sabato 19 luglio 2025

LA MEMORIA DIMENTICATA

 


LA MEMORIA DIMENTICATA
Storie mai scritte della Guerra Civile
1943-1945 in Brianza

Quello di Norberto Bergna è certamente un libro particolare. Non è un testo convenzionale che parla solo di fatti storici, nel quale gli uomini non sono altro che degli attori quasi casuali. Bergna ci parla soprattutto di uomini e attraverso la loro storia personale riesce in modo avvincente a portare allo scoperto fatti storici che sinora, per convenienza politica, per opportunismo personale o per semplice disinteresse, i cosiddetti storici non hanno ritenuto di dover narrare. Particolarmente lodevole è che l'autore non imponga il proprio punto di vista, ma attraverso il racconto di fatti storici ampiamente documentati aiuti certamente il lettore a perfezionare la propria personale opinione, che può essere tanto più obiettiva quanto più completa è l'informazione.

Bergna inoltre, con la sua umanità restituisce dignità e onore a tanti Caduti che ebbero il solo torto di credere e combattere per quella che solo gli eventi bellici avrebbero bollato come "la parte sbagliata". n questo libro si parla di morti scomode, di "morti ammazzati", di esseri umani con le loro storie di tutti i giorni le cui vite furono travolte e spezzate dai tragici fatti avvenuti a Seregno e dintorni durante la Guerra Civile dal 1943 al 1945.
 

A onor del vero, gli atti di furia omicida non si limitarono solamente a quel periodo ma si protrassero ancora per alcuni anni, tant'è che fu necessaria l'amnistia Togliatti per sanare i numerosi eccessi di furia bestiale perpetrati nei confronti di fascisti o presunti tali.

La Guerra Civile e la barbara carneficina che seguì la sua conclusione, dovrebbero costituire un grande lutto per tutto il popolo italiano. Per oltre mezzo secolo, il ricordo di questi italiani e l'olocausto da essi subito sono stati relegati in una sorta di dimenticatoio perchè appartenenti allo schieramento dei "vinti". Per coloro che combattendo per un ideale furono sconfitti, non fu sufficiente perire, dovevano essere disprezzati dai "vincitori" al punto di essere discriminati anche da morti. Per tanti altri che invece non morirono in battaglia, ma a guerra abbondantemente finita furono ugualmente privati della vita con esecuzioni sommarie senza neanche una parvenza di processo, ai loro familiari, oltre all'oltraggio, toccò la beffa della legittimazione dell'omicidio dei propri congiunti. Questo libro è un contributo per portare alla luce una verità che, pur costituendo una corposa parte della "memoria" di Seregno, viene regolarmente stravolta, omessa, sottaciuta... dimenticata.

Il libro consta di 220 pagine e 222 fotografie provenienti dall'archivio dell'autore, dai familiari dei Caduti, da privati e dallo Studio Fotografico Pierino Corno di Seregno.


Finito di stampare a cura dell'associazione culturale MADM - BRIANZA VIVA nel mese di novembre 2002 da A.G. Bellavite srl, Missaglia (Lc)

 

 



 

 


domenica 13 luglio 2025

Come è stata svenduta l’Italia

 

Come è stata svenduta l’Italia
di Antonella Randazzo per  - 12 marzo 2007

Era il 1992, all'improvviso un'intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant'anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava.
Cos'era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali?

Mentre l'attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese.
Con l'uragano di "Tangentopoli" gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l'Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d'Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata "privatizzazione".

Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L'allora Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l'uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal Ministro degli Interni. L'attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante.

Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.

Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: "Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi". 
Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il "nuovo corso" degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993.

Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della "strategia della tensione", e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un'autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un'altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un'autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone. I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse "colpire le opere d'arte nazionali", ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle "menti più fini dei mafiosi".[1]

Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull'economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. 
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia: "la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri", Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: "non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste".[2] 

I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: "Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm".[3] 
Anche il Pubblico Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: "Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti".[4]
Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo.[5]

Che gli assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano.
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: "Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana".[6] Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una visita a Monaco, disse: "Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove". 
Probabilmente, le tecniche d'indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell'anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell'onestà e dell'assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: "Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato".[7] 

L'omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell'élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: "Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura... Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi... è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove".[8] 

Infatti, quell'anno gli italiani capirono che c'era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all'élite che coordina le mafie internazionali. 
Quell'anno l'élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l'Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.

Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c'era in atto un'operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: "Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso:  delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona".[9]

Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: "Bisogna stare attenti, molto attenti... Ho parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione... Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est... Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche".[10] 

Anni dopo, l'ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: "Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leaders dei partiti di governo". 
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c'erano alcuni appartenenti all'élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).

In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d'Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell'Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell'Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c'erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani.
La stampa martellava su "Mani pulite", facendo intendere che da quell'evento sarebbero derivati grandi cambiamenti. 
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell'Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.

Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l'élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare.
L'inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare  la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell'élite. L'incarico di far crollare l'economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane.
Soros ebbe l'incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall'élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.

Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull'Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d'Italia. C'erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell'élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d'Italia. 
La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest'ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l'Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell'Europa e dell'Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.

