martedì 22 giugno 2021

PARACADUTISTI, MARO’ E LEGIONARI ALLA DIFESA DI ROMA

 PARACADUTISTI, MARO’ E LEGIONARI ALLA DIFESA DI ROMA 



L.F.
 
 
    Il 22 gennaio 1944 gli Anglo-Americani sbarcavano sul litorale laziale costituendo una testa di ponte ad Anzio, distante dalla Capitale appena una cinquantina di Km.  Roma sembrava, ormai, a portata di mano. Il Comando Germanico inviò il Maggiore Paracadutista Walter Gericke a fronteggiare la situazione con un Gruppo da combattimento formato da sparuti Reparti eterogenei trovati sul posto. Con essi riuscì a ben contrastare le truppe sbarcate. Successivamente affluirono Reparti corazzati e la IV Div.  Fallschirmjager, che contennero la pressione dei VI Corpo d'armata statunitense. Le contrapposte posizioni, tenute dai contendenti, diedero origine a quello che divenne il 'Fronte di Nettuno'. Pochi giorni dopo, alla Divisione Paracadutisti Germanici si aggregò - con non poche difficoltà, a causa della diffidenza tedesca - il Battaglione Paracadutisti 'Nembo', comandato da quel meraviglioso Soldato che risponde al nome del Capitano Corradino Alvino. Trecento italiani riprendevano, organicamente, a combattere contro gli invasori Anglo-Americani. Finiva così, in parte, l'amarezza e la rabbia nel sapere che Roma era difesa soltanto da truppe straniere. Tedeschi, nostri alleati, ma pur sempre stranieri. Al Nord la RSI, sorta da appena quattro mesi, faceva sforzi giganteschi per organizzare, addestrare, equipaggiare, armare e sopportare logisticamente le centinaia di migliaia di volontari che accorrevano ai vari Reparti in via di costituzione, tutti protesi e ardentemente desiderosi di combattere contro gli invasori del suolo italico. Ritenendo, questi ultimi, i soli nemici avverso i quali l'Italia si era battuta onorevolmente per trentanove mesi, sino al tradimento settembrino ordito da certi figuri in combutta con quel Savoia che non seppe morire come un vero re. Per gli avvenimenti che si erano susseguiti tra luglio e settembre, i Tedeschi, ovviamente, non si fidavano più di noi, anche se, alla data dell'8 settembre, in Patria e fuori dei confini, 180.000 uomini erano rimasti al loro fianco. Non fosse altro per non macchiare -nei secoli a venire- l'onore della nostra razza. La Xa Flottiglia MAS, le Camicie Nere della M.V.S.N. e Paracadutisti non ammainarono la bandiera della Patria. Mentre l'Esercito regio si dissolveva e la Flotta da battaglia alzava a riva il 'pennello nero' -segno che contraddinse i pavidi, gli inetti, gli ignavi e i furbastri 'benpensanti'- a Porta S. Paolo, in quel di Roma, il Generale Gioacchino Solinas, con i suoi Granatieri, oppose resistenza ai tedeschi. Per non consegnare loro le armi.  Altro che eroismo contro il 'nazifascismo': Solinas e i suoi uomini aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.
    Successivamente, il Generale prestò servizio presso lo Stato Maggiore dell'Esercito repubblicano e, dal giugno '44, comandò il Centro Complementi destinati alle Divisioni dell'Esercito di Mussolini. La falsa retorica antifascista si è appropriata di eroismi e benemerenze, inserendoli nella sua vacua storiografia. Come nel caso del Vice brigadiere Salvo D'Acquisto che, da Carabiniere in servizio sul territorio della RSI, viene camuffato da eroe resistenziale.
    La battaglia per Roma, iniziata il 22 gennaio, continuò per quattro mesi, sino al 4 giugno. Per gli eserciti 'alleati' non fu davvero una semplice passeggiata nonostante l'enorme potenziale bellico messo in campo.  In quei 134 giorni d’inferno, i Paracadutisti di Alvino, di Rizzatti e di Sala, i Marò di Bardelli, di Mataluno, di Nesi, i Legionari di Degli Oddi, gli Aerosiluranti di Faggioni e Marini stupirono amici e nemici, coronando in un alone di gloria l’olocausto delle giovani vite di migliaia di Caduti. Il primo Reparto a raggiungere il Fronte di Nettuno fu, come accennato,il Battaglione “Nembo” di Alvino. Aggregato alla IV Divisione Fallschirmjager il “Nembo” entrò in linea l’8 Febbraio. Il 16 partecipò a un contrattacco germanico, con tale irruenza e combattività da suscitare l’ammirazione incondizionata e il compiacimento dei Parà tedeschi che, in fatto di guerra seriamente combattuta, non erano certo degli sprovveduti. Il “Nembo”, in continui combattimenti, si coprì di gloria, mettendo in grossa difficoltà gli Anglo-Americani che pagarono un prezzo altissimo perdite umane. Il Battaglione venne citato nel bollettini di guerra dell'Alto Comando Germanico. I tedeschi erano strabiliati dell'ardore e dell'aggressività dei nostri al punto che, anch'essi, attaccavano le postazioni avversarie al grido di 'Nembo'. Al fosso della Moletta, gli uomini di Alvino diedero i meglio di se stessi. Le perdite superarono i due terzi degli effettivi. Un mese dopo l'arrivo al Fronte il Battaglione, ridotto a una Compagnia, prese il nome di Cmp. 'Nettuno-Nembo' e tornò in linea combattendo sino al giorno 4 e poi ripiegando, ancora, fino al 30 di giugno.
 
