giovedì 19 agosto 2021

LA VERA STORIA DEL CASO DI BRESCIA

 


LA VERA STORIA DEL CASO DI BRESCIA
  Chi come e perché eresse le tragiche barricate I "martiri di Piazza Rovetta"
Vittorio Martinelli
 
 
    La stampa asservita al regime tangentizio, da cinquant'anni ormai, riporta ampiamente notizie sulle frequenti cerimonie di commemorazione dei caduti antifascisti nel periodo 1943 - 1945 e cura che sia osservato invece il silenzio più rigoroso su quelli dell’”altra barricata". In tal modo diffonde ossessivamente la convinzione che i primi siano vittime innocenti della guerra civile voluta dalla Repubblica Sociale; convinzione, ormai tanto generalizzata quanto in chiaro contrasto con il buonsenso più elementare (quale interesse mai avrebbe avuto la RSI, al potere, a dar esca ad una contesa intestina?). 
    A tale proposito, la situazione di Brescia è emblematica: più volte l'anno la stampa locale commemora solennemente i "martiri di Piazza Rovetta" del novembre 1943: tre, quattro, cinque morti a seconda degli anni e del giornale (in realtà furono tre, di cui due noti antifascisti e un terzo ucciso per un equivoco sulla persona). Si fa credere ad un gesto di ferocia gratuita e feroce lo fu, ma con una spiegazione, che viene sempre omessa: si trattò della risposta a ripetuti attentati ed uccisioni compiuti con lo scopo preciso di scatenare una rappresaglia. 
    Ecco, nella rigorosa ricostruzione di Vittorio Martinelli, il primo episodio di guerriglia urbana a Brescia, episodio sul quale la stampa locale nemmeno in occasione del Cinquantenario ha ritenuto di togliere la censura. 
    II primo episodio assoluto di guerriglia urbana a Brescia e provincia, porta la data 31 ottobre 1943 e fu la posa di una bomba contro la caserma della Milizia Artiglieria Contraerei di via Spalto San Marco. Questa "specialità" della MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) era stata costituita il 17 aprile 1927 con il compito di formare il personale delle armi contraeree e di provvedere al funzionamento della rete di avvistamento degli aerei nemici incursori. I militi non dovevano avere obblighi militari, perciò erano anziani al disopra dei 40 oppure giovani tra i 18 ed i 20 anni. Portavano la camicia nera, i fascetti in luogo delle stellette, erano volontari, ma quasi nessuno era iscritto al Partito Nazionale Fascista: appartenevano ai ceti sociali più umili e prestando quel servizio "sbarcavano il lunario" con le famiglie. 
    II "Popolo di Brescia" del 22 settembre 1943 aveva pubblicato il seguente comunicato: "La Milizia Artiglieria Contraerei per la protezione della popolazione civile di Brescia, Bergamo e Cremona. La situazione scaturita dagli eventi dei decorsi giorni rende possibile il rinnovarsi di incursioni aeree sulle nostre località da parte delle forze aeree anglo-americane. Allo scopo quindi di consentire alle nostre popolazioni di valersi tempestivamente dei ricoveri e dei mezzi protettivi fin qui adoperati, il Comando della 7a Legione Milizia Artiglieria contraerei, che ha giurisdizione sui territori delle province di Brescia, Bergamo e Cremona e che ha compiti esclusivamente di difesa controaerea, su disposizione del Comando Germanico ha disposto che sia ripristinato d'urgenza e in senso completo il servizio di avvistamento e allarme. Pertanto tutti gli appartenenti alla Specialità (Ufficiali di qualunque grado, sottufficiali, graduati e legionari ovunque dislocati) della 7a Legione e di qualunque altra, debbono presentarsi subito ai rispettivi Comandi oppure al Comando di Legione via Spalto S. Marco". II comunicato era privo di firma. 
