venerdì 27 dicembre 2019

Conte, il personaggio dell’ano

Conte, il personaggio dell’ano

Giuseppe Conte è sicuramente il personaggio dell’ano nel 2019. Ci sono ragioni evidenti e occulte, dicibili e indicibili per proclamare il presidente del consiglio la figura più indicata a simboleggiare la fase anale della repubblica italiana nel corrente e morente anno 2019. Come disse Totò a chi gli chiedeva di mostrare il curriculum – qui davanti a tutti? – noi proviamo a mostrare il suo curriculum di governo (quello precedente – dagli Appennini all’Alpe – è avvolto in troppe nebbie per metterlo a nudo). A configurare il governo in carica, possiamo dire che il premier è l’esatto punto d’incontro tra la chiappa grillina e la chiappa pidina su cui è seduto il governo; e dunque la sua collocazione anale è anche anatomicamente fondata: in medio stat anus. Da qui la centralità di Conte, non solo strategica ma topografica. D’altronde a uno speciale pertugio anale di C. gli osservatori attribuiscono la sua fortuna di diventare premier senza alcun merito o elezione.
Facendo poi un’attenta analisi endoscopica della sua esperienza governativa, l’avvocato premier da una parte ha traghettato i grillini dal vaffanculismo al paraculismo e dall’altra ha liberato la sinistra da una stipsi politica prolungata, praticandole un clistere ministeriale che le ha consentito di esprimere tutto quel che aveva dentro. È nato così, con un parto anale, il governo fecaloma in carica, un gabinetto senza precedenti.
Col suo voltafaccia, il Conte Fregoli di Volturara Appula ha capovolto le alleanze da un giorno all’altro fino a guidare un governo contrario a quello precedente. Il suddetto personaggio dauno ha mostrato di essere double face, cioè di avere la faccia reversibile col fondoschiena, che viene detto in altro modo nel gergo popolare. Per lui, giurista anzi gius-trasformista, il diritto equivale al rovescio, e se ha messo la sua faccia per fare un governo con Salvini e i leghisti, con pari disinvoltura ha messo le sue terga per fare un governo con Renzi e la sinistra. Quando confessa che il suo cuore batte a sinistra, usa evidentemente una metafora romantica e cardiaca ma si ben comprende il senso della sua affermazione. Fuor di retorica sappiamo che Conte batte a sinistra.
Lo conferma il giudizio entusiasta di Zingaretti nei suoi confronti che lo ha elogiato a tal punto da far capire che la sinistra avrebbe bisogno di un leader come Conte, altro che l’attuale segretario del Pd… Ultimo tango a Palazzo Chigi.
Rispetto al premier e al suo Ano Mirabile, il suo iniziale mallevadore e pigmalione, lo statista-stagista Giggino Di Maio, appare ormai una figura di contorno, il che in termini anatomici e allegorici si traduce in un’affezione anale di tipo emorroidale. I grillini intorno all’orifizio presidenziale sono ormai ridotti a fistole e ragadi, piuttosto moleste. Il custode e regista delle sue operazioni anali resta il prode Rocco Casalino che si occupa d’incanalare in modo adeguato le sue relazioni esterne e di gestire il traffico. Resta Matteo Renzi a infilare nel governo presieduto da Conte portentose supposte in forma di ordigni esplosivi; ma Conte sa bene che il suo dicastero anacoluto dipende da Renzi, è nato da una sua seduta nella ritirata, da cui venne fuori l’editto riassunto in codice WC (W Conte). Sicché può ben dire con Ovidio: nec tecum nec sine te vivere possum (non posso vivere né con te né senza di te). Sono costretti ad essere, come suol dirsi, culo&camicia, ciascuno nel suo ruolo specifico (Renzi si mostra spesso in camicia).
A buon diritto si può sostenere che il gabinetto in questione rappresenti ai massimi livelli la merdocrazia imperante, in tutti i suoi effetti lassativi e olfattivi. Ed esprime lo sbocco inevitabile, il punto finale in cui si realizza l’evacuazione della politica con i suoi prodotti conseguenti. L’esiguo consenso che registra il governo in carica coincide con la tendenza alla coprofilia. Peraltro l’ormai proverbiale attaccamento gluteale alla poltrona tramite chiappe a ventosa, conferma l’esercizio anale del potere fin nella postura. L’azione del governo Conte non ha favorito un incremento del prodotto interno lordo semmai ha prodotto un grande escremento lordo, più coerente alla natura e alla missione del governo in carica. Il governo va giudicato solo a posteriore.
Anche nella comunicazione politica, nella sua capacità di dire senza dire nulla o di passare da una promessa all’altra, rimandata sempre a domani, il suddetto premier ha dimostrato un’indubbia capacità di prendere i cittadini per via anale, come si usa dire con un’espressione corrente più pittoresca. Sarebbe auspicabile che il popolo sovrano ricambi al più presto le sue attenzioni e lo prenda per il loculo, tumulando la sua esperienza di governo. Invece con i partner internazionali il premier mostra una grande attitudine all’uso improprio della padronanza linguistica, che va sotto il nome popolare di leccaculismo. I suoi detrattori sostengono che la pochette nel taschino sia carta igienica, usata all’occorrenza per espletare la sua attività.
Per tutte queste ragioni, Giuseppi Conte ha meritato il titolo di personaggio dell’ano. Si spera che col nuovo anno qualcuno tiri lo sciacquone per concludere adeguatamente la sua esperienza di governo, incanalandolo nel suo giusto percorso. Dalla rete web alla rete fognaria. Valga come epigrafe, lievemente modificata, il motto di Giulio Cesare: Veni, vidi, feci.

P.S. Chiedo perdono per il ritratto anale più che analitico. Ma era solo un divertissement, un innocuo gioco natalizio per festeggiare l’arrivo dell’ano nuovo. Semel in ano licet insanire.
MV, La Verità 24 dicembre 2019
 MARCELLO VENEZIANI         

                                                                                                                                          
MARCELLO VENEZIANI

domenica 22 dicembre 2019

DONNE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA


DONNE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA





LE DONNE ITALIANE NELLA RSI Sacrifici che sono dimenticati
Lidia Baldrati Antolini 
 
