martedì 26 aprile 2022

Quel treno della vergogna

 


Quel treno della vergogna

La Storia e le sue tragedie hanno spesso viaggiato sui binari, e anche questo dramma non ha fatto eccezione: pochi però conoscono la vicenda del “treno della vergogna”.
Dopo la pulizia etnica operata dai comunisti titini sugli italiani d’Istria e Friuli Venezia Giulia (forse ventimila persone uccise ed infoibate), all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale il regime di Belgrado attuò la seconda fase della pulizia etnica nei territori dell’Istria: è quello che viene chiamato “Esodo istriano”, 270.000 persone cacciate dalle loro case e dalle loro terre.
Molti di questi italiani erano in Istria da secoli, dal momento che fin dal XIV secolo faceva parte dei domini della Serenissima Repubblica di Venezia. Il 10 febbraio 1947 venne firmato il trattato di Parigi che prevedeva la definitiva assegnazione di gran parte dell’Istria alla Jugoslavia e per chi volesse mantenere la cittadinanza italiana l’abbandono della propria terra.

Profughi istriani
Profughi istriani

La domenica del 16 febbraio 1947 da Pola partirono per mare diversi convogli di esuli italiani con i loro ultimi beni e, solitamente, un tricolore. I convogli erano diretti ad Ancona dove gli esuli vennero accolti dall’esercito a proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non mostrarono alcun gesto di solidarietà

Il PCI diffondeva la notizia che gli esuli erano in realtà fascisti e collaborazionisti espulsi dal “paradiso dei lavoratori socialisti”. Era una menzogna e chi la diffondeva ne era cosciente, ma negli anni della Guerra Fredda prevaleva la solidarietà di partito.
Il giornalista de l’Unità Tommaso Giglio, poi direttore de L’Espresso, scrisse un articolo il cui titolo recitava “Chissà dove finirà il treno dei fascisti?

La sera successiva partirono stipati in un treno merci, sistemati tra la paglia all’interno dei vagoni, alla volta di Bologna dove la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Il treno giunse alla stazione di Bologna solo a mezzogiorno del giorno seguente, martedì 18 febbraio 1947. Qui, dai microfoni di certi ferrovieri sindacalisti fu diramato l’avviso Se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione. Il treno venne preso a sassate da dei giovani che sventolavano la bandiera con falce e martello, altri lanciarono pomodori e altro sui loro connazionali, mentre terzi buttarono addirittura il latte destinato ai bambini in grave stato di disidratazione sulle rotaie.
Per non avere il blocco del più importante snodo ferroviario d’Italia il treno venne fatto ripartire per Parma dove POA e CRI poterono tranquillamente distribuire il cibo trasportato da Bologna con automezzi dell’esercito; la destinazione finale del treno fu La Spezia dove i profughi furono temporaneamente sistemati in una caserma.

L’episodio di Bologna viene raccontato anche nel libro “Magazzino 18” di Simone Cristicchi appena uscito nelle librerie, che riporta la citazione dell’Unità del 30 novembre 1946, che considerava gli esuli: “indesiderabili(…) criminali (…) che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici”.

CAPITO I COMUNISTI?? 

                                                                                                                                                  

 

 

 

mercoledì 20 aprile 2022

CRIMINI PARTIGIANI : L'eccidio di Malga Bala

 


CRIMINI PARTIGIANI : L'eccidio di Malga Bala

 

Imprigionati, deportati, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi: fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri Reali, catturati nel 1944 dai partigiani comunisti sloveni e italiani alle Cave dei Predil, nellalto Friuli.

I Carabinieri Reali, a quel tempo sotto il Comando tedesco,  costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di “Bretto di sotto”, oggi territorio sloveno, che produceva energia per l’intera popolazione della vallata e per la miniera di Cave del Predil, appunto, situata a 10 chilometri da Tarvisio.

A loro era stato chiesto, dopo l’8 settembre 1943, di rimanere al loro posto, al fianco delle popolazioni, per assicurare la regolarità delle funzioni civili (ordine pubblico e polizia giudiziaria) e delle funzioni militari (protezione degli impianti industriali e di pubblica utilità).


Stemma dei Carabinieri Reali

La vigliaccheria partigiana delle bande armate comuniste in quel periodo si accaniva contro obiettivi militari tedeschi mediante agguati e attentati, ben sapendo che ciò avrebbe scatenato le rappresaglie naziste (consentite dai codici di guerra) contro le popolazioni civili.

Dopo aver subito gli attacchi dei “valorosi” partigiani comunisti, che prima si rendevano responsabili delle inevitabili rappresaglie e poi si davano alla macchia, il commissario germanico Hempel richiese al Comando militare la costituzione di un Distaccamento fisso di Carabinieri a protezione della centrale idroelettrica.

Il 23 marzo 1944 però i partigiani assassini di Tito misero in atto un piano criminale, volto a seminare terrore e a destabilizzare quei territori su cui il comunismo titino voleva estendere i suoi artigli, pianificandolo in due fasi.

Dapprima presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino Perpignano, comandante del distaccamento, e il Carabiniere Attilio Franzan, catturandoli mentre rientravano dal paese e si dirigevano verso gli alloggiamenti.

I due partigiani Ivan Likar, detto Socian, e Zvonko, costrinsero i due prigionieri sotto la minaccia delle armi a pronunciare la parola dordine all’ingresso del Presidio, riuscendo così a penetrarvi con facilità insieme agli altri comunisti assassini che nel frattempo avevano circondato la caserma.

