giovedì 19 agosto 2021

LA VERA STORIA DEL CASO DI BRESCIA

 


LA VERA STORIA DEL CASO DI BRESCIA
  Chi come e perché eresse le tragiche barricate I "martiri di Piazza Rovetta"
Vittorio Martinelli
 
 
    La stampa asservita al regime tangentizio, da cinquant'anni ormai, riporta ampiamente notizie sulle frequenti cerimonie di commemorazione dei caduti antifascisti nel periodo 1943 - 1945 e cura che sia osservato invece il silenzio più rigoroso su quelli dell’”altra barricata". In tal modo diffonde ossessivamente la convinzione che i primi siano vittime innocenti della guerra civile voluta dalla Repubblica Sociale; convinzione, ormai tanto generalizzata quanto in chiaro contrasto con il buonsenso più elementare (quale interesse mai avrebbe avuto la RSI, al potere, a dar esca ad una contesa intestina?). 
    A tale proposito, la situazione di Brescia è emblematica: più volte l'anno la stampa locale commemora solennemente i "martiri di Piazza Rovetta" del novembre 1943: tre, quattro, cinque morti a seconda degli anni e del giornale (in realtà furono tre, di cui due noti antifascisti e un terzo ucciso per un equivoco sulla persona). Si fa credere ad un gesto di ferocia gratuita e feroce lo fu, ma con una spiegazione, che viene sempre omessa: si trattò della risposta a ripetuti attentati ed uccisioni compiuti con lo scopo preciso di scatenare una rappresaglia. 
    Ecco, nella rigorosa ricostruzione di Vittorio Martinelli, il primo episodio di guerriglia urbana a Brescia, episodio sul quale la stampa locale nemmeno in occasione del Cinquantenario ha ritenuto di togliere la censura. 
    II primo episodio assoluto di guerriglia urbana a Brescia e provincia, porta la data 31 ottobre 1943 e fu la posa di una bomba contro la caserma della Milizia Artiglieria Contraerei di via Spalto San Marco. Questa "specialità" della MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) era stata costituita il 17 aprile 1927 con il compito di formare il personale delle armi contraeree e di provvedere al funzionamento della rete di avvistamento degli aerei nemici incursori. I militi non dovevano avere obblighi militari, perciò erano anziani al disopra dei 40 oppure giovani tra i 18 ed i 20 anni. Portavano la camicia nera, i fascetti in luogo delle stellette, erano volontari, ma quasi nessuno era iscritto al Partito Nazionale Fascista: appartenevano ai ceti sociali più umili e prestando quel servizio "sbarcavano il lunario" con le famiglie. 
    II "Popolo di Brescia" del 22 settembre 1943 aveva pubblicato il seguente comunicato: "La Milizia Artiglieria Contraerei per la protezione della popolazione civile di Brescia, Bergamo e Cremona. La situazione scaturita dagli eventi dei decorsi giorni rende possibile il rinnovarsi di incursioni aeree sulle nostre località da parte delle forze aeree anglo-americane. Allo scopo quindi di consentire alle nostre popolazioni di valersi tempestivamente dei ricoveri e dei mezzi protettivi fin qui adoperati, il Comando della 7a Legione Milizia Artiglieria contraerei, che ha giurisdizione sui territori delle province di Brescia, Bergamo e Cremona e che ha compiti esclusivamente di difesa controaerea, su disposizione del Comando Germanico ha disposto che sia ripristinato d'urgenza e in senso completo il servizio di avvistamento e allarme. Pertanto tutti gli appartenenti alla Specialità (Ufficiali di qualunque grado, sottufficiali, graduati e legionari ovunque dislocati) della 7a Legione e di qualunque altra, debbono presentarsi subito ai rispettivi Comandi oppure al Comando di Legione via Spalto S. Marco". II comunicato era privo di firma. 