In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L'accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. 
La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà:  

Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell'economia produttiva e l'esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l'Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico.[11]

Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell'ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un'inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L'attacco speculativo di Soros, gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l'attacco, l'allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari.
Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d'Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il Presidente e il segretario generale del "Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà", durante l'esposto contro Soros:

È stata... annotata nel 1992 l 'esistenza... di un contatto molto stretto e particolare del sig. Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell'apparato della Banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria "Goldman Sachs & co." come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della "Albertini e co. SIM" di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del "Quantum Fund" di Soros.

III. L'attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht "Britannia" della regina Elisabetta II d'Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell'industria di stato italiana. A seguito dell'attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell'economia nazionale e dell'occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all'incontro del Britannia avevano già ottenuto l'autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L'agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l'intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione.[12]

I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l'allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l'allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all'allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori.
Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la "necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo", pur sapendo che l'Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni.
Gli attacchi all'economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell'élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse:

I mercati valutari e le borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo... è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell'unificazione monetaria.[13]

Il giorno dopo, il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, riferiva che l'Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché "se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco".
Le nostre autorità denunciavano il potere dell'élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell'élite anglo-americana.

Il Movimento Solidarietà fu l'unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell'economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato.[14]
Il 6 novembre 1993, l 'allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare "le procedure relative al delitto previsto all'art. 501 del codice penale ("Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio"), considerato nell'ipotesi delle aggravanti in esso contenute". Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende.

Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia.
Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell'elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.

Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva "risanare il bilancio pubblico", ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.

Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell'élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l'acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell'ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%.
Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank.
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell'élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers,  si fecero avanti per attuare un'opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l'Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L'Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.

Il titolo, che durante l'opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.  
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).

Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita.
La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti.
La Telecom , come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all'interno società con sede alle isole Cayman, che, com'è noto, sono un paradiso fiscale.

Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull'esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema.
Mettere un'azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com'è emerso negli ultimi anni.

Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere.
La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l'onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti.
I Benetton hanno incassato un bel po' di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell'Unione Europea e alla politica del Presidente del Consiglio.

Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati.
La società Trenitalia è stata portata sull'orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c'è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l 'amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell'ottobre del 2006, il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un'azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.

Dietro tutto questo c'era l'élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell'economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il  controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E' simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: "Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom".[15]
Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie ("Bond") con un alto margine di rischio. La Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.

Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l'agenzia di rating, Standard & Poor's, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti.
I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.).

La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I "Partners" non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza. 
Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all'élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero.
Agli italiani venne dato il contentino di "Mani Pulite", che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere.

A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia.
Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come "autorevoli" (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell'interesse di questa élite, e non in quello del paese.

domenica 6 luglio 2025

CORSI E RICORSI

 


Corsi e ricorsi

Il conto della Storia


La storia avrà i suoi tempi ma prima o poi presenta il conto e a pagarlo non sono certo i potenti, ma il popolino che paga le nefandezze di coloro ai quali ha affidato il potere e paga anche, nella fattispecie del popolo italiano, la propria ignavia, la propensione alla tranquillità e al menefreghismo, il ritorno, dopo l'8 settembre e la vergogna di Piazzale Loreto, al “franza o spagna purchè se magna”, in una parola da popolo libero a popolo di servi!

Ora ci ritroviamo a subire un'invasione biblica che rischia di cancellare la nostra già fragile identità di popolo sconfitto e soggiogato dai vincitori del secondo conflitto mondiale, perché questa è la conseguenza della spartizione dell'Europa che avvenne nel febbraio 1945 a Jalta, tra Russi, Americani e Inglesi, che regalò mezza Europa alla comunista Urss, mentre Germania e Italia divennero “colonie” angloamericane.

Adesso la Storia ci presenta il conto e il popolo bue non muoverà un dito, COSA CHE NON SAREBBE MAI POTUTA ACCADERE CON LA GENERAZIONE CHE SEPPUR SCONFITTA ERA CRESCIUTA COL FASCISMO, perché oramai al popolo basta avere per il momento la pancia piena.

Tutti mugugnano per il fatto di avere una Presidente della Camera che antepone agli interessi degli Italiani quelli degli stranieri e tutela solo gli interessi degli immigrati, che è infastidita da monumenti, scritte o altri segni che riguardano o possono ricordare quel Fascismo che è stata l'unica ideologia nella Storia dalla parte degli Italiani mentre loro, i cattocomunisti, non hanno fatto altro che distruggere l'identità italiana, in modo da completare ciò che è sempre stato il sogno, quello di un'Italia asservita o al Vaticano oppure all'internazionalismo socialcomunista.

Per questo hanno voluto il sistema elettorale maggioritario che ha dato vita ad un bipolarismo fasullo, quello dell'alternanza tra coalizioni di eguali che ci ha messo per ben vent'anni nelle mani di un certo Silvio Berlusconi ed ora in quelle del terzetto Boldrini, Renzi e Bergoglio (il Buon Pastore che però non ha mai speso una parola per le “pecorelle” italiane vittime dell'immigrazione selvaggia!), che finora hanno gestito il fenomeno migranti in maniera tanto disastrosa quanto fraudolenta al punto da far rimpiangere agli Italiani immemori i vent'anni di leggi “porcata” o “ad personam” di berlusconiana memoria.