Una volta entrati i partigiani catturarono tutti i Carabinieri, sorprendendoli in parte addormentati, e dopo essersi abbandonati ad un criminale saccheggio dei locali, li costrinsero a portare in spalla tutto il materiale trafugato (armi, munizioni, vestiti, cibo, attrezzi, e turbine) mentre a piedi si dirigevano verso la salita che conduceva al Monte Izgora (circa mille metri di altitudine), poi scendendo verso la Val Bausiza, e infine risalendo ancora verso l’altopiano di Bala, appena fuori Tarvisio.

I dodici Carabinieri furono così deportati nel luogo  in cui avrebbero trovato la morte per mano assassina dei vili partigiani comunisti, dei quali ancora oggi le squallide Associazioni come l’Anpi ne commemorano le gesta, a ribadire il loro disprezzo per la Democrazia e i diritti umani.

La sera del 24 marzo 1944 i partigiani decisero di effettuare una sosta, e di pernottare sull’altopiano di Logie, (853 metri di altitudine), rinchiudendo i prigionieri in una stalla.

Quella sera la ferocia comunista e la vigliaccheria partigiana, che hanno sempre contraddistinto l’operato degli “eroici” fautori della cosiddetta “resistenza”, si manifestò con sadico cinismo.

Ai militari venne infatti servito un pasto caldo, costituito da un minestrone nel quale era stata aggiunta soda caustica, varechina e sale nero, nella consapevolezza che i prigionieri affamati avrebbero inconsciamente mangiato tutto ciò che era nel piatto.

Il minestrone avvelenato fu preparato dalle donne della famiglia di Lois Kravanja, uno dei partigiani del commando criminale, composta esclusivamente da elementi comunisti titini, ben felici di esprimere così il loro odio irrazionale e sadico.

Dopo breve tempo i Carabinieri avvelenati iniziarono a contorcersi dal dolore fra atroci spasimi, urlando e implorando i loro carnefici in una lunga agonia che si protrasse per diverse ore.

Il mattino seguente, il 25 marzo 1944, nonostante il fatto che i prigionieri fossero stremati dalla dissenteria provocata dall’ingestione di sale nero e in preda a dolori lancinanti causati dall’azione necrotica della soda caustica, che nel frattempo aveva ustionato faringe, esofago e stomaco, vennero obbligati dai “valorosi” partigiani comunisti titini a marciare fra atroci sofferenze verso Malga Bala, la destinazione finale in cui sarebbero stati uccisi.

Ecco i nomi delle dodici vittime della brutalità comunista e partigiana :

AMENICI Primo (n. a Santa Margherita d’Adige (PD) il 5/09/1905) Carabiniere

BERTOGLI Lindo (n. a Casola Montefiorino (MO) il 19/03/1921 Carabiniere

CASTELLANO Michele (n. a Rocchetta S’Antonio (FG) il 11/11/1910 Car. ausil.

COLZI Rodolfo (n. a Signa (FI) il 3/02/1920 Carabiniere

DAL VECCHIO Domenico (n. a Refrontolo (TV) il 18/10/1924 Carabiniere

FERRETTI Fernando (n. a San Martino in Rio (RE) il 4/07/1920 Carabiniere

FERRO Antonio (n. a Rosolina (RO) il 16/02/1923 Carabiniere

FRANZAN Attilio (n. a Isola Vicentina (VI) il 9/10/1913 Carabiniere

PERPIGNANO Dino (n. a Sommacampagna (VR) il 17/08/1921) Vicebrigadiere

RUGGIERO Pasquale (n. a Airola (BN) il 11/02/1924 Carabiniere

TOGNAZZO Pietro (n. a Pontevigodarzere (PD) il 30/06/1912 Car. ausiliario

ZILIO Adelmino (n. a Prozzolo di Camponogara (VE) il 15/06/1921 Carabiniere



Ecco di seguito le modalità attraverso cui la vigliaccheria partigiana comunista ha confermato la sua infima caratura morale, non superiore a quella di
 scarafaggi o di topi di fogna, quali essi sono.

I prigionieri stremati e consumati dalla febbre, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), vennero sottoposti allo sfrenato sadismo che caratterizza l’operato degli aguzzini comunisti.

Il Vicebrigadiere Perpignano venne afferrato per primo e spogliato, poi i partigiani gli conficcarono un legno ad uncino nel nervo posteriore di un calcagno, e lo issarono con una corda legata ad una trave a testa in giù, come se fosse un quarto di bue, infine non contenti gli squallidi assassini lo incaprettarono e lo finirono a calci in faccia e in testa.

L’incaprettamento, per chi non lo sapesse consiste nel legare mani e piedi dietro la schiena, facendo passare la corda attorno al collo e provocando lo strangolamento a causa dei movimenti dell’incaprettato stesso.

Nel frattempo gli istinti più selvaggi e brutali dei partigiani palesarono la loro indole criminale con comportamenti inumani, come quello di colpire i prigionieri con violente picconate su ogni parte dei corpi.

I macellai partigiani tagliarono i genitali ad alcuni prigionieri, ancora vivi, e glieli conficcarono in bocca, dimostrando un disprezzo che va al di là dell’umana comprensione e proseguendo la tortura mediante la frantumazione degli occhi e l loro asportazione dalle orbite.

Ad altri prigionieri venne aperto il cuore a picconate, oppure veniva cucita la bocca con filo di ferro dopo averli castrati.