    II quotidiano bresciano del 26 settembre recava, in prima pagina, il seguente "bando": "I Legionari tutti che prestavano servizio c.a. in forza a qualsiasi reparto della 7a Legione MAC dovranno presentarsi, entro 48 ore dalla pubblicazione del seguente bando, al Comando della Legione stessa in Brescia, Spalto San Marco . Gli inadempienti saranno deferiti al Tribunale Militare". Anche questa volta, nessuna firma. 
    I militi, dunque, s'erano ripresentati, sia per riscuotere lo stipendio, sia per non finire davanti al Tribunale Militare, accusati di diserzione, reato che, in tempo di guerra, poteva comportare la fucilazione. 
    La sera del 31 ottobre 1943 - domenica - alle ore 20.30, la città era completamente buia anche per l'oscuramento. Nella caserma di via Spalto San Marco il milite di guardia in caserma, Andrea Lanfredi, udì un forte tonfo contro le lamiere di rivestimento del cancello d'ingresso; lo aperse e vide un grosso involto di stracci fumanti. Si munì allora d'una lunga pertica e tentò d'allontanarlo, ma una fortissima esplosione l’investì in pieno; grosse schegge crivellarono il militare, che morì poco dopo, e ferirono leggermente due commilitoni pure accorsi, Vittorio Mazzi e Filippo Perri. 
    Per pura fatalità, al momento dello scoppio, transitava in bicicletta il dottor Ciro Miraglia, direttore delle carceri (antistanti alla caserma, sul lato opposto della stessa via) che aveva appena lasciato l'ufficio e stava avviandosi alla propria abitazione: fu investito lui pure dallo scoppio e morì due ore dopo all'Ospedale Civile. 
    L'attentato, allora, non fu rivendicato e il pubblico ne ignorò il movente ed il nome dell'autore, fino a quando l'attentatore stesso, Leonardo Speziale, militante comunista, ormai settantacinquenne, lo rievocò in un volumetto autobiografico intitolato "Memorie d'uno zolfataro", pubblicato da Luigi Micheletti nel 1980. 
    Speziale era nato a Serradifalco (Caltanissetta) nel 1903 (all'epoca dell'attentato aveva dunque, 40 anni) era emigrato in Francia nel 1930 e vi aveva operato nell'Unione Popolare Italiana. Attivo nella resistenza francese, arrestato nel luglio 1943, era stato condannato a 18 anni e trasferito a Fossano (Cuneo) dove, dopo l'8 settembre, approfittando del marasma, gli era riuscito facile eclissarsi. Raggiunta Brescia, dove contava amici, fra i quali Italo Nicoletto (ex-miliziano in Spagna e futuro deputato del PCI), il Partito Comunista gli ordinò di rimanervi per organizzare la lotta armata. Scrisse (pag. 112). "Per superare le resistenze emerse in città (c'era - lo ricorda lui stesso - chi aveva detto: "Questo qua vuol farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?” n.d.r.) il 31 ottobre organizzammo la nostra prima azione. A renderla possibile fu un incontro del tutto fortuito. Una mattina, mentre camminavo per strada, mi trovai di fronte un compagno che avevo conosciuto nella resistenza francese. “Che fai tu qui?”. “M'hanno rilasciato e sono tornato al mio paese” (un centro della pianura bresciana). Gli parlai della mia attività e si disse disponibile a collaborare con me. Uno era lui e un altro ero io, bisognava trovare il terzo. Riuscii a convincere uno degli operai che mi aveva presentato Grilli. 
    "Preparammo delle bombe. Essendo stato minatore, avevo una certa dimestichezza con esplosivi, detonatori e micce. Un artigiano di Ospitaletto, un paese subito fuori Brescia, su mia indicazione, preparò dei tubi di ferro della lunghezza di 30/40 centimetri e del diametro di 10. Le due estremità erano chiuse da incastri a vite con un foro per la miccia. Li riempii di dinamite e applicai la miccia, parte a lenta e parte a rapida combustione. Calcolai che dal momento della accensione avevo a disposizione un minuto e mezzo. La tecnica che adottammo venne poi usata anche in altri attentati. Con un mozzicone di sigaretta accendevo la miccia della bomba che tenevo sotto la giacca mentre mi avvicinavo all'obiettivo, la collocavo e, senza correre, mi allontanavo. Due compagni, armati di mitra, uno vicino a me e l'altro più lontano coprivano la ritirata". 
