domenica 26 gennaio 2020

GUERNICA: UN MASSACRO INVENTATO

GUERNICA: UN MASSACRO INVENTATO - un falso storico al capolinea 

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PIETRO FERRARI
Milioni di persone attraverso gli anni, a partire da quel fatale 26 Aprile 1937, si sono commosse e hanno maledetto la ferocia criminale della Legione Condor per aver raso al suolo, con centinaia di vittime, l'inerme cittadina di Guernica, città santa dei Baschi, durante la Guerra Civile Spagnola (1936-1939). Folle attonite e silenziose, per lunghi anni, hanno visitato la saletta del Metropolitan Museum di New York per vedere il presunto capolavoro di Picasso, metafora "artistica" del massacro.
La versione dell'episodio bellico passata alla storia come definitiva è quella sapientemente tratteggiata, con l'efficace contrasto tra la città tranquilla e ignara e la malvagità dell'aggressore, da Hugh Thomas nella sua Guerra Civile in Spagna. Dice Thomas: «Guernica è un piccolo centro abitato situato in una valle a dieci chilometri dal mare e a trenta da Bilbao. Il 26 Aprile 1937 era un giorno di mercato e proprio mentre i villici ammonticchiavano le loro mercanzie, le campane della chiesa presero a suonare a distesa. Era l'annuncio di un'incursione aerea. I bombardieri germanici volarono a ondate successive sulla cittadina, cancellandola dall'atlante geografico: essi intendevano compiere un esperimento terroristico, volevano provare l'effetto dei terrore di un bombardamento sopra una popolazione civile. L'era moderna del terrorismo dall'alto nacque in quel giorno, a Guernica». Il tragico bilancio di tale "esperimento terroristico" sarebbe stato di circa 1.600 morti e 900 feriti procurati tra la popolazione inerme schiacciata sotto le macerie delle case e nell'affollato mercato.
Il nome di Guernica continua a evocare, ossessivamente e inscindibilmente, gli orrori delle guerre in genere e la barbarie nazista. Un importante contributo nel dare l'abbrivio alla storia della strage, precisandone in 1.654 le vittime, fu dato dall'inventiva sospetta di quattro corrispondenti di guerra inglesi, Noel Monks, Christopher Holme, Mathieu Connan e, soprattutto, George L. Steer che, senza essere sul posto, inviarono ai loro giornali, da Bilbao, catastrofici e macabri articoli.
In realtà, ci troviamo qui di fronte a una delle innumerevoli menzogne della storia ufficiale, quella che si studia nelle scuole, per intenderci, e quello che effettivamente avvenne in quel giorno di cinquantotto anni fa ha ben poco a vedere con quanto ci è stato raccontato. Va detto, innanzitutto, che il Thomas, nella seconda edizione della sua Guerra Civile in Spagna, documentatosi meglio, ridusse i 1.654 morti della prima edizione a soli duecento, e ciò è un segnale ben preciso della fantasiosità del crudele massacro. Ma non basta. Sul finire degli anni '60, lo scrittore militare spagnolo Luis Bolin, nel suo libro "Spagna, gli anni decisivi", servendosi, per primo, dei documenti operativi delle Forze Armate nazionali che avanzavano verso Guernica, ricostruì, inascoltato, la realtà delle cose. Bolin riteneva questi dispacci di grande peso storico, sia perché disponibili in originale e sia perché, essendo riservati al comandante in capo di quella zona militare e quindi non destinati alla pubblicazione, non vi era motivo per falsificarli. Bolin riscontrò, tra l'altro, che Guernica era ben protetta e un fonogramma attestava che diversi battaglioni la difendevano.
Di notevole importanza è un altro fonogramma del comandante delle forze nazionaliste del 28 Aprile, e quindi successivo di due giorni al presunto bombardamento a tappeto, di cui Luis Bolin cita le seguenti frasi: «I nostri uomini erano ansiosi di entrare in città. Già sapevano che il nemico aveva evacuato Guernica dopo aver compiuto il crimine di annientarla, salvo poi ad imputarne la distruzione all'opera dei nostri piloti aerei. Certo è che non si sono trovate a Guernica le caratteristiche buche prodotte da bombe piovute dall'alto. Non v'era di che meravigliarsi, visto che negli ultimi giorni di Aprile l'aviazione nazionale non aveva potuto alzarsi in volo a causa della nebbia e delle piogge persistenti. Già i Baschi che, colti dal panico, passavano nelle nostre file, apparivano atterriti dalle tragedie inflitte, anche in precedenza, a città come Guernica deliberatamente incendiate e distrutte dai rossi mentre ancora i nazionali si trovavano per lo meno a una decina di chilometri di distanza».
È bene precisare che la verità su quanto accaduto a Guernica fu subito divulgata dall'agenzia francese Havas e dal corrispondente del quotidiano inglese Times, Douglas Jerrold, che resero noto, insieme al fatto che strade e giardini erano indenni e privi dei caratteristici crateri, che la cittadina era stata ridotta in cenere da terra invece che dall'alto poiché «se in periferia si poteva notare qualche buca da bombe, le pareti delle case nei punti maggiormente demoliti non recavano traccia alcuna di schegge di bombe».
Queste preziose informazioni non furono raccolte e, invece, partì la colossale montatura del bombardamento selvaggio, costruita a Parigi dal comunista tedesco Willi Munzenberg, agente del Comintern, così descritto da Arthur Koestler: «Inventa pretesti, riunioni, indignazione, comitati, come un prestigiatore tira fuori i conigli dal suo cappello». Lo scopo di questa menzogna, creata a tavolino, sarebbe stato quello di distogliere l'attenzione del mondo dalla imminente caduta di Bilbao, e perciò dalla sconfitta della causa antifranchista nel Nord del paese con la clamorosa fuga, con generali e ministri, del presidente basco Aguirre.
Una operazione con uso di menzogna, quindi, e i comunisti, da bravi atei e amorali, non hanno mai avuto problemi o scrupoli nell'uso della menzogna. La diversione strategica ottenuta coincideva, altresì, con una criminalizzazione del nemico suscitante profondi e redditizi stati emotivi nelle masse. Insomma, i rossi da questa montatura avevano tutto da guadagnare.
