venerdì 29 novembre 2019

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA

ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO NELL'ITALIA OCCUPATA



Francesco Fatica
 
 
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1° guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria. La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano, sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia, inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni, ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori. Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati", era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte, si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno, nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso, più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale, e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica, cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati, ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati. Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli, molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente, anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi", questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava, ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza, che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.
Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti, si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF, con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive", nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio", che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni, allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari; lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase: «La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati, non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati, quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista? Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero; i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono: isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco, per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine", ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna. Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre personalità che potevano, conversando "liberamente", magari un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche, che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie, che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti, che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi, ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario, sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava. Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario, ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano; i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare, con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale, che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi, pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI, per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale, ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica. Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono, secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive, pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!», urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la "dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino, che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata. Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega, non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio, sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa. Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca, ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep, che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate, ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista (che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì; il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese, avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi, lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben più aggressive.
Francesco Fatica Elena aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile, o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto, per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì, la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente, del dopo.
Le regioni dell’Italia occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca, sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato" ancora.
Dunque era necessario preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati" usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio: Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere, ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi, ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in campo di concentramento per la durata della guerra".
 
                                                                                                                                           

                                                                                                                                              

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