 
    Dedichiamo insieme un po' del nostro tempo e dei nostri pensieri alle donne italiane, che 75  anni fa sono passate attraverso una indimenticabile trasformazione della società in cui vivevano. 
    Le donne che accettavano i sacrifici della guerra, quelle che - loro malgrado - li subivano, ma soprattutto quelle che erano consapevoli e partecipi degli avvenimenti eccezionali di quei mesi. La RSI ha attirato molti giovani: ragazzi e ragazze hanno affollato le riaperte federazioni fasciste, confortando i pochi veterani che "per l'onore d'Italia" erano ancora disposti a battersi. Ma non delle giovani vorrei per ora parlare: è quasi un obbligo quando si hanno 18 anni essere pronti a tutto per un ideale; la giovinezza dovrebbe essere sinonimo di generosità e di ardimento. Fortunati noi che abbiamo sentito in gioventù il richiamo della Patria! 
    Penso piuttosto a quelle donne adulte che avevano responsabilità di famiglia, responsabilità aumentata da quando gli uomini erano partiti per la guerra. 
    Vogliamo ripensarle ora che anche noi abbiamo attraversato le varie età della vita e possiamo, nel quadro di quei tempi e di quelle vicende, esaminare il comportamento delle donne italiane. 
    Da tre anni esse convivevano con l'ansia per la sorte dei mariti, dei figli o fratelli lontani, reggevano da sole il peso dell'educazione dei figli e lottavano quotidianamente con le crescenti difficoltà degli approvvigionamenti. Come erano queste donne degli anni Quaranta? La faziosa propaganda del dopoguerra ha insistito su una arretratezza della condizione femminile voluta dal regime. Certamente la donna, allora, era meno autonoma, ma non perché lo volesse il governo dell’epoca, era così il costume dei tempi; le donne erano in gran parte casalinghe, c'era una più marcata suddivisione dei compiti, delle responsabilità e delle professioni. I costumi si evolvono gradualmente e così è avvenuto da noi come probabilmente ovunque. 
    Piuttosto ricordiamo che, durante il Ventennio fascista, erano sorte organizzazioni di partito e dopolavoristiche cui partecipavano entrambi i sessi. Ma soprattutto quello che ha determinato sicuramente un diffuso affrancamento femminile è stato il rigore con cui veniva fatto rispettare l'obbligo scolastico in questo modo l'istruzione, che è la base di una corretta emancipazione, era diventata patrimonio comune a tutte le donne al di sotto di una certa età. Ricordiamo poi l'istituzione dell'Opera Maternità e Infanzia che aiutava, consigliava, proteggeva la donna nel momento più delicato e difficile della sua vita. Le donne italiane non erano insensibili a questi provvedimenti, tanto che nel 1935 rinunciarono al loro oro per aiutare la Patria nell'impresa etiope. 
    Ma dopo tre anni di guerra non possiamo meravigliarci che nella popolazione si trovasse un sentimento di stanchezza, un desiderio di pace, quella pace che avrebbe fatto tornare i soldati, ricomponendo le famiglie. 
    Nell'estate 1943, quando la guerra era nel suo momento più drammatico, con il territorio nazionale invaso e un cambiamento alla guida del governo che aveva portato incertezza e confusione, gli angloamericani avevano intensificato i bombardamenti sulle città, facendo molte vittime fra donne, vecchi e bambini e distruggendo la casa di molte famiglie, costrette a trovare rifugio presso estranei, in paesi lontani. 
    Credo che la perdita della casa per una donna sia un dolore paragonabile a quello della morte di un congiunto; per l'uomo la casa può essere solo un appoggio funzionale, ma per la donna è sempre essenziale: è il risultato delle sue scelte, della sua inventiva; modesta o ricca, è l'insostituibile guscio della sua vita. 
    Lo sfollamento comportava faticosi viaggi in treni stracolmi, lunghi tratti di cammino, orari incerti, mezzi malsicuri. E sempre la minaccia di bombardamenti e mitragliamenti. Per noi ragazzi viaggiare sui carri merci poteva essere divertente, ma per una persona di mezza età doveva essere veramente penoso. Dopo il tradimento dell'8 settembre e lo sbandamento dell'esercito regio, la vita riprendeva con difficoltà acuite nel nuovo stato repubblicano. 
    Le notizie dei congiunti lontani erano ancora più incerte e gli approvvigionamenti delle città sempre più problematici. Noi tutti, penso, ci siamo vantati coi nostri figli delle limitazioni di cui abbiamo sofferto; ma chi stava in prima linea in questa battaglia quotidiana erano le nostre mamme, che dovevano mettere in tavola i pasti con le poche briciole che passava il razionamento. Con la mia esperienza successiva di madre mi sono domandata spesso come riuscissero. Ricordo l'avvilimento nel dover sottostare al ricatto degli speculatori della borsa nera, non solo la rabbia per la sempre crescente esosità, ma anche la convinzione che l'opera di imboscamento delle risorse alimentari in questo commercio clandestino contribuisse a minare il morale degli italiani ed alimentasse il disfattismo e le diserzioni del proprio dovere. 
    Chi ha passato quei mesi lontano dalla propria casa, in caserme fredde o in accantonamenti esposti al nemico, con turni di guardia, marce estenuanti, col pericolo sempre incombente di una imboscata, chi ha visto cadere il comandante o il camerata, penserà che i nostri disagi erano ben poca cosa rispetto alle proprie vicissitudini, ma credete, le donne di cui sto parlando, nelle loro difficoltà vedevano la rappresentazione di quelle che i loro figli, mariti o fratelli stavano sopportando, e soffrivano per questo più che per se stesse. 
    La tragedia della guerra civile aveva portato l'insidia anche sul territorio nazionale; il nemico non era più oltre una frontiera, ma sulle montagne a ridosso dei centri abitati, pronto a colpire. Questo nuovo aspetto della guerra non ha risparmiato i civili; in gran numero sono state assassinate le aderenti al PFR, le sorelle e le madri dei volontari, le insegnanti, colpevoli di aver inculcato l'amor di Patria, le dipendenti degli uffici pubblici che apparivano come rappresentanti dello Stato, in genere obiettivi molto facili da colpire, persone che non si cautelavano e non si difendevano. 
    Ho contato nei nostri elenchi, nelle provincie del Centro e Nord Italia, 1153 nominativi femminili ed oltre 700 ignoti. Sono notizie incomplete, molto al di sotto della realtà: mentre per i caduti delle formazioni militari i superstiti hanno conservato il ricordo ed aiutato le ricerche, per i civili spesso non è rimasta traccia o per lo sterminio di intere famiglie o perché i parenti, per paura o per opposta idea, hanno nascosto le informazioni. La guerra civile penetrava spietata nelle comunità di ogni livello; le diverse tendenze spesso si manifestavano anche in seno alla stessa famiglia. Pensiamo alla tragedia di una madre che vede i figli schierati in opposte fazioni, apertamente nemici. Come deve essersi sentita, dovendo ammettere che se uno era un idealista l'altro era un traditore? Una donna le proprie certezze le trovava e le coltivava nell'ambito della famiglia; scarsi i giornali, non molto diffusa la radio, le idee si formavano e si condividevano nell'esperienza comune. Ora l'unità familiare era spaccata, ma il cuore della donna sanguinava per entrambi i figli. 
    Molte si sono trovate in questa tragica situazione; citerò come esempio un nome noto: Edda Ciano Mussolini. Io non ho conosciuto nè frequentato le donne schierate con la fazione partigiana; qualche anno fa ho saputo che era morta la vecchia madre di un noto comandante partigiano che aveva dato veramente del filo da torcere alle formazioni della RSI. Mi sono chiesta cosa avrà pensato quella madre, in tutti questi anni, constatando che al nome del figlio non era stata intitolata nessuna via o piazza o scuola, come per altri partigiani di minor importanza. I suoi compagni l'avevano ucciso nell'estate del '45, il capitano Neri aveva avuto la dabbenaggine di volersi opporre alla spartizione del tesoro rapinato a Dongo. Si è meritato perciò, oltre alla morte, la dimenticanza. Ma non basta il dolore e l'amarezza di questa madre per compensare il mare di dolore che ha sommerso le madri d'Italia che, dopo aver perso un congiunto volontario della RSI, l'hanno sentito condannare, vilipendere, accusare di tutti i mali della Patria. 
    Le donne d'Italia però non hanno trovato soltanto sofferenza e lacrime in quella breve stagione di guerra. Nonostante tutte le avversità, molte conservavano, se non la speranza della vittoria, la convinzione che la Patria meritasse ogni sacrificio, senz'altra contropartita che l'orgoglio di compiere il proprio dovere. 
    Per queste donne la grande occasione è venuta nella primavera del '44, quando il governo della RSI ha aperto la coscrizione di volontarie in una formazione militare denominata “Servizio Ausiliario Femminile". Molte furono le donne, giovani e meno giovani che accolsero la chiamata e partirono per questa esperienza entusiasmante. 
    Nel dopoguerra si è volutamente taciuto di questa realtà, che smentiva la già citata immagine della mentalità fascista come antiquata e che negava al sesso femminile dignità e senso di responsabilità.
    Qualche accenno è stato fatto descrivendo il Servizio Ausiliario Femminile come una manovra di propaganda che cercava effetti spettacolari, contando su un fanatismo scriteriato ed isterico.
    Nulla di più falso. Non c'era niente di spettacolare nello spirito e nel contegno di queste volontarie: si sottomisero all'addestramento, accettarono la disciplina, si sobbarcarono trasferimenti e compiti pesanti senza discutere. Non erano guerrigliere col mitra ed uniformi di fantasia. Indossavano con orgoglio il loro bel grigioverde contraddistinto dai gladi e da un sobrio fregio rosso sul basco; erano consapevoli di rappresentare una provocazione sferzante per la numerosa popolazione degli attendisti e degli imboscati. Il loro contegno era sempre controllato e sereno, non ignoravano di essere guardate con occhio critico e ostile e che ogni loro mancanza avrebbe screditato l'organizzazione. Dalla primavera del '44 a quella del '45 fu un continuo fiorire di arruolamenti; le italiane gremivano i corsi di addestramento che le trasformavano in disciplinati soldatini.
    Erano contestate da molti, perbenisti e pavidi, che non sopportavano di confrontare la loro pochezza con il coraggio di queste donne.
    Talune vennero accolte con qualche  diffidenza anche dai camerati, ma non se ne lasciarono intimidire; accettarono incarichi modesti di scritturali, infermiere, magazziniere, interpreti, felici di sostituire lo scarso personale maschile tenendolo disponibile per compiti  più idonei. Non erano per questo risparmiate dagli attacchi del nemico che colpiva di preferenza i bersagli meno difesi. I partigiani sapevano bene che ogni ausiliaria era una volontaria determinata e convinta e che era inutile tentarla alla diserzione, come talvolta poteva accadere coi militari di leva. Anch'esse diedero un ricco contributo di sangue generoso: conosciamo i nominativi di 194 ausiliarie uccise ed altre 14 non sono state identificate. Se considerate che non sono le perdite di una battaglia ma che sono state assassinate ad una ad una, troverete agghiacciante questo dato. Fu il primo esperimento di donne soldato in Italia e resterà unico per le circostanze straordinarie in cui si è svolto, per il rischio che comportava, per il significato di riscossa che rivestiva.
    Un pensiero infine alla nostra lontana, indimenticabile giovinezza. Quando il Fascismo si è affermato in Italia, lo Stato esisteva da pochi decenni; era come se uscisse da una prima adolescenza travagliata da inquietudini e contrasti. 
    Il Ventennio che seguì ebbe i caratteri di una giovinezza con grandi entusiasmi, grandi sogni, inevitabili intemperanze, ma anche fervido di importanti intuizioni, di realizzazioni felici. 
 Per 20 anni gli italiani hanno pensato in grande! Così, come la viveva la Nazione, anche noi vivevamo la nostra giovinezza. Aver avuto 18 anni quando li aveva anche la nostra Patria è stato un privilegio raro, che ci ha coinvolto e ci ha segnato per tutta la vita.
 