Cominciamo, allora, a dire cosa veramente accadde in quel famoso pomeriggio del 26 aprile 1937 con l'ausilio prezioso di Renzo Lodoli che ha pubblicato, su *** del gen/feb '90, i risultati di una sua ricerca effettuata negli archivi (italiani, tedeschi e spagnoli di entrambe le parti combattenti), consultando documenti che sono alla portata di tutti.
La città di Guernica, famosa per il suo albero sotto cui i Re spagnoli giuravano solennemente il rispetto dei fueros locali (gli statuti dell'autonomia di Euzcadi), escludendo le frazioni e tenendo presente l'alto numero di sfollati nelle retrovie, contava, in quel fine aprile, molto meno di 4.000 residenti, e il mercato settimanale del lunedì mattina, in quel giorno 26, non ebbe luogo poiché vietato dal Delegato del Governo in Guernica, Francisco Lazcano, a causa dei nazionali molto vicini. Guernica non era una città aperta e non era senza difesa; tre battaglioni di gudaris, per complessivi 2.000 uomini, erano sistemati in vari conventi e scuole mentre, nel pomeriggio, cominciarono ad affluire i primi reparti della la, 2a e 4a Brigate repubblicane che attraversarono la zona quella notte, ritirandosi. I repubblicani stimavano possibile un attacco aereo, tant'è che dal 31 Marzo avevano costruito sette grandi rifugi aerei. In effetti Guernica, oltre ad ospitare una fabbrica di pistole (la Unceta y Compania) e una di bombe per aviazione (la Talleres de Guernica), era un nodo stradale e ferroviario importantissimo per il ripiegamento dei Rossi e, da almeno due documenti delle forze antirepubblicane, risulta come obiettivo previsto per bombardamento. Inoltre, il 25 Aprile, il Governo basco aveva ordinato una disperata difesa di Bilbao sulla linea Guernica-Amorrabieta-Gorbea, per almeno ritardare l'avanzata della 1a e 2a Brigate di Navarra. L'azione aerea, mirante a danneggiare il ponte di Renteria sul fiume Oca e le strade ivi convergenti, si proponeva, colpendo le vie d'accesso obbligate e chi le percorreva, di bloccare o almeno intralciare il ripiegamento che veniva operato dalle truppe basche.
Tra le ore 16,15 e 16,30, tre aerei non modernissimi, un Dormir 17F1 e due Heinkel 111 agenti in direzione est-ovest, sganciarono circa due tonnellate di bombe sugli obiettivi senza danneggiamenti apprezzabili. L'unico passaggio effettuato dai velivoli, rapportando spazio percorso e velocità, non prese che poco più di un minuto e mezzo. Alle ore 16,30, poi, durante un sorvolo di meno di un minuto, furono sganciate 36 bombe da 50 kg, mentre il ponte restava ancora indenne. Questa azione fu condotta dal capitano Raina che comandava tre S79 italiani e l'ordine di operazione, stilato dal Colonnello Raffaelli e depositato negli archivi dell'Aeronautica Italiana, prescriveva: «Per evidenti ragioni politiche, il paese non deve essere bombardato».
A questo bombardamento seguirono due ore in cui nulla accadde fino a quando, alle ore 18,30, 18 o 17 Junkers 52, i più vecchi e lenti bombardieri tedeschi, divisi in tre squadriglie e provenienti da Burgos, solcarono il cielo di Guernica. Questi aerei erano compresi nel gruppo K88 della Legione Condor e, al comando del Ten. Colonnello von Richtofen, erano i caposquadriglia capitani von Knauer, von Beust e von Kraft. Questi Junkers, in pattuglie successive di tre, con un solo passaggio sulla direttiva nord-sud, scaricarono nei pressi del ponte di Renteria 18 (o 17) tonnellate di bombe. Ogni bomba era da 250 kg. Secondo i rilievi effettuati dall'ing. Stanislao Herran, confermati da planimetria, delle 39 bombe che esplosero, provocando ampi crateri, sette caddero sulla città. Per completare il quadro dell'azione aerea, va aggiunto che 15 caccia legionari FIAT CR32, divisi in due gruppi (10 e 5 ognuno), comandati dal Cap. Viola e dal Ten. Ricci, decollati da Vittoria, incrociarono gli Heinkel e gli Junkers con funzione protettiva, senza dover intervenire per l'assenza dei caccia nemici.
Eccoci quindi alle cifre vere; dice Lodoli: «I morti accertati furono 93. Precisamente: 33 fra i ruderi dell'Asilo Calzada, 15 alla curva di Udochea e 45 nel crollo del rifugio Santa Maria, appena ultimato e non ancora collaudato. Qualche altra vittima isolata deve probabilmente aggiungersi a quelle elencate secondo quanto affermato dal Gen. Jesus Larrazabal che, nel suo "Guernica: el bombardeo", ritiene la cifra complessiva dei morti inferiore o di poco superiore al centinaio e dichiara di essere in grado di rendere noto l'elenco nominativo». Ogni Junkers germanico lanciò sul bersaglio anche 288 spezzoni incediari da 1 Kg ciascuno, del tutto inefficaci nel danneggiamento di un ponte in muratura, e che perciò hanno favorito la tesi della volontà di strage sulla popolazione. Questa tesi cade, comunque, ove si consideri che lo scopo principale dell'azione aerea era di ostacolare il ripiegamento delle truppe basche e l'uso consueto degli spezzoni da 1 Kg era in funzione antiuomo.
Resta da dire qualcosa sull'opera di Picasso in cui, secondo Piero Buscaroli, "un cavallo pazzo nitrisce contro una lampadina tra ripugnanti pupazzi che smanacciano e scalciano" e lo facciamo dire a Renzo Lodoli, riportando le ultime righe del suo citato articolo: « Picasso si dichiarò stravolto dalla notizia e, nella sua sensibilità, offre al mondo intero la visione della sua "Guernica" messa a ferro e fuoco. Dove non c'è Guernica, né il ferro nè il fuoco, poiché in realtà solo di un quadro di tauromachia si tratta, dipinto da tempo, intitolato "En muerte del torero Joselito". Picasso ne cambiò il titolo e lo vendette al Governo Repubblicano per 300.000 pesetas d'epoca (circa due miliardi di lire attuali). La falsata storia di Guernica ebbe così la sua bandiera, falsa ».
Guernica
Pablo Picasso - En muerte del torero Joselito
Oltre all' articolo di Lodoli, vedi pure: GUERNICA FU DISTRUTTA DAI ROSSI E NON DALL'AVIAZIONE DI HITLER di Dante Pariset sul del 5.2.73 e GUERNICA, 50 ANNI DI MENZOGNE di Piero Buscaroli su Il Giornale del 9.4.95


                                                                                                                                             

domenica 19 gennaio 2020

Stati Uniti e Israele: due democrazie solo presunte.