Gli immigrati sono una risorsa dice il terzetto, certo lo sono se limitati, regolati e controllati, altrimenti sono una risorsa solo per le tasche dello Ior (la Banca del Vaticano) e per le cooperative rosse o bianche collegate ai Partiti, per il racket della prostituzione, per la manovalanza di mafia e n'drangheta, per lo spaccio di droga, per i caporalati del Sud e per il lavoro nero, ma non certo per gli Italiani che vivono onestamente e pagano le tasse.

In tanti ci sdegniamo per le uscite della Boldrini e per le intromissioni della Chiesa, ad esempio sul delicato problema dello “ius soli”, ma non riempiamo le piazze per manifestare contro questi atti o per chiedere che, come in altri Paesi, lo “ius soli” sia almeno severamente regolamentato, le riempiamo solo per i concerti o per le sagre paesane, pensiamo di cambiare le cose facendo gli eroi da tastiera o mettendo una scheda in un'urna, non avendo imparato che questa è una democrazia solo di facciata e con le elezioni non si cambia nulla, perché, dopo le solite promesse, i Partiti torneranno a legiferare più a favore dei propri interessi che di quelli degli Italiani, è sempre stato così dal 1947 ad oggi.

Forse solo in un'Unione Europea forte e coesa le cose potrebbero cambiare e questo spiega perché gli euroscettici ed i no-euro trovano tanto sostegno sui media e sulle reti televisive delle lobby contrarie ad ogni cambiamento e al nostro riscatto.

L'unica possibilità per gli Italiani, per riprendersi la loro Patria e tornare ad essere un popolo libero, sarebbe la rivolta, ma la rivolta per …...imbarcare per l'Africa tutta questa Casta corrotta con i suoi annessi e connessi.

Possiamo aspettarci questo da un popolo che, quando si poteva ancora cambiare rotta dopo la contestazione, le stragi “impunite” e gli anni di piombo, scelse di nuovo conformisticamente la DC di Andreotti e il PC di Berlinguer invece del MSI di Giorgio Almirante?

O rivolta o finis italiae. Tertium non datur !

Uno nessuno e centomila





domenica 29 giugno 2025

RODOLFO GRAZIANI


 

Rodolfo Graziani

 

Rodolfo Graziani nacque l’11 agosto 1882 a Filettino, paesino situato nella Valle dell’Aniene, ai piedi del Monte Viglio.
Quarto di nove figli, dalla madre Adelia Clementi ricevette un educazione all’insegna del sentimento religioso, del culto del bene, educato verso mete nobili ed elevate.
Indirizzato dal padre Filippo nel seminario di Subiaco, dove osservò “regole” rigide e tempranti, già da allora Rodolfo mostrò amore per l’imprevisto e sete di avventura.
Durante gli anni del liceo, in lui si era sviluppata la tendenza alla carriera militare.

Al sacerdozio non aveva mai pensato se non in qualche periodo di fugace esaltazione; non era molto attratto dalla politica, anche se dal padre era stato educato ai principi monarchici.
Era più interessato alla questione sociale: pensava infatti che un sistema di collaborazione fra capitale e lavoro potesse avvicinare le classi con beneficio reciproco, senza bisogno di ricorrere alla lotta di classe.
A causa delle ristrettezze economiche, non potendo frequentare la scuola militare, si iscrisse al notariato nell’Università di Roma e, contemporaneamente, fece il servizio militare di leva nel plotone allievi ufficiali del 94° Regg. Fanteria in Roma.
Il I° maggio 1904 fu nominato sottotenente e destinato al 92° Fanteria a Viterbo.
Verso il finire del servizio militare si preparò per un concorso pubblico, ma nel momento in cui il suo nome fu chiamato egli non si mosse: era come se una forza superiore lo avesse trattenuto.
Fece così il concorso per ufficiale effettivo, dove presentò un tema:”dimostrare come le Nazioni, pur cadute nella rovina, possano risorgere, sempre che mantengano intatti l’onore e l’amore all’ indipendenza e alla libertà”.
Si realizzò così il suo sogno: Ufficiale nel I° Reggimento Granatieri di Roma, era il 1906.
Nel 1908 fu destinato in Eritrea, dove entrò in contatto con quel deserto che aveva già infiammato la sua fantasia di adolescente, e dove imparò l’arabo e il tigrino, per penetrare nel costume delle popolazioni locali.
Destinato al primo battaglione con sede ad Adi Ugri, vi rimase quattro anni, dove ebbe modo di temprare il suo carattere.

La sua esperienza coloniale terminò alla fine del 1912 a seguito di un morso di un serpente velenoso che per oltre un anno lo vide combattere tra la vita e la morte.
Nel 1913 sposò Ines Chionetti, amica d’infanzia di Subiaco, e sei mesi dopo era già in Cirenaica a combattere per lo scorcio della prima campagna libica; l’unica figlia nacque alla vigilia della partenza, dell’allora Capitano, per la Grande Guerra.
Ne rientrò con l’aureola dell’eroe: più volte ferito, decorato al valore, promosso per meriti di guerra, citato nei bollettini militari e nei diari storici delle varie grandi unità a cui era appartenuto.
Aveva 36 anni: il più giovane colonnello dell’Esercito Italiano! Già un alone di leggenda circondava il suo nome e le sue gesta.
In quel periodo non vi era ancora il Fascismo; e debbono così ricredersi, quanti affermarono ed affermano ancor oggi che la sua carriera fu dovuta a favoritismi da parte di Mussolini e del Regime.
Rientrato in Italia con il 61° Fanteria, che egli comandava in Macedonia, tornò a Parma, sede normale di quel Reggimento, dove prese contatto per la prima volta, suo malgrado, con l’ambiente politico.
Finita la guerra, infatti, cominciò il triste periodo 1919-21, dove vi furono agitazioni politiche, scioperi, rivolte, rappresaglie.