                                                                                                                                    

lunedì 16 dicembre 2019

Quante vie partirono da piazza Fontana…

Quante vie partirono da piazza Fontana…

piazza fontana strage
Ma cosa è stata, cosa ha rappresentato la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre ‘69 nella storia e nella vita italiana? Sta lì al centro di un’epoca come cerniera incandescente tra i briosi anni Sessanta e i furiosi anni Settanta, come l’Evento Oscuro per antonomasia, un enorme mistero insoluto che non riusciamo ancora a chiudere definitivamente. Facile liquidarla come una strage fascista, ma poi resta incomprensibile il mistero che la circonda, che la originò e che ha circondato i suoi veri e presunti protagonisti. Ne abbiamo scritto nello speciale di Panorama storia dedicato a Una strage italiana.
Un mistero che si fa ancora più fitto se si considera quella strage come la prima di una lunga, insensata e feroce catena di stragi a Brescia, a Firenze, a Bologna. Se la strage di Milano, a tre settimane dall’assassinio del poliziotto Antonio Annarumma, poteva avere avuto come scopo suscitare una controrivoluzione preventiva contro il caos, l’eversione, l’anarchia, a cui si attribuì in un primo tempo l’eccidio, le stragi seguenti come quella di Brescia o dell’Italicus o della stazione di Bologna a cosa servirono se non a spaventare l’Italia e criminalizzare l’estrema destra? Non si faceva in tempo a dare la notizia e prima di ogni indizio i tg e i giornali già la bollavano come “strage di chiara marca fascista”. Che scopo potevano avere i terroristi di destra a suscitare questa ondata di odio, repressioni e carcere contro se stessi? Il terrorismo nero è una pagina oscura della nostra storia, non si comprendono i confini, le finalità, i collegamenti.
A dover spiegare quelle stragi alla luce del cui prodest, sappiamo per certo che non giovarono all’estrema destra, e tantomeno alla destra politica e parlamentare che nel nome delle “trame nere” si trovò criminalizzata, ricacciata in un ghetto ed esclusa. Agli inizi degli anni Settanta il Msi aveva raccolto un grande successo politico, di piazza e di voti. E le stragi furono la principale arma usata contro il partito di Almirante e l’area di destra per isolarli e demonizzarli per un disegno eversivo di cui erano palesi vittime.
Quelle stragi servirono a riaccendere in Italia la mobilitazione antifascista e a reinserire il partito comunista nel gioco politico attraverso la ripresa del Cln nell’arco costituzionale. E servirono a far nascere nel paese la paura degli estremismi e la necessità di governi consociativi. Meglio un’infame sicurezza che il fanatismo dei terroristi.
In quelle stragi si trovarono invischiati, accusati e scagionati, personaggi di estrema destra, oscillanti tra nazifascismo, anarchia e servizi segreti. Ogni atto terroristico di matrice nera si convertiva in una retata negli stessi ambienti dell’estrema destra. Se c’era un disegno dietro le stragi quel disegno era semmai concepito contro di loro, o comunque passava sopra le loro teste; i neri che vi parteciparono furono piuttosto manovrati, usati e poi gettati dopo l’uso.
Qui subentra il Mistero Profondo della storia italiana: che ruolo ebbero i servizi deviati, gli apparati statali in queste operazioni? Col tempo si parlò anche di matrici straniere, servizi americani, sovietici e medio-orientali; nelle ultime stragi emerse il ruolo della mafia che adottava strategie di diversione. Ma il nodo centrale resta lì e bisogna nuovamente pronunciare la domanda fatidica: furono allora stragi di Stato o comunque di settori dello Stato che rispondevano a grandi registi politici, anche collusi con la criminalità? Gira e rigira non riusciamo a trovare spiegazioni alternative.
Più lineare è stato il terrorismo di matrice comunista, dalle Brigate rosse a Prima linea e agli altri gruppi terroristici di ultrasinistra. Si colpivano obbiettivi mirati, simboli e personaggi-chiave del sistema o giovani militanti di destra. Le Br cercarono pure di far saltare il compromesso storico tra Pci e potere democristiano-capitalistico-atlantico. A lungo negato nella sua matrice comunista, quel terrorismo ha goduto di complicità e omertà assai estese.
Giorni fa è morto il magistrato genovese Mario Sossi che fu sequestrato dalle Brigate rosse nel ’74. Tra le sue indagini imperdonabili, Sossi si era occupato di un personaggio chiave, l’avvocato Lazagna, ex-partigiano ritenuto un ponte non solo simbolico tra la vecchia e la nuova Resistenza. A tale proposito nello stesso ’74 accadde un episodio ad un altro magistrato, Gian Carlo Caselli, che lo raccontò sulla rivista MicroMega: “In quel periodo, ai tempi delle Brigate rosse, non si poteva pensare diversamente che subito si era accusati di essere fascisti. I primi tempi delle inchieste sulle Br io ero trattato da fascista. Di fatto, sono stato espulso da Magistratura democratica – vogliamo dirle queste cose una buona volta? – perché facendo il mio dovere, ho osato portare a giudizio l’avvocato Lazagna (un partigiano doc che assisteva a tutti i convegni di Md”. Caselli aveva emesso su richiesta del pm Caccia, “un mandato di cattura contro Lazagna per collusione con le Br, in base a fatti riscontrati” e perciò, diceva il magistrato torinese “sono stato di fatto “condannato” ed espulso da Magistratura democratica”. Strana storia…
Ma tornando a Piazza Fontana, fu un evento-chiave non solo perché fu l’inizio delle stragi oscure, ma anche perché da lì originò la vicenda Pinelli-Calabresi, la condanna a morte del Commissario da parte di Lotta continua, preceduta da quelle famose ottocento firme contro Calabresi che restano una vergogna della storia civile e intellettuale d’Italia.
Insomma, troppo facile sbrigare Piazza Fontana con la pista fascista e la storia che ne segue come lo svolgimento di una trama nera: quella strage aprì una stagione infame, che fu rossa, nera e oscura, soprattutto oscura.