Stati Uniti e Israele: due democrazie solo presunte.

L’amministrazione Trump si comporta con modalità mafiose e gangsteristiche.
Gli aggettivi non sembrino immoderati: è stato un illustre militare come il generale Angioni a definire “mafiosa” l’eliminazione del generale persiano Soleimani ordinata da Trump:
Il generale Angioni: “L’eliminazione di Soleimani fatta da Trump è un’azione mafiosa”[1].
Franco Angioni
Ed è stato un illustre storico come Franco Cardini, sempre riferendosi all’uccisione di Soleimani, a definire “gangster” l’attuale presidente degli Stati Uniti:
“L’azione criminosa in quanto mirata direttamente ed esplicitamente all’assassinio dell’alto ufficiale è stata ordinata dal gangster che attualmente occupa la Casa Bianca, Donald Trump”[2].
Franco Cardini
Nei giorni scorsi sono emersi ulteriori dettagli sui retroscena che hanno preceduto la predetta uccisione. Scrive il sito globalresearch.ca[3]:
“La storia dietro l’assassinio di Soleimani sembra andare molto più in profondità di quanto finora è stato riportato, coinvolgendo l’Arabia Saudita e la Cina come pure il ruolo del dollaro americano in quanto valuta d riserva globale. Il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha rivelato, in un discorso al parlamento iracheno, dettagli sulle sue interazioni con Trump nelle settimane che hanno condotto all’assassinio di Soleimani. Egli ha cercato di spiegare molte volte in diretta televisiva come Washington abbia cercato di intimidire lui e altri membri del parlamento iracheno per ottenere ubbidienza alla linea americana, arrivando persino a minacciare di dare corso a sparatorie di cecchini sotto falsa bandiera contro manifestanti e addetti alla sicurezza per infiammare la situazione, richiamando un simile modus operandi già visto al Cairo nel 2009, in Libia nel 2011 e a Maidan nel 2014…Abdul-Mahdi ha parlato con indignazione del modo in cui gli americani hanno rovinato il paese e di come ora si siano rifiutati di ultimare le infrastrutture e i progetti di rete elettrica a meno che venisse loro promesso il 50% degli introiti del petrolio”.
Abdul-Mahdi ha inoltre precisato: “Ecco perché sono andato in Cina e ho firmato un importante accordo per intraprendere con loro i progetti di ricostruzione. Al mio ritorno, Trump mi ha chiamato per chiedermi di disdire questo accordo. Al mio rifiuto, ha minacciato di scatenare enormi dimostrazioni contro di me che avrebbero segnato la fine del mio premierato”.
Il primo ministro iracheno Adil Abdul-Mahdi
Trump non è nuovo a progetti gangsteristici riguardanti il petrolio iracheno. Nel 2016, durante la campagna per le presidenziali aveva infatti affermato di volersene impadronire:
“Il piano di Trump per impadronirsi del petrolio dell’Iraq: ‘Non è un furto, stiamo rimborsando noi stessi”, titolava all’epoca il Guardian[4]. “Le spoglie appartengono al vincitore”, aveva detto Trump. Ma già nel 2011 aveva dichiarato che se fosse stato eletto presidente se ne sarebbe impadronito: “Prenderei il petrolio. Non me ne andrei dall’Iraq lasciando che l’Iran prenda il petrolio”.
Ma Trump non sta rubando solo il petrolio iracheno. Sta rubando anche il petrolio siriano:
“Le sole truppe che ho [in Siria] stanno prendendo il petrolio, stanno proteggendo il petrolio”, ha dichiarato solo due giorni fa[5]. Ma già nel mese di ottobre aveva detto:
Quello che intendo fare, forse, è fare un accordo con un ExxonMobil o con una delle nostre grandi compagnie per andare lì [in Siria] e farlo nel modo appropriato”.
Inutile dire che questi comportamenti costituiscono un furto e che azioni del genere sono considerate illegali dal diritto internazionale. Trump e il cosiddetto “Deep State” se ne fregano.
E continuano a mietere vittime, come se niente fosse:
Attacco americano contro comandante talebano provoca vittime tra i civili”, titolava il 9 gennaio scorso aljazeera.com[6]. Più di 60 civili sono stati uccisi e feriti nel corso dell’attacco eseguito da un drone. Sono notizie che la stampa italiana a malapena riporta.
Gli Stati Uniti sono e rimangono un paese pericoloso, come scriveva 20 anni fa il compianto John Kleeves. I dati aggiornati di questi ultimi 20 anni lo confermano in pieno:
“L’America ha speso 6.4 trilioni di dollari in guerre nel Medio Oriente e in Asia dal 2001, afferma un nuovo studio”, ha riferito il sito cnbc.com lo scorso 20 novembre[7]. Tre i punti chiave emersi da tale studio:
  1. Le guerre americane in Afghanistan, Iraq, Siria e Pakistan sono costate ai contribuenti americani 6.4 trilioni da quando sono cominciate nel 2001.
  2. Questo totale esorbita di 2 trilioni l’intera spesa del governo federale durante l’anno fiscale recentemente completato.
  3. Il rapporto, elaborato dal Watson Institute of International and Public Affairs della Brown University, rivela anche che più di 801.000 persone sono morte come diretto risultato di queste guerre.
A quanto pare, però, se i costi delle guerre sono stati esorbitanti per i contribuenti americani, qualcuno ci deve aver guadagnato e anche parecchio, altrimenti tali guerre non sarebbero state scatenate: il libro War is a Racket (“La guerra è un racket”), scritto nel 1935 dal generale Smedley D. Butler, da questo punto di vista è più che mai attuale[8].
Queste sono dunque le conseguenze che il mondo ha dovuto subire a causa dell’11 settembre: centinaia di migliaia di vittime e spese belliche “folli” (e profitti, presumibilmente colossali, per il complesso militare-industriale).
Ma quanti 11 settembre gli Stati Uniti hanno scatenato nel mondo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale?
A questa domanda ha risposto un articolo di Globalresearch pubblicato nel 2015[9]. Secondo l’articolo in questione, gli Stati Uniti sono responsabili della morte di almeno 20 milioni di persone in guerre e conflitti scatenati in tutto il mondo (la cifra di 20 milioni è approssimata per difetto). In questi 75 anni le nazioni vittime degli Stati Uniti sono state 37. Ad esempio, 900.000 cinesi sono stati uccisi nel corso della guerra di Corea.
Comunque, se gli Stati Uniti sono un “paese pericoloso”, Israele non è da meno nel creare conflitti e tensioni, e non solo in Medio Oriente:
Israele sta esercitando un grande ruolo nella crescita del conflitto dell’India con il Pakistan”, intitolava l’anno scorso l’Independent[10]. L’India è diventato il più grande mercato di armi per il commercio israeliano delle armi: nel 2017, ha pagato 530 milioni di sterline per sistemi di difesa aerea, radar e munizioni di provenienza israeliana, inclusi missili aria-terra, la maggior parte dei quali testati durante le offensive militari israeliane contro (gli indifesi) palestinesi e nelle incursioni contro la Siria.
A questo punto, qualcuno mi potrebbe dire: se Trump è un criminale la colpa non è di Israele. Ha già provato a dirlo, ad esempio, l’attivista americana Ariel Gold, dirigente dell’associazione Code-Pink[11]. In realtà, Ariel Gold è smentita sul punto da un ulteriore dato emerso in questi giorni: “Gli israeliani sostengono Trump più di quasi ogni altra nazione, mostra un sondaggio”, rivelava lo scorso 8 gennaio il quotidiano Haaretz[12]. I cittadini di Israele (e delle Filippine) hanno più fiducia in Donald Trump dei cittadini di ogni altro paese del mondo.
Quanto agli americani, non bisogna sottovalutare un altro dato inquietante: un altro sondaggio, condotto nei giorni scorsi, ha rivelato che il 43% degli americani approva l’uccisione del generale iraniano[13]. Il 43%: dunque la maggioranza relativa (mentre dallo stesso sondaggio apprendiamo che il 38% la disapprova).
Un’uccisione che si rivela peraltro essere sempre più un atto di pura barbarie: “Usa-Iran, il Pentagono smentisce Trump: “Nessun attacco imminente da Soleimani”. Così cadono le motivazioni del raid americano”, titolava ieri il Fatto Quotidiano[14].
Quindi, che Trump sia un gangster non è la cosa più grave: la cosa più grave è il consenso di cui gode in due (presunte) democrazie come Stati Uniti e Israele.
 