Ci trovavamo in una situazione in cui: la nostra vittoria era misconosciuta all’estero e rinnegata all’interno; il sacrificio dei seicentomila morti e di milioni di mutilati e feriti, vilipeso; fu dato ordine agli ufficiali di uscire disarmati; furono strappati dal petto dei valorosi i contrassegni delle medaglie; furono invase le caserme, distrutte le loro insegne, e i reduci colpiti a morte; furono offese le bandiere della Patria!
A Parma ribolliva più che altrove la lotta delle opposte fazioni, al punto che il Colonnello Graziani venne segretamente condannato a morte dal comitato rivoluzionario, reo di aver assunto un’ atteggiamento risoluto contro gli sbandati, per ricondurli all’ordine.
Graziani in quei frangenti mantenne un’assoluta neutralità fra i partiti, e dopo un anno passato nell’incertezza ” cedetti anch’io alla crisi che colpì allora tanti ufficiali e chiesi di essere collocato in aspettativa per riduzione dei quadri”.
Nell’ottobre del ’21, dopo due anni di distacco, e dopo alcuni tentativi di darsi al commercio con l’oriente, Graziani accettò la proposta, fattagli dall’allora Ministro della Guerra, di andare in Africa.

In quell’anno era ricominciata la conquista della Libia la cui campagna si era dovuta abbandonare nel corso della Guerra italo-austriaca: Graziani, destinato a Zuara, ebbe inizialmente funzioni puramente militari, ma quando le operazioni presero un raggio di grande ampiezza, divenne uno dei migliori esecutori della politica interna.
Attenendosi a fermi principi di giustizia, Graziani, nominato Comandante militare e politico dell’Altopiano del Gebel Occidentale, si conquistò l’immenso ascendente e il prestigio, che continuò a godere per tutta la vita, presso le popolazioni libiche.
Fino al 1929 egli, con il grado di Generale di Brigata, continuò ad esercitare funzioni politico-militari nella progressiva avanzata dapprima verso la Sirtica e poi verso Fezzan, fino ad essere considerato “elemento prezioso” dall’allora Governatore De Bono.
Nominato Vice-Governatore della Cirenaica, dove la politica iniziale del Governatore Badoglio aveva prodotto un vero disastro, tradusse in atto, con mano ferma, le direttive impartitegli, riformando su nuove basi il corpo di truppe coloniali, imprimendo maggior vigore alle operazioni, stroncando ogni connivenza con i ribelli.
Nel marzo 1934 il Generale Graziani consegnò la Cirenaica completamente pacificata ed etnicamente riordinata nella sua essenza al nuovo Governatore Generale Maresciallo Italo Balbo.

Tale operazione gli valse, da parte del Ministro delle Colonie, la citazione quale benemerito della Patria nei due rami del Parlamento.
Nel frattempo, nel ’32, era stato promosso Generale di corpo d’Armata per “meriti speciali”; aveva allora 50 anni, e si trovava nel massimo vigore della mente e del corpo.
Tornato dalla Libia ottenne il comando del Corpo d’Armata di Udine, il più importante sia per estensione territoriale, sia per il numero delle unità.
Alla fine del ’34 il nostro Governo, dopo molte esitazioni, decise di liquidare la situazione etiopica, divenuta sempre più acuta; e nel febbraio dell’anno successivo, Graziani ricevette l’ordine della sua nuova destinazione: Somalia come Governatore e Comandante supremo delle truppe.
Incaricato del comando del fronte Sud con compiti iniziali di difesa, ricevette quasi subito l’ordine, con l’appoggio del Ministro delle Colonie Lessona, di procedere all’offensiva, cosa che fu resa possibile con la motorizzazione delle truppe, effettuata soprattutto con mezzi di trasporto e di manovra acquistati dagli Stati Uniti.
Il 9 maggio del 1936 il Governo italiano proclamava l’annessione dell’Etiopia e la creazione dell’Impero e, quindici giorni dopo, il Maresciallo Badoglio, primo Viceré, rientrava in Italia lasciando la reggenza del Vicereame a Graziani suo successore, che nel contempo veniva nominato Maresciallo d’Italia.