    Speziale scrisse che la notizia "suscitò un putiferio" e questo è vero. Aggiunse che sul tram per Gardone Val Trompia, preso per far ritorno alla Stocchetta, dov'era alloggiato, la gente mostrava "una certa soddisfazione". 
    II mio ricordo è diverso. II 1° novembre (avevo 17 anni) al Vantiniano, dove avevo portato fiori sulla tomba dei nonni, notai una gran folla presso la camera mortuaria. Incuriosito, mi ci diressi. La salma del milite ucciso giaceva circondata da fiori e da ceri e i commenti del popolino erano unanimi, ispirati ad indignazione e ad autentica rabbia, oltre che a dolore sincero, anche perché l'ucciso lasciava cinque figli piccoli e la moglie in stato di gravidanza. 
    "L'ltalia" del 4 novembre pubblicò questa lettera al popolo bresciano del Vescovo Giacinto Tredici: 
    “L'attentato terroristico che ha fatto due vittime innocenti, e tutti ci ha indignato, mi dà l'occasione di rivolgervi ancora la parola di vescovo e di padre. 
    “Già troppi lutti hanno funestato le famiglie troppe distruzioni e vittime ha portato la guerra, perché si possa pensare ad accrescerle con attentati proditori. 
    “Carità di Patria e dovere di cittadini e di cristiani ci chiedono che, mentre l'ltalia è divisa e dilaniata, non abbiano ad aumentare le sue sofferenze e le sue sventure. Ci possono essere divergenze politiche; ma queste non devono portare all'odio e alla vendetta. L'atto inconsulto che tutti deploriamo resti come la brutta manifestazione di una mente esaltata; non deve trovare imitatori, né acuire i rancori fra i cittadini. A tutti rinnovo la mia raccomandazione di ordine, di mutua comprensione e tolleranza, nella carità di Cristo, nell'amore della Patria comune, I'ltalia. Dio ci benedica tutti. Brescia, 2 nov. 1943, Giacinto Vescovo”. 
    Ma la bomba non costituiva "I'atto inconsulto di una mente esaltata", come il buon Vescovo sperava. 
    Scrisse Speziale: "Perché gli attentati? L'attacco alle caserme della milizia fascista aveva, secondo il comando militare partigiano, lo scopo di contrastare l'azione dei nazifascisti impegnati nella riorganizzazione dell'esercito e della stessa milizia, che erano stati sciolti dopo l'armistizio dell'8 settembre. Colpire, perciò, le caserme voleva dire scoraggiare, o quantomeno ritardare, la ricomposizione dello schieramento nemico. La nostra azione inoltre doveva servire da monito: dovevano sapere che il loro tentativo avrebbe potuto comportare anche la morte. Preferire questa strategia all'attacco dei ministeri repubblichini, che in quel periodo si trovavano a Brescia, significava colpire psicologicamente il nemico. Bisognava difatti, non tanto eliminare i quattro vecchi caporioni dei ministeri, quanto impedire l'infoltirsi delle file squadriste anche attraverso la paura e il terrore che con gli attentati alimentavamo in quanti intendevano ritornare ad arruolarsi. E per la verità simili iniziative ottenevano un notevole successo anche fuori del Bresciano, anche se, è chiaro, non riuscivano ad evitare, né si poteva, la riorganizzazione delle forze nemiche". 
    Infatti, il vero scopo degli attentati non era quest'ultimo, tant'è vero che i volontari - niente affatto terrorizzati - accorsero ugualmente a centinaia di migliaia nelle file della RSI. È chiaro che il Partito Comunista voleva la rappresaglia e l'ebbe: i "martiri di Piazza Rovetta" ne furono le vittime.
 