 
                                                                                                                          

domenica 12 gennaio 2020

L”olocausto armeno

L”olocausto armeno’: un’orrida ‘colpa’ ancora negata dalla Turchia musulmana, dopo quasi un secolo. Di Alberto Rosselli.

L’OLOCAUSTO ARMENO
La persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’impero ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia “panturchista” e “panturanista” del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza mussulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena.
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Con l’espressione ‘genocidio armeno’ (in lingua armena Medz Yeghern, Grande Male) ci  si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, quello relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II; il secondo – oggetto del nostro breve studio – quello collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del Primo Conflitto Mondiale dal nuovo governo della Sacra Porta controllato dai Giovani Turchi.
L’eliminazione fisica di circa un milione, un milione e mezzo di armeni (la cifra, come è noto, è ancora al centro di accese discussioni) da parte dei turchi rappresenta ancora oggi, a distanza di tanto tempo, uno scomodo tabù. Il sostanziale rifiuto da parte dell’attuale governo di Ankara di riconoscere le responsabilità storiche della Sacra Porta rappresenta anche un ingombrante ostacolo non soltanto alla conferma di una realtà storica, ma all’ingresso nel consesso europeo della stessa Turchia..
La “questione armena” ritornò di attualità, dopo mezzo secolo dallo sterminio, nel 1974, quando rispondendo a una denuncia del Tribunale Permanente dei Popoli, il governo di Ankara ammise per la prima volta – anche se con molte riserve e distinguo – che tra il 1915 e il 1918 “il popolo armeno aveva patito effettivamente un certo numero di vittime attribuibili alle tragiche contingenze storiche del tempo di guerra, cioè scontri armati, fame, malattie”, guardandosi bene però dal riconoscere che tra il 1880 e il 1918, cioè per un periodo ben più lungo, prima i sultani e poi il governo controllato dal partito dei Giovani Turchi repressero ripetutamente questa minoranza cristiana.
La bibliografia relativa allo sterminio o del ’genocidio’ armeno (il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni ‘40 dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena)   è in verità molto vasta e trasversale. Oltre agli scritti armeni, è possibile attingere a fonti francesi, statunitensi, portoghesi, italiane, greche, bulgare, inglesi e russe. Tra queste ricordiamo quelle, molto importanti, dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, degli inglesi Lord James Bryce e Arnold Joseph Toynbee, del francese Henri Barby, e, non ultime per importanza, quelle il console d’Italia a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Ma il materiale a disposizione dei ricercatori comprende anche numerosi tra libri, documenti e relazioni tedeschi  che confermano l’ampiezza dello sterminio armeno. Nel 1919, il pastore evangelico e storico Johannes Lepsius pubblicò Deutschland und Armenien, testo che racchiude stralci di documenti diplomatici tedeschi tesi a scagionare, almeno in parte, le colpe e la presunta connivenza del kaiser (durante la Prima Guerra Mondiale la Germania era alleata della Turchia) ma che rivelano la portata della tragedia dei cristiani anatolici. Alla documentazione di Lepsius va aggiunta quella, sempre di parte tedesca, del capitano dell’esercito Armin Wegner, che con la sua preziosa raccolta fotografica ha fornito importanti prove dei massacri compiuti dai turchi e dai curdi in Siria.
I Giovani Turchi
Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in pericolose sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, in combutta con alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziarono a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale. Un Movimento in particolare, quello dei Giovani Turchi, auspicava l’eliminazione del sultano per potere avviare un necessario processo di modernizzazione dell’impero.
La rivolta scoppiò il 23 luglio del 1908, a Monastir, quando il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò ad Abdul Hamid di ripristinare la costituzione del 1876. Avendo perso il controllo di buona parte dell’esercito, il sultano cedette e il 24 luglio 1908 la costituzione venne ripristinata. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sacra Porta che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo gli ufficiali ribelli dettero a tutte le minoranze ampie garanzie di tolleranza, tanto che il partito armeno Dashnak tentò e riuscì ad elaborare con essi un comune progetto di democratizzazione dello Stato ottomano. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti al Movimento dei Giovani Turchi. “Pur tramando da tempo contro gli armeni – annotò il console tedesco di Trebisonda Berfgeld –  sulle prime i Giovani Turchi si mostrarono molto liberali, laicisti e tolleranti. Tuttavia, il 19 ottobre del 1910, a Tessalonica, nel corso del congresso segreto promosso dall’Ittihad, uno dei leader del Movimento, Taalat Pascià, delineò i tratti della futura politica di omogeneizzazione etnico-religiosa della Turchia, parlando per la prima volta della necessità di attuare al più presto sterminio della minoranza armena(1).
Molti elementi appartenenti al movimento ‘modernista’ turco avevano soggiornato e studiato in Europa dove avevano attinto alle fonti dell’ideologia marxista e nazionalista, soprattutto tedesca, elaborandone i contenuti in funzione di un’applicazione in chiave ottomana. La perdita di ampie porzioni di territorio nei Balcani e le ripetute umiliazioni militari e diplomatiche subite dalla Sacra Porta nella seconda metà del XIX secolo, convinsero i Giovani Turchi circa la necessità non soltanto di fare avanzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma di ridargli nuova linfa, espandendone i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico.
La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo ultimo ragionamento traeva le sue origini dall’ideologia panturanica[1]. Come si è detto, dal pangermanesimo i Giovani Turchi avevano tratto lo spunto per ridare vigore nazionalista, dignità di razza all’impero ottomano, mentre dal marxismo essi avevano mutuato una vaga idea di eguaglianza sociale che, tuttavia, avevano modellato ad uso e consumo delle loro particolari convinzioni ideologiche. Per la nuova élite dominante turca l’eguaglianza non rappresentava infatti un dato sociale assoluto, bensì da commisurare all’appartenenza o meno alla “razza” turca e all’adesione al credo mussulmano. Ma dal momento che entro i confini dell’impero ottomano vivevano diverse minoranze etniche e religiose ecco che i Giovani Turchi percepirono come indispensabile in primo luogo la forzata “turchizzazione” o addirittura l’eliminazione fisica degli elementi da essi considerati allogeni e quindi impuri, tra questi gli armeni.
