, alcuna islamizzazione dell’Italia; che bisogna essere aperti e accoglienti verso gli stranieri, angeli mandati a noi dal Signore Iddio; che chi la pensa diversamente non può essere che un fascista e un razzista, e sarebbe giusto e doveroso mettere fuori legge tutti i gruppi e i movimenti nei quali sia ravvisabile una certa qual reticenza a bersi tutte queste balle colossali. Il signore compito e dall’aria professorale ha detto, indicando le persone con gli ombrelli aperti, che quella era la vera Macerata; che la vera Macerata è così, aperta, accogliente e tollerante; che è un vero delitto che il gesto isolato di uno squilibrato abbia portato la sua città ai disonori delle cronache (ha adoperato proprio questa forbita espressione). E la signora africana, in elegante tailleur rosso, da parte sua, ha deplorato l’intolleranza di certa gente, ha rivendicato i diritti degli immigrati e ha concluso perentoriamente, con aria trionfante: Che piaccia o no, io sono italiana!
Ecco: quest’ultima frase ci ha fatto particolarmente riflettere. Che piaccia o no, io sono italiana! Ma già nel fatto di affermarlo così, come qualcosa che può anche dispiacere a una parte degli italiani, e tuttavia sbatterglielo sul muso, dovete accettare questa cosa, che vi piaccia o no, significa tradire il vero spirito della cittadinanza: perché l’acquisizione della cittadinanza non può e non deve essere brandita come una clava sulla testa degli italiani che sono nati tali, per tradizione millenaria e per piena appartenenza etnica, linguistica, culturale. Non si diventa italiani con un atto d’imperio o con l’esibizione di un pezzo di carta: perché una cosa è essere cittadini italiani, e un’altra cosa è essere italiani per davvero, cioè nel profondo dell’anima. E il primo requisito per essere dei veri italiani non è di tipo giuridico e formale, ma morale e sostanziale: significa amare l’Italia e ciò che essa rappresenta: la sua civiltà, la sua cultura, il suo popolo, la sua lingua, la sua arte, la sua storia, la sua bellezza, tutto il suo immenso patrimonio spirituale. Del quale fa parte inscindibile il cristianesimo, che ciò piaccia o non piaccia – vien da dire, facendo il verso a quella gentile signora – ai burocrati massoni di Bruxelles, tutti intenti a raschiar via quel poco che resta di cristiano nelle società le quali, per loro sventura, hanno aderito al progetto economico e politico dell’Unione europea. Ora, noi non sappiamo se la signora in questione abbia o non abbia la cittadinanza italiana; quel che sappiamo è che il suo modo di esprimersi è già di per sé una maniera scorretta di porsi come parte del popolo italiano. Chi è arrivato ieri in una casa antica di molti secoli, non può dire agli altri inquilini: Che vi piaccia o no, io adesso sono qui, perché questo è un parlare arrogante, un atteggiamento di sfida e di provocazione. Se l’ultimo arrivato ama davvero quella casa, se pensa di essere degno di divenire un suo nuovo inquilino, la prima cosa che deve fare è armarsi, non della cultura dei diritti, ma del senso di umiltà e del rispetto: umiltà perché è l’ultimo arrivato, e si trova a raccogliere ciò che altri hanno seminato; rispetto perché è arrivato in qualità di ospite, cioè è stato accolto per pura benevolenza e per pura generosità, quindi deve riconoscenza agli altri inquilini, come un figlio verso i suoi genitori: altro che dire loro: che vi piaccia o no, eccomi qui! Nell’antica Atene, culla della democrazia, gli stranieri, i meteci, non avevano alcun diritto politico, neanche dopo dieci generazioni; erano stranieri e restavano tali, tollerati, non pienamente accettati, se non sul piano della loro attività economica e della relativa tutela legale. Ma la cittadinanza è un’altra cosa: è esercitare i pieni diritti e, quindi, partecipare alle decisioni sul futuro della patria. I democratici ateniesi, questo non lo concedevano se non a pochissimi meteci, sulla base di speciali meriti acquisti verso la polis. Nessuno spartano, o tebano, o corinzio, si sarebbe mai permesso di dire: Che vi piaccia o no, io sono ateniese!, sia che avesse, sia che non avesse la cittadinanza: lo avrebbero rispedito nella sua patria d’origine in quattro e quattr’otto. Si può ottenere la cittadinanza, ma non si può imporre il possesso della nazionalità, cioè la vera appartenenza ad un popolo, che è soprattutto un fatto interiore. Non è una cosa che ci si può dare da soli, sono gli altri che la danno, proprio come in una famiglia. Se uno straniero mostra di amare e rispettare l’Italia come la sua nuova e vera patria, allora gli italiani se ne accorgeranno, e, un poco alla volta, lo accetteranno come uno dei loro. Ma questo non può avvenire se si tratta di masse di milioni di persone, assolutamente refrattarie a integrarsi e, anzi, fermamente decise a colonizzare l’Italia, servendosi del numero dei propri figli per attuare una conquista incruenta. È come con l’amicizia: devono essere gli altri a riconoscere che tu sei un vero amico; non conta nulla che sia tu a proclamarti tale…
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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