Graziani, contrariamente a quanto si credeva in Italia, venne a trovarsi in una difficile situazione politico e militare.
L’immenso Impero non era occupato che in piccolissima parte e, per giunta, si era nel mese delle pioggie che rendeva quasi impossibile l’affluenza dei rinforzi e dei rifornimenti.
La situazione costituzionale del Viceré non era brillante, poiché egli aveva tutte le responsabilità ma scarso potere.
Con vigorose operazioni affermò saldamente il nostro dominio e fece compiere grandiosi lavori pubblici, che restano a tutt’oggi monumento delle capacità e della volontà civilizzatrice dell’Italia fascista.
Il Viceré continuò a dirigere l’Impero anche quando fu ferito, a seguito di un attentato nel febbraio 1937 in occasione dei festeggiamenti per la nascita del Principe di Napoli da parte di alcuni “Giovani Etiopici” istigati dall’Intelligence Service britannico; nel mese di dicembre fu sostituito dal Duca d’Aosta.
Dopo il suo rimpatrio dall’Etiopia Graziani restò a disposizione del Governo: tenuto piuttosto in disparte, anche a causa della sua grande popolarità che suscitava invidie, gelosie e risentimenti.
Nel frattempo la situazione europea si era andata aggravando, e solo dopo lo scoppio della guerra, il 3 novembre ’39, il Maresciallo apprese dalla radio della sua nomina a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, a dimostrazione dell’imbarazzante situazione interna.
Il suo potere rimase comunque limitato dal Maresciallo Badoglio in qualità di Capo di S.M. Generale da una parte, e dal Sottosegretario alla Guerra dall’altra.
Nonostante le limitazioni, Graziani si rese subito conto delle manchevolezze che caratterizzavano la nostra situazione militare, di cui parlò apertamente a Mussolini.

Vi erano deficienze in ogni campo: materie prime, produzione ed armamento.
Come è riportato nel suo libro “Ho difeso la Patria”, delle “otto milioni di baionette, ne esistevano solo 1.300.000 e altrettanti fucili e moschetti mod. 1891”; ma le deficienze erano ben altre.
L’Esercito era attraversato da una crisi morale; l’esistenza della Milizia Nazionale, che non era mai stata tollerata, l’intromissione della politica nelle cose militari, l’obbligo del matrimonio e la creazione di numerosi altri Corpi armati, estranei all’Esercito, costituivano elementi che ne logoravano il prestigio e ne aggravavano la debolezza.
Al momento in cui Graziani assunse le funzioni di Capo di S.M. era già in atto la seconda guerra mondiale, anche se ci vedeva ancora non belligeranti, e le nostre Forze Armate si trovavano nelle seguenti condizioni:

– L’Aviazione era scarsa ed invecchiata, anche perché non aveva alle sue spalle un’adeguata industria. Il bilancio era scarno e in risposta alle proposte di Balbo – che l’aveva portata in alto con le sue imprese – ne era stato disposto l’allontanamento con l’invio in Libia;
– La Marina, fiore all’occhiello, aveva molte belle unità, ma era priva di aviazione specializzata e povera di basi logistiche attrezzate;
– L’Esercito era numeroso, ma con un armamento, un equipaggiamento, un addestramento certamente assai inferiori a quelli dell’Esercito che aveva combattuto e vinto la grande guerra del 1915-18.
In tutto questo, infine, la nostra industria bellica era debolissima; le nostre riserve di materie strategiche e di derrate non esistevano quasi più.
Questo deplorevole stato di cose dipendeva formalmente dal Capo del Governo, che per lunghi anni aveva esercitato le funzioni di Ministro delle tre Forze Armate; ma la responsabilità effettiva ricade storicamente sul Capo di Stato Maggiore Generale Maresciallo Badoglio, il quale ricopriva tale incarico fin dal 1926 ed era, per legge, il consigliere militare del Capo del Governo e l’autore dei piani di guerra.
Badoglio, inoltre, era presidente dell’Istituto Nazionale delle Ricerche, creato apposta per scopi bellici, incaricato di sovrintendere alla mobilitazione industriale, tecnica e civile; era membro della commissione suprema per la difesa dello Stato.
A parte l’impreparazione, il Governo seguiva una strana politica militare: noi compravamo dall’America con oro e valute estere le materie grezze e rivendevamo i prodotti lavorati, e cioè armi ed equipaggiamenti all’ estero e soprattutto alla Francia ed alla Romania, mentre le nostre FF.AA. ricevevano ben poco.

E mentre sembrava che l’Italia dovesse seguire una politica di neutralità, i miracolosi successi germanici , che avevano impressionato tutto il mondo e segnato una grandiosa sconfitta della flotta britannica, portarono Mussolini ad orientarsi verso l’intervento.
Il Duce riteneva sicuro ormai che la Germania avrebbe vinto la guerra e riteneva urgente che l’Italia le fosse al fianco, sia per assicurarsi alcuni vantaggi, sia per frenare l’eventuale egemonia tedesca; per suo ordine, tramite il Maresciallo Graziani, comunicò a tutti i generali dell’Esercito che la guerra si sarebbe combattuta non per la Germania, né con la Germania, ma a fianco della Germania.
La politica del Governo, basata su presupposti che non dovevano dimostrarsi reali, ci lanciò così in una lotta mortale, senza adeguata preparazione diplomatica, politica e militare.

LA GUERRA
La guerra venne dichiarata il 10 giugno del ’40 con lo spiegamento iniziale di difensiva assoluta sulle Alpi Occidentali.
Solo dopo dieci giorni si passò da uno schieramento difensivo ad uno offensivo.
Le operazioni durarono tre giorni, ed il 24 giugno i francesi sottoscrissero l’armistizio.
Ultimata la campagna del Fronte Occidentale, Graziani tornò a Roma, e la sera del 28, mentre era nella sua tenuta di Arcinazzo, ricevette una telefonata che gli annunciava la morte del Governatore e Comandante Superiore in Libia, Maresciallo Balbo, avvenuta a Tobruch, e l’ordine di partire subito per assumerne la successione.
Gli ordini erano precisi: invadere l’Egitto! L’obiettivo era Alessandria, base della flotta del Mediterraneo Orientale e chiave del delta del Nilo.

