martedì 25 giugno 2019

Inglesi e antifascisti: a futura memoria


Guerra 1940-1945
 
Inglesi e antifascisti: a futura memoria
 
Di Marsilio Bruzio
 
TRADITORI ITALIANI AL SERVIZIO DEL NEMICO INGLESI E AMERICANI
 
            In un servizio apparso sul numero 2 di “Storia Verità”, Luigi E. Longo ha trattato il tema dell’apporto fondamentale della BBC inglese alla propaganda di guerra, e in particolare dell’opera prestata a Radio Londra nelle trasmissioni per l’Italia dalla Italian Section, affidata a responsabili inglesi per il coordinamento, l’impostazione e la regia dei programmi. Nel pezzo è stato evidenziato il lavoro svolto dai collaboratori italiani al servizio del nemico anglo-americano.
            E’già stato detto dell’importanza di organismi come il P.W.E. prima e P.W.B. successivamente, ma ora vorremmo approfondire la conoscenza sia delle persone che delle opinioni sulle stesse dei responsabili inglesi, il clima in cui si svolgeva detta collaborazione e, in conclusione, quale fu la valutazione obiettiva sull’apporto fornito allo sforzo di guerra britannico dagli antifascisti italiani.Chi si pose al servizio del nemico contro la Patria, fu coperto, a guerra finita, dall’art. 16 del Trattato di pace, espressamente imposto dagli Angloamericani per evitare l’addebito di reati previsti dalla legge vigente. Il premuroso intervento prova l’illiceità del comportamento di tanti “patrioti”.
            Nella ricerca, il punto fermo è offerto dalla documentazione conservata presso il P.R.Q. di Kew Garden (l’equivalente del nostro Archivio di Stato) e dall’esame della stessa si possono trarre interessanti giudizi. Il quadro globale è di desolante squallore morale, evidenziato dall’improntitudine dei protagonisti nel superare l’evidente disagio degli inglesi – dallo stesso Churchill a Stevens, dai funzionari del S.O.E. a quelli del P.W.B. e del Foreign Office – a servirsi di individui, cui non vengono lesinate mortificazioni. Tuttavia è una catena lunga, non interrotta a guerra conclusa, perché si serviranno ancora, i vincitori, dei loro prezzolati, sistemati nella politica, nella diplomazia, nelle università, nel giornalismo (Ruggero Orlando inviato poi dalla Rai a New York) nel mondo finanziario e in altri posti chiave dell’economia italiana, della magistratura, di enti importanti.
            L’armistizio del settembre ’43 non arreca vantaggi all’Italia. Il Nord è compresso tra l’interesse politico tedesco a disporre di un interlocutore come Mussolini, personaggio di rilievo nel mondo, e i limiti imposti dal controllo della situazione italiana, manifestatasi inaffidabile e colpevole di trascinarsi sulle spalle il pesante fardello del tradimento del Re e di Badoglio. Da qui sospetti e cautele per la miope visione germanica, incapace di saper distinguere e portata a caricare sugli italiani colpe a giustificazione di errori propri.
            Al Sud atmosfera ancora più pesante, creata dallo stato di “resa incondizionata”, gestito dagli Alleati con rigida chiusura verso le disprezzate istanze dei Savoia, di Badoglio e del suo non governo, e della stessa emergente classe politica. Il disegno di superare lo stato di resa offrendo la cobelligeranza appariva insensato e più ancora lo sperare “nell’ipotesi di una alleanza alla pari” (come ebbe a scrivere un alto esponente inglese).
            L’incapacità politica di valutare realisticamente la situazione, non impediva agli esuli antifascisti in Inghilterra di lavorare contro gli interessi del loro Paese. A tale proposito interessanti spunti sono offerti dalla documentazione contenuta nel volume di Peter Sebastian I servizi segreti speciali e l’Italia 1940-1945 edito da Bonacci e curato da Renzo De Felice per la collana “I fatti della storia”. Da questa libro la classe antifascista italiana esce malconcia e svilita, spremuta come un limone gettato nella pattumiera. Ma non si salvano nemmeno gli inglesi, perché cade l’affermazione di Churchill che attribuiva al fascismo tutte le disgrazie italiane: infatti aver ricevuto dagli antifascisti richieste e indicazioni sui luoghi da bombardare, vanifica le giustificazioni morali e personali per l’attività terroristica dell’aviazione britannica nell’estate del 1943. Eppure il Sig. Churchill aveva già in passato espresso le sue opinioni su Mussolini e il Fascismo, anche in tono apologetico, e le sue contraddizioni sono ancor più complicate dall’irrisolto mistero della corrispondenza avuta con il Duce e delle sue visite sul lago di Como a guerra finita.
            La classe politica antifascista aveva dimostrato nei rapporti con gli inglesi, durante la guerra, limiti morali e mancanza di progetti costruttivi, anteponendo sempre l’interesse di parte  o personale al sentimento patriottico. L’impressione suscitata era sgradevole e sprezzante, purtuttavia facilitava il disegno politico alleato. Solo il  Ministro degli Esteri Eden non abbandonava la sua nota ostilità verso tutti gli italiani indistintamente e, fautore convinto della resa incondizionata – Churchill all’inizio fu titubante – non volle mai riconoscere ufficialmente il Free Italy Movement, scaricandolo al Ministero della Propaganda, cui fecero capo i fuoriusciti italiani, vecchi e nuovi arrivati. Facevano parte del movimento: Lussu, Tarchiani, Cianca, Garosci, Zanni, Gentili, Balzani, Crespi, Sforza, Pettoello, Petrone, Luzzatto, Orlando, Gentile, De Meo, Gavasi, Tartagli, Galli, panizzi, Fano, Zencovich, Montani, Mazzucato, Pio, Sampietro, Forti, Minio-Paluello, Priuli-Bon, De Bosi, Montruschi, Formigoni, Nissim, Vincis, Zanelli, utilizzati dal S.O.E. sia per la sezione propaganda (SO.1) della P.W.B. sia, in minima parte, per qulla operativa (SO.2). Alcuni furono inviati in Italia (sbarcati da sommergibili o aviolanciati) e tra essi Marini, Zapetti, Andreoli, Sisnaver, Sartori, Picchi, tutti catturati, processati e condannati alla fucilazione come spie al soldo del nemico.
            L’attività iniziale del F.I.M. venne giudicata deludente dal responsabile inglese della Italia Section del S.O.E. Hugh Dal ton ed errata nell’impostazione psicologica per le accuse generiche e gratuite rivolte verso tutti gli italiani, tanto che fu ritenuto necessario rivedere tutta l’impostazione. Fu così affidata a funzionari inglesi la responsabilità delle trasmissioni, incentrando l’attività propagandistica più incisivamente su Mussolini e il fascismo, additati come responsabili della guerra e delle sconfitte militari italiane.
            Una relazione datata 30/09/42 del P.W.B. così descriveva i risultati della I.S.: “molti sforzi sono stati fatti con la propaganda per trovare una formula attraverso la quale potesse essere creato un movimento antifascista forte e popolare. Sono stati avvicinati leaders potenziali, rivolti appelli a gruppi politici e sociali. Tutto fallito. Persino la famiglia reale non offriva garanzia alcuna né possedeva tra i suoi componenti qualcuno con qualità carismatiche”.
            Anche i più attivi e dinamici tra i fuorusciti antifascisti, ad esempio Emilio Lussu, affermavano quanto i fatti smentivano, ossia l’esistenza in Sardegna di una situazione prerivoluzionaria da far esplodere “con un semplice cenno della mano”: da qui i sarcastici commenti e la meritata taccia di millantatore.
            Il movimento politico che riscuoteva qualche credibilità “Giustizia e Libertà”, specializzatosi purtroppo nel segnalare obiettivi da bombardare, non ebbe migliore fortuna ed il gruppetto composto da Tarchiani, Cianca, Garosci e Zanni fu trasferito alla sezione S.O.E. del Cairo nel 1943 in previsione di poter essere utilizzato dopo lo sbarco in Sicilia. Il S.O.E. rifiutò però di accettare volontari italiani (ad eccezione di elementi dotati di particolari qualifiche, tutti ufficiali e sottufficiali in S.P.E.) così che il divieto rimase in vigore in tutte le FF.AA. alleate. Accadde anche che un reparto logistico-amministrativo dell’esercito britannico rifiutasse decisamente di essere aggregato provvisoriamente ad un reparto militare italiano del Sud affermando che “…ciò costituirebbe un’indegnità troppo grande per il personale britannico”. Lo stesso conte Carlo Sforza, uno fra i più noti antifascisti (nel dopoguerra ministro degli esteri) venne definito da Churchill “stupido e sleale vecchietto” allorché si rifiutò di entrare nel governo Badoglio,  giudicandolo prossimo alla liquidazione. Sforza si ebbe una pesante reprimenda dal premier inglese che lo accusò di “non stare al gioco prestabilito” nel più vasto contesto del “do ut des”, e fu grazie all’appoggio americano che rimase a galla fino a che il fatto venne ridimensionato, pur conservandosi l’acredine inglese.