Questi concetti furono dettagliatamente riportati nel 1915 in una lunga e dettagliata relazione compilata dall’agente e diplomatico tedesco Ludwig Maximilian Erwin von Scheubner-Richter, a quel tempo ufficiale di collegamento di una speciale unità militare turco-tedesca operante in Anatolia. “Ho avuto modo di conversare più volte – scrisse Richter – con eminenti personalità turche, e dalle loro dichiarazioni ho dedotto che gran parte dei membri del governo ottomano sono convinti che l’impero turco dovrebbe basare la sua forza sia sulle teorie religiose islamiche, sia su quelle politiche “panturchiste” e “panturaniche”. Secondo i miei interlocutori, gli abitanti non mussulmani e non turchi dell’impero dovrebbero essere islamizzati con la forza o distrutti”.(2)Dal canto suo, l’ambasciatore austriaco a Costantinopoli,Johann Pallavicini riportò in una sua memoria lo stralcio di un colloquio avuto, sempre nel 1915, con il gran visir. “Questi – scrisse Pallavicini -si dichiarò contrario alla politica repressiva di Talaat Pascià (capo dell’Ittihad) nei confronti degli armeni (…) Il gran visir non vedeva infatti di buon occhio lo sterminio delle minoranze etniche e religiose dell’impero”. (3) Ciò a dimostrare – per amore di verità – che non tutte le alte gerarchie di Costantinopoli erano convinte della necessità di inglobare o sterminare i gruppi etnico-religiosi non mussulmani per conseguire un effettivo rafforzamento dello Stato.
Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario di Abdul Hamid, i Giovani Turchi, guidati da Taalat Pascià, deposero definitivamente il sultano, sostituendolo con il suo più innocuo fratello Muhammad. E contestualmente, gli ufficiali rivoluzionari iniziarono a cambiare rapidamente e apertamente strategia politica, rimangiandosi i vecchi propositi liberali e modificando in senso autoritario il loro intervento in seno alla società ottomana. Abbandonati i proclami inneggianti lla libertà e l’eguaglianza, essi abrogarono praticamente tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei, greci del Ponto e arabi. E all’indomani della sconfitta subita nel 1912 ad opera dell’Italia e dei rovesci patiti dall’esercito ottomano durante la Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913, un triumvirato formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal prese definitivamente in mano le leve del potere, proclamando la “turchizzazione” dell’impero ed avviando nel contempo una politica di  persecuzione sistematica di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena. La responsabilità della cosiddetta “seconda fase” dell’olocausto armeno fu da attribuire ai Giovani Turchi che pianificarono il genocidio attraverso la messa a punto di un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shakir. L’O.S., che dipendeva dal Ministero della Guerra, realizzerà tutte le sue più gravi nefandezze sotto la supervisione del ministero degli Interni e con la collaborazione del ministero di Giustizia che, attraverso l’emanazione di una legge speciale, inquadrerà molte migliaia di criminali comuni nelle file della Teskilate Maksuse (o Teshkilati Mahsusa), uno speciale reparto paramilitare agli ordini di Behaeddin Shakir istituito per depredare i villaggi armeni ed eliminarne la popolazione.
Sotto il profilo per così dire organizzativo e cronologico il genocidio armeno compiuto dai Giovani Turchi si può suddividere in quattro fasi, ciascuna delle quali corrisponde ad una particolare metodologia di sterminio e ad un particolare indirizzo.La prima fase coprì il periodo compreso tra l’aprile e il maggio 1915 e si concentrò essenzialmente sull’eliminazione delle élite e dei militari di origine armena.. Nella seconda fase, aprile-giugno 1915, i turchi eliminarono o deportarono i notabili locali, i membri dei partiti armeni e, in generale, tutti gli uomini validi”.La terza fase si tradusse essenzialmente nella deportazione di massa. Oltre il 40% della popolazione armena residente nel 1914 nell’Impero ottomano fu infatti sradicata e trasferita a forza in Siria. Tra il luglio e l’agosto del ‘15 scattò la quarta ed ultima fase durante la quale avvenne la deportazione nei campi di prigionia siriani, mesopotamici degli armeni residenti in Asia Minore, Tracia e Cilicia. Stando alla documentazione, nel 1915 i turchi allestirono almeno 30 grandi campi di concentramento, cinque dei quali di transito.
Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del genocidio), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi strangolati con filo di ferro. Tra le vittime anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat. La persecuzione proseguì con la soppressione della colta ed operosa comunità della capitale i cui membri furono divisi in gruppi e deportati in Anatolia, dove molti di essi vennero uccisi. Tra questi vi erano intellettuali e scrittori, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.
Tra il maggio e il luglio del 1915, la falce ottomana si abbatté sulle comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove le bande curde si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti, a molti dei quali, prima dell’esecuzione, vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, pare si divertisse a fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915 circa 2.000 soldati armeni reduci dalla campagna del Caucaso furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nella zona di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati. A loro insaputa, moltissimi altri militari armeni furono anch’essi disarmati ed inquadrati in speciali ‘battaglioni operai’ (Amelé Taburì) per lavorare – così fu detto loro –  nel comparto infrastrutture. Ma in realtà essi vennero poi massacrati, come accadde a 2.500 soldati armeni condotti in località Diyarbakir.
Nel giugno 1916, dopo avere liquidato circa 150.000 militari armeni, i turchi decideranno di fare fuori anche un terzo degli operai cristiani impiegati nella costruzione e nella manutenzione della ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad: decisione che tuttavia venne duramente contrastata dagli alleati tedeschi. L’ambasciatore a Costantinopoli, conte Paul von Wolff-Metternich, accusò Taalat Pascià e il ministro degli Esteri Halil Pascià “di inutili crudeltà”e persino“di sabotaggio”: denunce che lasciarono tuttavia impassibili i capi ottomani più che mai decisi a proseguire con la pulizia etnico-religiosa.
Nell’aprile 1915, a Van, in seguito all’ennesima retata, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano e resistendo agli attacchi ottomani e curdi fino al sopraggiungere di una divisione di cavalleria russa del generale Yudenich che nel mese maggio li liberò dall’assedio.