 
VOLONTA’ N. 5. Maggio 1994


domenica 8 agosto 2021

L'IMBOSCATA DI VIA RASELLA

 L'IMBOSCATA DI VIA RASELLA

 Ma questa era guerra?


Ivaldo Giaquinto
 
 

    Nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, avvenuta a Milano il 23 marzo 1919, un gruppo del movimento clandestino di resistenza romano preparò e attuò un temerario attentato contro i tedeschi, che ebbe tragiche conseguenze di sangue per la popolazione romana e scosse profondamente la coscienza nazionale. 
    Il 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta di Roma, in pieno centro storico, in via Rasella, all'altezza di palazzo Tittoni, mentre passava un reparto di 156 uomini della 11a Compagnia del Reggimento "Bozen", comandato dal maggiore Helmut Dobbrick - che da quindici giorni era solito percorrere quella strada per rientrare in caserma dopo le esercitazioni - scoppiava una bomba a miccia ad alto potenziale collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 chilogrammi di esplosivo frammisto a spezzoni di ferro. La tremenda esplosione causò la morte di trentadue militari tedeschi e di due civili italiani di cui un bambino di dieci anni. 
    Subito dopo lo scoppio una squadra di appoggio, che sostava tra via del Boccaccio e via del Traforo, lanciava delle bombe a mano contro la coda del reparto per disorientare i militari e quindi si dileguava verso via dei Giardini allontanandosi rapidamente dalla zona. 
    Coloro che presero parte all'azione furono: Rosario Bentivegna che, travestito da spazzino, trasportò la bomba con la carretta; Franco Calamandrei, che si tolse il berretto per indicare a Bentivegna che il reparto aveva imboccato via Rasella e che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa; Carla Capponi, che aspettava Bentivegna all'angolo di via delle Quattro Fontane; e poi Carlo Salinari, Pasquale Balsamo, Guglielmo Blasi, Francesco Cureli, Raoul Falciani, Silvio Serra e Fernando Vitagliano. Questi giovani (tra i 20 e i 27 anni) facevano parte di uno dei tanti gruppi denominati di Azione Patriottica (Gap) e dipendevano dalla Giunta militare, emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), di cui erano responsabili Giorgio Amendola (comunista), Riccardo Bauer (azionista) e Sandro Pertini (socialista). L'ordine di eseguire l'imboscata di via Rasella, preparata nei minimi particolari da Carlo Salinari, fu dato dai responsabili della Giunta militare. Successivamente Bauer e Pertini dichiararono di non essere stati preventivamente informati e che l'ordine venne dato da Amendola a loro insaputa. Amendola stesso, qualche tempo dopo, confermò la versione, rivendicando a se stesso la responsabilità di aver dato ai "gappisti" l’ordine operativo per l'attentato. 
    La sera del 26 marzo i giornali pubblicarono il testo del comunicato ufficiale germanico. In uno stile freddo, burocratico, la cittadinanza romana viene a sapere che: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Il Comando tedesco ha perciò ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati: quest'ordine è stato eseguito". 
    Processo Kappler. Tribunale Militare di Roma, 20 luglio 1948. Momento drammatico di alta tensione in aula quando, nel corso dell'udienza, esce dal pubblico una voce straziante di donna che investe violentemente Rosario Bentivegna presente in aula in qualità di testimone: "Assassino, codardo! Ho la mia creatura alle Fosse Ardeatine, perché non ti sei presentato, vigliacco?". È un’invettiva che esce dal cuore lacerato di una madre. Scottante, crudele. Essa pone il problema morale della guerriglia e solleva un dubbio atroce: si poteva evitare la rappresaglia dei tedeschi? In altre parole, se i responsabili materiali dell'attentato si fossero presentati, il Comando tedesco avrebbe ugualmente deciso la rappresaglia? 
    Il presidente del Tribunale, gen. Euclide Fantoni, pone la domanda a uno dei protagonisti presenti, Rosario Bentivegna, appunto. Il teste risponde che la presentazione degli attentatori non fu esplicitamente richiesta dai tedeschi. “Se ci fosse stata - afferma - mi sarei presentato". E aggiunge: "la colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati". 
    "No, - ribatte Kappler - l’eccidio avrebbe potuto essere evitato se si fosse presentato l'attentatore o se fosse venuta un'offerta della popolazione. D’altra parte, da mesi erano affissi manifesti per gli attentati con l'indicazione della rappresaglia da uno a dieci".
    "No, - dice l'accusa - i manifesti di cui parla l'imputato Kappler erano stati affissi due mesi prima e lasciati esposti per soli due giorni". 