            La classe politica antifascista, emblematico il campionario londinese, era molto diversa da quella anglo-sassone, opposizione compresa, per dirittura morale, senso di patriottismo comportamento responsabile e  coerenza di azione con il War Cabinet. Gli inglesi erano preoccupati non solo per il non edificante spettacolo offerto dagli esuli ma anche perché essi non riuscivano ad ottenere “…una analisi obiettiva ed omogenea delle personalità, delle tendenze, condizioni e opinioni, degli italiani,  soprattutto per le contrastanti risultanze emerse…Il signor Orlando sottolineò tristemente che era pervenuto alla conclusione che i rifugiati contassero pochissimo e che ogni vero movimento di rinascita dovesse provenire dall’interno del paese stesso” (P. Dixon, funzionario del Foreign Office).
            Soltanto con le relazioni dell’AMGOT gli inglesi poterono avere un quadro obiettivo anche se sconcertante della realtà politica italiana. Naturalmente nel clima di ostilità preconcetta, anche le autorità italiane del Sud non trovarono crediti e consensi, se non un generico e gratuito incoraggiamento. L’ipocrisia di fondo non offriva alcun serio contributo al miglioramento dei rapporti diplomatici e della politica generale, tanto che gli alleati sintetizzavano: “L’Italia è un nemico sconfitto e allo stesso tempo un cobelligerante che si aspetta di essere trattato da alleato”.
            Con l’avvento di Ivanoe Bonomi al posto del defenestrato Badogliole cose non cambiarono poiché Londra definì l’avvenimento sarcasticamente con la frase: “un grande disastro per l’avvento di questo gruppo di politici vecchi e affamati così poco rappresentativo”.
            Pietro Nenni veniva classificato pericoloso a causa della sua amicizia con i comunisti, in specie Togliatti. O. Sargent, funzionario inglese, lo descrisse in un suo rapporto “un disastro” per le continue minacce del leader socialista nel prospettare la guerra civile in caso di rifiuto delle istanze social-comuniste sunteggiate nello slogan “o la repubblica o il caos”.
            Il comportamento cinico e sprezzante degli inglesi non fu diretto, ad onor del vero, soltanto verso gli italiani , ma ne fecero le spese francesi e jugoslavi, polacchi e cecoslovacchi e si ebbero contrastanti comportamenti a seconda delle variazioni politiche internazionali inserite nel più grande ed egoistico gioco di Churchill. Si salvarono i reali d’Olanda e Norvegia, ma furono sacrificati quelli di Jugoslavia e d’Italia, emarginati quelli belgi e greci e caddero o sopravvissero uomini politici, specie dell’Est-Europa, secondo la logica di Yalta.
            I politici antifascisti italiani confluiti in Inghilterra non furono molti, anche se di diverse ideologie politiche: non riscossero  piena fiducia ed ebbero scarsa considerazione, non migliorarono i loro rapporti con gli inglesi e si alienarono le poche simpatie raccolte. Importante quella del Labour Party, più incline alla solidarietà internazionale che al miglioramento dei rapporti con gli italiani, i quali vissero e si agitarono disordinatamente, incompresi ed emarginati, utilizzati di volta in volta e poi accantonati, così che “…tutti i tentativi fatti per influenzare l’opinione pubblica inglese fallirono” scrisse lo storico M.R.D. Foot. Erano esuli fra esuli, anche se ci furono eccezioni, specie per la nutrita presenza ebraica, come i Colosso, i fratelli Piero e Paolo Treves e Carlo Petrone e più tardi Zencovich e Ruggero Orlando (già squadrista fascista e nipote dello statista siciliano – n.d.a.).
            I loro appelli agli italiani rimasero senza risposta, e un completo insuccesso fu la tentata costituzione di una missione da inviare nei campi prigionieri dell’India, dell’Egitto e dell’Africa Orientale per fare proseliti antifascisti e costituire reparti militari da inviare contro i tedeschi.
            Fallito anche questo tentativo oltre quello radiofonico, rimasti isolati per dissidi interni, non riuscirono ad accreditarsi presso gli inglesi come “esperti di problemi italiani” avendo mostrato di ignorare tutto della vita italiana. Lo stesso Stevens “il colonnello Buonasera” riconosceva la scarsa rilevanza  della loro collaborazione. Essi correvano però il rischio, in caso di guerra vinta dall’Asse, di essere accusati di alto tradimento per intelligenza col nemico e di essere fucilati (come accadde al figlio di Lord Amery impiccato dagli inglesi in quanto colpevole di aver fatto propaganda per l’Asse in funzione anti-inglese).
            Trovarono appoggio soltanto in Italia, spalleggiati dai loro partiti e dalla partecipazione prestigiosa di un filosofo come Benedetto Croce, che nel discorso di Bari del 28 gennaio 1944 antepose ad una vittoria del fascismo la sconfitta dell’Italia, tesi aberrante per l’odio che l’ispirava, per il fanatismo delle idee che smerciava, per l’assoggettamento della patria al nemico.
            Nell’etere venivano profusi i germi più nefasti dell’anarchia, dell’odio insensato per le istituzioni nazionali, della demagogia politica, delle lacerazioni delle coscienze, della dissoluzione morale, del rifiuto dei valori di sempre e tutto per il trionfo del pensiero individuale e del particolare interesse.
            Ben diverso il discorso tenuto da Giovanni Gentile il 24 giugno del 1943, rivolto a tutti gli italiani, fascisti o non, che incitava a credere nell’avvenire della Patria da far grande contro le avversità della natura e degli uomini: ..un popolo che salvi intatta la coscienza della propria dignità, che non smarrisca la nozione di quel che esso è e deve essere, potrà vedersi a un tratto oscurarsi il firmamento sopra di sé, ma a breve le stelle torneranno a brillare”. Ed ancora nella primavera del ’44, all’inaugurazione dell’anno accademico, egli diceva: “..è dovere civile di ogni italiano ricordare, ora e sempre, per avere viva e intera coscienza delle nostre colpe, del severo castigo meritato, dell’aspra fatica che ci tocca di affrontare per espiare il passato e riconquistare il posto a cui ci danno diritto il sacrificio dei morti, la nostra intelligenza, le virtù del nostro popolo sano e laborioso. Dico, delle nostre colpe, perché nessuno degli italiani che voglia lavorare alla ricostruzione e quindi alla concordia del Paese, vorrà declinare la sua parte di dignità umana. Soffriamo le conseguenze, quantunque sia anche giusto che l’onta e il danno ricadano maggiormente su coloro che abusarono della fiducia in loro riposta e nell’ombra tradirono la Patria e ne vollero dissennatamente lo sfacelo: annientato l’esercito, consegnata al nemico la flotta, sfasciata la compagine nazionale, spenta nei cuori ogni fede negli istituti fondamentali, fiaccata e distrutta la coscienza e la volontà della stirpe: l’Italia, già fiera della sua antica e nuova storia, e soprattutto della gloriosa parte avuta nella precedente guerra mondiale e del vigoroso impulso quindi impresso al ritmo di tutte le sue energie, ridotta un gregge senza capo, sbandata moltitudine senza un’anima, umiliata e spregiata dallo straniero, vile è ai suoi propri occhi, come se il disonore di un gesto avesse cancellato venticinque secoli di storia scintillante di genio, di virtù, di lavoro, di ardimenti. Un’Italia “libera”, a sentire una bugiarda ed empia leggenda; quando in verità non c’era più un’Italia, e le sue terre, i suoi uomini, i suoi tesori d’arte eran preda o ludibrio degli invasori, a cui sono state aperte le porte”.
            Pochi giorni più tardi, Giovanni Gentile veniva assassinato dai GAP comunisti e, da Radio Londra, il velenoso Stevens dette la notizia dimenticando d’aver propiziato con gli inviti alla violenza. Giovanni Spadolini, definì il 22 aprile 1944sul periodico “Italia e civiltà” come: “…spregevole e infame per la nostra razza l’assassinio del filosofo”. Croce ebbe modo di pentirsi, fortunatamente per lui, sconfessando sé stesso nel luglio 1947 alla firma del trattato di pace con l’Italia, perché: “…profondamente deluso dagli anglo-americani, ai quali mi sono spiritualmente alleato, con la speranza che riconoscessero all’Italia un’eguaglianza di merito nella guerra civile e “religiosa” contro l’Asse: una speranza completamente tradita”. Ed ancora più avanti, ugualmente deluso dalla nuova classe politica antifascista generata dal tradimento, enunciava: “…la ricostruzione e l’assicuramento della libertà precede ed è fondamentale, e non bisogna mescolare e confondere i suoi problemi con gli altri di carattere variamente particolare, né illuderci che si possa, con gli allettamenti di particolari riforme e di vantaggi economici attirare a quella giacché, con procedimenti siffatti (che sono da dire simoniaci in quanto contaminano il sacro col profano) si otterrebbe in tal caso, non la libertà, ma la vana sua apparenza, la retorica democratica  o piuttosto demagogica, rumorosa e vacua, energica a parole e debole nel fatto, e tale da crollare al primo urto”.
            Noi non siamo particolarmente legati al Croce, come uomo in primis, ma dobbiamo riconoscergli il tardivo pentimento che ci dà ragione.
            Gli esuli antifascisti che in Inghilterra aiutavano il nemico di allora a vincere la sua guerra, miravano a ben più pingui e remunerativi obiettivi che al ristabilimento in Italia della libertà e della democrazia. Basta guardare le loro carriere del dopoguerra.
 
