ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO
NELL'ITALIA OCCUPATA
Francesco Fatica
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1°
guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente
in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe
nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria.
La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano,
sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena
divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di
vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino
a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo
brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei
e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì
al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria
Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere
il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio
dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne
vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi
freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia,
inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare
il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di
foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni,
ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile
per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori.
Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando
così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni
pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa
di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati",
era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi
eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte,
si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare
le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile
sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno,
nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli
e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso,
più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati
bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva
la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale,
e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera
gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a
casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di
fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti
erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica,
cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi
allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la
sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe
perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri
viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque
delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava
dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò
alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono
al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le
oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente
nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte
e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi
uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati,
ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del
GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare
le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della
Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava
a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati.
Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli,
molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da
parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano
ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché
si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati
a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate
vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli
repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente,
anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi",
questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava,
ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati
i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al
di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione
l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza,
che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri
camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case
private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.
Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati
e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della
Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti
con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente
disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia
dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di
giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti,
si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli
fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF,
con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di
Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano
a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire
i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di
prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive",
nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese
si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio",
che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni,
allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari;
lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase:
«La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati,
non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi
sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in
tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città
purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre
peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati,
quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le
sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente
dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi
e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa
di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano
per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case
dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista?
Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse
la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile
riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò
disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero;
i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono:
isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando
la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero
colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco,
per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero
di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo
morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati
da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine",
ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con
le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna.
Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente
pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo
rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della
RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere
contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento
clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la
principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo
acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza
e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare
il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de
Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo
Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente
a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre
personalità che potevano, conversando "liberamente", magari
un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche,
che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di
grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute
le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de
Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie,
che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena
Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della
cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti,
che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna
dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare
e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati
di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con
gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono
la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati
sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano
e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi,
ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti
e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario,
sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene
attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così
tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto
divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti
a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente
in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione
politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in
codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato
a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando
nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa
volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale
agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo
e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero
certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno
al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare
Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente
memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore
Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del
tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire
Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava.
Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con
gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione
un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario,
ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano;
i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare,
con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato
anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti
speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare
con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale,
che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più
minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere
tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati
direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così
si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di
consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente
intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa
e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di
Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi,
pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa
di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento
dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI,
per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato
di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli
fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di
Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi
di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive
del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro
maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare
Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva
fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale,
ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica.
Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo
ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in
cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono,
secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente
una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un
fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa
della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive,
pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!»,
urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la
"dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con
i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto
fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come
sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente
sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo
sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare
in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte
le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una
sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli
riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente
spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino,
che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non
solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata.
Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni
sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega,
non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente
e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando
questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei
e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali
manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a
vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da
quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il
Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de
Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio,
sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe
gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e
scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava
ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa.
Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca,
ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi
videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep,
che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse
al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per
quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate,
ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere
i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella
sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente
imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse
rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino
de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto
la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una
brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva
bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando
dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito
dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové
convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al
carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente
armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione
improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo
un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista
(che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa
rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che
l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe
nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati
custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì;
il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo
a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di
Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità
femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva
per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della
sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field
Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese,
avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare
sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti
più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente
molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi
un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava
Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente
lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già
prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi,
lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben
più aggressive.
Francesco Fatica Elena
aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza
e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella
si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile,
o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero
di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto,
per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo
riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali
dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel
CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì,
la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente,
del dopo.
Le regioni dell’Italia
occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca,
sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi
dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato
ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al
servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con
il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato"
ancora.
Dunque era necessario
preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani
che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si
sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo
soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così
che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati"
usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano
esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena
fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della
RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio:
Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie
dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento
per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere,
ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere
abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano
anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi,
ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento
e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio
scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non
fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare
italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati
punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad
altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso
Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento
è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei
vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in
campo di concentramento per la durata della guerra".
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