martedì 7 gennaio 2020

Mal di Puglia

Mal di Puglia

Una bomba atomica a lento rilascio è stata sganciata sul tallone d’Italia, chiamato Puglia. Una bomba che ha devastato lentamente ma inesorabilmente le campagne, l’ambiente, i polmoni, l’industria e i depositi bancari dei pugliesi. E dire che la Puglia era stata la rivelazione degli anni duemila. Ha vissuto un ventennio d’oro.
È terribile tornare nel Salento dopo aver conosciuto lo splendore gioioso di un paesaggio di luce, di terra rossa, di ulivi secolari, quasi umani, quasi parlanti, che sembravano sculture semoventi. Capolavori d’arte, lavoro e natura. Ora hai l’impressione che sia passata la morte con la sua falce impietosa e il suo sguardo spettrale, a rendere quel paesaggio come l’inferno dantesco nel girone di Pier delle Vigne. Cadaveri di ulivi sembrano tendere i rami insecchiti in cerca di vano soccorso, corrosi negli anni da quel cancro chiamato Xylella. Una volta c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi, notò con gli occhi di poeta Andrea Zanzotto. Da anni se ne parla ma non si riesce a fermare il batterio che avanza inarrestabile, mentre la politica farfuglia, da Vendola ad Emiliano, senza esiti. La morte degli ulivi, e l’arrivo di olive dal Nordafrica per produrre l’olio, è la punta più avanzata di una crisi delle campagne pugliesi. Se ne rende interprete il leader dei gilet arancioni, il Conte Onofrio Spagnoletti Zeuli di Andria, che riprende in Puglia la bandiera agricola che fu del Principe Lilio Sforza-Ruspoli contro i poteri politici e burocratici, nazionali ed europei, e contro le associazioni agricole che non rappresentano più né i braccianti né gli imprenditori. Una campagna di guerra, nel vero senso della parola.
Cerchi riparo dalla campagna appestata e risali dal Salento virando su Taranto. E lì trovi quel gigantesco sarcofago che ha avvelenato le popolazioni e lasciato per terra i lavoratori. Parlo dell’Ilva, con i suoi altiforni minacciosi, il suo fuoco incombente, il suo fumo sul quartiere Tamburi; un po’ come la Stanic a Bari, l’Enichem a Manfredonia, il Petrolchimico a Brindisi. Tutti reperti di un glorioso passato industriale, finito male. Un tempo l’Ilva era l’orgoglio dell’industria pugliese e dell’acciaieria italiana, oggi è la maledizione per i dipendenti e per gli abitanti. Anche quella è una crisi da lungo annunciata, a lungo sviluppata, senza trovare ancora una soluzione decente.
Allora fuggi verso Bari, e qui raggiungi il terzo livello dell’esplosione, che ha fatto saltare la Banca Popolare di Bari. Era diventata negli anni la banca leader del Mezzogiorno, fagocitava le altre banche più piccole e cresceva cresceva. Fino a quando ha cominciato a dar segni di malgoverno e di malattia. Ma anche qui, come all’Ilva, come con la Xylella, il disastro è stato lento e inarrestato, si svolgeva davanti agli occhi impietriti del sistema Italia, dei governi e dei vigilanti. E ora 70mila azionisti e obbligazionisti, un popolo di risparmiatori, per metà pugliesi, vivono nell’angoscia e nel panico.
La terra, la fabbrica e la banca, ossia la risorsa agricola, industriale e finanziaria. La Puglia è stata colpita a ogni livello. Per sancire simbolicamente la crisi pugliese c’è pure il commissariamento della Gazzetta del Mezzogiorno, che è stata per lunghi decenni la voce della Puglia. E malconcia da anni è pure la Fiera del Levante di Bari. La Puglia di Araldo di Crollalanza, di Peppino Di Vittorio e poi di Aldo Moro, dista ormai anni luce. E dire che fino a poco tempo fa la Puglia era additata come l’esempio virtuoso del sud che riesce ad attirare turisti, film, risorse, stranieri.
Sdraiata sul versante orientale del Sud in una millenaria controra, esclusa dalla storia e dalla geografia, la Puglia è stata per secoli il Meridione minore, in sordina, rispetto a Napoli, alla Sicilia. La storia si svolgeva là, e pure la letteratura. Regione agricola e marinara, la Puglia, una lunga ringhiera che si affaccia ad oriente; terra periferica rispetto al regno del sud e pure al regno d’Italia. Si affacciò alla ribalta nazionale prima il Gargano per due opposte attrattive: Padre Pio a San Giovanni Rotondo e la costiera garganica scoperta dall’Eni di Enrico Mattei nei primi anni Sessanta. Ma restò defilata, minore.
Poi d’un tratto, col nuovo millennio, fu scoperto il suo mare, la sua campagna, i suoi frutti, le sue cittadine bianche, il romanico pugliese, i suoi trulli, il suo cibo, la sua ospitalità. Antesignani del sushi coi loro frutti di mare crudi, precursori della cucina povera – fave e cicoria, riso, patate e cozze, zanghette e panzerotti, pane e pomodoro – i pugliesi conquistarono la leadership del meridione, furono considerati i lombardo-veneti del Mezzogiorno, operosi, anzi fatigatori; concreti a Bari e signorili a Lecce, gli uni commercianti, gli altri agrari. Molti film e tanta fiction trovarono in Puglia la loro favolosa location, il dialetto salentino e barese sfondò, i comici pugliesi esplosero, perfino gli indiani vennero a sposarsi in Puglia, dove le feste nuziali durano più che in oriente.
Ma il male serpeggiava nell’aria, nella terra, in periferia, in città. S’insinuava in tutti i suoi gangli vitali. La Puglia riassume e concentra il malessere italiano, è la riproduzione in scala dell’Italia intera: non a caso è una penisola della penisola. Fu il laboratorio del suo rilancio, ora è la radiografia del suo declino.

    MARCELLO VENEZIANI  

                                                                                                                                            

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