Indice delle sigle
 
P.W.E.           Political Warfare Executive
 
P.W.B.           Psychological Warfare Branch
 
P.R.O.                        Public Records Office
 
S.O.E.             Special Operation Executive
 
I.S.                  Italian Section

                                                                                                                                         

domenica 16 giugno 2019

MUSSOLINI SPIEGA IL VERO SOCIALISMO

Mussolini spiega il vero Socialismo



zachariaeIo sono entrato come socialista nella vita politica e come tale la lascerò. Già mio padre era un convinto socialista ed io mi nutrivo di queste idee quando prendevo ancora il latte materno e più tardi, crescendo, ho continuato a seguirle, a coltivarle e a svilupparle nella mia mente. Debbo molto a mio padre. La mia strada di socialista era già stata tracciata : non avevo che da seguirla, il che feci con profonda convinzione. Divenni molto giovane membro del partito socialista italiano, nel quale si convogliavano allora le speranze di molti, che in buona fede credevano ormai maturi i tempi per la riforma sociale. Anch’io ritenevo che il socialismo possedesse il magico < Apriti Sesamo > capace di schiudere le porte a un nuovo ordine sociale, a un nuovo periodo della storia, e dedicai tutte le mie energie per il raggiungimento di questa mèta fulgidissima. Ben presto mi accorsi però che la barca sulla quale navigavo mi avrebbe portato a un sicuro naufragio: gli operai, sui quali particolarmente si appoggiava il socialismo per conseguire i suoi fini politici e sociali, erano tutt’altro che maturi per così grande conquista. Mi formai inoltre il convincimento che un socialismo attuato secondo i concetti di Marx non avrebbe mai consentito di liberare effettivamente gli operai dalla loro schiavitù sociale. Malgrado ciò, dedicandovi molti degli anni più belli della mia vita, ho tentato con le parole, con gli scritti e con l’azione di pervenire alla migliore realizzazione dell’idea socialista; ma, ripeto, agli operai mancava la comprensione necessaria e soprattutto mancava loro lo spirito combattivo, senza il quale non è possibile ottenere alcun vero mutamento sociale. 
Allorché soggiornai in Svizzera, quale rifugiato politico, frequentai per un certo tempo l’ambiente di Lenin ed ebbi subito la possibilità di rendermi conto che, ad eccezione di Lenin stesso che indubbiamente era un uomo di straordinaria intelligenza, tutti gli altri non erano che dei chiacchieroni e degli stupidi e che alcuni erano addirittura degni di essere rinchiusi in un manicomio. Cercai perciò un motivo per potermi staccare da questo ambiente e riprender la mia libertà di movimento. Seppi che, dopo che me n’ero andato, Lenin disse ai suoi compagni: Io invece ero contento di essermi liberato dalla tirannia che Lenin esercitava sui suoi compagni.
Ero ormai decisamente convinto che per poter mettere in pratica il vero socialismo, si dovevano gettare solide fondamenta nella coscienza degli uomini e che la classe operaia, come era allora, non avrebbe mai potuto costituire da sola la base per un nuovo ordine sociale.
Se le idee socialiste dovevano divenire una cosa reale, tutto il popolo e non solo una classe di esso, avrebbe dovuto partecipare con piena convinzione all’’idea della lotta di classe, e io stesso sentivo maturare in me, di anno in anno, la certezza che proprio l’idea della lotta di classe fosse sbagliata. Franava nella mia mente uno dei grandi pilastri del mio pensiero giovanile. Per tale motivo fui accusato di apostasia; i miei vecchi compagni socialisti mi danno del rinnegato perché oggi attuo ciò che ieri ho condannato e perché non ho conservato quella ch’essi chiamano coerenza di pensieri e di azioni, ossia quel vecchiume di metodi frusti e di idee sballate, ch’essi si aspettavano da me.
Io ritengo che questo sia un rimprovero stupido, poiché quando un uomo cammina senza mai fermarsi verso la mèta, non ha alcuna importanza la via che egli percorre per raggiungerla. Anche l’idea più rivoluzionaria può essere tradotta in pratica purché si sappia essere tanto elastici di mente da saper adottare metodi che almeno in apparenza siano rigidamente conservatori. Tutto sta nel sapersi adattare alle situazioni mutevoli e alle esigenze di ambiente, di epoca, di educazione; per restare fedeli alle premesse non è necessario irrigidirsi nel metodo.
Secondo me, uno degli errori principali del sistema marxista è quello di voler considerare il socialismo innanzi tutto come una questione puramente economica.
Noi vediamo ora nell’Unione Sovietica l’esperimento più grandioso e significativo della messa in pratica del marxismo puro. Quali ne sono gli effetti pratici? Non un progresso sociale della classe alla quale il marxismo avrebbe dovuto recare forza, decoro e prosperità, ma la decadenza totale delle masse, una decadenza morale e materiale della peggior specie. E non mi si dica che si tratta soltanto di uno stadio passeggero, poiché in tal caso bisogna dire che questo stadio passeggero dura da troppo tempo. In fin dei conti l’applicazione integrale del marxismo avrebbe dovuto già nella sua prima fase alleggerire notevolmente i gravami delle masse lavoratoci e migliorarne le condizioni sociali. Ciò però non si è verificato, e allora bisogna dedurre che anche nell’Unione Sovietica non si è fatto altro che promettere agli operai delusi, pressappoco come fa la Chiesa, un miglioramento futuro, per rinfocolare le loro speranze, ma che in sostanza da quasi trent’anni nulla di concreto ha realizzato il regime marxista per i lavoratori se non immobilizzarli con la forza brutale e l’impiego della polizia.
Dovrebbero ammettere apertamente i signori di Mosca di aver tolto agli uomini la gioia di vivere, permettendo loro soltanto di vegetare nelle peggiori condizioni economiche. Per mettere in atto la loro assurda formula comunista essi hanno allontanato tutte le persone veramente produttive di ogni categoria e di ogni professione, perché soltanto così avrebbero potuto imporre la loro volontà alle masse. E la questione è stata risolta in maniera radicale, uccidendo tutti coloro che la pensavano diversamente.
Qualsiasi osservatore intelligente di questi avvenimenti, che ora non possono più essere tenuti nascosti, dopo che milioni di uomini degli Stati dell’Europa occidentale hanno avuto la possibilità durante la guerra di vedere con i propri occhi cosa fosse il socialismo marxista dell’Unione Sovietica e di constatare con orrore la miseria delle masse, qualsiasi osservatore, dicevo, dovrebbe aver capito che questa forma di socialismo, malgrado tutte le promesse, non potrà mai portare a quel successo che i veri socialisti auspicavano.
È una cosa naturale che ogni uomo nel corso della sua vita desideri la parte a lui spettante di felicità, di proprietà e di libertà e che lotti per conseguire tutto questo. Se però io ostacolo questa naturale aspirazione dei miei simili, non potrò mai dire di me stesso che sono un socialista e che la felicità delle masse mi sta a cuore; sarò invece un tiranno, che mantiene a tutti i costi il potere soltanto con misure draconiane. E questo appunto è ciò che si è fatto nella Russia Sovietica. Peggio ancora è il voler sostenere che tutto questo è democrazia, una parola questa che suona come un’atroce beffa e che ha perduto ormai il suo vecchio valore nel mondo.
In ciò che i rappresentanti del marxismo e della democrazia si ostinano oggi a chiamare socialismo, c’è un errore fondamentale, di cui soltanto pochi si rendono conto; io però fin dagli anni della mia giovinezza mi sono fatto la convinzione che il socialismo non è né una questione puramente economica, né una questione di classe riguardante soltanto una certa parte del popolo; ma che è invece e innanzi tutto una questione di carattere. Pertanto, se si vuole veramente agire nell’interesse del popolo e del suo miglioramento sociale, non ci si deve limitare a imporre sic et simpliciter un nuovo sistema socialista quando mancano gli uomini probi e capaci che sappiano guidare quel popolo sulla via del progresso e delle conquiste sociali. Se il socialismo deve essere realizzato, esso presuppone che i suoi attuatori non lo abbiano concepito soltanto come idea, ma è necessario che essi siano passati attraverso una dura scuola, capace di innalzare gli uomini, anziché abbassarli. Perciò debbono essere educati prima di tutto gli uomini, che un giorno dovranno realizzare il nuovo socialismo e ciò non può essere naturalmente ottenuto in pochi anni.
È sbagliato sostenere che il socialismo, come generalmente si afferma, voglia arrivare a una stupida uguaglianza di valori, di capacità, di meriti. È vero il contrario. Il socialismo può essere tradotto in pratica soltanto quando gli uomini migliori e di carattere più forte di un popolo, anziché venire allontanati o soppressi, come è stato fatto in Russia, siano educati al servizio delle nuove idee affinché possano adoperare tutte le loro forze e la loro intelligenza non solo a loro proprio vantaggio, ma al servizio della comunità.
Dobbiamo creare dei caratteri che vedano nel raggiungimento delle idee sociali e nel sacrificio assoluto della propria personalità al servizio della comunità la loro massima fortuna e la mèta della loro vita. In altre parole dobbiamo creare dei capi permeati di sentimenti altruistici, idealistici. Tali uomini non si trovano soltanto in determinate classi e professioni, ma, secondo la mia esperienza, essi si distribuiscono in maniera uniforme in tutte le classi di una nazione, si trovano tanto fra gli operai che nella borghesia, come pure nelle così dette classi elevate. Generalmente è difficile identificare e accostare tali individualità, poiché simili caratteri sono fieri e chiusi e preferiscono lavorare silenziosamente, lontani dagli occhi e dal giudizio della gente. Ma quando si riesce a trovarli e a metterli al posto che loro spetta, essi contribuiscono in modo veramente esemplare alla propagazione delle idee sinceramente sociali ed al rapido progresso dell’umanità.