Artiglieri italiani della Flak sul Fronte di Anzio.
 
    A fine febbraio, intanto, da La Spezia partiva per Nettuno il Btg.  Fanteria Marina 'Barbarigo' della XI Flottiglia MAS, agli ordini del Capitano di Corvetta FM Umberto Bardelli. Dopo molte richieste e insistenza, millecento Marò riuscirono a coronare il loro sogno: quello di vedere in faccia il nemico invasore. A Nettuno, tra il lago di Fogliano, il canale Mussolini, Borgo Piave, Cerreto Alto e Borgo Sabotino, ebbe origine il mito di 'Barbarigo'. Esso ci tramanda le imprese e il valore dei Marò, l'abnegazione dei Sottufficiali, l'eroismo indomito degli Ufficiali di questo straordinario Battaglione. Di questo mito vanno fieri i protagonisti superstiti e inorgoglisce tutto il combattentismo repubblicano. Quei 'mille' giovani, anzi giovanissimi, del 'Barbarigo', superarono epicamente i 'mille' di Leonida alle Termopili. A Nettuno, articolati nelle Compagnie (la 'Decima', 2a 'Scirè', 3a 'Iride', 4a 'Tarigo' e 5a Cannoni), unitamente al Gruppo Artiglieria Xa 'S. Giorgio' aggregato al 'Barbarigo', gli uomini di Bardelli furono tutti eroi. Gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno, videro l'accanita resistenza e l'estremo sacrificio di tutte le compagnie. La 1a a Borgo S. Michele e Borgo Pasubio, la 4a, ultima a lasciare il Fronte dopo aver contrattaccato gli americani all'arma bianca. Fogliano, Gorgolicino, Norma, Colleferro, difese zolla dopo zolla, metro dopo metro. E Cisterna, dove non rimane in piedi un solo uomo del II' Plotone/2a Cmp. Il Comandante Tenente Sandro Tognoloni per il suo eroismo, verrà decorato di Medaglia d'oro al V.M. Ancora il 2, 3 e 4 giugno, l'indimenticabile Ten. di Vascello FM Giulio Cencetti, con una Compagnia di Formazione -l'Ultima- fronteggia gli 'alleati' alle porte di Roma che lascia, transitando per Piazzale di Ponte Milvio, alle ore 13.30 dei 5 giugno '44. Al Labaro del 'Barbarigo' venne concessa la Medaglia di Bronzo VM con questa motivazione: 'Armato essenzialmente di fede e di coraggio chiedeva di essere inviato al Fronte di Nettuno per riscattare l'Onore della Patria tradita. A fianco dell'Alleato fedele, in tre mesi di lotta asperrima contendeva fino all'estremo alle orde travolgenti dei nuovi barbari il possesso di Roma immortale dando luminose prove di strenuo valore e consacrando col sangue dei migliori il sacro diritto d'Italia alla vita e alla rinascita. Fronte di Nettuno - Roma. 4 marzo-4 giugno 1944'. Il Gruppo di Artiglieria XII 'S. Giorgio' affiancò il 'Barbarigo' che da poco era entrato in linea a Nettuno.  Il Gruppo, al comando del Capitano Renato Carnevale, era ordinato su due Batterie cannoni da 105 m/m e una Batteria da 75 m/m.  Gli uomini del 'S. Giorgio' si impegnarono nel durissimo compito, opponendo le loro bocche da fuoco ai terrificanti cannoneggiamenti e bombardamenti provenienti dalle linee avversarie e dal mare e dal cielo.  Quotidianamente, senza sosta, con tiri di accompagnamento, di interdizione, di alleggerimento, di contro batteria, contrastando animosamente ed efficacemente la pressione nemica. Il 'S.  Giorgio' in linea a tutto il 3 giugno, sparando sino all'ultimo proiettile.
 