Al Carabiniere Primo Amenici venne aperto il cuore per conficcargli dentro la fotografia dei suoi cinque figli che teneva nel portafoglio.

Dopo la feroce mattanza i Carabinieri furono legati col filo di ferro e trascinati come sacchi sotto un grande masso, e ricoperti sommariamente di neve.

I corpi straziati furono rinvenuti casualmente da una pattuglia di militari tedeschi della Wehrmacht la sera del 28 marzo 1944, e recuperati.


Tarvisio : Sacrario delle vittime di Malga Bala

Oggi i resti mortali di queste vittime del comunismo partigiano riposano, nell’artificioso oblio imposto dai seguaci di Togliatti e dalla compiacenza politica istituzionale, nella torre medioevale della Chiesa a Manolz di Tarvisio, le cui chiavi sono custodite dalle suore di un vicino convento.

I resti di Dino Perpignano di Domenico Dal Vecchio, e di Antonio Ferro sono stati invece riportati nelle località di provenienza dalle rispettive famiglie.

Nel 2018 il Generale dell’aeronautica militare Mario Arpino, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, oggi ultra ottantenne, ha ricordato l’eccidio testimoniando quanto segue :

 

Ero un ragazzino, avevo sette anni nel 1944.

Ho visto quei corpi, ancora me li ricordo.

Stavamo passando da lì, appena fuori Tarvisio, con mio padre.

Eravamo sulla moto, io sul seggiolino dietro.

“Non guardare, non guardare, copriti gli occhi”, mi disse mio padre.

Ma non lo ascoltai.

Erano ghiacciati, denudati, i lividi degli scarponi, forse li avevano finiti a calci.

Uno aveva ancora il manico spezzato di un piccone infilzato nel petto, un paio la bocca cucita con il filo di ferro

 

Oggi si conoscono alcuni dei nomi dei feroci criminali titini che presero parte all’eccidio di Malga Bala, tutti appartenenti alla 17a Brigata comunista Simon Gregorcic del IX° Corpo d’Armata jugoslavo :

 

Socian

Ivan Likar (nome di battaglia Socian e/o Janko), classe 1921, di Bretto di sotto (Slovenia), ideatore della strage, ex minatore, ex alpino e già dipendente delle miniere di Cave, a capo della Brigata partigiana dell’alto Isonzo.

Nonostante tutti i suoi crimini percepirà poi una pensione dallo Stato italiano, insieme agli altri assassini comunisti suoi compagni.

Inoltre passerà indenne attraverso le indagini, se così si può dire, della magistratura slovena, la quale dapprima lo accusò e successivamente lo assolse dalle accuse per l’eccidio di Malga Bala con la seguente motivazione:

“Gli elementi acquisiti risultano non idonei a sostenere l'accusa".

 

Josko
Franc Ursic (nome di battaglia Josko), di Caporetto (Slovenia), che ha poi pagato la sua ferocia e la sua crudeltà.

Fu catturato dai tedeschi e cremato, dopo essere torturato, nel lager della Risiera di Trieste  il 7 aprile 1945.

L’assassino partigiano e comunista ha così finalmente provato sulla sua pelle il significato di tortura verso un essere umano.

 

Silvo Gianfrate (nome di battaglia Srecko), di Foggia. Capo gappista che operava lungo il confine tra Italia ed ex Jugoslavia.

 

Franz Pregelj, ex insegnante che ricopriva l’incarico di Commissario politico del IX° Corpo d’Armata.

 

Lojs (o Aloiz) Hrovat, di Plezzo (Slovenia).

In qualità di Commissario politico del territorio, da cui dipendeva l’approvazione di qualunque azione della Brigata, è responsabile dell’eccidio.

Percepisce dallo Stato italiano una pensione di guerra che ritira mensilmente nella banca di Tarvisio, a due passi dalla torre in cui riposano i resti di alcune delle vittime trucidate a Malga Bala.

Nel ’99 la Procura di Tolmezzo gli ha inviato un avviso di garanzia come sospettato di aver capitanato l’orribile strage.

 

Zvonko, partecipò insieme a “Socian” all’aggressione dei Carabinieri del presidio “Cave del Predil” per estorcere loro la parola d’ordine.

 

Lojs Kravanja, fiancheggiatore comunista.

Le donne della sua famiglia, composta da criminali partigiani titini assassini, prepararono il minestrone avvelenato con soda caustica, varechina e sale nero, che diedero da mangiare ai carabinieri prigionieri.

Questo sadico massacratore si occupò di trascinare, insieme al compare Bepi Flais,  i corpi dei Carabinieri, man  mano che venivano trucidati, seviziati, evirati, e uccisi, sotto un grosso masso e ricoprendoli sommariamente di neve.  

 

Bepi Flais, compare di Lojs Kravanja nell’occultamento sommario delle loro stesse vittime.

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Tarvisio : Commemorazione delle vittime dell'eccidio di Malga Bala

Il negazionismo comunista ancora oggi tenta goffamente di nascondere la verità, esattamente come fece per decenni a proposito dell’eccidio di Katyn l’apparato disinformatore delle sinistre.

In quel caso i mistificatori comunisti incolparono i tedeschi dell’orribile strage di polacchi del 1940 in Bielorussia, reiterandone l’orrore e puntando il dito contro il nazi-fascismo, salvo poi essere sbugiardati e svergognati dalle dichiarazioni di Michail Gorbacev nel 1990 e di Boris Eltsin nel 1992.