Bisogna aver fede nella bontà dell’uomo e nello sviluppo dell’umanità; soltanto allora si potrà concepire tutta la grandezza ed il significato delle idee socialiste. I pessimisti, che credono che il nostro mondo e gli uomini non possano essere migliorati, non potranno mai trovare la forza per mettersi al servizio di un’idea che renda felice l’umanità, e lasceranno passare innanzi a sé la vita restandone estranei.
Primo nostro dovere è dunque quello di trovare il mezzo di formare un nucleo-base di uomini superiori che sappiano con puro disinteresse mettersi al servizio della comunità, e soltanto allora potremo incominciare ad assolvere il compito di dare al mondo un nuovo ordine sociale. Io ho dovuto convincermi sempre di più quanto sia difficile trovare tali uomini. Non esito a dichiarare che più di una volta ho dovuto soffrire atrocemente per le delusioni cagionatemi dai miei errori, ma sarebbe stato assai peggio se io mi fossi fermato, se mi fossi dichiarato vinto e avessi lasciato che le cose continuassero come andavano. È contro questa mentalità che combatto con tutte le mie forze, poiché se non lo facessi, tanto sarebbe valso che non avessi mai cominciato e avessi pensato invece a crearmi un’esistenza certamente più tranquilla e meno faticosa, come giornalista e magari come professore in una delle tante università italiane. Poter mettere al servizio del popolo e dello Stato la mia energia e quella di coloro sui quali speravo di poter contare sino alla fine, è Stato uno dei motivi per i quali ho creato il movimento fascista. Ho tentato di migliorare il carattere di quegli uomini che mi avevano seguito spontaneamente, dando loro dei compiti ben determinati, ma oggi dovrei confessare di non essere riuscito in tale impresa.
Ho potuto constatare più volte che le buone qualità di un uomo si sviluppano maggiormente in proporzione alla grandezza e alle difficoltà del compito che gli si assegna: ed è anche per questa ragione che ho richiamato in vita gli emblemi dell’antico Impero romano, per mostrare al popolo che esso è custode di una grande tradizione e che potrà raggiungere la felicità e il benessere soltanto quando avrà la forza e la capacità di riprendere l’opera di ricostruzione al punto nel quale si è verificata la decadenza dell’Impero romano.
Se si da uno sguardo profondo agli avvenimenti che causarono il lento processo di inquinamento e di decadimento, si vedrà che la colpa non è delle dittature, ma bensì del così detto ordine democratico. Quanto più lo Stato romano si allontanava dal suo ordine aristocratico, tanto più aumentavano il disordine e la decadenza, sino a che tutto andò a finire nelle mani di individui incapaci che invano cercavano di coprirsi col mantello della monarchia. Gli errori ed i crimini della monarchia romana appaiono evidenti al lettore attento della nostra storia.Perciò io ho tentato di far rinascere nel fascismo le antiche virtù del popolo romano e cioè: la dedizione alla comunità, la fedeltà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, sperando di poter ricostruire su di esse il nuovo impero.
Non ho perseguito queste idee e queste mète per cupidigia di potere o per sete di conquista, né tanto meno per farmi un nome nella storia; lo scopo delle conquiste fasciste era soltanto quello di raggiungere una prima mèta, da cui poter trarre i mezzi per la creazione di un nuovo ordine sociale in Italia. E quanto più il fascismo si propagava nel cuore e nel cervello di tutti gli italiani, divenendo parte della loro vita morale, tanto più si avvicinava il momento nel quale avrebbe dovuto nascere il socialismo del futuro. Poiché è giusto ch’io le confessi apertamente che non ho mai avuto l’intenzione di fare del fascismo una specie di religione eterna. Quanto più il fascismo si sviluppava, tanto più poteva diventare liberale, e oggi credo di aver raggiunto il punto in cui posso dare la mano a qualsiasi mio compatriota, che come me sia disposto a lavorare per il raggiungimento di un vero socialismo.
Secondo me, tutto ciò che oggi nel mondo viene chiamato socialismo, non potrebbe resistere ad una severa critica; tale mia affermazione le diventerà subito chiara se esaminerà gli aspetti economici del socialismo.
Come è noto, nell’Unione Sovietica anche le più piccole imprese sono state socializzate, cioè alla proprietà privata si è sostituita la proprietà comune. Da queste misure vennero colpiti non soltanto gli ex-proprietari e gli artigiani indipendenti, ma anche gli operai e gli impiegati che lavoravano al loro servizio. Considerando la questione da un punto di vista obiettivo, ci si deve domandare: che cosa ci guadagna l’operaio o il contadino o l’impiegato, dal fatto che l’azienda o la fabbrica presso cui lavora diventi proprietà dello Stato? Che cosa succede quando in luogo del capitale privato entra in azione il capitale dello Stato? La risposta è evidente e semplice: niente; al contrario la posizione dell’operaio peggiora.
Con il capitale privato l’operaio o l’impiegato aveva la possibilità di esprimere i suoi desideri e le sue pretese ad un singolo o ad un gruppo di interessati e poteva eventualmente costringerli a venire a un accordo soddisfacente. Trattandosi invece di una azienda statalizzata, al singolo proprietario si sostituisce una forza anonima, lo Stato, che non può esser individuato e col quale non si può raggiungere alcun accordo.
La burocrazia, della quale non si può fare a meno, cresce smisuratamente e ciò a danno dell’operaio, che non potrà più liberarsi dal suo stato di schiavitù. A tale riguardo è significativo che in Russia sia severamente proibito all’operaio di usare la sua arma usuale, cioè quella dello sciopero. Se tutto ciò viene chiamato socialismo, posso dire soltanto che: o non si sono seriamente studiati questi problemi, oppure che non si può realizzare una vera riforma. In realtà bisognerebbe, per fare del vero socialismo, superare lo stato di asservimento degli operai ad una forza anonima, sia questa il capitale privato o il capitale dello Stato.
I contrasti si acuiscono e invece di abolire le differenze di classe, si aprono nuove ferite e solchi più profondi, elevando una barriera tra lo Stato e la massa. È assolutamente inesplicabile come si sia giudicato possibile raggiungere uno sviluppo migliore delle masse lavoratrici con questo sistema.
L’operaio si trova indifeso di fronte ad una forza sostenuta da tutti i mezzi militari e polizieschi e la sua situazione diventa peggiore di quella del più povero bracciante di campagna, poiché ricade in una schiavitù eterna. Persine le rappresentanze delle forze lavoratrici nei parlamenti democratici non sono in grado di cambiare questo stato di cose, tanto che anche nei paesi più ricchi e progrediti l’operaio deve ancora pregare ed implorare, senza avere il diritto di partecipare agli utili prodotti dal suo lavoro.
Da quanto sopra risulta evidente che il sistema sociale oggi in atto non può continuare e che deve essere sostituito con altri ordinamenti. Lo Stato non ha il compito di adoperare la sua forza per mantenere il privilegio del capitale privato o del capitale dello Stato. Il miglior modo per governare un paese è quello di far sentire il meno possibile l’esistenza dello Stato e la sua azione. Alla socializzazione sono adatte soltanto quelle aziende e quegli impianti che servono a tutti i cittadini e che debbono essere in ugual misura a disposizione di tutti. Fanno parte di queste le ferrovie, le poste, i telegrafi, la radio, le società di navigazione, le linee aeree ed altre aziende industriali che possono svilupparsi soltanto nel libero gioco delle energie cooperanti e nell’ordine naturale di forti richieste; dovranno invece continuare col sistema attuale buona parte delle piccole e medie aziende indipendenti, che hanno a capo uomini di salda energia e di provata capacità e che sanno imporre anche alla grande industria i progressi della tecnica e che, con la loro concorrenza, costringono gli organismi industriali a sforzi produttivi sempre maggiori.
È inutile precisare che l’economia si troverebbe ben presto in difficoltà, qualora non ci fossero dei bravi operai specializzati, ed è quindi interesse della comunità di aiutare per quanto possibile l’istruzione di giovani operai con corsi di specializzazione. Ci si deve anche guardare dal limitare l’iniziativa privata nel campo della cultura, specialmente per quanto riguarda il teatro.
Lo Stato può benissimo dare l’esempio in tutti i campi culturali, però bisogna mettere ben in chiaro che non può essere che un esempio. Altrettanto valga per l’arte, che si basa soltanto sulla capacità del singolo individuo: anche qui lo Stato può aiutare gli elementi più promettenti affidando loro incarichi e compiti particolari e incoraggiandoli ad opere sempre migliori; ma qualsiasi altra intromissione dello Stato deve essere evitata.
I confini di un socialismo di Stato sono alquanto limitati e bisogna trovare una giusta via di mezzo tra capitale privato e capitale di Stato, se si vuole ottenere praticamente un nuovo ordine sociale. Nel sistema del capitale privato c’è una forza anonima, il denaro, che a mezzo delle banche e della borsa delimita i valori che possono o non possono essere prodotti in relazione agli interessi del capitale. Quindi non sono le necessità della massa che determinano lo sviluppo della produzione, poiché si ripeterà sempre il tentativo di ottenere a mezzo della rarefazione dei prodotti un aumento dei prezzi onde aumentare il reddito del capitale. Più di una volta si è verificato che, per ottenere un maggior reddito sui prodotti, si sia reso impossibile al produttore agricolo di vendere i suoi prodotti impedendone il trasporto. In luogo di questo sistema sorpassato e condannabile deve esserne escogitato uno più aderente agli interessi della nazione e tale nuovo sistema non consiste unicamente nella socializzazione delle grandi imprese industriali. È un fatto che anche l’impresa socializzata non può esistere senza capitale, poiché deve pagare gli operai, acquistare le materie prime, conquistare i mercati. Ma in questo caso non si tratta di un capitale anonimo, privato o statale, bensì di un capitale comune o di un capitale di fabbrica, su basi sociali che non rappresentano più interessi capitalistici privati, ma sta al servizio dell’azienda, a cui sono interessati tutti gli operai della fabbrica.