L’occupazione significava il dominio del Mediterraneo centro-orientale e il sicuro dominio del Canale di Suez, con prospettive politiche e militari illimitate.
Conquistare Alessandria sarebbe stata per noi la vittoria; non conquistarla, la sconfitta più o meno lontana, ma sicura.
Per compiere l’impresa, unica nella nostra storia millenaria per diventare realmente una grande potenza mediterranea, avremmo dovuto disporre di 5 o 6 divisioni fra corazzate e motorizzate, mentre il nostro potenziale era di 73 divisioni armate con fucili mod. 1891: un “gregge” di uomini mal armati, destinati al massacro ed al campo di prigionia.
Il nostro organismo militare, preparato da un opaco conservatore come il Maresciallo Badoglio, non rispondeva minimamente alle esigenze della lotta.
Il punto di vista, che Graziani aveva più volte ripetuto in precedenza al Capo del Governo, era sempre quello: poiché nonostante l’evidente impreparazione militare, ci avevano gettati nella lotta, bisognava vincere e cioè compiere uno sforzo concorde e sovraumano per riparare alla situazione di impotenza cui ci aveva condotto una politica militare assurda e retrograda.
L’offensiva prevista per il 15 luglio era impossibile a causa della mancanza dei mezzi più elementari non solo per combattere, ma anche per vivere nel deserto, e così egli ottenne un rinvio; ma il 25 agosto arrivava l’ordine da Mussolini di avanzare in Egitto, motivato da altre ragioni politiche: i tedeschi stavano per sbarcare in Inghilterra, e in vista delle trattative anglo-tedesche noi saremmo rimasti fuori da ogni discussione se non avessimo avuto almeno un combattimento con gli inglesi.
In un’iniziale offensiva nel settembre-ottobre i nostri soldati si spinsero fino a Sollum, poco oltre la frontiera egiziana.
Ma né lo sbarco tedesco in Inghilterra, né le trattative ebbero luogo, e tutte le richieste di automezzi da parte di Graziani furono vanificate; in più dal Gen. Roatta egli venne a sapere che per “ordine superiore” ben 25.000 automezzi erano stati accantonati per una futura campagna contro la Jugoslavia!

La cosa molto strana fu che il nostro Governo rifiutò per ben tre volte (3 settembre, 4 e 28 ottobre 1940) l’aiuto da parte dell’alleato tedesco, che offriva non solo le divisioni corazzate, ma anche autocarri speciali per il deserto.
La sera del 27 ottobre a Cirene, Graziani apprese dalla radio dell’attacco alla Grecia.
Fu allora che comprese che il Governo e lo Stato Maggiore avevano dato sfogo alla loro mania di azione nei Balcani e che contro tutti, anche e specialmente contro la più decisa opposizione dell’alleato, avevano gettato le poche risorse italiane non sul teatro principale, quello del Mar Mediterraneo, ma in direzione eccentrica, ove andavano a cercare gratuitamente nuovi nemici! Da quel momento fu chiaro come la guerra italiana fosse perduta e le truppe d’Africa abbandonate alla loro sorte.
La campagna di Grecia, iniziata e condotta con incredibile leggerezza, si risolse in un disastro militare accompagnato da un disastro politico e morale.
Il 4 dicembre, il Capo di Stato Maggiore Generale, responsabile dell’operazione oltremare, Maresciallo Badoglio, schiacciato dalla sue tremende responsabilità, venne sostituito.
Ma anche in Africa la catastrofe era imminente: un deciso contrattacco inglese, appoggiato da mezzi corazzati e da una forte aviazione, travolse le divisioni italiane riuscendo persino ad invadere la Cirenaica e conquistarla.
Il morale delle nostre truppe, scosse e disorganizzate, scese molto in basso, ma il comando inglese non potè approfittarne per tentare la conquista della Tripolitania; uomini e mezzi dovettero essere trasferiti in Grecia.
Dal principio alla fine gli italiani vennero dominati non perché fossero mediocri soldati, ma perché, anche se fossero stati i migliori di tutti, non avrebbero potuto a lungo resistere alla superiorità di mezzi che gli inglesi potevano mettere in campo.
A causa di questa superiorità le battaglie assunsero il carattere di rese più che di combattimenti.
Mussolini, costatando la gravità in cui si trovavano i nostri soldati, accettò l’offerta d’aiuto di Hitler; un’armata tedesca, totalmente corazzata e meccanizzata, addestrata per la guerra nel deserto, fu inviata in Africa sotto il nome di Afrikakorps, affidata ad un brillante ufficiale: Erwin Rommel.
Nel frattempo Graziani chiese di essere esonerato da ogni incarico e lasciò la Libia l’11 febbraio 1941.