Cinquant’anni di menzogne continue alimentate dai comunismi europei e dall’odio che li contraddistingue, esattamente come nel caso del negazionismo con cui ancora oggi gli scarafaggi partigiani tentano di nascondere i loro squallidi misfatti.

Per quanto riguarda l’eccidio di Malga Bala, ci sono voluti ben 65 anni prima che a queste vittime della furia partigiana comunista e assassina venisse concesso il diritto di uscire dal limbo silenzioso e immemore in cui gli intellettualoidi dell’informazione manipolata dalle sinistre li avevano relegati.

E’ stato necessario raccogliere 3500 firme e continuare a bussare al Quirinale e ai vari ministeri per decenni prima che si arrivasse a onorarne la memoria.

Finalmente nel 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha concesso ai 12 Carabinieri i doverosi riconoscimenti che consistono nelle medaglie d’oro al Merito Civile e alla Memoria, consegnate ai familiari delle vittime dal Comandante Generale dell’Arma.

Il 23 marzo 2019, nel corso di una cerimonia solenne organizzata dall’Arma dei Carabinieri per il 75° Anniversario dell’eccidio di Malga Bala, il Comandante Generale Giovanni Nistri ha reso onore ai 12 Carabinieri decorati di Medaglia d’Oro al Merito Civile, deponendo una corona d’alloro all’interno del Tempio Ossario dove sono custodite le spoglie di 7 delle 12 vittime dell’odio comunista. 



Un riconoscimento che arriva dopo decenni di silenzio, e che stranamente è stato concesso proprio da chi ha fatto del comunismo una sorta di religione e di assioma indiscutibile, Giorgio Napolitano.

Un Presidente che ha manifestato la sua benevolenza concedendo la Grazia ad un efferato criminale comunista come Ovidio Bompressi, l’assassino comunista di “Lotta Continua” che freddò con due colpi di pistola il Commissario di Polizia Luigi Calabresi nel 1972.

Anche a Calabresi, vittima del furore comunista espresso da colui che è stato graziato da Napolitano, è stata concessa la medaglia d’oro al merito civile.

Tutto ciò appare come fumo negli occhi, come strategia per mimetizzare le proprie responsabilità e la propria indole, sbilanciate a favore di una irrazionale appartenenza all’Universo marxista leninista.

Come comunista, fin dal 1945, è stato complice di Togliatti e delle sue politiche criminali, schierandosi sempre verso una palese compiacenza ai dictat di Mosca, come nel caso dei Moti d’Ungheria del 1956 bollati come controrivoluzionari e opera di spregevoli provocatori.

Il vero riconoscimento al merito e alla memoria per le vittime di Malga Bala non è quindi quello concesso da un ex Presidente che ha passato buona parte della sua vita a incensare falsi profeti come quelli idealizzati dal comunismo, bensì quello che proviene dall’anima di milioni di persone che professano un sentimento vero di libertà e di democrazia.

L’antitesi che traspare da tale contrapposizione ci indice ad esprimere un profondo disprezzo per gli ideali condivisi da Napolitano con gli assassini partigiani, uniti da affinità ideologiche che non si possono cancellare.

 

Il nostro profondo affetto va invece ai Carabinieri e alle vittime del comunismo, di cui gli eroi di Malga Bala  sono un esempio.


 

giovedì 14 aprile 2022

CRIMINI AMERICANI--spunta il dossier segreto

 



Seconda guerra mondiale, spunta il dossier segreto dei reati commessi in Italia dagli Alleati

Scoperta all’Archivio di Stato una relazione sui crimini commessi da truppe Usa, inglesi e canadesi. Dal settembre 1943 al dicembre
1944 ci furono 1.250 morti investiti dai mezzi militari e 342 omicidi

Seconda guerra mondiale, spunta il dossier segreto dei reati commessi in Italia dagli Alleati  
ORDE AMERICANE in Italia e, a destra, il dossier segreto
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Immaginate un dossier sulla sicurezza in Italia reso noto — poniamo ieri — dal Viminale, uno di quelli che pubblicano i giornali corredandolo con puntuali numeri su delitti, incidenti stradali, grafici e statistiche. Ecco, a questo punto girate la lancetta dell’orologio all’indietro e fate scorrere il tempo — mescolando storia e cronaca — sino ai giorni attorno alla fine della guerra e poco dopo. Siamo (all’incirca) tra 8 settembre 1943, 25 aprile 1945 ma anche dopo il conflitto, fino al 2 giugno 1946 e pochi mesi successivi. Immaginate adesso la prima pagina di questo corposo dossier (che ne contiene almeno 2.000) titolata così: «Statistica incidenti e crimini commessi dalla barbaria americana». Nella parte alta del foglio la grossa dicitura: «Ministero della guerra». Poco sotto l’elenco di tutti coloro a cui la relazione è stata mandata: in primis la presidenza del Consiglio, poi il ministero degli Esteri, quello degli Interni e il comando generale dell’Arma dei carabinieri. E di seguito alcuni dati riepilogativi: quelli sugli «incidenti automobilistici» che hanno provocato 1.250 morti «tra il settembre 1943 e il dicembre 1944». E che diventano 3.047 in un altro focus esteso al giugno 1947.