Soltanto quando si saranno raggiunti questi presupposti fondamentali, si potrà passare gradualmente la grande azienda industriale in proprietà degli operai ed impiegati, dal direttore generale al più umile lavoratore. L’indennizzo al proprietario, o alla società per azioni, già padroni dell’azienda, deve essere contenuto in limiti che siano sopportabili per l’azienda e sin da principio questo criterio dev’essere assolutamente chiaro. A socializzazione avvenuta, l’impresa diventa una cosa di interesse comune, al cui sviluppo è vivamente interessato qualsiasi dipendente, poiché la situazione economica di ogni singolo dipende dall’efficienza dell’impresa stessa: ciò darà inoltre ad ogni singolo il senso di responsabilità, non solo verso se stesso, ma verso tutti i suoi camerati.
Tutto questo è completamente nuovo e prevedo che potrà essere realizzato soltanto superando gravi difficoltà. Per quanto riguarda la forma finanziaria di un’azienda socializzata, io penso che la ricompensa dei singoli operai e impiegati deve essere basata su una certa tariffa. La tariffa deve essere scalare e deve corrispondere a ciò che ciascuno produce poiché sarebbe un errore se si volesse pagare in ugual misura tanto l’uomo che è responsabile di tutto l’andamento dell’azienda quanto quello che presta soltanto un modesto lavoro manuale.
Ove ciò non avvenisse si limiterebbe sino dall’inizio la spinta per raggiungere gradini sociali più elevati, e con ciò verrebbe eliminato pericolosamente uno dei principali fattori del progresso. Allorché tutte le spese aziendali saranno coperte, si potranno utilizzare gli eventuali utili superiori per scopi sociali. Tutte le aziende si preoccuperanno di procurarsi degli operai e degli impiegati fidati. Ciò si otterrà più facilmente, dando agli operai dimora stabile e abitazione propria. Perciò la direzione di una fabbrica provvederà alla costruzione di abitazioni in misura finora ignota. Essa cercherà di aggiudicarsi dei terreni adatti nelle vicinanze delle fabbriche per costruire le abitazioni e d’accordo con il comune provvederà alla sistemazione dei mezzi di trasporto, poiché buoni mezzi di comunicazione sono una delle prime necessità per l’attuazione di una ragionevole politica edilizia.
Il comune, che è sempre molto interessato all’ingrandimento del suo territorio, farà eseguire i lavori in compartecipazione con l’azienda per provvedere il nuovo quartiere aziendale delle fognature, della corrente elettrica e dell’acqua potabile, eccetera. Secondo un piano ben prestabilito si comincerà a costruire tenendo presente lo scopo di dare a ciascun operaio la propria casa con relativo giardino e con stalla (per piccolo bestiame).
Per entrare in possesso della sua casetta, l’operaio ammortizzerà ogni anno una piccola somma; finché la casa ed il giardino passino in suo possesso definitivo, egli la potrà anche vendere, ma soltanto d’accordo con l’azienda, mentre questa si riserverà il diritto di prelazione nell’acquisto della casa. Il denaro che affluirà alla cassa dell’azienda sarà utilizzato per costruire nuove case, finché tutti i dipendenti ne possederanno una.
È naturale che queste casette dovranno essere munite di tutti i comforts moderni.
Potranno lo Stato ed il comune aiutare questo progetto? Tale questione è della massima importanza e io credo di poter affermare che ciò sarebbe possibile.
Lo Stato ha il dovere di impedire qualsiasi intervento speculativo sul terreno scelto per la fabbricazione dei quartieri aziendali, poiché se questo fosse lasciato in mano al libero commercio la speculazione si impadronirebbe ben presto della cosa e tenterebbe di appropriarsi forti utili. Ciò deve essere evitato sin dall’inizio, con tutti i mezzi legali, e tutti coloro che tentassero di ottenere illeciti guadagni personali col sudore dei lavoratori dovranno essere puniti.
Un altro punto da evitare è il seguente: quando si esce da una qualsiasi città italiana, si può osservare come ai suoi margini si sviluppino aziende agricole che sfruttano anche il più piccolo pezzo di terreno. Ora, costruendo dei quartieri per operai, si verificherebbe contemporaneamente una diminuzione del terreno utilizzabile per l’agricoltura. Questa limitazione non potrebbe essere bilanciata dalla possibilità di una certa coltivazione negli orti del quartiere stesso; orbene la mia vecchia esperienza m’insegna che la modesta appezzatura agricola del piccolo privato non sopperisce neppure in piccola parte alle esigenze di una grande comunità e che l’approvvigionamento di una città viene assicurato unicamente dai prodotti agricoli e alimentari delle grandi proprietà agricole. Perciò è compito dello Stato di provvedere a sostituire quelle zone agricole periferiche, che dovessero essere assegnate a quartieri aziendali, con altri terreni viciniori. Ciò è facilmente comprensibile quando ci si immagini che in certi casi, come per esempio a Milano, si tratterebbe di costruire centinaia di migliaia di casette; il che accrescerebbe considerevolmente il territorio della città, ma diminuirebbe nello stesso tempo il terreno coltivabile.
I miei avversari, partigiani del capitale privato, hanno sempre sostenuto che con la socializzazione io creerei grandi difficoltà alle industrie e che gli operai e gli impiegati non sarebbero in grado di condurre con responsabilità una azienda. In merito a ciò io rispondo che il proprietario dell’azienda o il direttore generale può sempre rimanere, in qualità di impiegato, come membro dell’azienda e continuare a esercitare le sue funzioni qualora egli goda della fiducia dei suoi dipendenti. Per il resto, conoscendo bene gli operai, sono convinto che nei loro ranghi esistono elementi capaci e intelligenti, che forse non hanno mai avuto occasione di manifestare le proprie possibilità creative e industriali. In qualsiasi azienda socializzata si riveleranno quasi automaticamente coloro che possono occupare i primi posti e che sapranno far fiorire l’industria. Ci saranno sempre certamente dei casi di rivalità e di invidia, ma in fin dei conti questi sono difetti umani dei quali bisogna tener conto e non è nocivo allo sviluppo di un carattere se i posti più ambiti non gli vengono come un regalo del ciclo, perché alla fine saranno sempre i migliori ad imporsi. Secondo la mia esperienza, è proprio l’operaio che sa distinguere bene tra vera capacità e chiacchiere vane. E se i miei avversari sostengono che qualora io volessi mettere in pratica i miei piani, l’azienda diverrebbe un parlamentino di chiacchiere e il lavoro si ridurrebbe di giorno in giorno, risponderò che queste cose le può dire solo chi non conosce gli operai e crede che le grandi masse potrebbero lasciarsi abbindolare a lungo dalle stupide chiacchiere.
Effettivamente qualche volta vien fatto di meravigliarsi della pazienza angelica con la quale le masse sopportano anche le ingiustizie più grandi e si lasciano giocare. Ma un giorno anche la più grande pazienza si esaurisce, e allora guai a coloro che hanno scherzato con la pazienza delle masse lavoratrici. È possibile condurre pel naso per un certo tempo gli operai, ma guidarli si può soltanto quando essi hanno il sentimento che la persona che li guida non abbia unicamente buone intenzioni verso di loro, ma anche la capacità per farli avanzare sulla via giusta, poiché è proprio nella vita sociale che si distinguono presto le cose e gli uomini di valore da quelli senza valore.
Supponendo che una azienda sia riuscita a risolvere tutti i compiti ad essa imposti e sia riuscita a fiorire, c’è ancora un pericolo che la minaccia. Ho fatto l’esperienza che in un’azienda specializzata sovraccarica di ordinazioni, gli operai hanno spesso cercato di conseguire i massimi guadagni, aumentando il loro lavoro con ore straordinarie fino all’inverosimile. Ciò naturalmente non deve essere possibile nell’azienda socializzata, dove non sarà ammesso che si sfrutti oltre a un certo limite la capacità produttrice del singolo. Qualora il numero degli operai non si riveli più sufficiente per produrre tutto il lavoro necessario, l’azienda dovrà aprire le sue porte e accogliere nuove forze lavoratrici. Questi sono sacrifici che il singolo deve fare per la comunità, poiché socialismo significa anche essere pronti al sacrificio.
Per la prosperità dello Stato e quindi dei singoli individui che lo compongono è utile che gli operai rimangano fissi al loro posto di lavoro e che non si verifichi più la continua fluttuazione da un’officina all’’altra. In tal modo gli operai non avranno più tante difficoltà a formarsi la loro famiglia, come succede inevitabilmente a coloro che sono eternamente costretti a spostarsi periodicamente per trovare lavoro. C’è da tenere in considerazione anche il fatto che col nuovo ordine sociale l’operaio nullatenente diventa proprietario; che non è soltanto comproprietario di una grande azienda, ma che è anche possessore di un pezzo di terreno.
Come un filo rosso si trascina attraverso la nostra conoscenza della storia la convinzione esistente in ogni essere umano, di qualunque condizione e professione, che la sua felicità terrena consista soltanto nel diventare proprietario di un pezzo di terreno. È stata certamente una misura molto saggia quella presa dai vecchi capi militari dell’antica Roma di dare ai loro legionari, allorché venivano congedati dopo una battaglia vittoriosa, un pezzo di terreno, legandoli così anche per il futuro allo Stato e ai suoi interessi. Ora il singolo non dovrà più temere per il futuro dei suoi figli, perché dopo la sua morte essi diventano per diritto eredi; e non ci sarebbe motivo perché non dovesse esserci questa eredità anche per i beni guadagnati con l’industria, come è sempre stato per i beni agricoli. È vero che soltanto gli appartenenti alle aziende possono diventare gli eredi del padre, ma normalmente il figlio seguirà il padre se questi per l’avanzata età o per motivi di malattia dovrà abbandonare il lavoro, e in tal modo si formerà uno stretto vincolo tra l’azienda e le famiglie dei suoi impiegati e operai. Con ciò la famiglia raggiunge una base molto più solida di quanto non sia possibile oggi nell’attuale regime capitalistico.