MV, La Verità 12 dicembre 2019 Marcello Veneziani

                                                                                                                                            

mercoledì 11 dicembre 2019

LA PRIMA REPUBBLICA SOCIALE DELLA STORIA



 
LA PRIMA REPUBBLICA SOCIALE DELLA STORIA
 
 
    Nel quadro dei suoi compiti statutari, la FNCRSI ripropone alla riflessione degli aderenti e simpatizzanti la sentenza n.747 emessa dal Tribunale Supremo Militare in data 26 aprile 1954, unitamente al competente commento del guardasigilli della RSI. In tal modo, questa Federazione intende contribuire ad una più profonda comprensione dell’essere oggi, alle soglie del XXI secolo, Combattenti della RSI, nel senso che nel presente si condensa e rivive il loro passato e germoglia il futuro dei loro Ideali. Nel buio del pensiero politico contemporaneo, i Combattenti della RSI hanno il compito di continuare nella difesa e nell’affermazione del fascismo repubblicano e sociale, onde esso possa liberamente venir apprezzato, condiviso e convissuto domani, nonché nell’opporsi alla "svolta antropologica" che la cieca avidità plutocratica va attuando per soffocare la dignità dell’uomo, esaltandone soltanto gli istinti animaleschi. Questo e non altro è il nostro orizzonte d’azione. Questa è la consegna affidataci dai nostri Caduti. Ricordiamoli!
    Ricordiamo i loro volti ora gravi e pensosi, ora scanzonati e sorridenti e la loro spontanea dedizione per una patria più civile e più giusta per tutti, avversari compresi, e non quella di umiliarci nella sterile ricerca di voti in favore di uomini e partiti comunque aggiogati ad interessi opposti a quelli del popolo italiano.
    Detto ciò, coloro i quali, pur essendo stati valenti combattenti della RSI, assumano oggi atteggiamenti che li pongono fuori e contro quell’orizzonte, non ci appartengono più, perché non rispettano la memoria dei Caduti, negano la dignità dei vivi e non lasciano un retaggio di serietà e di fierezza alle generazioni a venire.
    Pertanto, l’autoproclamarsi vinti nei confronti di soggetti non belligeranti, i quali hanno ridotto la Nazione così come la vediamo e viviamo, è semplicemente blasfemo. L’aderire (ma anche il solo non levarsi contro) una pacificazione che pretende avvilirci nel ruolo di sostenitori volontari della parte sbagliata e persino quali scortatori di convogli di ebrei diretti ai lager (L. Violante), costituisce atto di mera perversione masochistica. Ove siffatti comportamenti, assunti ora soltanto da pochi sprovveduti, si estendessero ai più, si configurerebbe l’ultima nostra mortificazione, poiché, se si considera che l’età media dei Combattenti della RSI si aggira sui tre quarti di secolo, quell’ultimo mortem facere non è precisamente un eufemismo. Taluni, peraltro, hanno smarrito la consapevolezza del fatto che il comunismo non è crollato nel 1989, bensì nell’atto stesso dell’alleanza di Stalin con il capitalismo internazionale. Infatti, mentre noi difendevamo la prima repubblica sociale della Storia, Togliatti adempiva l’incarico di guardasigilli dei Savoia e, tutt’ora, i suoi continuatori perseverano nella squallida opera di subalterni fiancheggiatori degli oppressori e affamatori di popoli inermi.
    Noi dunque rappresentiamo la Rivoluzione, mentre l’antifascismo incarna la conservazione di anacronistici privilegi e l’egoismo dei ricchi e dei potenti; conservazione che, in quanto portatori di un Nuovo Ordine spirituale e umano, ci è istintivamente estranea, ideologicamente nemica e repellente sotto il profilo politico-sociale.
    La storia, i cui verdetti non sono inappellabili, ha registrato la nostra sconfitta. Ciò nulla toglie al fatto incontestabile che noi innalzammo al cospetto del mondo il vessillo di una più umana giustizia internazionale e quello della partecipazione di tutti i popoli ai beni della Terra, e che lo difendemmo con estrema determinazione.
    È opportuno riflettere, altresì, sulle seguenti circostanze. 
    Fermamente affermando di fronte a nemici e alleati le proprie intenzionalità volte alla radicale trasformazione dell’assetto sociale ed economico nazionale e internazionale, la RSI realizzò uno Stato legittimo e riconosciuto da una pluralità di Nazioni; Stato che non si è arreso perché, pur avendone la possibilità e il diritto, non ha mai chiesto la resa. Questo importantissimo fatto può avere anche oggi significative conseguenze etiche e giuridiche.
    Preso atto del tradimento dei tedeschi, Mussolini - in quanto Capo della RSI - non chiese la resa perché, fino alla sua soppressione fisica, sperò sempre di consegnare la RSI con la sua legislazione sociale e con il suo tesoro ai socialisti italiani.
Se gli esponenti del socialismo, asserviti al capitalismo anglo-americano, rifiutarono l’offerta a lungo preparata, anche attraverso la protezione diretta e indiretta attuata da Mussolini stesso su molti di loro per tutta la durata del conflitto, non fu accolta, non è certamente colpa nostra. Per contro, quasi l’intero governo della RSI fu massacrato sulle rive del lago di Como.
    Il Maresciallo Graziani, già prigioniero, il primo maggio ‘45, proclamò la resa limitatamente all’Armata Liguria (3 divisioni italiane e 3 tedesche). Altri reparti deposero le armi nelle mani delle nuove autorità, ma, nell’attesa di essere consegnati agli alleati, vennero massacrati dai partigiani, scesi dai monti a cose fatte. Ai primi di maggio 1945, v’erano ancora molte nostre formazioni in armi che, in atteggiamento difensivo, attendevano l’ordine di resa; arresesi successivamente, pochi dei loro componenti si salvarono dagli eccidi. È doveroso ricordare che l’Ispettorato Alta Italia della FNCRSI, sotto la guida del Comandante R. Barbesino provvide, tra mille difficoltà, al recupero di numerosissime salme di nostri Caduti, un gran numero delle quali tuttavia fu fatto passare dalle autorità locali come appartenenti a partigiani.
    Nè gli scampati si comportarono mai come sconvolti e resi imbelli dai colpi ricevuti. All’opposto, solo dopo qualche anno, arditamente e con notevole successo nelle piazze e nelle università, contestarono ai preti e ai comunisti il diritto di governare l’Italia. Non a caso fu subito varata la legge Scelba e celebrati i primi processi per apologia del fascismo e per la ricostituzione del partito fascista.
    Lo sciagurato passaggio del MSI nell’area della destra atlantica, confindustriale e golpista, che riduceva il fascismo a puro e semplice anticomunismo, segnò la frattura fra quel partito e i Combattenti della RSI. Più volte la FNCRSI ha pubblicato l’ultima dichiarazione del P.F.R. del 5 aprile 1945, che reca orientamenti essenziali e avverte, fra l’altro, che: "Sono da avversare decisamente tanto gli sbandamenti verso il collettivismo bolscevico quanto i tentativi plutocratici di sopravvivenza attraverso il compromesso". Ma già il Duce aveva inequivocabilmente definito i nuovi provvedimenti assunti dalla RSI in campo sociale come "la realizzazione italiana, umana, nostra, effettiva del socialismo nostro". Essa, inoltre, ha dimostrato che il nostro nemico reale (ben altra cosa è il principio barbarico di nemico assoluto da criminalizzare e annientare assunto dalle nazioni demobolsceviche il quale, risospingendo l’umanità alle sue origini belluine, è estraneo alla nostra spirituale e religiosa visione del mondo e dell’uomo), era ed è l’antifascismo nella sua funzione di coacervo di forze conservatrici sottomesse ai detentori delle ricchezze del mondo.
    Fermo restando che, per noi, l’8 settembre 1943 rappresenta anche lo spartiacque fra i discendenti degli antichi schiavi e la progenie dei legionari romani, dobbiamo domandarci qual è l’importanza storica e morale di questi fatti in relazione alla sentenza del TSM, e quali sono le implicazioni che sorgono dalla circostanza che la RSI non si arrese. Le conseguenze giuridico-politiche che possono trarsi dalla sentenza sono molteplici. Le più importanti per noi sono quelle di conservare un legame ideale con quello Stato repubblicano-sociale che, pur travolto nei suoi Istituti e nei suoi uomini, è ancora vivo nell’animo di quanti contribuirono a fondarlo e a difenderlo, e nel non poter e non voler essere equiparati ai partigiani del nemico invasore. Poiché la nostra sconfitta fu dovuta alle armate anglo-americane e non ai loro cooperatori italiani non belligeranti (cf. F. di O. N.2/98, promemoria di accordo fra il comando alleato e il CLNAI).
    In realtà, la sentenza non ci fa alcun regalo; tuttavia, con esemplare coerenza giuridica, riconosce la nostra specifica qualità di belligeranti, in quanto appartenenti alle Forze armate di uno Stato che "emanava le sue leggi e suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco", e disconosce tale qualità ai partigiani, perché operarono al di fuori delle leggi militari internazionali di guerra. Riconosce altresì che il governo monarchico del sud esercitava il suo potere sub conditione del comando alleato. Condizione di sovranità limitata che perdura per la supina acquiscenza dell’attuale Stato italiano, malauguratamente deciso a restare in aeternum nella servile posizione di ex nemico vinto, sebbene assurdamente alleato dell’ex nemico vincitore.
    Manca attualmente un terreno di reciproca intesa fra i Combattenti della RSI. Ad avviso di questa Federazione, un nuovo e più saldo accordo potrà concretizzarsi soltanto nella serena coscienza di essere stati - nella stragrande maggioranza - non soltanto dei militari in servizio di uno Stato qualsiasi, bensì dei Combattenti perfettamente consapevoli di battersi per una ben definita visione del mondo, e non dei rivoltosi faziosi e vendicativi tesi ad una rivincita per mezzo di complotti e di colpi di stato.
    Infine, la FNCRSI esorta tutti i Combattenti della RSI (a qualsivoglia organizzazione o associazione d’arma essi appartengano) a soppesare la saggia proposta - ancorché formulata in un contesto analogo - offerta da un democratico sincero: "I sospetti di mutua usurpazione devono cedere il posto ad invocazione di reciproca complementarietà. Ognuno deve operare in presenza degli altri; ciascuno per ricevere e per dare correzione, verifica, promozione a tutti gli altri" (cf. Sartori L. Le scienze delle religioni oggi Ed. EDB, Bologna 1983).
    Nella libera e responsabile espressione delle idee (nostre e altrui) e nel comune sentire il portato politico, etico e sociale della Dottrina - ma senza sincretismi che ne svilirebbero l’originaria unicità - risiede il nostro destino politico e la nostra dignità di uomini e di Combattenti per una causa nobile e giusta.
 