«Dispregio per le norme di disciplina stradale»

Sinistri «da imputarsi per la maggior parte al dispregio per le norme di disciplina stradale manifestato dai conduttori». E poi: «342 omicidi, risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da militari avvinazzati» dediti «a molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia nella pubblica strada, sia nelle abitazioni private». Quanto alla cifra su furti e rapine (6.489) «pur considerevole, è da ritenersi molto inferiore a quella reale per il fenomeno —spiegabilissimo — della mancata denuncia per il timore del peggio».
Il corposo studio — già in passato visionato dagli storici — sui crimini commessi dalle truppe americane, inglesi, canadesi e francesi nella Penisola è stato ritrovato in questi giorni all’Archivio Centrale di Stato dell’Eur, il maggiore presidio in cui viene conservata la nostra memoria.

  Autore della scoperta è Emiliano Ciotti, vigile del fuoco di professione e ricercatore storico per diletto

Assai scrupoloso e appassionato nei suoi studi, il pompiere, 47 anni, è anche il presidente 

dell’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate». Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers — le truppe coloniali francesi composte da marocchini, tunisini, algerini e senegalesi — nel Basso Lazio. Anche per questo, da tempo, Ciotti si dedica alla ricostruzione delle violenze (parliamo, per intenderci, di quelle stesse narrate nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) commesse tra il luglio 1943 (dopo lo sbarco in Sicilia) e l’inverno 1944, quando i coloniali vennero trasferiti nel fronte del Nord Europa a seguito delle fortissime proteste italiane indirizzate al comando alleato per quegli stupri di massa.

Carte provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati

Del tutto casualmente il vigile, cercando all’Archivio la documentazione sulle atrocità dei soldati francesi , si è imbattuto nel dossier, più complessivo e inedito, sui crimini degli Alleati. Sono pagine e pagine provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Minuziosi e dettagliati rapporti scritti a macchina da carabinieri e poliziotti che hanno raccolto — né più né meno come si farebbe oggi — le denunce straziate dei genitori di un bimbo calpestato dai cingoli di un tank guidato da un carrista ubriaco o dai familiari di una donna stuprata, e uccisa, dentro casa da militari senza nome. Colpiscono tante cose, in quei rapporti: intanto l’idea di un apparato di sicurezza, e se vogliamo di uno Stato, che in qualche modo, pur tra le macerie, dava l’idea di funzionare. Mentre infuriava la guerra, addirittura nei giorni del collasso dell’8 settembre, Arma e Polizia erano lì ad ascoltare i cittadini, avviando indagini, per quanto possibile, e scontrandosi con l’indifferenza, se non l’irrisione, dei comandi alleati.

In «presa diretta» come in un film neorealista

Ma poi, soprattutto, ci sono i fatti raccontati: le frasi dattilografate a macchina fotografano l’Italia di allora, quasi in presa diretta come in un film neorealista. Vediamo alcuni rapporti. Uno a caso da Lucca: «18 marzo 1944, un camion alleato, guidato dal caporale americano G. L. Bouer, investì e uccise il motociclista Torcigliani Turiddu». Da Salerno, il giorno dopo: «Un autocarro alleato, non identificato, investì e uccise Musella Giuseppa». Ad Avellino un ufficiale dei Royal Marines inglesi «investe uccide Barletta Grazia». E via così sino ad arrivare al numero di 1.250 vittime in sedici mesi. Il confronto che ora proponiamo ha poco senso dato che strade e traffico allora erano completamente differenti da oggi. Però rende l’idea: nel 2018 i pedoni morti in Italia sono stati 612. Vale a dire 51 al mese contro i 78 di allora (che diminuiscono a 66 nel conteggio esteso al giugno 1947).

Reati contro il patrimonio

Poi il capitolo dei «reati contro il patrimonio», sovente storielle minime che però raccontano i tempi: a Mondragone «il 15 marzo u.s. certo Riccio Pasquale denunziò all’Arma che il giorno precedente era stato rapinato da 5 individui, indossanti la divisa dell’esercito americano, di 5.600 lire e una bicicletta». Un’altra rapina a Perugia «dove tre individui indossanti le uniformi degli eserciti alleati penetrarono nell’abitazione di Pievaioli Guglielmo e lo rapinarono di 47.000 lire». Ruberie a tappeto vengono effettuate da «truppe canadesi e greche appartenenti all’Ottava armata tra Jesi e Cattolica, nella Marche».

«Atti spavaldi e malvagi»

Un «rapporto segreto» rivela che dopo la fuga dei tedeschi dalla linea gotica «ogni casa fu visitata e tutti gli effetti dei civili sistematicamente asportati». «Nella maggior parte gli abitanti rimasero unicamente con i vestiti che in quel momento indossavano». Un convento fu saccheggiato e nulla valsero i «turni di guardia» degli sfollati che qui si erano rifugiati portando i loro averi. «Le popolazioni di Cattolica e Riccione, già vessate dai tedeschi, e che attendevano con ansia le truppe liberatrici, rimasero terrorizzate» da uccisioni «per pura brutalità» e i saccheggi contro cui a nulla valse il «tentativo di mettere un freno da parte del sindaco di Riccione» che parlava «un ottimo inglese».
Chi all’epoca scrisse il riepilogo del rapporto nota che «molti dei conduttori investitori continuano per la loro strada senza portare alcun aiuto agli investiti». E nel capitolo «omicidi, ferimenti, aggressioni e violenze» aggiunge che «tali fatti non debbono essere considerati nella grandissima maggioranza come manifestazioni di malvolere delle truppe alleate verso di noi». No, sarebbe «la risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da iniziativa di militari avvinazzati; molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia in strada che in casa»; «provocazioni a militari italiani». «Molti omicidi sono stati commessi a danno di civili (spesso genitori, fratelli o mariti) per la resistenza fatta o la difesa da essi esercitata allo scopo di impedire violenze carnali». Il dossier (si apprende dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, ndr) è custodito anche negli archivi dell’Ufficio Storico dell’Esercito; un approfondimento accurato e scritto assai bene sui fatti in questione si trova pure in «Arrivano gli alleati», edito da Laterza e scritto da Maria Porzio, storica e ricercatrice.