Se tutta la responsabilità dell’azienda vien messa nelle mani degli operai e impiegati, è evidente che all’’azienda spetta di assumersi l’impegno di provvedere ai malati e agli invalidi. Probabilmente ciò verrà risolto creando delle casse per pensioni, alle quali dovrà essere depositata di volta in volta una parte del guadagno. Il capitale creato in questa maniera può essere lasciato all’azienda che ne godrà gli interessi. Se uno dei membri si ammala, la cassa malattia deve provvedere per lui. Le aziende più piccole probabilmente dovranno unirsi alle mutue statali, mentre quelle più grandi creeranno delle proprie mutue e, poiché ogni membro dell’azienda ha interesse di mantenere la sua capacità di lavoro e in caso di malattia di guarire il più presto possibile, le spese della cassa malattia saranno relativamente lievi, eccezion fatta per i casi di epidemie, e quindi anche i contributi potranno essere altrettanto bassi. Se uno dei membri diventa invalido anzitempo, l’assicurazione per l’invalidità dovrà provvedere affinché possa vivere serenamente per il resto dei suoi giorni. Ritengo indispensabile che ogni grande azienda abbia i suoi propri medici per controllare con visite regolari e periodiche lo stato di salute dei dipendenti per ragioni di igiene generale e per evitare il sorgere e il propagarsi di epidemie o di malattie infettive. Qualora uno dei membri dell’azienda non sia più in grado di compiere tutto il suo lavoro, egli sarà sottoposto a una visita medica di controllo che stabilirà il lavoro adatto alle forze dell’operaio o dell’impiegato. Il medico sarà responsabile del funzionamento degli impianti igienici dell’azienda che non dovranno consistere solamente nell’infermeria, nella farmacia e nei gabinetti di chirurgia e di specialità, ma anche negli impianti di riscaldamento, di aereazione, di docce, ecc. I giudizi del medico sono importantissimi per l’azienda e le innovazioni o i cambiamenti da lui proposti dovranno essere subito eseguiti. Le regolari visite di controllo daranno anche la possibilità di riconoscere in tempo il manifestarsi di malattie croniche, come per esempio la tubercolosi, e di far quindi curare tali malattie da medici specializzati, in ospedali o in sanatori. Sarà bene se la direzione dell’azienda stipulerà sin dall’inizio un contratto con degli ottimi sanatori per poter far ricoverare e curare i suoi dipendenti. Specialmente gli operai più anziani dovranno essere assistiti e vigilati dal medico, che interverrà prontamente ai primi sintomi di malattie reumatiche, poi-ché, come si sa, queste richiedono, data l’età, cure maggiori. Deve essere stroncato nel modo più assoluto lo sviluppo delle malattie veneree; qualora queste si verificassero, il medico deve provvedere perché i malati non vengano riammessi nell’azienda fintanto che qualsiasi possibilità di contagio non sia passata. Al lavoratore naturalmente non deve essere interdetto di scegliersi un medico di fiducia; il medico dell’azienda non deve essere anche il medico curante, ma sarà compito dell’azienda di stipulare un contratto con le organizzazioni mediche locali e con gli ospedali in merito al pagamento per le loro prestazioni ai dipendenti dell’azienda. Questo sistema di vigilanza sanitaria dovrebbe avere una benefica influenza sulla morale pubblica. Le forze spirituali e materiali dei lavoratori ne trarranno un notevole giovamento.
Il socialismo sarà il più forte strumento per la pace che sia mai esistito nel mondo: con la sua attuazione verrebbero a mancare tutte quelle cause che portano di solito alla guerra. Quando le masse sono contente non esistono più limiti al progresso degli uomini. Quando gli interessi capitalistici e le manovre di borsa non governeranno più l’economia, si raggiungerà quel livello ideale di prosperità comune che escluderà la possibilità di guerre.
Certo non bisognerà misurare tutte le persone con lo stesso metro: ci saranno sempre delle differenze, ci saranno sempre i pigri e i diligenti, gli stupidi e gli intelligenti, i più capaci e i meno capaci; ciascuno sarà padrone del proprio destino e potrà sviluppare al massimo tutte le sue capacità, ma entro quei limiti che non gli consentano di danneggiare la comunità. Una delle più importanti cause di guerra verrebbe a mancare: la lotta per i valori immaginari, come per esempio il denaro. Quando il valore del denaro dipenderà soltanto dal lavoro e dalla produzione, e non dall’oro e dalle azioni, il sistema capitalistico avrà completamente cessato di esistere. Con ciò una certa categoria di persone verrebbe esclusa dalla comunità e dalla società e forse distrutta, quelle persone per le quali il denaro è un dio; e all’umanità non potrà venirne che un gran bene. Io non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur possedendo già molto più di quanto non possano consumare, non si sentono sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro patrimonio. Eliminare queste brutture umane sarà uno dei compiti del nuovo mondo socialista.
Avendo per mèta il raggiungimento di un ordine sociale, come quello del quale abbiamo parlato, io ho iniziato la mia attività di governo, ma non sono riuscito nel compito prefissomi perché mi si opposero fin da principio ostacoli che sembravano insormontabili. L’Italia è un paese molto povero e il suo popolo è costretto, come quasi nessun altro in Europa, a utilizzare tutto il guadagno della sua operosità produttiva per importare generi alimentari necessari alla sua vita. La produzione della nostra terra non è sufficiente per nutrire la popolazione in continuo aumento. Un terzo soltanto del nostro territorio può essere sfruttato dall’’agricoltura, mentre il resto è improduttivo. All’Italia mancano quasi completamente tutte le materie prime necessarie per l’industria e anche queste debbono essere importate e il loro costo grava sulle spalle dei lavoratori italiani dell’industria. Perciò volendo realizzare le mie idee sociali, dovetti pensare innanzi tutto a ingrandire il terreno coltivabile cercando nuove terre. Queste potevano essere trovate soltanto nelle colonie, che, allorché io andai al governo, erano di scarso valore e di nessun vantaggio economico. Dovetti perciò guardare lontano e cercare la possibilità di dare all’Italia il necessario spazio vitale, ma, non appena allungai la mano verso una zona africana di sfruttamento, cominciarono subito le difficoltà internazionali. Non soltanto venni attaccato personalmente, ma esisteva anche una totale incomprensione per le sacrosante necessità del mio paese. Malgrado ciò, non ho desistito mai dai miei piani; ma non fu per vanità o, come mi si rimprovera, per imporre la mia volontà al mondo, che attuai la mia politica interna ed estera, bensì per creare le basi indispensabili all’attuazione del nuovo ordine sociale. Ho sempre ritenuto legittimo cercare nuove colonie, come altri paesi fecero prima dell’Italia, anche perché gli italiani sono stati sempre dei maestri nell’arte della colonizzazione; essi hanno reso prosperi e fiorenti con il loro lavoro e la loro capacità tutti quei territori, nei quali si recarono.
Un esempio è dato dalle colonie francesi di Tunisi ed Algeri, che in realtà sono delle colonie italiane sotto bandiera francese e le cui grandi ricchezze non avvantaggiano, come sarebbe giusto, il popolo italiano, bensì i francesi, i quali possiedono un grandissimo spazio vitale, che non sono in grado di sfruttare.
Nonostante tutte le difficoltà e tutte le manovre con le quali si tentò di impedire la mia opera, riuscii a realizzare con successo una parte dei miei piani coloniali. Quanto il genio e il lavoro italiani hanno fatto nelle colonie dell’Africa settentrionale e più tardi nell’Abissinia non può essere scritto che a caratteri d’oro nella storia coloniale del mondo intero. Credo di avere ottenuto lo spazio vitale minimo necessario per poter realizzare con successo le mie idee sociali. Non posso giudicare in questo momento se più tardi, qualora la popolazione italiana continuasse ad aumentare nella stessa misura, saranno necessarie altre conquiste. La conquista delle colonie ci è costata, come il mondo sa, sacrifici e guerre sanguinose. È stato molto duro per me dover chiedere al popolo italiano questi sacrifici, ma l’ho fatto con la consapevolezza di agire nel suo interesse e per la sua prosperità futura, con la convinzione che i posteri e la storia avrebbero sanzionato le mie azioni. Che cos’altro avrei potuto fare, se non prendere con la forza ciò che un mondo incomprensivo e stupido mi negava?
Se dovrò scomparire dalla scena prima che le mie idee socialiste possano avere piena attuazione, sono convinto che, sia pure dopo altri errori, il nuovo ordine del mondo sarà creato nel senso da me indicato. Si dica quello che si vuole, le mie idee sono le sole che tengano conto degli interessi e delle necessità delle grandi masse lavoratrici e perciò esse saranno vittoriose, malgrado tutti gli ostacoli. Allora, e solo allora, il mondo cambierà aspetto. Al mio socialismo apparterrà il mondo e non al comunismo o al socialismo di Stato. L’uomo superiore di Nietzsche, come lo immagino io, e la comunità produttrice, non saranno più degli avversari.
(Benito Mussolini)
Fonte di cui si consiglia caldamente l’acquisto: Georg Zachariae: “Mussolini si confessa”, qualsiasi edizione e ristampa B.U.R.
«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica Sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l’estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito». [Benito Mussolini a Carlo Silvestri, 22 aprile 1945]