F.N.C.R.S.I.

giovedì 5 dicembre 2019

Bergoglio: il Papa Massone

Bergoglio: il Papa Massone

Da
Marisa Denaro

Quando il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio viene eletto Papa, diversi esponenti della Massoneria mondiale, esprimono la loro gioia per la sua elezione. Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, pronunciò parole positive e disse “Con Papa Francesco nulla sarà più come prima”; l’Alta Massoneria Ebraica dei B’nai B’rith si dice sicura di un dialogo interreligioso e addirittura il direttore degli affari interreligiosi, David Michaels, partecipò alla cerimonia di investitura di Papa Francesco avvenuta il 19 marzo 2013; il Gran Maestro della Massoneria Argentina Angel Jorge Clavero, rese omaggio al nuovo pontefice salutandolo calorosamente.
Forse pochi sanno che, Jorge Bergoglio è membro onorario dal 1999, del Rotary Club della Città di Buenos Aires. E’ presente in una lettera datata 26 luglio 1999, a firma del cardinale Bergoglio, indirizzata a Juan Carlos Becciu’, presidente del Rotary Club di Buenos Aires, con la quale l’attuale pontefice ringrazia per essere divenuto “Membro onorario di questa prestigiosa istituzione”. http://www.rotary2071.org/content.php?p=notiziario&arg=5&aid=9
I legami del Rotary club con la massoneria, sono di pubblico dominio. Forse non sapeva l’allora cardinale Bergoglio di questo legame? Il Rotary Club viene visto come il seminario dei massoni dove gli “adepti” svolgono le loro iniziative caritatevoli. Come tutti sanno Papa Bergoglio è un gesuita. L’attuale Papa Nero, così si chiama il capo dei Gesuiti, è Arturo Sosa Abascal e, come il suo predecessore Adolfo Nicolas, controlla tutto il sistema bancario, la massoneria ed i servizi segreti (CIA, FBI, Scotland Yard, Moussad); controlla il Vaticano che possiede il 60% di tutte le terre di Israele e la Terra del Monte del Tempio di Salomone.
I Gesuiti hanno avuto una enorme influenza sia sulla Massoneria che sugli Illuminati per poter realizzare il Nuovo ordine Mondiale. Il Papa Nero controlla le decisioni più importanti assunte dal Ponteficie il quale, a sua volta, controlla gli Illuminati.
I legami tra i Gesuiti e la Massoneria, vengono cofnermati da Giuliano di Bernardo, ex Gran Maestro del GOI, che alla domanda del giornalista Ferruccio Pinotti se esistono veramente delle contiguità o delle concordanze tra Gesuiti e massoneria ha risposto così: Le concordanze ci sono sempre, al vertice. A certi livelli ci sono sempre state, segretamente”. Quando si parla di questo filo segreto, si parla di un dialogo sottile, profondo, che esiste tra persone di qualità. Sono queste convergenze a evitare – in caso di crisi o conflitti – i danni maggiori, le situazioni irreparabili. E’ chiaro che, alla base della piramide, troviamo il prete e il massone che si comportano come don Camillo e Peppone. Ma i vertici, poichè sono vertici illuminati, si toccano sempre (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 23).
Nulla di strano quindi, se il pontificato di Papa Bergoglio è costellato da simboli massonici o associato a massoni. In primo luogo l’anello del pescatore, cioè l’anello del Papa. E’ un’opera dell’artista scultore Enrico Manfrini, noto anche come lo scultore dei Papi. L’opera era stata consegnata da Manfrini a Monsignor Macchi. Entrambi compaiono nella lista del giornalista Carmine “Mino” Pecorelli, insieme ad un numeroso elenco di prelati massoni. Ogni Papa ha uno stemma papale e su quello di Bergoglio, sono presenti simboli massonici. In precedenza era apposta la stella a cinque punte, pentalfa o pentagramma massonico, è uno dei simboli massonici più importanti, adesso è presente la stella ad otto punte altro simbolo massonico.
Questa stella a otto punte è un simbolo esoterico-occulto che viene usato anche nella Massoneria, e per i Massoni rappresenta Satana, che per loro è il portatore di Luce, detto anche Venere, nel suo aspetto di stella del mattino che, al mattino, risveglia i dormienti e incita alla rivolta contro i dogmi del Cristianesimo. Il fondo azzurro del suo stemma rappresenta il colore dei primi gradi dell’obbedienza Massonica. Papa Bergoglio, pubblicamente, più volte ha osteggiato la massoneria ma non si capisce come mai, la massoneria manifesti entusiasmo nei confronti di Papa Bergoglio.
E’ simile a certi politici che in pubblico si dichiarano anti mafia e poi in privato sono mafiosi e fanno affari con essa. Il capo della Chiesa Cattolica e Capo di Stato Vaticano porta con sè tante ombre dettate dal suo ordine religioso, dall’essere membro del Rotary Club e dalla presenza di simboli massonici nel suo pontificato. Per la serie, nemmeno il Papa si salva!