    II quotidiano bresciano del 26 settembre recava, in prima pagina, il seguente "bando": "I Legionari tutti che prestavano servizio c.a. in forza a qualsiasi reparto della 7a Legione MAC dovranno presentarsi, entro 48 ore dalla pubblicazione del seguente bando, al Comando della Legione stessa in Brescia, Spalto San Marco . Gli inadempienti saranno deferiti al Tribunale Militare". Anche questa volta, nessuna firma. 
    I militi, dunque, s'erano ripresentati, sia per riscuotere lo stipendio, sia per non finire davanti al Tribunale Militare, accusati di diserzione, reato che, in tempo di guerra, poteva comportare la fucilazione. 
    La sera del 31 ottobre 1943 - domenica - alle ore 20.30, la città era completamente buia anche per l'oscuramento. Nella caserma di via Spalto San Marco il milite di guardia in caserma, Andrea Lanfredi, udì un forte tonfo contro le lamiere di rivestimento del cancello d'ingresso; lo aperse e vide un grosso involto di stracci fumanti. Si munì allora d'una lunga pertica e tentò d'allontanarlo, ma una fortissima esplosione l’investì in pieno; grosse schegge crivellarono il militare, che morì poco dopo, e ferirono leggermente due commilitoni pure accorsi, Vittorio Mazzi e Filippo Perri. 
    Per pura fatalità, al momento dello scoppio, transitava in bicicletta il dottor Ciro Miraglia, direttore delle carceri (antistanti alla caserma, sul lato opposto della stessa via) che aveva appena lasciato l'ufficio e stava avviandosi alla propria abitazione: fu investito lui pure dallo scoppio e morì due ore dopo all'Ospedale Civile. 
    L'attentato, allora, non fu rivendicato e il pubblico ne ignorò il movente ed il nome dell'autore, fino a quando l'attentatore stesso, Leonardo Speziale, militante comunista, ormai settantacinquenne, lo rievocò in un volumetto autobiografico intitolato "Memorie d'uno zolfataro", pubblicato da Luigi Micheletti nel 1980. 
    Speziale era nato a Serradifalco (Caltanissetta) nel 1903 (all'epoca dell'attentato aveva dunque, 40 anni) era emigrato in Francia nel 1930 e vi aveva operato nell'Unione Popolare Italiana. Attivo nella resistenza francese, arrestato nel luglio 1943, era stato condannato a 18 anni e trasferito a Fossano (Cuneo) dove, dopo l'8 settembre, approfittando del marasma, gli era riuscito facile eclissarsi. Raggiunta Brescia, dove contava amici, fra i quali Italo Nicoletto (ex-miliziano in Spagna e futuro deputato del PCI), il Partito Comunista gli ordinò di rimanervi per organizzare la lotta armata. Scrisse (pag. 112). "Per superare le resistenze emerse in città (c'era - lo ricorda lui stesso - chi aveva detto: "Questo qua vuol farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?” n.d.r.) il 31 ottobre organizzammo la nostra prima azione. A renderla possibile fu un incontro del tutto fortuito. Una mattina, mentre camminavo per strada, mi trovai di fronte un compagno che avevo conosciuto nella resistenza francese. “Che fai tu qui?”. “M'hanno rilasciato e sono tornato al mio paese” (un centro della pianura bresciana). Gli parlai della mia attività e si disse disponibile a collaborare con me. Uno era lui e un altro ero io, bisognava trovare il terzo. Riuscii a convincere uno degli operai che mi aveva presentato Grilli. 
    "Preparammo delle bombe. Essendo stato minatore, avevo una certa dimestichezza con esplosivi, detonatori e micce. Un artigiano di Ospitaletto, un paese subito fuori Brescia, su mia indicazione, preparò dei tubi di ferro della lunghezza di 30/40 centimetri e del diametro di 10. Le due estremità erano chiuse da incastri a vite con un foro per la miccia. Li riempii di dinamite e applicai la miccia, parte a lenta e parte a rapida combustione. Calcolai che dal momento della accensione avevo a disposizione un minuto e mezzo. La tecnica che adottammo venne poi usata anche in altri attentati. Con un mozzicone di sigaretta accendevo la miccia della bomba che tenevo sotto la giacca mentre mi avvicinavo all'obiettivo, la collocavo e, senza correre, mi allontanavo. Due compagni, armati di mitra, uno vicino a me e l'altro più lontano coprivano la ritirata". 