mercoledì 12 giugno 2019

LA GRANDE BUFALA DELLA SVASTICA NAZISTA

LA GRANDE BUFALA DELLA SVASTICA NAZISTA

Date un’occhiata alle seguenti cinque immagini e poi ditemi se non vi sembra di essere stati scaraventati in una realtà ucronica, cioè in un mondo alternativo i cui eventi sono diversi da quelli accaduti realmente, come quello narrato nel romanzo La svastica sul sole di Philip H. Dick.
Collana iraniana proveniente da Marlik, Iran, I millennio a.C.Foto di: Museo Nazionale dell’Iran, Teheran

Nel gennaio 2016, in previsione dei Giochi Olimpici che si terranno fra tre anni a Tokyo, in Giappone c’era stata la proposta di togliere dalle mappe turistiche la svastica (che i giapponesi chiamano Manji), utilizzata per segnalare i templi buddisti, e sostituirla con una pagoda stilizzata a tre piani. Secondo gli uffici promozionali turistici del posto, infatti, il Manji viene spesso scambiato dagli stranieri per il simbolo nazista. Naturalmente la proposta ha scatenato feroci polemiche perché il Manji è antichissimo e, da sempre, ha avuto e continua ad avere un ruolo chiave nella religione, nell’arte e nella scrittura giapponesi.
Mi auguro che la proposta cada nel nulla e che il Manji resti dov’è e non sparisca a causa dell’ignoranza di chi fa turismo di massa senza informarsi prima sulle usanze e i costumi del paese ospitante, o comunque sulla sua storia. Ai miei occhi, togliere il Manji dalle mappe è, infatti, l’ennesimo attacco di un processo di globalizzazione notoriamente in atto che, invece di esaltare le singole culture come sarebbe logicamente auspicabile, le appiattisce e le dissangua della linfa vitale che le sostiene, sulla base di presupposti opinabili e a senso univoco, come per esempio nel caso della svastica.
È già abbastanza imbarazzante, infatti, che un tempo minimo di storia occidentale abbia confuso e oscurato un simbolo basilare che esiste da migliaia di anni oltre a essere comune a quasi tutte le culture. Che questo tempo minimo continui a oscurarlo ancora oggi e addirittura oltrepassi i confini che gli competono (sia fisici che temporali), mi sembra oltremodo contraddittorio, se è vero che in Occidente l’opinione comune circa il nazismo non possiede valenze di periodo felice.
Felicità che, invece, è uno dei significati principali della svastica, simbolo solare per eccellenza.

Il manji e la pagoda stilizzata con cui si vorrebbe sostituirlo
Da un mio monitoraggio personale, effettuato su social o altre piattaforme, o anche in forma privata, è emerso per la maggior parte che il simbolo della svastica non solo non è conosciuto nel suo significato tradizionale, ma è anche oggetto di pubblico ludibrio; qualcuno ne conosce la simbologia antica, ma crede che quella nazista giri al contrario. Anche questo non è vero.
Prendiamo ancora come esempio il Manji. Nella scrittura e nell’arte buddista giapponese il Manji ha il significato letterale di “diecimila Dei” cioè l’Infinito, l’Ordine Universale e il suo continuo mutamento, attraverso il quale vengono rappresentati il Dharma universale, l’armonia, l’equilibrio degli opposti. Se gira a sinistra (卍) viene chiamato Omote Manji e rappresenta l’amore e la misericordia; quando invece gira a destra è chiamato Ura Manji (卐) e rappresenta la forza e l’intelligenza.
L’Omote Manji rappresenta anche il fluire ciclico della vita e dell’energia positiva, cioè il sole che nasce a est e muore a ovest.

Anche in Tibet la svastica ha una chiara e doppia valenza a seconda che sia destrogira o sinistrogira: nella forma indiana, cioè quando gira a destra, fa parte del patrimonio simbolico lamaista (il buddismo tibetano), mentre la svastica che gira a sinistra è un segno fondamentale che qualifica il Bön, l’antica religione himalayana e subhimalayana prebuddista che in area tibetana ha accolto in sé influenze dal buddismo e ha trovato la sua espressione ultima.
Nell’induismo (la principale religione di area indiana), invece, la svastica rappresenta le due forme di Brahma che definiscono l’eterno ciclo del tempo: i rebbi rivolti a destra si riferiscono all’evoluzione dell’Universo, alla vita, al progresso, al benessere (Pravitti), mentre i rebbi rivolti a sinistra si riferiscono al moto involutivo, alla morte, alla distruzione (Nivritti).

La svastica come è rappresentata nella religione Bön
Il termine svastica, che in realtà andrebbe declinato al maschile, lo svastica, deriva dal sostantivo maschile sanscrito vedico (la lingua dei Veda, i più antichi testi religiosi indiani) svastika che indica, tra i molteplici significati, una croce greca, cioè questa i cui bracci sono piegati ad angolo retto. La parola è traducibile come “è il bene” o “benessere”, oppure “fortunato”, “di buon augurio”.
I ritrovamenti più antichi in cui compare la svastica risalgono al Neolitico, e sono stati rinvenuti a Mezin, sul confine tra Russia e Ucraina, dove sono affiorati svariati oggetti di uso quotidiano e rituale, tra cui un monile di avorio di mammut con incisioni di forme geometriche che ricordano la svastica e il meandro ellenico.
Esempio di decorazione a meandro ellenico
Reperto proveniente da Mezin
La si trova anche in numerosi altri siti dell’Asia Centrale, dove è raffigurata da sola oppure dentro un cerchio a simbolizzare il sole: a volte con i bracci diritti, a volte uncinati. È certo, comunque, che fosse utilizzata fin dal Paleolitico come simbolo di fertilità.
Mentre nel successivo periodo indoeuropeo è per lo più legata al culto solare. Secondo le ultime teorie maggiormente accettate, in accordo agli studi e alle scoperte archeologiche di Marija Gimbutas, gli Indoeuropei occuparono il territorio che va dall’Europa occidentale all’India.

Giara del periodo neolitico
Reperto proveniente da SamarraFoto di: Irak
Nell’area indomediterranea si sono trovate testimonianze di svastica a Susa, l’antica capitale dell’Elam (area corrispondente all’attuale Iran occidentale, nelle regioni del Khuzistan e del Fars), risalenti al tardo Neolitico, 4000 a. C. circa.
Con l’Età del Ferro si è diffusa ancor di più, e si sono trovati reperti che la raffigurano su ceramiche dell’Elam, su alcune figure-idolo femminili della Troade (in Asia Minore), su oggetti di varia natura nella regione danubiana, sui vasi di stile geometrico del Dipylon (Atene) e su statue femminili a Micene (Grecia, dove veniva chiamata tetragammadion), su statuette della Beozia e su vasi dipinti di Rodi, su reperti rinvenuti a Creta, sui vasi cinerari e sulle urne a capanna del periodo villanoviano in Italia e, più tardi, fu ritrovata raffigurata anche dagli Etruschi e dai Romani (che la denominavano crux gammata). E dopo ancora, i primi cristiani spesso usarono apporla sulle catacombe come simbolo della chiesa del Cristo, ma anche per camuffare la loro croce.
Monile etrusco con decorazione a svastiche rinvenuto a Bolsena, VII secolo a.C. (Parigi, Museo del Louvre)
Vaso cinerario proveniente da Montescudaio, civiltà etrusca, V sec. a.C.
Antico elmo macedone, 350-325 a.C. raffigurante una svastica sulla sommità, ritrovato a Ercolano
Moneta greca d’argento proveniente da Cnosso, Creta
Disco in oro sbalzato, Grecia, VIII secolo a.C.
Anfora greca proveniente da Atene, 900-850 a.C.
Pavimentazione a mosaico, Ercolano, prima del 79 d.C.
Sudario funerario egizio del Periodo Romano, II o III secolo d.C.
Anello tribale germanico, bronzo, 400-600 d.C. circa
Resti di chiesa bizantina in Israele
Reticella per capelli medievale, trovata a Sint-TruidenFoto di: Belgio
Chiesa parrocchiale di Rosazza (Piemonte), architettura neoromanica, circa 1850
La svastica è stata anche ritrovata nella scrittura utilizzata dalla Cultura di Vinča (VI-III millennio a.C.) che fiorì nella penisola balcanica. Altri reperti dell’Età del Bronzo furono ritrovati nella zona di Sintashta (Russia) e altri dell’Età del Ferro nel Caucaso settentrionale e in Azerbaigian.
Frammento di antica stoffa russa (Vologda), XIX secolo
È di poco tempo fa lo straordinario ritrovamento di un frammento in ceramica che risale perlomeno a oltre 5000 anni fa, emerso durante gli scavi in corso a Riben, nella zona nord-occidentale della Bulgaria. Il cantiere era stato aperto per esaminare una fortificazione romana del III secolo d. C., ma ha portato in superficie anche una locazione molto più antica databile al periodo neolitico, cioè risalente fino a oltre settemila anni fa.
Secondo un esperto, Peter Banov, potrebbe trattarsi della più antica raffigurazione della svastica, conosciuta fino ad oggi.