                                                                                                                                          

venerdì 29 novembre 2019

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA



Francesco Fatica
 
 
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1° guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria. La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano, sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia, inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni, ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori. Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati", era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte, si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno, nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso, più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale, e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica, cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati, ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati. Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli, molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente, anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi", questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava, ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza, che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.
Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti, si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF, con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive", nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio", che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni, allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari; lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase: «La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati, non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati, quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista? Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero; i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono: isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco, per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine", ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna. Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre personalità che potevano, conversando "liberamente", magari un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche, che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie, che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti, che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi, ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario, sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava. Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario, ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano; i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare, con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale, che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi, pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI, per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale, ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica. Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono, secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive, pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!», urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la "dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino, che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata. Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega, non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio, sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa. Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca, ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep, che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate, ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista (che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì; il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese, avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi, lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben più aggressive.
Francesco Fatica Elena aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile, o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto, per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì, la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente, del dopo.
Le regioni dell’Italia occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca, sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato" ancora.
Dunque era necessario preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati" usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio: Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere, ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi, ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in campo di concentramento per la durata della guerra".
 
                                                                                                                                           

                                                                                                                                              

domenica 24 novembre 2019

Azione Frontale

Azione Frontale

"Premesso che l'immigrazione a livello sociale, sta creando numerosi problemi alla collettività, degrado, insicurezza, abbassamento costo del lavoro, ingiustizie sociali drammi a cui noi cittadini Italiani siamo costretti a vivere quotidianamente, vediamo gli immigrati in hotel oppure a bivaccare nelle piazze di ogni città, al contrario noi tra tasse e precarietàfacciamo fatica ad arrivare alla fine del mese.
Questi giorni a seguito dello sgombero del palazzo di Via Curtatone abbiamo avuto modo di confrontarci con le persone, leggere post e sentire grida di odio da parte di politici e dei partiti nei confronti degli stranieri. I traditori della nostra Patria, in questo modo, spostano l'attenzione dai reali responsabili dei problemi del nostro paese!
Ad aver buttato in mezzo a una strada, lavoratori Italiani a 50 anni, non è stato uno zingaro e nemmeno un africano. E’ stato colui che tutto muove il "massone" Carlo De Benedetti. A fare degli italiani un peso morto per la nostra società, è stata l'indegna signora Fornero.
A fingere di difendere i lavoratori, ma nel frattempo si facevano i cazzi loro, non sono stati gli extracomunitari, ma i nostri sindacati servi del sistema.
A prendere per il culo il popolo italiano dicendo una cosa e facendo l’opposto, è stato il "buffone" Renzi, non i rumeni.
A stravolgere il nostro paese facendolo diventare il paese dei balocchi anziché imporne il rispetto, è il parlamento illegittimo italiano, non quello tunisino.
A distruggere sanità e istruzione, sono stati i governi italiani dal dopoguerra ad oggi, non i rom.
A svendere i nostri settori strategici alle multinazionali straniere sono stati i politicanti degli ultimi 70 anni del nostro paese, non quelli del Congo.
A vessare con metodi medioevali chiunque provi a sopravvivere con il poco che riesce a racimolare, sono i funzionari italiani, non libici.
A vendere o delocalizzare verso altre nazioni tutte le principali aziende italiane, non sono stati i marocchini, ma gli imprenditori italiani, Marchionne, Tronchetti Provera e quelli come loro.
A spingere al suicidio centinaia di poveri italiani disperati, sono stati i governanti italiani, non i profughi.
A sfruttare ogni disgrazia per guadagnarci milioni per ridistribuire briciole, sono le grandi cooperative italiane, non quelle serbe.
I banchieri internazionali che ci rendono schiavi non sono ne Africani e ne indiani.
Mafia Camorra e Ndrangheta sono associazioni criminali Italiane non dell’est Europa che fanno il buono e il cattivo tempo nel nostro paese dalla caduta del regime Fascista
La Boldrini è Italiana non Egiziana ed è asservita ai poteri forti per la distruzione del nostro paese con leggi e prese di posizione assurde, vediamo se ha il coraggio di andare a guardare in faccia e scusarsi per quello che la sua politica ha creato alla giovane coppia Polacca aggredita dalle sue risorse.
L'immigrato è solo l'ultimo anello di una catena ormai marcia, che solo noi Fascisti possiamo spezzare, non facciamoci fregare!
L'odio teniamolo per chi ha rovinato questo paese e la nostra storia, non verso chi usa le leggi di questo imbarazzante stato, prendiamocela con chi le fa!
Gli immigrati una volta cacciata la nostra classe politica, vanno riportati nei loro paesi di origine ed aiutati li aiutarli con investimenti mirati (non come si è fatto finora che si è andati nei paesi del terzo mondo solo per sfruttarli), in questo modo nessuno avrebbe più la necessità di venire a trovare fortuna nel nostro paese, ma sopratutto leggi certe che chiunque sbagli in Italia (Italiani compresi) paghi pesantemente!
Cacciamo i traditori, basta lotte tra poveri, riprendiamoci la nostra amata Italia, in ogni Patria che si rispetti è il popolo ad essere sovrano, in Italia, purtroppo , in questo momento a farla da padrone ci sono i politici corrotti e senza scrupoli asserviti ai poteri forti che vogliono solo schiavi per il giochino del produci e consuma che quotidianamente siamo costretti a vivere, riprendiamoci la nostra vita riprendiamoci la nostra LIBERTÀ!”
#ErnestoMoroni
Presidente #AzioneFrontale

lunedì 18 novembre 2019

L’assassino Sandro Pertini . Benito Mussolini lo salvò….