Genieri italiani della RSI sul fronte di Anzio.
 
    La Xa concorse alla difesa di Roma anche con i suoi Reparti navali. A Fiumicino venne costituita -meglio dire: creata- la 'Base Sud' dei Mezzi d'assalto di superficie.  Il comando venne assunto dal Ten. di Vasc. Domenico Mataluno.  Tra mille difficoltà di ogni tipo, innumerevoli furono le uscite in mare dei Mezzi in dotazione, alla ricerca di naviglio nemico. Notti insonni, attese snervanti, spesso con mare forte.  Il 20 febbraio venne scoperto, attaccato e colpito con siluro un cacciatorpediniere. Il 28 dello stesso mese venne affondata una corvetta. Stessa sorte subì l'incrociatore inglese 'Penelope'. L'ultimo eroico Comandante fu il Ten. di Vasc. pilota Sergio Nesi -Medaglia d'argento al V.M. sul campo per aver attaccato e colpito una corvetta nemica. La 'base Sud', al suo comando, operò sino al 4 giugno '44. In aprile entrò in linea, sul Fronte di Nettuno, il II' Btg. del I' Rgt. SS italiana, al comando del Ten. Col.  Federigo degli Oddi. Per il valoroso comportamento nei combattimenti e per l'aggressività dimostrata in ogni circostanza, il Labaro del Btg. fu decorato con la Medaglia d'argento.  Soldati eccezionali che si imposero all'ammirazione per l'indiscusso valore ed audacia.  Vale ricordare, tra i tanti, l'episodio nel quale dieci Legionari tennero un settore del Fronte, lungo 400 metri, contro reiterati attacchi di forze di gran lunga superiori e che non portarono ai risultati sperati. Un altro caposaldo, nella notte tra il 27-28 aprile, difeso da sette giovani Legionari, venne investito dall'attacco di due Compagnie fucilieri appoggiate da carri armati e fuoco d'artiglieria. Dopo dura resistenza la posizione fu, giocoforza, abbandonata. La notte successiva, un pattuglione di trenta Legionari riconquistarono, con azione irruente e decisa, il caposaldo. Nel mese di maggio, anche il Battaglione 'Debica' della Legione SS italiana raggiunse il Fronte schierandosi tra S. Marinella e Fiumicino. Il 'Debica' in ogni azione fu all'altezza delle aspettative, coprendosi di gloria e lasciando sul terreno oltre il 50% degli effettivi. Il valore dei Legionari fu ricompensato con ben quarantacinque Croci di Ferro e cinquantasette Promozioni per merito di guerra.  Dopo 'NETIUNO' i Legionari della SS italiana furono autorizzati a fregiarsi delle mostreggiature nere anziché rosse.  Parificazione di alto valore morale. A fine maggio, raggiunse il Fronte di Nettuno anche il Reggimento Paracadutisti italiani.  Gli arditi dei cielo combatterono strenuamente a Castel Porziano, Ardea, Castel di Decima e all'Acquabona, dove cadde, eroicamente, il Comandante del Rgt. Maggiore Mario Rizzatti Medaglia d'Oro alla Memoria.  Ai Paracadutisti venne affidato il compito di costante retroguardia del Fronte in fase di ripiegamento.  Questo significò il quotidiano contatto con un nemico mille volte più numeroso e dotato di mezzi e volume di fuoco inestinguibili.