Riben, Bulgaria, reperto risalente al periodo neolitico
Dovunque, più che un motivo ornamentale, la svastica sembra essere un simbolo religioso solare e/o con poteri soprannaturali e magici. Poteri che, infatti, gli antichi attribuivano al Sole.
Era conosciuta dai Mesopotami, dagli Egizi, dai Celti. Nell’antica tradizione norrena dei popoli scandinavi la svastica era identificata col martello del dio Thor. E naturalmente era ed è conosciuta inIndia (è ricorrente nelle religioni giainista, buddista e induista) e in Cina, in Tibet e in Mongolia.
Pietra sacerdotale celtica, Irlanda, IV secolo d.C.
Croce nestoriana proveniente dalla Mongolia
Fibbia ostrogota in oro e granato, con cerchio in cristallo, decorata da una svastica portatrice di buona fortuna e benessere, VI secolo d.C.
Antichi sigilli provenienti da Harappa, Pakistan
Emblema della religione giainista, India
Antiche monete provenienti dallo Sri Lanka
Le svastiche che corrono lungo il muro del labirinto al vecchio Palazzo d’estate di Pechino
Budda
La svastica compare nell’America del Nord e del Sud fin dall’epoca precolombiana, Alaska compresa. Nel manoscritto precolombiano chiamato Codex Borgia, proveniente dall’altopiano messicano (oggi visibile nel British Museum), si vede la bella svastica che segue, finemente decorata.
Manoscritto precolombiano noto come Codex Borgia
In Perù, in una piramide a Huaca Rajada, è stato ritrovato questo vaso precolombiano.
Huaca Rajada, Perù
A Puma Pumku, in Bolivia, nello straordinario complesso monumentale a struttura modulare di Tiwanaku, scoperto all’inizio del XX secolo dall’ingegnere tedesco Arthur Posnansky, si può vedere questa splendida svastica. Il complesso risale a un periodo che va dal 536 al 600 d.C.
Puma Pumku, Bolivia
Passando al Nord America, nel Pueblo Grande Museum di Phoenix, in Arizona (Stati Uniti), è possibile ammirare un reperto di ceramica Hohokam.
Ceramica Hohokam
Sempre in Arizona è stato ritrovato questo antico monile in argento realizzato dagli indiani navajo.
Monile in argento, indiani navajo dell’Arizona
Nel nord e nel centro America, la svastica era utilizzata con accezioni terapeutiche e legate ai miti della creazione. Ancora oggi, gli sciamani navajo la dipingono sul terreno durante cerimonie curative, e ai bambini viene dipinta sulla sommità della testa come benedizione.
Il capo indiano Tommy Thompson, Celilo Falls, Oregon
Anche in Africa la svastica era conosciuta: si sono trovate testimonianze nel Sudan occidentale e nella Guinea superiore. La si vede raffigurata sui pesi degli Ashanti, cultura precoloniale dell’Africa occidentale (oggi Repubblica del Ghana). Ma sono stati ritrovati anche oggetti decorativi costituiti da svastiche radiali racchiuse in cerchi.
Uno scorcio di chiesa copta scavata nella roccia a Lalibela, Etiopia
Pettine di legno proveniente dall’etnia Akan, Ghana, 1960
Scarificazione con svastiche
Anche nell’isolata Oceania pare siano state trovate svastiche.
Al momento in Australia, però, non mi sembra siamo messi bene quanto a informazione circa l’argomento, da parte delle forze governative. Nel Queensland, addirittura, leggo di arresti durante una pacifica manifestazione volta alla sensibilizzazione sul reale significato della svastica.
Notizia del 27 giugno 2010.

In Tibet, in India, in Cina e nell’Oriente asiatico in generale continua ad essere un simbolo accomunato alle immagini del Budda. In Giappone lo si trova nei templi buddisti. In India è anche simbolo della settantesima reincarnazione del dio induista Tirthankara, e i suoi quattro rebbi rappresentano i quattro livelli dell’esistenza: il mondo degli Dei, il mondo degli Uomini, il mondo degli Animali e il mondo dei Demoni.
I contadini tibetani (dopo l’occupazione cinese non si sa più affermarlo con certezza) la tracciano sulla porta di casa perché non entrino influssi malefici; e infatti in molte culture ha avuto e continua ad avere un valore apotropaico, cioè di tenere lontano il male.

Qualche anno fa, in Nepal, durante le elezioni gli elettori espressero il loro voto apponendo una svastica vicino al nome del candidato scelto.
Il Dalai Lama, Tenzin Gyatso, massima autorità dello stato sovrano del Tibet, ora costretto all’esilio e rifugiato in India dal 1959-60 in seguito all’usurpazione cinese. Nel suo paese è in corso tutt’ora un sistematico genocidio della popolazione autoctona, da parte dei cinesi. Della seconda massima autorità del Tibet, il Panchen Lama, e della sua famiglia, non si sa più nulla dal 1995, da quando l’autorità cinese ha dichiarato di averli messi sotto la sua “tutela protettiva”. Il Dalai Lama, o Kundun come viene chiamato dai tibetani, fu insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1989. Qui lo vediamo in uno dei suoi numerosi raduni, tra paramenti tradizionali che recano la svastica.
Una “mala”, tipo di rosario tibetano
Rappresentazione induista del dio elefante Ganesha
Svastica giainista
Armature di samurai. Epoca Tokugawa
Anche in Europa e nelle Americhe la svastica ha sempre continuato ad essere usata e raffigurata. Anzi, tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo conobbe una rinnovata popolarità, se mai ne avesse avuto bisogno, in seguito alle scoperte e agli studi del famoso archeologo Heinrich Schliemann, che scoprì la croce uncinata tra le rovine della leggendaria Troia. Schliemann, facendo raffronti con del vasellame scoperto in Germania, ipotizzò che fosse un “importante simbolo religioso dei nostri progenitori”.
Da questi scavi si deduce che, dal modo in cui è situata la svastica sul corpo di figure di donna, la svastica fosse utilizzata come simbolo di fertilità e vita. E anche dee della fertilità trovate in alcune tombe a Micene hanno questo simbolo sul seno e sulla gola. In un sarcofago si vede la signora della vita, che poi venne chiamata Artemide, circondata da svastiche.

Statuetta di divinità femminile ritrovata da Schliemann a Troia
La dea Artemide, vaso greco del VII secolo a.C.
Nel 2008, a Gerusalemme, durante l’incontro avvenuto tra il Gran Rabbinato d’Israele e l’Hindu Dharma Acharya Sabha, è stata siglata la seguente dichiarazione comune: lo svastika è un antico e importante simbolo religioso dello Hindūismo, che nulla ha a che fare con il nazismo e l’utilizzo passato di tale simbolo da parte di questo regime è stato assolutamente improprio.
Di questo antichissimo simbolo ne parlò diffusamente anche l’esoterista René Guénon in Simboli della scienza sacra, dove conclude che la svastica rappresenta il “Principio Originante”, il Verbo greco, l’Omindù, insomma: l’Axis Mundi, termine che nella storia delle religioni indica il concetto di asse dell’universocomune a differenti religioni e mitologie.
Ed è stata acquisita anche in ambito massonico, che componendo quattro volte ad angolo retto la lettera greca G, ossia Γ (cioè ribaltando quattro squadre equilibrate), ha dato origine a una svastica, la quale simboleggia la reale sede del Sole centrale celato nell’Universo.
Dove G sta per simbolo e abbreviazione di: Geometria, Dio (God in inglese), e Grande Geometra dell’Universo (Great Architect of the Universe).

Rudyard Kipling, scrittore e massone, usava apporre la svastica sulle copertine dei suoi libri
Alcuni manga giapponesi, poi modificati quando escono dal territorio nazionale, in origine contengono il simbolo del Manji.
Per esempio in Naruto, il manga scritto e disegnato da Masashi Kishimoto.

Oppure in One Piece, il manga scritto e disegnato da Eiichirō Oda.
Ma torniamo alle prime cinque immagini dell’inizio.
La svastica, in tutta la storia dell’umanità, non è mai stata dimenticata né tantomeno disprezzata. L’accezione negativa l’ha avuta solo per un brevissimo e funesto periodo nel Novecento.
In realtà, ancora agli inizi del Novecento, in Occidente compariva dovunque, perfino negli annunci pubblicitari.

Quella che segue è una targa metallica dell’ASEA, società milanese di elettricità. Nel 1883 la società installò a Milano i primi generatori in corrente continua progettati da Edison.
Asea, Società Italiana di Elettricità, Milano
Un furgoncino di lavanderia. Irlanda, 1912.
Irlanda. Furgoncino di lavanderia, 1912
Il logo a svastica azzurra dell’aeronautica militare finlandese, adottato nel 1918. Fu dismesso nel 1945.
Emblema a svastica azzurra dell’aviazione finlandese. Fu introdotto nel 1918
Una banconota russa dei primi anni del Novecento.
Banconota russa, primo Novecento
La squadra canadese di hockey su ghiaccio in una fotografia del 1916.
Canada, 1916. Squadra di hockey su ghiaccio
Negli Stati uniti l’utilizzo della svastica fu addirittura pervasivo, complice l’antica tradizione dei nativi americani, mai distrutta del tutto.
Concludo con le seguenti immagini, il cui contenuto è anteguerra.
Mai simbolo è stato più chiaro, se non altro perché da sempre simboleggia il Sole
.

Sigarette Swastika, in commercio dal 1913 al 1916
Rasoi Swastika. Furono in commercio dal 1865 al 1881
Cartolina augurale con una citazione di Shakespeare. Usa, 1909
Cartolina augurale di Buon Anno. Usa, 1930
Farmaceutica, Bottiglia della Coombs Drug Company. Usa, prima della Seconda guerra mondiale
Cartelli di autostrade statali statunitensi
Cartello pubblicitario dell’Hotel Tovar in Arizona
Annuncio pubblicitario di calzature nativo americane, circa 1920
Confezione di un panetto di burro della Chief Sandouski Company
Lampadine statunitensi. Quando venivano accese, le svastiche irradiavano luce. Erano molto popolari fino a poco prima della Seconda guerra mondiale
Per tornare a dare il significato che compete alla svastica anche qui in Occidente, dove è stato perso e continua ad essere perso, non c’è che un modo: sapere la vera storia della svastica.
Censurandola si continua solo ad alimentare un’aberrazione storica e culturale, fondata sulla precisa volontà di alterarne il significato originale.
Voltaire mi sembra abbia scritto: “È la caratteristica delle censure più rigide quella di dare credibilità alle opinioni che attacca.”