    Il punto da chiarire, quindi, non era tanto quello di sapere se la rappresaglia ci sarebbe stata oppure no. Era noto alle autorità politiche e amministrative, e a larga parte della popolazione, che ad ogni attentato le rappresaglie c'erano sempre, puntualmente. Quello che bisognava appurare era se un avviso, un comunicato fosse stato diramato dal Comando tedesco agli esecutori dell'attentato per invitarli a presentarsi onde evitare una strage di persone innocenti. Come abbiamo visto dagli atti del processo, Bentivegna lo esclude.  Ma Domenico Anzaldi di Roma, in una lettera al settimanale "Panorama" (n. 414 del 28 marzo 1974) afferma: "Senza voler entrare nella polemica sulle responsabilità della strage delle Fosse Ardeatine, desidero testimoniare che la sera dell'attentato di via Rasella è stato affisso sui muri di Roma, e io l'ho letto, un manifesto preannunciante che il Comando tedesco avrebbe fatto uccidere dieci «comunisti badogliani» per ogni militare tedesco morto" .
    In una intervista Bentivegna dichiara: "Non credo che se mi fossi costituito la rappresaglia non sarebbe avvenuta..." ("Oggi" n. 52 del 24 dicembre 1946). 
    Ma due avvenimenti tragicamente analoghi a quello di via Rasella, al contrario di quello sublimati dall'olocausto di quattro innocenti, mettono in una luce diversa l’affermazione di Bentivegna. Quello di Palidoro, in provincia di Roma, avvenuto nel settembre 1943, è noto. Avendo i tedeschi catturato ventidue ostaggi per consumare su di essi la rappresaglia in seguito allo scoppio di una bomba nella locale caserma, il vicebrigadiere dei Carabinieri, Salvo d'Acquisto, con grande eroismo e coraggio si presentò al Comando tedesco dichiarandosi, sebbene innocente, autore dell'attentato. Venne fucilato, ma col suo sacrificio salvò la vita di ventidue innocenti che stavano per essere fucilati; medaglia d'oro al valor militare. Meno noto è quello di Fiesole, in provincia di Firenze, svoltosi nell'agosto 1944. Tre carabinieri della locale stazione - Vittorio Marandola, Alberto La Rocca e Fulvio Sbarretti - per salvare le vite di dieci innocenti ostaggi si presentarono ai nazisti che li fucilarono immediatamente contro un muro dell'albergo Aurora; medaglie d'oro al valor militare. 
    Dice Bentivegna: "La colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati". Al processo Kappler si apprese, invece, che il reparto di 156 militari preso di mira dai "gappisti" romani non era di truppe combattenti, ma era formato da riservisti altoatesini che non operavano rastrellamenti e arresti ma erano destinati a compiti di ordine pubblico, compatibili con le norme che regolavano il funzionamento della città aperta di Roma. 
    In un giornale di Milano, nell'edizione romana del 19 febbraio 1978, in un servizio dal titolo: "Parla uno dei partigiani di via Rasella per l'attentato del 23 marzo 1944", Pasquale Balsamo sottolinea: "È stata universalmente riconosciuta una azione di guerra". Il Tribunale Militare di Roma, che il 20 luglio 1948 condannò Kappler all'ergastolo, pur stigmatizzando duramente il massacro perpetrato alle Cave Ardeatine, sia per la sua sproporzione che per l'inaudita crudeltà e ferocia usata verso le inermi e innocenti vittime, trattate peggio delle bestie da mattare, dovette prendere atto che, secondo il diritto internazionale (art. I della Convenzione dell'Aia del 1907), l’attentato di via Rasella fu un fatto illegittimo. Chi invece considerò l'imboscata di via Rasella "un'azione legittima di guerra" fu la Magistratura ordinaria, che con sentenza della Corte di Cassazione dell' 11 maggio 1957 non accolse le richieste di risarcimento avanzate dai parenti delle vittime, già respinte dal Tribunale e dalla Corte d'Appello civili di Roma, e sentenziò definitivamente che ogni attacco contro i tedeschi costituiva un “atto di guerra". In seguito, l’attentato fu sempre rivendicato come azione di guerra da tutte le autorità dello Stato.
    La condanna all'ergastolo inflitta a Kappler dalla Magistratura militare fu invocata non per la rappresaglia seguita all'azione di via Rasella; non per aver fatto uccidere dieci italiani per ognuno dei trentadue "tedeschi" morti in via Rasella, eseguendo un ordine superiore, ma per il delitto di omicidio volontario per aver fatto fucilare 15 persone in più: 335 anziché 320. Dieci per il trentatreesimo militare altoatesino deceduto successivamente in ospedale (senza aver ricevuto specifico ordine dal gen. Maeltzer, suo superiore diretto), e cinque per errore contabile sul numero delle persone contenuto in una lista delle vittime designate. Nella condanna fu anche considerato il reato di requisizione arbitraria di beni per avere, nel settembre del 1943, estorto agli ebrei romani 50 chilogrammi di oro. 
    Scrive Jo Di Benigno nel suo libro "Occasioni mancate": "Era ormai cosa nota a tutti che per ogni tedesco ucciso, dieci italiani venivano sacrificati. L'attentato di via Rasella non ha nulla di glorioso". 
    Ripa di Meana scrive sull'organo clandestino della Resistenza "L'ltalia nuova" del 4 aprile 1944: "Per Roma intera la deplorazione dell'attentato fu unanime; perché assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella quale il nostro paese è impegnato; perché insensato, dato che il maggior danno ne sarebbe certamente derivato alla popolazione italiana; per quell'ampio senso di umanità che distingue noi latini e che non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra e per il quale ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell'odio ma solo nella necessità". 
 