    Per l'eroico comportamento dei Paracadutisti, lo schieramento italo tedesco potè effettuare un regolare sganciamento dalla pressione della Va Armata USA. Le perdite superarono il 60% dell'organico reggimentale. Il Gagliardetto del Btg. 'Folgore' fu insignìto di Medaglia di Bronzo. Le decorazioni individuali furono: Tre Medaglie d'Oro VM alla Memoria, Dodici d'Argento alla Memoria, Diciassette d'Argento VM sul campo, Sedici di Bronzo e Dodici Croci di guerra al VM. Nei mesi in cui fu combattuta la battaglia per la difesa di Roma, fu presente, su quel Fronte, anche l'Artiglieria Contraerea e la risorta Aeronautica della RSI. In particolare, le ali repubblicane parteciparono con il Gruppo Aerosiluranti, costituito dal valoroso Capitano AA Carlo Faggioni. Un mese dopo avere giurato fedeltà alla RSI, sette aerosiluranti entrarono in azione di guerra, al largo di Nettuno, colpendo due navi nemiche. Era la prima vittoria dell'A.N.R. Subito dopo gli aerosiluranti attaccarono a Capo Circeo, dove colpirono un cacciatorpediniere, un grosso piroscafo e tre navi trasporto.  La notte del 10 aprile, con un altro attacco, furono silurate tre navi nemiche.  In questa azione cadeva il Comandante Faggioni.  Il 4 giugno, mentre Roma veniva occupata dalle armate 'alleate', il Gruppo Aerosiluranti, al comando dei Capitano AA Marino Marini -che aveva sostituito Faggioni- alle ore 21, con dieci SM 79, attaccava la munitissima base di Gibilterra, mettendo a segno tutti i siluri su altrettante navi nemiche.
    La battaglia in difesa di Roma è entrata nella Storia d'Italia tingendola con l'azzurro di questo inestimabile medagliere. Alle Bandiere:  - Medaglia d'Argento VM al Labaro del II/I Rgt. SS italiana. - Medaglia di Bronzo VM al Labaro dei Btg.  'Barbarigo' della Xa - Medaglia di Bronzo VM al Labaro del Rgt.  Paracadutisti Italiani Individuali:  - 3 Medaglie d'Oro VM alla Memoria - 15 Medaglie d'Argento VM alla memoria - 2 Medaglie di Bronzo VM alla Memoria - 1 Medaglia d'Oro VM sul campo - 75 Medaglie d'argento VM sul campo - 28 Medaglie di Bronzo VM sul campo - 37 Croci di guerra VM sul campo - 94 Croci di Ferro
 
Granatieri Repubblicani reduci dal Fronte di Cisterna a Sud di Roma.
 
L'epopea dei Paracadutisti, dei Marò, dei Legionari, degli Artiglieri, degli Aerosiluranti e dei Mezzi d'assalto della Xa Flottiglia MAS è patrimonio che viene onorato e si perpetua nel Campo della Memoria di Nettuno.
 