                                                                                                                                                       

lunedì 2 aprile 2018

Pasque di sangue


Don Curzio Nitoglia è uno straordinario esempio di prete-coraggio che non ha paura di contestare i dogmi della correttezza politica. La casa editrice effepi ha pubblicato un suo saggio sul controverso tema dell’omicidio rituale ebraico: un argomento che è ancora capace di suscitare furibonde polemiche nel mondo della cultura d’apparato. Don Nitoglia compie una ricognizione delle fonti che riguardano l’argomento a partire da un fondamentale dossier pubblicato alla fine del XIX° secolo: nel 1893 la prestigiosa rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica pubblicò una serie di articoli sulla morale giudaica a cura di Padre Oreglia. Alcuni articoli della rivista erano dedicati al tema dell’omicidio rituale: dal 1071 al 1891 si ha notizia di 60 processi celebrati contro gli ebrei per questo crimine. Dall’analisi dei processi emergono alcuni tratti comuni: l’assassinio di un cristiano non solo è reputato lecito, ma è comandato ai giudei dalla legge talmudica-rabbinica; le azzimelle per celebrare la Pasqua ebraica vengono imbevute col sangue dei bambini cristiani; il bambino deve morire fra i tormenti perché il suo sangue sia proficuo alla salute dell’anima giudaica. Queste accuse erano confermate da alcuni rabbini convertiti al cristianesimo, e in particolare il rabbino moldavo Teofilo, dopo la conversione, affermò: «gli ebrei sono più contenti quando possono ammazzare i bambini perché sono innocenti e vergini, e quindi perfetta figura di Gesù Cristo; li ammazzano a Pasqua, acciocché possano meglio rappresentare la passione di Gesù Cristo». La Civiltà Cattolica riteneva degna di fede la testimonianza di Teofilo per tre ragioni: in primo luogo perché Teofilo stesso era stato rabbino e fin dall’età di tredici anni aveva celebrato i riti giudaici, in secondo luogo perché deponeva contro se stesso, avendo confessato di aver fatto uso di sangue cristiano, in terzo luogo perché correva il rischio di essere ucciso dai suoi ex correligionari a causa delle sue rivelazioni, e tuttavia aveva parlato ugualmente per debito di coscienza e per carità verso i cristiani.