 
    Alla onesta imparziale ricostruzione che Ivaldo Giaquinto ha scritto per "Volontà", desideriamo aggiungere qualche nota a seguito di quanto s'è detto nella ricorrenza del cinquantenario di quel triste episodio. Soprattutto desideriamo evidenziare gli sforzi che qualcuno, come lo scrittore Paolo Volponi, fa ancora nel tentativo di giustificare l'attentato di via Rasella per levarsi dallo stomaco il peso di tanti morti innocenti. Scrive ("Corriere della sera" del 25 marzo 1994) Volponi: “L'agguato di via Rasella è stato quindi un vero e proprio atto di guerra, coraggioso e ben condotto", concludendo "Nessun soldato ha mai dovuto provare la necessità di espiare per le morti seminate in battaglia": ma quale microscopica mistificazione, quale vera presa in giro è mai questa. Soldato è quello in divisa, è quello che si riconosce e in battaglia si trova di fronte a un soldato nemico a sua volta in divisa, e i due sono uno contro l'altro, cioè tu cerchi di prevalere su di me ed io cerco di fare altrettanto su di te. 
    L'assassino invece è in abiti borghesi e ti ammazza perché tu non sai che è un assassino, altro che "morti seminate in battaglia"! Del resto, sullo stesso quotidiano milanese (23 marzo 1994), Sergio Quinzio è stato in proposito molto chiaro: "Se i tedeschi infierirono - scrive - con una rappresaglia al di là dei limiti imposti dalla legge di guerra, gli attentatori, facendo saltare un reparto di soldati tedeschi non impegnati in combattimento, compiendo cioè un'azione più dimostrativa che di reale portata militare e sapendo bene la sproporzione che avrebbe avuto la rappresaglia, avrebbe dovuto, se proprio avessero deciso in quel modo, uscire allo scoperto e pagare il prezzo della loro azione con la loro vita". Coraggiosamente, invece, gli attentatori fuggirono subito e si tennero ben nascosti, lasciando che i tedeschi uccidessero - come era stato previsto in precedenza in casi del genere - centinaia di innocenti, ma non come scrive "Sette" del 24 marzo 1994 perché "colpevoli soltanto di essere italiani" bensì vittime inconsapevoli degli attentatori come lo erano stati, senza possibilità di difendersi, i 35 altoatesini del reparto tedesco obbiettivo degli attentatori. 
    Le centinaia di morti, altoatesini compresi, dovrebbero pesare sulla coscienza soprattutto del principale protagonista dell’episodio, invece Rosario Bentivegna - per questa...gloriosa azione addirittura decorato di medaglia d 'argento - oggi docente di medicina del lavoro non esita a dichiarare che rifarebbe tutto. 
    Adesso il quotidiano di lingua tedesca "Dolomiten" parlando di via Rasella scrive di "un'azione insensata sul piano politico e su quello militare... e come ogni altro atto di viltà, essa rappresenta tutt'altro che un attestato di gloria per la Resistenza italiana". E "L'Osservatore romano", a sua volta, condannando l'azione già cinquant'anni fa scriveva essersi trattato di "una manovra politicamente e militarmente insensata...e di una diretta sfida a Pio Xll". Nel giugno del 1980 Marco Pannella si chiedeva pubblicamente se i morti di via Rasella fossero da attribuire alla necessità della guerra partigiana o non piuttosto al tornaconto del partito comunista. Pannella in quell'occasione si chiedeva testualmente: "Quale fu la verità di via Rasella? È vero che gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI, che lo stesso comando ufficiale della Resistenza romana erano contrari all'ipotesi dell'azione terroristica e furono contrari ai comportamenti successivi dei dirigenti del PCI? Come mai l'argomento è rimasto tabù anche per gli storici democratici?". 
    È l'eroico (?) Bentivegna, cercando di giustificare la sua viltà nel libro da lui scritto "Achtung Banditen! Roma 1944" ha affermato "era nostro dovere non presentarci a un bando del nemico che ci avesse offerto la vita degli ostaggi in cambio della nostra", quanto dire "meglio che muoiano loro che noi". 
    Meno disonesto Amendola che "non riusciva a liberarsi dalla sensazione di una responsabilità personale" perché, ricordando l'episodio recentemente ha scritto Silvio Bertoldi, "lo avevano deciso i comunisti del CLN, con l'assenso del loro leader Giorgio Amendola ". 
 
 
VOLONTA’ N. 4. Aprile 1994