 

giovedì 17 giugno 2021

QUELLA GENERAZIONE IRRIPETIBILE

 QUELLA GENERAZIONE IRRIPETIBILE


L. F.
 
 
    Non passa giorno, , che la 'storia' di questa sventurata Patria nostra non sia funestata da squalificanti vicende che interessano spesso la cronaca nera. Senza soluzione di continuità dimostra il vuoto morale, lo squallore nel quale è sprofondata quella che fu la culla della civiltà e del diritto. Tali miserie sono divenute costume di vita per questa società marcia, che si è votata al dio denaro e ai suoi ineffabili diaconi.
    Abortita nel profondo e maleodorante abisso del tradimento savoiardo e di una guerra malamente perduta priva di ogni idealità, spogliata da qualsivoglia valore etico, questa società acefala ha prodotto una miriade di scandali, malgoverno, "misteri irrisolti", reati e delitti d'ogni sorta. Società che vivacchia nella mediocrità, nell'inerzia, nel materialismo e, come per un processo imbibente, assorbe le macroscopiche falsità costruite da interessati sinèdri. Società plagiata da liturgie girondine e giacobine inculcate da sedicenti mallevadori e reclamizzati solisti di un futuro ausonico Eden. Società che ha dato i natali a generazioni vacue, già vecchie e decrepite, senza slanci, colme di un fittizio benessere, spesso incline a ogni scelleratezza e prive di regole di comportamento civile. Agli antipodi di qualsiasi galateo, irreggimentate in un mondo folle e vile, dove consuetudini, precetti e doveri sono banditi. Nella migliore delle ipotesi, irrisi.
    In questo mare di abiezione, unica rifulge una luce. Un bagliore 'forse' lontano ma vivissimo, intriso di ascetico misticismo. Ci ricorda e ci parla di un'altra generazione. Di una generazione 'irripetibile'.
    'Irripetibile', come senza enfasi l'ha definita magistralmente Sergio Nesi Med. Arg. V.M., Ten. di Vasc. dei Mezzi d'assalto della Xa in RSI. Così, l'Autore di 'Decima Flottiglia nostra... ', celebra i combattenti dell'Onore e li consegna alla Storia. Generazione irripetibile quella, di giovani e meno giovani, che all'indomani dell'otto settembre non ha accettato la resa e si è ribellata al tradimento perpetrato sì all'alleato germanico ma, soprattutto, al popolo italiano, marchiandolo di spergiuro e arrecandogli danni inestimabili.
    Generazione irripetibile quella che volontariamente prese le armi contro il nemico invasore, consapevole di battersi soltanto per l'Onore.
    Generazione irripetibile che, nel grigiore e nella confusione di quei tragici giorni, fece garrire, alte nel cielo e in faccia a tutti gli stranieri, le bandiere ribelli della Repubblica Sociale Italiana.
    Generazione irripetibile che aborriva il mondo fradicio dell'ignavia, del doppio gioco, del calcolo interessato, dei servi e dei vili. Generazione irripetibile quella, che anelò al combattimento -facendosi guerriera in capo a qualche mese- a vergogna di una pletora plebea nell'animo e di una misera manciata di assassini. Generazione irripetibile quella, che diede vita a un fenomeno di volontarismo non riscontrabile in altra stagione o sotto altre latitudini. Generazione irripetibile quella, che dimostrò agli amici traditi, ai nemici invasori, al mondo intero, di quale tempra fossero quei Marinai, Avieri, Soldati, Legionari della RSI e, per la prima volta anche, la migliore gioventù femminile d'Italia. Generazione irripetibile quella, che donò alla Patria nomi gloriosi come 'Barbarigo', 'Fulmine', 'NP', 'Lupo', 'Servizi Speciali', 'Folgore', 'San Marco', 'Monterosa', 'Xa Mas', 'Gruppi I° e II° Caccia', 'Faggioni', 'Terracciano','I° Btg. Bersaglieri Mussolini', 'Degli Oddi', Legioni 'Tagliamento'. Generazione irripetibile quella, che contrastò efficacemente l'avanzata dei potenti eserciti 'alleati', difese vittoriosamente il confine occidentale da invasioni straniere e quello Giulio dei barbari d'oriente. Generazione irripetibile che offrì orgogliosamente e senza rimpianto il proprio sangue perché la Patria - ritrovando l'onore - vedesse il suo popolo vivere affratellato e nel reciproco rispetto con le altre Nazioni. Quella generazione irripetibile languì nelle carceri, nei campi POW e subendo, a guerra finita, un martirio indescrivibile ad opera di feroci animali travestiti da uomini. Generazione irripetibile, che, offrendo tutta se stessa e senza nulla chiedere, suscitò l'ammirazione del nemico che, spesso, concesse ai Reparti di linea l'onore delle armi.  Essa fu e rimane quanto di meglio - per onestà, amor di Patria, senso dell'onore, del dovere e del sacrificio - l'Italia abbia avuto e possa vantare. Tra i molteplici riconoscimenti alla scelta di campo, al valore e al sacrificio dei Combattenti repubblicani, è sintomatico quanto asserito, anni addietro, dall'ex re d'Italia, circa i Volontari dell'Onore che, pur avendo scelto la parte perdente, erano stati -inequivocabilmente- dalla parte giusta. Nel corso di una intervista riportata su "Il Testimone" (Pubblicazione del Comitato Interarma RSI), Umberto di Savoia così si espresse. "Voi della RSI siete stati dalla parte giusta. La ragione e la Storia sono state e saranno sempre con voi. Se non fossi stato il figlio di Sua Maestà il re d'Italia, io pure avrei scelto la via del nord." I soldati della Repubblica Sociale Italiana hanno amato e onorato l'Italia sopra ogni cosa. Noi che vivemmo i tragici giorni del settembre '43, siamo  orgogliosi di aver appartenuto a quella 'Generazione irripetibile'.
 