Ma l’insieme di questi dati cosa racconta? Secondo Gregory Alegi, storico e docente di «Storia delle Americhe» alla Luiss, «bisogna intanto contestualizzare, separare il dato storico dall’idea un po’ ingenua che certi fatti, dagli omicidi agli incidenti stradali, in guerra non accadano, come se dovessero essere sospesi. Invece ci sono, e ce li raccontano queste denunce raccolte presso carabinieri e polizia. La sensazione è che ci fosse un’idea di Stato, e che nello Stato ci fosse fiducia, indipendentemente dalla risposta data». E ancora: «Prese singolarmente, sono storie che dicono poco. Si rubano galline, maiali, stivali. Si fa a botte nei locali notturni dove interviene la Military Police che, talvolta, qualche soldato lo arresta. Cose di bassissimo livello mescolate a piccole e grandi tragedie individuali. Vicende che non sono dissimili dalle cronache notturne che si registrano al sabato sera in una grande città. Nell’insieme viene però fuori il ritratto dell’Italia di allora. Senza giustificare nessuno, ma cercando di comprendere». Ma gli incidenti stradali? «Sono la tipologia principale del dossier: per capirne la gravità bisognerebbe confrontarli con dati attuali, tenendo presente che a quel monitoraggio sfugge la parte d’Italia ancora occupata dai tedeschi».

(Ciotti, nelle sue ricerche, ha messo le mani su quattro dossier — «ne sto ancora studiando i dati» — dal senso piuttosto simile. Oltre a quello dei «crimini commessi dagli alleati» e all’altro (di cui la stampa si è già occupata) degli stupri ad opera dei goumiers, ce ne sono altri due che focalizzano momenti e situazioni di cui ancora poco sappiamo: uno riguarda «i crimini commessi dai francesi ai danni dei deportati italiani nella stessa Francia» subito dopo la nostra «pugnalata alle spalle»; l’ultimo ha a che fare con «i crimini francesi commessi sui soldati italiani detenuti nei campi di prigionia nel Nord Africa». «La sintesi — spiega il pompiere-storico — è il tentativo di farsi sentire, da parte delle autorità italiane, durante le trattative di pace che seguirono la fine della guerra dimostrando che la ''liberazione'' aveva avuto un corollario di conseguenze risultato pesantissimo per la popolazione». Domanda inevitabile: Ciotti, la sua non sarà una tesi revisionista? «È un’accusa che mi fanno spesso. Ma tutto quello che sostengo lo raccontano i documenti che trovo negli Archivi di Stato. Carte che stanno lì da decenni e che meritano di essere divulgate il più possibile».)

 

sabato 9 aprile 2022

A MIGLIAIA RIFIUTARONO LA RESA

 


A MIGLIAIA RIFIUTARONO LA RESA
Erano i volontari che, prima della fondazione della Repubblica sociale italiana, decisero autonomamente di battersi al fianco dei camerati germanici su tutti i fronti.
Adriano Bolzoni