Una storia per certi versi analoga la vissero circa 4.100 armeni rifugiatisi sull’acrocoro del Musa Dagh, situata nella porzione meridionale della Cilicia armena, sulla costa del Mediterraneo orientale (oggi provincia turca di Hatay), dove resistettero alla fame e alla pressione turca per ben quaranta giorni fino a quando il 12 settembre 1915 essi furono tratti in salvo dal provvidenziale arrivo nel golfo di Alessandretta di una squadra navale dell’Intesa. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la porzione più giovane e combattiva del popolo armeno, il ministero degli Interni ottomano passò alla seconda fase dell’”olocausto”, cioè l’eliminazione di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni che fino ad allora erano stati risparmiati poiché ritenuti indispensabili per il lavoro nelle campagne. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato il 15 settembre 1915 dal ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo: “[] Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena […] Occorre la vostra massima collaborazione […] Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi […] Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. E ancora (lettera del 1° dicembre 1915): “Il luogo di esilio di questa gente sediziosa (gli armeni, n.d.a.) è soltanto l’annientamento”. (4)
Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti. “Nel corso di queste frequenti ed estenuanti marce forzate – annotò il colonnello tedesco Hugo Stang –  le colonne armene venivano ripetutamente attaccate e depredate dai reparti curdi dei reparti Hamidye, una forza ausiliaria composta da un totale circa 30.000 criminali comuni arruolati dai turchi”. (5)
Le deportazioni – annotò il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter –furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. (6) Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino l’immediata sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.
Va comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani e giacobiti. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di addetti diplomatici francesi, svedesi e italiani presenti all’epoca in Turchia.  Il 25 agosto 1915, Il Messaggero di Roma pubblicò la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Il plenipotenziario affermò che “degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 al 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati”. (7)
Intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai campi della regione di Deir al-Azor. Questi primordiali lager privi di baracche e servizi igienici accolsero all’interno dei loro perimetri cintati da filo spinato decine di migliaia di profughi.
Ben presto – come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo ‘Armeni, un popolo in esilioin questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana (…) Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo”. (8) Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da allarmare il generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò – almeno così sembra – di attivare una qualche forma di assistenza, seppure duramente contrastato dalle autorità ottomane.
In terra siriana, alcune centinaia di ragazze e di ragazzi armeni riuscirono però a scampare alla morte, anche se a duro prezzo. Le fanciulle, soprattutto le più giovani e graziose, furono infatti vendute per poche piastre a possidenti arabi che le rinchiusero nei loro bordelli. In molte altre zone dell’impero i giovani armeni subirono sorte ancora peggiore. In un rapporto del 1917, l’ufficiale medico tedesco Hans Stoffels riferì “di avere osservato nella zona di Mosul (Irak settentrionale) un gran numero di villaggi armeni, nelle cui chiese e abitazioni giacevano i corpi bruciati e decomposti di donne e di bambini precedentemente violentati, sodomizzati e torturati nei modi più orrendi(9). Nell’autunno del 1918, quando le forze britanniche del generale Edmund Allenby provenienti dalla Palestina entrarono in Siria, trovarono in alcune baracche di un campo decine di donne tutte segnate dagli stenti e dalle malattie veneree. In terra siriana i britannici vennero anche a sapere che centinaia di bimbi armeni provenienti dall’Anatolia erano stati rinchiusi in bordelli per omosessuali o negli speciali orfanotrofi gestiti dalla “signora” Halidé Edib Adivart.
Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey – mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”. (10)
Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che – secondo quanto riporta J. Bryce (vedi James Bryce and Arnold Toynbee, The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916: Documents Presented to Viscount Grey of Fallodon by Viscount Bryce) – “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. E a dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”. (11)
Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’impero ottomano, per le comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso stava per compiersi un destino decisamente crudele e beffardo. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane avevano iniziato una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Georgia e nella regione di Baku, furono passati per le armi dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre 1918, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 cristiani.
Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un discutibile processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso: “Durante la guerra, quasi l’intero mondo civilizzato fu commosso alla notizia dei crimini che i Turchi avrebbero commesso. Lungi da me il pensiero di travestire questi misfatti che sono tali da far per sempre trepidare d’orrore la coscienza umana. Cercherò ancora di meno di attenuare il grado di colpevolezza degli autori del grande dramma”. (12)
Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della  burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati.
Sempre nello stesso periodo altre corti turche si occuparono di crimini circostanziati, cioè riguardanti specifiche operazioni di sterminio portate a compimento in diverse regioni dell’ex impero. Quale artefice del massacro compiuto a Yozgat ai danni di un grosso gruppo di prigionieri armeni, il vice-governatore Kemal venne condannato, come pure il governatore distrettuale di Trebisonda. Nel processo in contumacia indetto contro  Behaeddin Shakir autore del massacro della città di Karput, furono gli stessi, pochi scampati a descrivere dettagliatamente il ruolo ricoperto dalle varie istituzioni amministrative e militari locali e dalle organizzazioni speciali statali incaricate di organizzare le varie fasi della persecuzione. Ciononostante, anche in questo caso molte delle pene inflitte dai giudici ai colpevoli di questi orrori furono inspiegabilmente annullate.
Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di alcuni tra i principali fautori dell’olocausto, compresi quelli fuggiti all’estero. Un gruppo di lavoro coordinato da Shahan Natalie e Grigor Merjanov, stilò una lista di circa 200 nominativi di uomini politici e funzionari turchi ritenuti responsabili del genocidio, e di armeni ‘traditori’ che con il loro comportamento avrebbero favorito le stragi.
Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.
 DA STORIA E VERITA'