Don Nitoglia si sofferma su un importante caso verificatosi in Italia: quello di San Simonino di Trento, ucciso nel 1475 e beatificato dalla Chiesa (giova ricordare che la lobby ebraica ha imposto la soppressione del culto di San Simonino). Gli atti del processo ricostruiscono la vicenda del martirio del piccolo Simone: il fanciullo, portato all’interno della sinagoga, venne tenuto su uno scanno con le braccia tese in forma crucifixi, venne torturato con una tenaglia, e il suo sangue venne raccolto in una scodella, mentre i giudei pronunciavano maledizioni contro i cristiani. Il bambino morì dopo circa mezz’ora. Ovviamente sono stati versati oceani d’inchiostro per propagandare tesi negazioniste volte a smentire la realtà storica dell’omicidio rituale ebraico. La cultura ufficiale, riguardo il caso di San Simonino, accusa i Francescani di aver montato una campagna d’odio nei confronti degli ebrei. Nel XV° secolo i Francescani erano impegnati nell’istituzione dei Monti di Pietà, con i quali riuscirono a sottrarre i cristiani alle condizioni di prestito usuraie praticate dagli ebrei. Tuttavia i fraticelli che si sono impegnati in questa meritoria opera di civiltà, per la cultura organica al sistema hanno fomentato l’odio antisemita. Come si è detto in precedenza, dopo il Concilio Vaticano II° il culto di San Simonino è stato abolito. Don Nitoglia fa notare come questa decisione abbia ripercussioni gravissime nella definizione delle procedure di canonizzazione. La Chiesa postconciliare, ormai sprofondata in una condizione di totale sudditanza psicologica nei confronti degli ebrei, ha affermato temerariamente di aver sbagliato nel giudizio di beatificazione su San Simonino, e in questo modo ha aperto il varco alla penetrazione della Cabala giudaica fino al vertice delle gerarchie ecclesiastiche.
L’obiezione fondamentale dei negazionisti è che la passione religiosa avrebbe accecato gli storici cattolici. In base a questa obiezione occorre allora dubitare di tutto ciò che gli storici scrivono, poiché ogni uomo è mosso da una qualche passione: si pensi solo alla straripante letteratura storica ispirata all’ideologia sionista. Don Nitoglia, inoltre, affronta l’argomento anche sul piano della fede, infatti dal punto di vista cattolico occorre tener presente che l’omicidio rituale si presentò sotto la copertura e la garanzia di poteri politici fra i quali figurano anche dei santi: San Luigi IX° in Francia, San Enrico in Germania, e San Ferdinando in Spagna. I cattolici sono tenuti a credere ai santi in quanto modelli di perfezione che i fedeli devono sforzarsi di imitare. Non è dunque ammissibile, per i credenti, che questi personaggi siano macchiati dal peccato e che siano stati dei calunniatori: per la dottrina cattolica la Chiesa è infallibile nel canonizzare. Tanto più che le vittime degli omicidi rituali sono state beatificate e quindi proposte al culto dei cattolici assieme agli atti del loro martirio (San Simonino è posto nel Martirologio Romano al 24 marzo). Non è mancato chi ha tentato di affermare che il martirio deve essere un atto cosciente e volontario, e che quindi un bambino non può essere considerato né martire né santo: questa è la tesi sostenuta dal commissario pontificio padre Battista de’ Giudici, per scagionare gli ebrei dall’accusa. Don Nitoglia ricorda che, come tutti sanno, la Chiesa ha canonizzato i Santi Martiri Innocenti fatti uccidere da Erode: la tesi del de’ Giudici può essere sbugiardata dai ragazzini del catechismo!
Don Nitoglia accenna anche alle fonti antiche che riguardano i sacrifici umani in relazione all’Ebraismo: la religione ebraica condannava i sacrifici umani, che erano praticati dai Cananei, ma non si può escludere che questi culti barbari abbiano influenzato alcune frange del mondo ebraico. Nella letteratura talmudica si fa menzione di un culto del Moloch praticato in ambiente ebraico. Don Nitoglia, poi, fa alcune considerazioni sulle autorità scientifiche che hanno esaminato le testimonianze: i Papi e i Padri Bollandisti. Com’è noto i Papi esaminano sempre con grande ponderazione e con proverbiale prudenza i documenti che riguardano la storia religiosa, e i Padri Bollandisti sono universalmente noti per l’accuratezza e il rigore delle loro ricerche.
In passato il dibattito sugli omicidi rituali ha interessato nientemeno che i signori dell’alta finanza: nei primi anni del XX° secolo, i Rothshild fanno pressione sui cattolici inglesi affinchè convincano la Santa Sede a scagionare ufficialmente e definitivamente gli ebrei dall’accusa del sangue. Tuttavia gli sforzi della ricchissima famiglia ebraica furono vani: la Santa Sede all’epoca non era affatto incline ai cedimenti ecumenici che caratterizzano la Chiesa postconciliare. Don Nitoglia conclude il libro affermando la fondatezza dell’intenzione sterminazionista propugnata dall’Ebraismo talmudico verso i cristiani, e dichiara: «mi sembra perciò, che si possa affermare, senza paura di sbagliarsi, la veridicità storica della tesi dell’Omicidio Rituale ebraico, senza cadere in eccessi di fanatismo, che lo vedono ove non c’è, ma senza neanche cadere nell’errore di scetticismo che si ostina a negarlo, dopo prove storiche e magisteriali così probanti».
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Don Curzio Nitoglia, L’omicidio rituale ebraico. La secolare accusa del sangue: tesi e documenti a confronto, effepi, Genova 2004, pp.56, euro 6,00.
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