Comincerò col ricordare che gli uomini in armi nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, giovani o veterani con più anni di guerra, volontari o delle leve del 1924-25, furono tanto numerosi da rendere perplesso e quasi incredulo, pur conoscendo la realtà, anche chi scrive.
Tutte le volte che, per non importa quale ragione, si ripresenta l'argomento, vale a dire la consistenza, la sostanza, la natura ed i caratteri dell'esercito della Rsi, ebbene, sono il primo a riconoscere che il fenomeno militare repubblicano ha veramente dell'incredibile. Eppure, come inviato di guerra, come giornalista combattente, in totale autonomia e libertà, in possesso degli accrediti necessari dei comandi italiani e della Wehrmacht, ho svolto i miei compiti dall'ottobre del 1943 all’aprile del 1945. Intendo dalla Gustav alla Gotica, dalla piana del Liri a Cassino, da Anzio a Nettuno sino alla Garfagnana, dal Senio al confine alpino francese, dal litorale adriatico alla Venezia Giulia, sino alla fine della campagna d’Italia.
Trascuro i dati forniti dal generale Emilio Canevari (che del nuovo esercito della Rsi fu uno dei creatori), contenuti anche nel "Rapporto Graziani", dove si fornisce la cifra di 780.000 uomini, però includendo circa 260.000 militarizzati. E’ invece scrupolosamente documentata, nella primavera del 1944, una forza di
327.000 uomini nelle diverse unità. Questo, volendo escludere dal computo i circa 150.000 uomini incorporati nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Si voleva creare un esercito repubblicano nazionale chiaramente apolitico; si scartò l'idea che questo esercito fosse composto di soli volontari, mantenendo la leva perché il concorso alla difesa avesse carattere nazionale e popolare.
Solo il 28 ottobre del 1943, ben cinquanta giorni dopo l'8 settembre (e cinquanta giorni in quel precipitare di avvenimenti significarono molto ed ebbero un gran peso) il governo della Rsi emise due decreti-legge: il primo stabiliva lo scioglimento delle forze armate regie e la creazione di quelle repubblicane; il secondo dettava la legge fondamentale del nuovo esercito repubblicano.
E’ bene, per meglio valutare il vero miracolo della Rsi - la creazione di un esercito, mai dimenticando che (è anche il parere di chi scrive) fu il fenomeno militare-combattente della Rsi a nutrire la Repubblica Sociale -, considerare gli avvenimenti di quel periodo. L'8 settembre del 1943, dopo l'accettazione di un "armistizio" che si traduce istantaneamente nella resa senza condizioni al nemico e nel dissolvimento dell'esercito con la fuga del re, della corte e dei responsabili delle forze armate, è il caos generale. Il 9 settembre, gli Alleati sbarcano in forze a Salerno, il giorno 1 ottobre entrano a Napoli.
Le forze armate della RSI nasceranno, s'è detto, il 28 ottobre. Solo più tardi, dopo un nuovo sbarco degli Alleati ad Anzio, il 22 gennaio 1944, esse avranno capacità operativa, mobilità e consistenza. E intanto? Intanto e da subito, in pratica dal 9 settembre 1943, un numero stupefacente di italiani - in uniforme, in armi, bandiera tricolore alle spalle senza lo scudo sabaudo - continua a battersi, non accetta la resa. Non aspetta la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, non aspetta la creazione della Repubblica Sociale Italiana, non aspetta la fondazione del nuovo esercito repubblicano.
I comandanti, gli equipaggi ed il personale dei servizi dei nostri sommergibili nelle basi francesi - battelli che operavano nell’Atlantico - non abbandonano il campo che li ha visti, per lunghi, durissimi anni di sacrifici e vittoriose imprese, a fianco di leali e in molti casi fraterni camerati di terra, uniti dall'identico destino del combattere in mare contro un nemico strapotente. Questo, per molte ragioni, può apparire piuttosto comprensibile. Altrettanto comprensibile può apparire l’immediato affiancarsi alla Wehrmacht degli uomini dei nostri battaglioni del genio (nebbiogeni), dislocati nel Baltico e dei reparti di specialisti di stanza in Germania. Si trattava di circa 22.000 effettivi. Il loro comportamento prima e dopo l'8 settembre fu tale, nell'adempimento del servizio, da non suscitare mai il minimo dubbio dei comandi tedeschi riguardo alla loro lealtà ed efficienza.
Combattenti italiani presenti in Germania o nella Francia occupata dalla Wehrmacht, si dirà, quindi la loro decisione di continuare a battersi a fianco delle forze tedesche poteva derivare dalla scelta di un male minore. Non è irragionevole pensarlo, con l'esclusione dei comandanti e degli equipaggi dei nostri gloriosissimi sommergibili atlantici, che davvero il disonore dell'8 settembre rifiutarono consapevolmente e senza esitazioni. Ma quel che accadde in Italia, sino alla creazione dell'esercito della Rsi, a cominciare dalle prime ore dopo l'annuncio dell’”armistizio”, quindi dell'accettazione della resa e del repentino miserabile capovolgimento delle alleanze, con l'amico che diventa nemico e viceversa, testimonia per la Storia e la stessa salute dei combattenti italiani, per una non trascurabile parte di loro, almeno la ragione prima e profonda del rifiuto dell’armistizio.


1)                2) 

  1.  Il Maresciallo di Italia Rodolfo Graziani fu tra i primissimi a prendere posizione per la ripresa della lotta e il rispetto dell'alleanza.

  2. Reparti di allievi ufficiai della Guardia Nazionale Repubblicana, alle dipendenze di Renato Ricci, schierati nel cortile di una caserma