                                                                                                                                            

martedì 7 gennaio 2020

Mal di Puglia

Mal di Puglia

Una bomba atomica a lento rilascio è stata sganciata sul tallone d’Italia, chiamato Puglia. Una bomba che ha devastato lentamente ma inesorabilmente le campagne, l’ambiente, i polmoni, l’industria e i depositi bancari dei pugliesi. E dire che la Puglia era stata la rivelazione degli anni duemila. Ha vissuto un ventennio d’oro.
È terribile tornare nel Salento dopo aver conosciuto lo splendore gioioso di un paesaggio di luce, di terra rossa, di ulivi secolari, quasi umani, quasi parlanti, che sembravano sculture semoventi. Capolavori d’arte, lavoro e natura. Ora hai l’impressione che sia passata la morte con la sua falce impietosa e il suo sguardo spettrale, a rendere quel paesaggio come l’inferno dantesco nel girone di Pier delle Vigne. Cadaveri di ulivi sembrano tendere i rami insecchiti in cerca di vano soccorso, corrosi negli anni da quel cancro chiamato Xylella. Una volta c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi, notò con gli occhi di poeta Andrea Zanzotto. Da anni se ne parla ma non si riesce a fermare il batterio che avanza inarrestabile, mentre la politica farfuglia, da Vendola ad Emiliano, senza esiti. La morte degli ulivi, e l’arrivo di olive dal Nordafrica per produrre l’olio, è la punta più avanzata di una crisi delle campagne pugliesi. Se ne rende interprete il leader dei gilet arancioni, il Conte Onofrio Spagnoletti Zeuli di Andria, che riprende in Puglia la bandiera agricola che fu del Principe Lilio Sforza-Ruspoli contro i poteri politici e burocratici, nazionali ed europei, e contro le associazioni agricole che non rappresentano più né i braccianti né gli imprenditori. Una campagna di guerra, nel vero senso della parola.
Cerchi riparo dalla campagna appestata e risali dal Salento virando su Taranto. E lì trovi quel gigantesco sarcofago che ha avvelenato le popolazioni e lasciato per terra i lavoratori. Parlo dell’Ilva, con i suoi altiforni minacciosi, il suo fuoco incombente, il suo fumo sul quartiere Tamburi; un po’ come la Stanic a Bari, l’Enichem a Manfredonia, il Petrolchimico a Brindisi. Tutti reperti di un glorioso passato industriale, finito male. Un tempo l’Ilva era l’orgoglio dell’industria pugliese e dell’acciaieria italiana, oggi è la maledizione per i dipendenti e per gli abitanti. Anche quella è una crisi da lungo annunciata, a lungo sviluppata, senza trovare ancora una soluzione decente.
Allora fuggi verso Bari, e qui raggiungi il terzo livello dell’esplosione, che ha fatto saltare la Banca Popolare di Bari. Era diventata negli anni la banca leader del Mezzogiorno, fagocitava le altre banche più piccole e cresceva cresceva. Fino a quando ha cominciato a dar segni di malgoverno e di malattia. Ma anche qui, come all’Ilva, come con la Xylella, il disastro è stato lento e inarrestato, si svolgeva davanti agli occhi impietriti del sistema Italia, dei governi e dei vigilanti. E ora 70mila azionisti e obbligazionisti, un popolo di risparmiatori, per metà pugliesi, vivono nell’angoscia e nel panico.
La terra, la fabbrica e la banca, ossia la risorsa agricola, industriale e finanziaria. La Puglia è stata colpita a ogni livello. Per sancire simbolicamente la crisi pugliese c’è pure il commissariamento della Gazzetta del Mezzogiorno, che è stata per lunghi decenni la voce della Puglia. E malconcia da anni è pure la Fiera del Levante di Bari. La Puglia di Araldo di Crollalanza, di Peppino Di Vittorio e poi di Aldo Moro, dista ormai anni luce. E dire che fino a poco tempo fa la Puglia era additata come l’esempio virtuoso del sud che riesce ad attirare turisti, film, risorse, stranieri.
Sdraiata sul versante orientale del Sud in una millenaria controra, esclusa dalla storia e dalla geografia, la Puglia è stata per secoli il Meridione minore, in sordina, rispetto a Napoli, alla Sicilia. La storia si svolgeva là, e pure la letteratura. Regione agricola e marinara, la Puglia, una lunga ringhiera che si affaccia ad oriente; terra periferica rispetto al regno del sud e pure al regno d’Italia. Si affacciò alla ribalta nazionale prima il Gargano per due opposte attrattive: Padre Pio a San Giovanni Rotondo e la costiera garganica scoperta dall’Eni di Enrico Mattei nei primi anni Sessanta. Ma restò defilata, minore.
Poi d’un tratto, col nuovo millennio, fu scoperto il suo mare, la sua campagna, i suoi frutti, le sue cittadine bianche, il romanico pugliese, i suoi trulli, il suo cibo, la sua ospitalità. Antesignani del sushi coi loro frutti di mare crudi, precursori della cucina povera – fave e cicoria, riso, patate e cozze, zanghette e panzerotti, pane e pomodoro – i pugliesi conquistarono la leadership del meridione, furono considerati i lombardo-veneti del Mezzogiorno, operosi, anzi fatigatori; concreti a Bari e signorili a Lecce, gli uni commercianti, gli altri agrari. Molti film e tanta fiction trovarono in Puglia la loro favolosa location, il dialetto salentino e barese sfondò, i comici pugliesi esplosero, perfino gli indiani vennero a sposarsi in Puglia, dove le feste nuziali durano più che in oriente.
Ma il male serpeggiava nell’aria, nella terra, in periferia, in città. S’insinuava in tutti i suoi gangli vitali. La Puglia riassume e concentra il malessere italiano, è la riproduzione in scala dell’Italia intera: non a caso è una penisola della penisola. Fu il laboratorio del suo rilancio, ora è la radiografia del suo declino.