Rimpatriato, il Maresciallo si dedicò alla bonifica agraria della sua tenuta di Casal Biancaneve sugli altipiani di Arcinazzo, schivando ogni contatto con personaggi ufficiali.
Nel novembre del ’41, il Duce, essendo stata ristabilita, per il concorso tedesco, la situazione in Cirenaica, credette giunto il momento di ristabilire anche il prestigio del Comando Supremo, dando la responsabilità della sconfitta al Maresciallo Graziani.
Fu istituita una commissione d’inchiesta presieduta dal Grande Ammiraglio Thaon de Revel; la commissione doveva agire segretamente, senza interrogare nessuno, e tanto meno l’interessato.
Ma il Maresciallo Graziani ne venne comunque a conoscenza e scrisse a Mussolini chiedendo di presentare un memoriale documentato di quanto in realtà era avvenuto.
Mentre la commissione aveva espresso un parere completamente sfavorevole, la presentazione del memoriale troncò ogni ulteriore procedimento; così nel gennaio ’43 il sottosegretario alla guerra, Gen. Scuero, comunicò al Maresciallo che non esisteva più un “caso Graziani”, e che quindi la vertenza era esaurita.
Nel frattempo molti mesi erano passati, e la situazione italiana diventava sempre più difficile sia politicamente che militarmente: Graziani ne seguiva l’andamento con estremo interesse, a tal punto che la caduta del Regime Fascista, il 25 luglio, non lo sorprese più di tanto.
Lo stupì invece l’incredibile scelta fatta dal Re di nominare il Maresciallo Badoglio a Capo del Governo, anzi a dittatore militare!
Proprio Badoglio, principale responsabile non solo della impreparazione delle Forze Armate, ma anche della insensata condotta militare del primo e decisivo periodo della guerra.
Alla fine del Luglio del ’43 vi fu un contatto da parte della Casa Reale, dove fu chiesto al Maresciallo Graziani un suo parere sulla situazione attuale.
Il suo pensiero in sintesi fu:”come il comunicato di Badoglio ha annunciato, la guerra deve continuare, l’onore nazionale ci comanda di tener fede ad un patto solennemente sancito, a meno che non vogliamo essere condannati dai nostri figli per aver trascinato la Patria in guerra senza preparazione ed esserne usciti poi con la taccia di tradimento.
Qualsiasi altro male doversi preferire all’annientamento morale perché le Nazioni possono rialzarsi dalla rovina, non dal disonore.
Meglio perdere tutto, fuorché l’onore! Secondo me, il sovrano deve seguire questa linea, anche se dovesse costargli la perdita della Corona”.
Nel mese di agosto segnali provenienti dalla casa Reale facevano prevedere una sostituzione di Badoglio proprio con Graziani; ma gli avvenimenti che seguirono, cioè la firma dell’armistizio di Cassabile e la fuga del Governo e della famiglia Reale, travolsero ogni progetto.

LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Nel fatale settembre del 1943 cominciò per il Maresciallo Graziani una nuova esistenza che lo vide assumere un compito realmente politico quale mai fino ad allora, direttamente sostenuto.
Dopo la catastrofe dell’8 settembre egli ricevette, sia da Mussolini, che nel frattempo era stato liberato dalla sua prigione a Campo Imperatore , sia da parte del Governo tedesco, rappresentato dall’ambasciatore dott. Rahn, l’invito ad assumere la carica di Ministro della Difesa del nuovo Governo che si stava ricostituendo.
Il 9 settembre si costituirono le Forze Armate Repubblicane con quadri ufficiali e sottufficiali di carriera esclusivamente volontari.
Si stabilì che il trattamento fosse in tutto uguale a quello delle truppe germaniche.
Il 24 dello stesso mese il Duce firmò il decreto di nomina del Maresciallo a Ministro.
Sui motivi che spinsero Graziani a diventare Ministro della Difesa della R.S.I. circolarono e circolano tutt’ora le tesi più assurde e faziose: c’è chi sostenne che il Maresciallo si recò ripetutamente presso l’ambasciata tedesca a Roma per offrire i suoi servigi al tedesco invasore; chi disse che accettò l’incarico perché spinto da sete di potere e da una smodata ambizione; chi infine disse che fu costretto perché intimorito dalle SS che gli puntarono una pistola alla nuca.
Tutte queste versioni false furono frutto di odio scatenato dal nemico al fine di distruggere moralmente coloro che dopo l’8 settembre continuarono a combattere nelle file della R.S.I.
La consacrazione di questo autentico Risorgimento repubblicano per l’Italia avvenne al teatro “Adriano” di Roma il 1° ottobre, quando Graziani, nel suo discorso ad oltre quattromila ufficiali e valorosi combattenti precisò che: “chi vi parla è il Maresciallo d’Italia il quale, durante la sua lunga vita di soldato, ha conosciuto la mala sorte, il sole della gloria e l’ombra della ingratitudine.
Adesso egli è chiamato dal destino a stringere intorno a se gli italiani per cancellare la macchia della vergogna con la quale l’infedeltà e il tradimento hanno deturpato la bandiera d’Italia”.
Tra i veri motivi che portarono Graziani ad accettare l’incarico vi era anche quello di frapporsi fra il popolo italiano incolpevole e l’alleato tedesco reso furioso dal tradimento subito, allo scopo di riscattare l’onore militare degli italiani, che ormai era leso dal tradimento e da una resa incondizionata firmata dal Governo Badoglio.