Il caso, peraltro clamoroso e universalmente oggi conosciuto, dell’immediato costituirsi nelle strutture di San Bartolomeo, a La Spezia, di una unità di fanteria di marina, che poi divenne addirittura la Divisione "Decima" con i suoi battaglioni, raccogliendo poi anche gli equipaggi di natanti e mezzi d'assalto, è certo il più famoso, ma non il solo. Diffusasi la voce che la "Decima" inquadrava ed arruolava combattenti, sotto bandiera e comando italiani, un flusso sempre crescente di giovani volontari e militari di ogni arma e grado sommerse le strutture della Marina a La Spezia, sin dal 9 settembre, agli ordini del comandante Junio Valerio Borghese.
La Wehrmacht, impegnata nella strenua battaglia di contenimento a Salerno e nel controllo essenziale delle maggiori vie di comunicazione della Penisola (l'esercito regio s'era già dissolto), non aveva né intenzione né interesse ad affrontare uno scontro con dei reparti formati da combattenti decisi a battersi, all'ombra della bandiera nazionale, rifiutando l’armistizio. Quando il 17 ottobre venne costituita la Repubblica Sociale Italiana, già da lunghi giorni la "Decima" si trovava a tentare di risolvere problemi impossibili: come inquadrare, vestire, nutrire, armare e organizzare un numero esorbitante di volontari.
Sempre immediatamente dopo la proclamazione dell'armistizio, nelle tragiche, sconvolgenti e miserabili ore del "tutti a casa", forti reparti della "Nembo" e della "Folgore, paracadutisti già misuratisi in combattimenti davvero eroici, anche per riconoscimento del nemico, rimasero in campo. Non meno di 4.000 uomini. E non meno di 60.000 combattenti, veterani di guerra e giovani volontari, si aggregarono (là dove le operazioni li avevano visti affiancare le unità della Wehrmacht) ai reparti tedeschi. Ci volle del bello e del buono, ci vollero trattative condotte anche a muso duro, quando si costituirono le forze armate della Rsi, per recuperare quei combattenti che i comandi germanici si tenevano stretti .
Nessuno oserà negare che, immediatamente dopo la paurosa catastrofe dell'8 settembre, per quanti decisero di non cambiare fronte e di non sopportare, con la sconfitta, anche l’ignominia e il disonore, insieme al disprezzo del nemico, non si trattava di fanatismo politico, di costrizione, di "cartoline-precetto" o roba simile. E’ certo probabile che taluno o talaltro, in uniforme, si trovasse
nella condizione di seguire la volontà del reparto, dei commilitoni, di continuare a battersi contro gli Alleati, che anche troppo evidentemente stavano guadagnando la campagna d’Italia. Sì, questo è possibile. Ma questo non può riguardare, in nessuna maniera, la situazione dei piloti, degli equipaggi di volo e degli specialisti dell'Aviazione. Sarebbe bastato salire a bordo di un velivolo militare e volarsene al Sud.
L'Aviazione della Rsi, che poi inquadrò 36.640 uomini tra piloti, ufficiali, sottufficiali, avieri e personale navigante e a terra, immediatamente dopo l'8 settembre, nelle prime ore rovinose e degradanti, trovò all'origine i suoi combattenti. Nomi che forse non diranno nulla alle ultime generazioni - cinquantacinque anni dopo - , ma che la storia dell’Aeronautica militare tricolore non ha dimenticato, che la gloria ha accarezzato, che l'eroismo ha baciato. Botto, Visconti, Drago, Marini, Bellagambi, Faggioni, Vizzotto, Marinoni e i loro compagni (impossibile elencare centinaia di piloti da caccia, bombardieri e ricognitori) non attesero la creazione delle forze armate della Rsi. Ripresero a battersi. Sui loro velivoli, la coccarda tricolore.
Certo in maniera imprecisa, poiché esistono solo dati indicativi e cifre sempre approssimate, è però lecito indicare in circa 80-90 mila i combattenti, giovani volontari e veterani di guerra già in armi nel giugno 1940, che subito dopo l'8 settembre, e comunque prima della creazione della Repubblica Sociale Italiana e la fondazione del nuovo esercito repubblicano, rifiutando la resa e il capovolgimento repentino del fronte, decisero di continuare a battersi a fianco dell'alleato tedesco. Date le condizioni catastrofiche del Paese, l'avanzare delle armate anglo-americane, l'evidente strapotere del nemico, il clima caotico del "tutti a casa", il numero di chi si mostrò deciso a continuare il combattimento è da considerarsi letteralmente stupefacente.
Al Sud, dove almeno mezzo milione di uomini era ancora in uniforme e, sia pure malamente e disordinatamente, ancora inquadrato nelle diverse unità, per trovare circa 6.000 volontari destinati a formare il Corpo motorizzato del regio esercito (compresi i servizi e il reparto sanitario) da mettere in campo a fianco degli Alleati, i più validi e meno screditati comandanti dovettero compiere miracoli.
Una notazione aggiuntiva va fatta. Nessuno storico o ricercatore attendibile, e ve ne furono, ancorché largamente imparziali, come Roberto Battaglia di parte comunista (anche se a parer mio i termini di "storico” e "comunista" sono antitetici), ha mai preso per buone le pagine sulla resistenza di Pietro Longo. Questi, nel suo "Un popolo alla macchia " pubblicato nel 1947, elenca nel campo della guerriglia qualcosa come 114 divisioni di partigiani, forti di ben 471 brigate . Per la sola regione del Piemonte, Longo cita una dopo l'altra 196 brigate combattenti. Nel campo partigiano i termini di divisione e brigata non hanno nessun preciso riferimento alle conosciute unità militari di non importa quale esercito.
Normalmente una brigata partigiana poteva contare su tre o quattro dozzine di uomini, talvolta un centinaio di armati. E questo nel periodo conclusivo della guerra civile. Comunque, alla stregua di Longo o di Secchia, un cronista buffone potrebbe dire che, subito dopo l'8 settembre, basandosi sulla consistenza di un centinaio di armati ciascuna, gli italiani che affiancarono i tedeschi, e comunque intendevano continuare a battersi, formarono 600 brigate . Usando lo stesso metro, la pesante divisione alpina "Monterosa" della Rsi, che con l'artiglieria divisionale e i servizi superò numericamente, con i suoi 16.000 uomini, ogni altra grande unità in campo, allineò in battaglia almeno 120 brigate combattenti.
Chiunque può capire che tutto questo è supremamente stupido. Ragionando alla partigiana, il "Barbarigo", ch'era solo un robusto battaglione della "Decima", mandando i suoi circa 1.600 volontari sul fronte di Anzio, nella piana Pontina, non allineò 16 fantomatiche brigate, ma combattenti decisi al sacrificio. Ebbe, tra morti e feriti, circa 800 dei suoi effettivi. Insensato parlare dell’ecatombe di 8 brigate italiane alla difesa di Roma.
Conclusione. Immediatamente dopo l'8 settembre, prima della liberazione di Mussolini (del tutto sconosciuta la sua fine), prima della nascita di un governo della Rsi, prima della creazione delle forze armate repubblicane, nel disordine e nel caos generali, decine di migliaia di italiani rifiutarono la resa. Ritennero, ogni ideologia esclusa o accantonata, di scegliere quello che per loro era il campo dell'onore.

STORIA VERITÀ N. 10 Gennaio Febbraio 1998