L’assassino Sandro Pertini e chi lo salvò…. Benito Mussolini

Caro Nobécourt,
ho avuto solo ieri occasione di leggere su “Le Monde” del 29 aprile scorso il tuo pregevole articolo “Il y a quarante ans, l’execution sommaire de Mussolini”; e poiché si tratta di un articolo dichiaratamente storico, e contiene qualche inesattezza, credo che i lettori del vostro giornale abbiano diritto a delle precisazioni, per obiettività e completezza d’informazione.
In quell’articolo, in effetti, si afferma fra l’altro:
1. che ad ordinare l’uccisione di Mussolini fu il “comitato insurrezionale” partigiano, e cioè un triunvirato formato da Luigi Longo (comunista), Sandro Pertini (socialista) e Leo Valiani (del Partito d’Azione), ma che il ruolo determinante, in questa faccenda, lo ebbe verosimilmente Luigi Longo;
2. che il giorno dopo l'”esecuzione”, il 29 aprile 1945, i cadaveri di
Mussolini, Claretta Petacci e degli altri “giustiziati”, che erano stati
appesi per i piedi alle rampe di una pompa di benzina a piazzale Loreto a Milano, vi furono staccati per ordine di Pertini;
3. che quell’esecuzione (realizzata materialmente da un gruppo di partigiani capeggiati da Walter Audisio, detto Colonnello Valerio) ebbe comunque il consenso più o meno tacito di tutti i partners del gioco politico dell’epoca comprese le destre, il Generale Cadorna (comandante militare delle forze partigiane) e lo stesso Pietro Nenni, già amico di Mussolini ma poi diventato suo avversario e ormai diviso da lui da troppo sangue versato. E, in definitiva, che ebbe anche il consenso di inglesi e americani;
4. che in particolare gli americani avevano sì mandato tre missioni per recuperare Mussolini, ma senza fretta. E gli inglesi non si erano affatto curati del Duce;
5. che tutti costoro preferirono che Mussolini fosse ucciso sommariamente piuttosto che processato, poiché si sarebbe trattato di un processo più che a lui, alla politica italiana degli ultimi venti anni; e dunque il Duce ne poteva uscire ben vivo, e magari riabilitato, come ti aveva a suo tempo dichiarato lo stesso Longo

“Se non l’avessimo giustiziato sarebbe stato, due ore dopo, nelle mani degli americani e vivrebbe oggi con un pensione di ex-Presidente del Consiglio”.
Al riguardo debbo osservare:
1. per l’ordine di uccidere Mussolini, più che Longo fu determinante Pertini in quanto rappresentava il Partito Socialista, all’epoca la più importante fra le forze politiche della Resistenza italiana. In questo partito lui aveva un peso decisivo che gli aveva consentito, ad esempio, di essere determinante -e questo lo riconosci nel tuo articolo- anche nel rifiuto della proposta, avanzata da Mussolini, di trasferire i suoi poteri al Partito Socialista. Più precisamente, Pertini diede a Walter Audisio l’ordine perentorio di recarsi a Dongo con un gruppo di uomini scelti con cura, farsi consegnare Mussolini e i gerarchi catturati e ucciderli a tutti i costi prima che qualcuno potesse impedirlo. Siccome però i partigiani che avevano catturato il Duce erano riluttanti a cederlo (intendevano consegnarlo direttamente agli Alleati, secondo le istruzioni che da tempo
costoro avevano diffuso largamente e ripetutamente fra i partigiani) Audisio doveva ingannarli, facendo loro credere che avrebbe condotto i prigionieri appunto dagli alleati. Audisio si presentò ai partigiani di Dongo esibendo un ordine scritto firmato da Pertini, di consegnarli Mussolini e gli altri.
Quei partigiani in un primo tempo rifiutarono, ma Audisio riuscì alla fine a convincerli, ribadendo che avrebbe condotto Mussolini dagli Alleati senza torcergli un capello. Invece quando lo ebbe nelle mani, dopo pochi chilometri precisamente a Giulino di Mezzegra- lui e gli altri del suo “commando” lo uccisero (o, come tu scrivi, lo massacrarono) insieme agli altri prigionieri, secondo gli ordini di Pertini. Tutto questo è confermato da numerose fonti ben degne di fede, e concordanti. Mi limito qui ad indicarne una, particolarmente qualificata: la M.O. della Resistenza Giovanni Pesce, tuttora vivente, e il suo libro “Quando cessarono gli spari” pubblicato anni fa dalla Feltrinelli, che queste circostanze narra nei dettagli senza mai essere state smentite.

2. Quell’uccisione non ebbe affatto il consenso generale, tutt’altro.
Nessuno dei leaders occidentali e ben pochi dei capi partigiani la volevano, non confondendo certo il Duce con Hitler. Gli Alleati non si erano affatto disinteressati della sorte di Mussolini. In particolare gli americani, oltre ad inviare le tre missioni di cui tu parli, avevano diramato in lungo e in largo, fra i partigiani italiani, l’istruzione precisa che nel caso lo avessero catturato dovevano consegnarlo direttamente, e ben vivo, agli Alleati. Gli Alleati riconoscevano in effetti a Mussolini -come perfino ai criminali di guerra nazisti- il diritto a un processo. E in quello che si farò, a Norimberga, fra gli imputati era previsto anche lui, come precisa fra gli altri lo storico Silvio Bertoldi che nel suo “Norimberga: guai ai vinti” (pubblicato anche come supplemento al n. 14/85 del settimanale “Oggi”) scrive: “A Norimberga avrebbe dovuto esserci anche Mussolini”.
Chiaro che, essendoci una bella differenza fra il Duce e i criminali di guerra nazisti, era probabile che lui da quel processo sarebbe uscito vivo, e magari “riabilitato” in tutto o in parte, come ti confermò Longo.
3. Quanto a Nenni, e a tanti altri capi antifascisti, non solo non diedero il loro consenso all’uccisione di Mussolini, ma non perdoneranno mai a Pertini quell’“esecuzione” che giudicavano di una degradante vigliaccheria.
Tanto più che, se Pertini era vivo e sano, lo doveva in gran parte proprio a Mussolini. Quando difatti era stato a sua volta -alti e bassi della vita- nelle mani del Duce (era stato arrestato e condannato per cospirazione contro lo Stato) Pertini era gravemente ammalato di tubercolosi, malattia da cui all’epoca difficilmente si guariva da liberi, e figurarsi in prigione.