    MARCELLO VENEZIANI  

                                                                                                                                            

mercoledì 1 gennaio 2020

La vera dittatura del mondo

La vera dittatura del mondo



di Manuel E. Yepe .

Nel suo discorso al Congresso del 4 luglio 1821, il segretario di Stato americano John Quincy Adams disse che se gli Stati Uniti avessero abbandonato la loro politica estera che allora era non interventista, sarebbe inevitabilmente diventata questa la “dittatura” del mondo e avrebbero iniziato a comportarsi di conseguenza. Lo scienziato politico Jacob G. Hornberger, fondatore e presidente della fondazione “The Future of Freedom”, ha scritto il 10 maggio di quest’anno , quando ha completato un importante lavoro giornalistico intitolato ” La dittatura del mondo”, in cui afferma che non si può negare che questa previsione di JQ Adams sia diventata realtà.
Gli Stati Uniti sono diventati veramente la dittatura del mondo, una dittatura arrogante, spietata e brutale che non tollera alcun dissenso da nessuno sulla terra.

“Ora sto usando il termine America perché è quello originariamente usato da Adams, ma in realtà è stato il governo degli Stati Uniti a diventare la dittatura del mondo “, afferma Hornberger. .
Un buon esempio di questo fenomeno si è verificato quando, all’inizio del secolo scorso, la dittatura mondiale ha applicato il suo sistema crudele di sanzioni contro Cuba per fini vendicativi e lo ha mantenuto fino ad oggi.
È abbastanza brutto punire cittadini stranieri innocenti con morte o impoverimento in nome di un obiettivo politico. Ma è anche importante notare che le sanzioni rappresentano un attacco alla libertà economica della popolazione degli Stati Uniti perché comportano sanzioni contro i cittadini statunitensi coinvolti. Se un americano intrattiene rapporti con un iraniano, un cubano o un venezuelano, la dittatura mondiale minaccia, persegue e lo condanna con intenzioni vendicative, attraverso procedimenti penali, multe civili o entrambi.

Un simile sistema di sanzioni è stato applicato negli anni ’90 contro l’Iraq, facendo morire centinaia di migliaia di bambini iracheni nel paese arabo, per mancanza di medicinali e altri generi indispensabili. Era effetto delle sanzioni. Questo non ha disturbato la dittatura, almeno non abbastanza per mettere fine a questo abuso. L’idea era che se un numero sufficientemente grande di bambini poteva essere ucciso, il dittatore iracheno Saddam Hussein avrebbe rinunciato a favore di un dittatore approvato dagli Stati Uniti, o ci sarebbe stato un colpo di stato o una rivoluzione violenta chi avrebbe realizzato la stessa cosa. L’ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’ONU, Madeleine Albright, ha espresso l’opinione ufficiale della dittatura quando ha annunciato che la morte di mezzo milione di bambini iracheni a causa delle sanzioni “ne è valsa la pena” la pena ”.
Un altro esempio è il caso di Meng Wanzhou, cittadina cinese che lavora come direttore finanziario della gigantesca società tecnologica cinese Huawei, che, dopo essere stato arrestata dalle autorità canadesi e posta agli arresti domiciliari, ha subito i fulmini della dittatura mondiale.
Qual era il suo presunto crimine? Per aver violato le sanzioni statunitensi contro l’Iran? Che cosa hanno a che fare le sanzioni statunitensi contro l’Iran con la Cina? Esattamente niente! È una cittadina cinese, non statunitense. Allora perché è stata citata in giudizio dal governo degli Stati Uniti?
il caso di Meng Wanzhou arrestata perché non ha rispettato le sanzioni
Le sanzioni sono diventate uno strumento regolare della politica estera degli Stati Uniti. Quasi a nessuno importa della propria giurisdizione e della applicazione in tutto il mondo. Il loro scopo è di minacciare le persone straniere e i cittadini con morte, sofferenza e privazione economica al fine di costringere i loro governi a inchinarsi alla volontà della dittatura americana e ai suoi agenti brutali e violenti.
Cosa potrebbe esserci di più violento e spietato che minacciare gli innocenti di morte e impoverimento per raggiungere i loro governi? È noto che la maggior parte dei cittadini del mondo ha scarso controllo sulle azioni del proprio governo, così come i cittadini americani hanno scarso controllo sulle azioni dei loro governi. Qual è la moralità di punire i cittadini innocenti per il raggiungimento di un obiettivo politico? Questo è precisamente il motivo per cui il terrorismo viene condannato, perchè si scatena contro cittadini innocenti.

Washington non pretende solo che i suoi cittadini si attengano al suo sistema malvagio. Nel suo ruolo di dittatore globale, il governo federale esige che tutti in tutto il mondo rispettino il suo sistema malvagio. La dittatura rivendica la giurisdizione globale per se stessa.
Perché gli innocenti cittadini stranieri sono il bersaglio della morte e della sofferenza economica semplicemente perché ai funzionari statunitensi non piace il loro governo? Perché le libertà dei cittadini americani vengono distrutte? E per quale motivo i cittadini stranieri di tutto il mondo devono essere perseguiti per violazione del sistema sanzionatorio del governo federale USA? Domande senza risposta.
fonte: LA DICTADURA DEL MUNDO
Tradotto da Réseau International por Alejandro Sanchez