Il suo atteggiamento fu quindi dettato interamente da sentimenti nazionali e da moventi altamente morali.
Graziani, con la collaborazione del Col. Emilio Canevari, fece approvare da Mussolini un promemoria in cui si sosteneva l’opportunità che l’Esercito da costituire dovesse rimanere ” Esercito Nazionale “, basato non solo sui volontari, ma anche sulla coscrizione, e costituito da grandi unità da addestrare < ex novo> nei campi di addestramento germanici; i quadri avrebbero dovuto essere tutti di ufficiali volontari a domanda e bisognava evitare ad ogni costo la guerra civile perciò le nuove truppe dovevano essere assolutamente tenute fuori dalla politica e mai impiegate in servizi di ordine pubblico.
Sulla base di tali propositi, furono siglati degli accordi con il comando supremo germanico che si concretizzarono il 16 ottobre: i tedeschi si impegnarono ad armare e istruire 4 Divisioni italiane, di cui una alpina, e successivamente altre 4; una nona Divisione corazzata doveva essere composta con personale italiano addestrato alla scuola di motorizzazione tedesca.
Il Comando italiano si impegnava, inoltre, a costituire un’unità di artiglieria da montagna, artiglieria contraerea e Genio, per un totale di 30.000 uomini, che dovevano essere posti immediatamente a disposizione del Maresciallo Kesserling.

Tutta la legislazione che portò alla creazione delle FF.AA. era disgraziatamente apolitica e ben presto dovette cedere il passo ad alcuni ambienti fascisti, che portarono alla creazione della Guardia Nazionale Repubblicana, unità autonoma e con proprio bilancio, che doveva, secondo il progetto iniziale, comprendere semplicemente i Carabinieri rimasti volontari, con integrazioni per raggiungere la cifra di circa 30.000 uomini scelti.
Invece la G.N.R. raggiunse la forza di 150.000 uomini; e in più si vennero a creare nelle varie Province le “Brigate Nere”, nelle quali furono inquadrati tutti gli iscritti al Partito che non erano ancora alle armi.
Sulla base dei principi precedentemente codificati il nucleo dell’Esercito Repubblicano venne costituito con 4 Divisioni di fanteria: Italia, San Marco, Monte Rosa e Littorio; esse vennero armate e perfettamente addestrate e nell’estate del ’44, tornate in Italia fra l’entusiasmo della popolazione, formarono, con alcune Divisioni tedesche, l’Armata Liguria, che si schierò dalla Garfagnana al San Bernardo.
Altre unità vennero costituite, e che compresero i 15.000 soldati italiani che, non avendo deposto le armi all’atto della vergognosa resa badogliana, per 20 mesi costituirono il presidio contro il nemico slavo alla nostra frontiera orientale.
L’Aeronautica si costituì con il poco materiale di volo disponibile; la nostra piccola caccia si fece massacrare per difendere le nostre città dai massicci e indiscriminati bombardamenti nemici e cobelligeranti.
La Marina fu pronta alla ricostruzione intorno alla bandiera tricolore della Decima Flottiglia Mas, che non fu mai ammainata, perché continuò semplicemente la sua azione di guerra senza tener conto della resa e senza aspettare che sorgesse un nuovo governo.
Migliaia di giovani volontari accorsero entusiasti.
L’apporto di valore dato all’Italia da questi marinai e soldati non deve essere dimenticato da nessuno perché, ogni giorno di più, appare evidente che essi si batterono per una causa del tutto nazionale, quale non era certo quella degli aviatori che Badoglio si vantò di aver mandato in aiuto a Tito e che servirono a facilitare la conquista slava della Venezia-Giulia.
Il valore dimostrato dai giovani marinai e soldati Repubblicani al servizio solo della Patria, in una lotta disperata, sotto il motto “Per l’Onore della Bandiera”, fu ed è titolo di gloria ed ampio riconoscimento non solo dall’alleato germanico, ma dal nemico stesso, che cavallerescamente volle manifestarlo.
Il Maresciallo Graziani assunse il comando dell’Armata Liguria il 15 agosto ’44; quanto all’azione militare svolta dalle truppe della Repubblica , si può così sintetizzare: le truppe delle Divisioni Monterosa e Littorio, in unione con le truppe germaniche, si opposero, sui passi alpini occidentali, al tentativo delle truppe golliste francesi ed americane di invadere il Piemonte e la Liguria dopo l’abbandono della Provenza, da parte dei tedeschi.
Alle dipendenze del Maresciallo Kesserling furono posti, oltre alle truppe di artiglieria da montagna e del Genio che si batterono sulle Alpi contro la 92ª Divisione americana e contro le truppe brasiliane, circa 68 battaglioni “costieri” e “territoriali” con circa 80.000 uomini.
Meritano uno speciale riconoscimento i reparti che difesero la frontiera orientale contro le bande slave di Tito, tra cui alcuni battaglioni Bersaglieri volontari: la Legione Tagliamento, composta di reduci dalla Russia e di volontari, in gran parte studenti, che difese fino all’ultimo il Friuli; i reparti della Divisione di Marina Decima.
Nella Venezia-Giulia vi furono anche notevoli reparti della G.N.R. che presidiarono Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, che la difesero fino all’ultimo e che caddero massacrati quasi totalmente.
Ormai le sorti della guerra erano segnate.
Le truppe anglo-americano erano alle porte di Milano e di molte altre città del nord del Paese.
Le truppe italiane si preparavano con dignità alla resa.