Sarebbe stato facile dunque a Mussolini eliminare definitivamente questo suo accanito nemico, poiché nessuno si sarebbe sorpreso se in carcere la malattia avesse seguito il suo corso abituale, e magari Pertini fosse deceduto. E invece il Duce (sollecitato da Nenni, suo vecchio amico e conterraneo, anche se diventato suo avversario politico) gli fece fare cure così assidue ed efficaci da guarirlo completamente, al punto che Pertini è arrivato all’attuale età in condizioni di salute ed efficienza eccezionali.
4. Anche per l’esposizione di piazzale Loreto -che resta tuttora una macchia per la nostra Resistenza, e tanto ha danneggiato l’immagine
dell’antifascismo e del popolo italiano- Pertini fu determinante. Pur
volendo supporre che non abbia ordinato precisamente di appendere quei cadaveri per i piedi in quel piazzale (cosa comunque difficile da escludere avendo lui concepito e pilotato fin dall’inizio l’“operazione massacro”) non c’è dubbio che senza l’esecuzione non ci sarebbe potuta essere neanche l’esposizione. Vero è che lui ha poi cercato di giustificarsi sostenendo di essere intervenuto per farla finire. Ma in realtà ad intervenire, più che
lui, fu Pietro Nenni, proprio nei suoi confronti e in modo durissimo. E così Pertini dovette muoversi a farli staccare, quei corpi, ma non lo fece certo a gran velocità, vista l’ulteriore durata dello spettacolo. Si tratta di un dettaglio ben conosciuto da chi visse da vicino queste cose, e mi consta personalmente poiché sono stato socio, in una casa editrice, proprio di colui che a quel tempo ufficiale partigiano e tuttora ben vivo, aveva tolto materialmente i cadaveri da piazzale Loreto portandoli in luogo non esposto.
Non bisogna dimenticare inoltre l’intervento del Cardinale di Milano
Ildefonso Schuster, che in quei giorni si era interessato perchè Mussolini si consegnasse spontaneamente, con garanzia della vita. Costui affermò:

“Solo i barbari possono permettersi simili gesta”
e si affrettò ad adoperarsi presso il comando partigiano perchè lo spettacolo avesse fine; come testimonia fra gli altri Monsignor Angelo Majo, arciprete del Duomo di Milano.
5. Pertini fece dunque uccidere Mussolini contro la volontà degli Alleati e della gran parte dei capi della Resistenza, ingannando quegli stessi suoi compagni partigiani che avevano catturato il Duce e volevano che restasse ben vivo.
6. Sul perchè Pertini avesse tanta fretta di uccidere Mussolini, che gli aveva salvata la vita e la salute, c’è da considerare che all’epoca molti pensavano, a torto o a ragione, che gli Alleati intendevano rimettere il Duce al vertice dello Stato italiano, sia pure con poteri limitati (come si regolarono ad esempio per il Giappone). Ma ciò avrebbe impedito che quella carica andasse invece (come in Jugoslavia per Tito e in Cina per Mao Tse Tung) a un capo partigiano, fra i quali uno dei favoriti era appunto Pertini. C’è poi il mistero dell’oro di Dongo, cioè del tesoro della Repubblica di Salò che Mussolini aveva con sé quando fu catturato, e che scomparve come nebbia al sole. Mistero che non sarebbe stato tale se Pertini non avesse fatto uccidere Mussolini. Quanti hanno cercato di testimoniare su quella sparizione sono stati tutti, a loro volta, “misteriosamente” uccisi.
7. Comunque Nenni non perdonerà mai il massacro del Duce, e finché lui ebbe peso nella vita politica italiana (e cioè fino ad una decina d’anni fa, prima che l’età lo prostrasse) Pertini fu condannato ad una specie di emarginazione tacita nel Partito Socialista e nella vita politica italiana, tanto da non avere incarichi politici di rilievo, neanche di semplice ministro. Era solo, in pratica, l’uomo politico più rappresentativo di Savona e della sezione socialista di quella città. Sezione che tuttavia -è emerso poi- è assai ben piazzata per avere la palma della più corrotta fra le sezioni provinciali di tutti i partiti politici italiani, compresa la Democrazia Cristiana; visto che diverse decine di suoi esponenti, dirigenti e membri sono stati messi in prigione o, comunque, incriminati per intrallazzi particolarmente vasti (caso Teardi). Solo quando Nenni, invecchiato, perse autorità, Pertini poté riemergere ed avere la carica di Presidente della Camera, da cui è poi passato a Presidente della Repubblica
raggiungendo finalmente il vertice dello Stato, sia pure con tre decenni di ritardo. E quando, dopo qualche tempo, qualcuno ventilò l’opportunità di una sua dimissione, Pertini replicò: “Hic manebo optime”. Esattamente come aveva risposto a suo tempo Mussolini…

Tutto ciò può sorprendere chi è abituato all’immagine agiografica di Pertini abitualmente diffusa dai mass media, in Italia e altrove. Ma questa immagine, che pare messa a punto con estrema cura, si spiega considerando i potenti e vasti interessi che si servono di essa come efficace copertura dei gravissimi abusi che prosperano in Italia su vasta scala.
Ma la realtà storica -ed io sono il primo a dispiacermene come italiano- è ben diversa, e non a caso ha reso improponibile l’assegnazione a Pertini di un premio Nobel per la pace, che pure era stata ventilata; o che fosse lui a celebrare, con un discorso ufficiale al Parlamento europeo, la fine della guerra e la riconciliazione generale…
Il più bello è che poi Pertini si prende la libertà di definire “assassino” uno come Scalzone che, fino a prova contraria, non ha mai ucciso nessuno, e del resto non è mai stato incolpato di questo. Che cosa fu, quello di Pertini ai danni di Mussolini, se non l’assassinio “politico” di un prigioniero indifeso? Il quale, per di più, quando lo aveva avuto a sua volta in suo potere gli aveva salvato la vita e la salute, facendolo curare come lui stesso non aveva saputo fare?
E’ giusto che i lettori de “Le Monde” queste cose vengano a saperle, appunto per obiettività e completezza di informazione.

Con vive cordialità.
Stefano Surace

Da parte sua, Sandro Pertini si limitò a ricordare solo quanto segue:
”Quando mi dissero che il cadavere di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie e Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla ci sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete indietro la folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero tutti ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani, Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già stati appesi al distributore della benzina. Così ordinai che fossero rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra“. – Sandro Pertini –
“Nenni venne fatto prigioniero dai camerati in Francia per 24 giorni, il 5 aprile 1943 viene consegnato dagli stessi, ai carabinieri italiani al Brennero con l’ordine di accompagnarlo al confino di Ponza. Tutto questo su ESPRESSA RICHIESTA del suo amico il DUCE . Dopo il massacro di quest’ultimo, e la rivoltante codardia partigiana di quel fine aprile 45, lo stesso Nenni scriverà sull’AVANTI, circa colui che gli salvò la vita.. “giustizia è stata fatta !” Perciò deduco che Nenni era una merda di uomo”.
“Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche”.
Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è vero che il suo agire lo portò, come attestò e dimostrò Carlo Silvestri, esponente socialista (ma anche Piero Parini, Renzo Montagna e altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini, ecc., fu “ripagato” con le parole di Sandro Pertini, il partigiano estremista che in quei giorni di fine aprile ’45 sbraitò alla radio che Mussolini:
“doveva essere ammazzato come un cane tignoso”.
Questo è quanto si sapeva in Italia, ma pare dalle intercettazioni che oltreoceano la pensassero ben diversamente ma ovviamente ben altro doveva figurare: Benito Mussolini, fu assassinio premeditato, la telefonata fra Churchill e Roosevelt il 29 luglio 1943, la Conferenza di Casablanca
Il “beneamato” Presidente non ha fatto solo questo di cui qualcuno sarà pure contento, perchè non riguardava lui, ovvio.
Ma guardando bene ce n’è da dire talmente tante che rimando ad un altro articolo, possiamo vedere La verità su Via Rasella e sulla strage delle Fosse Ardeatine, di Antonio Leggiero, il TOP : RAPPRESAGLIE PARTIGIANE – Come i partigiani comunisti facevano eliminare i loro alleati scomodi e saltare all’ultimo “crimine” non da poco: Pertini e il golpe, 1985, quello che gli Italiani non sanno