    Speziale scrisse che la notizia "suscitò un putiferio" e questo è vero. Aggiunse che sul tram per Gardone Val Trompia, preso per far ritorno alla Stocchetta, dov'era alloggiato, la gente mostrava "una certa soddisfazione". 
    II mio ricordo è diverso. II 1° novembre (avevo 17 anni) al Vantiniano, dove avevo portato fiori sulla tomba dei nonni, notai una gran folla presso la camera mortuaria. Incuriosito, mi ci diressi. La salma del milite ucciso giaceva circondata da fiori e da ceri e i commenti del popolino erano unanimi, ispirati ad indignazione e ad autentica rabbia, oltre che a dolore sincero, anche perché l'ucciso lasciava cinque figli piccoli e la moglie in stato di gravidanza. 
    "L'ltalia" del 4 novembre pubblicò questa lettera al popolo bresciano del Vescovo Giacinto Tredici: 
    “L'attentato terroristico che ha fatto due vittime innocenti, e tutti ci ha indignato, mi dà l'occasione di rivolgervi ancora la parola di vescovo e di padre. 
    “Già troppi lutti hanno funestato le famiglie troppe distruzioni e vittime ha portato la guerra, perché si possa pensare ad accrescerle con attentati proditori. 
    “Carità di Patria e dovere di cittadini e di cristiani ci chiedono che, mentre l'ltalia è divisa e dilaniata, non abbiano ad aumentare le sue sofferenze e le sue sventure. Ci possono essere divergenze politiche; ma queste non devono portare all'odio e alla vendetta. L'atto inconsulto che tutti deploriamo resti come la brutta manifestazione di una mente esaltata; non deve trovare imitatori, né acuire i rancori fra i cittadini. A tutti rinnovo la mia raccomandazione di ordine, di mutua comprensione e tolleranza, nella carità di Cristo, nell'amore della Patria comune, I'ltalia. Dio ci benedica tutti. Brescia, 2 nov. 1943, Giacinto Vescovo”. 
    Ma la bomba non costituiva "I'atto inconsulto di una mente esaltata", come il buon Vescovo sperava. 
    Scrisse Speziale: "Perché gli attentati? L'attacco alle caserme della milizia fascista aveva, secondo il comando militare partigiano, lo scopo di contrastare l'azione dei nazifascisti impegnati nella riorganizzazione dell'esercito e della stessa milizia, che erano stati sciolti dopo l'armistizio dell'8 settembre. Colpire, perciò, le caserme voleva dire scoraggiare, o quantomeno ritardare, la ricomposizione dello schieramento nemico. La nostra azione inoltre doveva servire da monito: dovevano sapere che il loro tentativo avrebbe potuto comportare anche la morte. Preferire questa strategia all'attacco dei ministeri repubblichini, che in quel periodo si trovavano a Brescia, significava colpire psicologicamente il nemico. Bisognava difatti, non tanto eliminare i quattro vecchi caporioni dei ministeri, quanto impedire l'infoltirsi delle file squadriste anche attraverso la paura e il terrore che con gli attentati alimentavamo in quanti intendevano ritornare ad arruolarsi. E per la verità simili iniziative ottenevano un notevole successo anche fuori del Bresciano, anche se, è chiaro, non riuscivano ad evitare, né si poteva, la riorganizzazione delle forze nemiche". 
    Infatti, il vero scopo degli attentati non era quest'ultimo, tant'è vero che i volontari - niente affatto terrorizzati - accorsero ugualmente a centinaia di migliaia nelle file della RSI. È chiaro che il Partito Comunista voleva la rappresaglia e l'ebbe: i "martiri di Piazza Rovetta" ne furono le vittime.
 
 
VOLONTA’ N. 5. Maggio 1994


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