 
 NUOVO FRONTE N.159. 1995. Dicembre 1995

venerdì 11 giugno 2021

FRANCA BARBIER AUSILIARIA. SERVIZI SEGRETI DELLA RSI.

FRANCA BARBIER AUSILIARIA. SERVIZI SEGRETI DELLA RSI. MEDAGLIA D’ORO. LA LETTERA SCRITTA PRIMA DELLA FUCILAZIONE.
 
 
   Alla memoria dell'eroica Ausiliaria è stata decretata la Medaglia d'Oro, con la seguente motivazione:
   «Franca Barbier: catturata dai partigiani manteneva un contegno deciso, rifiutando di entrare a far parte della banda e riaffermando la sua intransigente fedeltà all'Idea.
   Condannata a morte dal tribunale dei fuorilegge, le fu promessa la vita se avesse rinunziato ai principi suoi. Rimasta ferma nella sua fede e portata davanti al plotone di esecuzione, ebbe la forza di gridare: - Viva l'Italia! Viva il Duce! - ordinando il fuoco. Fu uccisa dal capo con un colpo alla nuca. Fulgido esempio di volontaria, la sua morte è fonte di luce».
   La Salma viene rintracciata solo nell'ottobre del '46. Oggi riposa nella tomba di famiglia, accanto al fratellino Franco, morto a pochi anni. Ecco la lettera scritta alla madre...
 
24-7-44- XXII
   Mamma mia adorata,
   purtroppo è giunta la mia ultima ora. E’ stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani, 25 luglio. Sii calma e rassegnata a questa sorte che non è certo quella che avevo sognato. Non mi è neppure concesso di riabbracciarti ancora una volta. Questo è il mio unico, immenso dolore. Il mio pensiero sarà fino all'ultimo rivolto a te e a Mirko. Digli che compia sempre il suo dovere di soldato e che si ricordi sempre di me. Io il mio dovere non ho potuto compierlo ed ho fatto soltanto sciocchezze, ma muoio per la nostra Causa e questo mi consola.
   E' terribile pensare che domani non sarò più; ancora non mi riesce di capacitarmi. Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole.
   Mi auguro che papà possa ritornare presso di te e che anche Mirko non ti venga a mancare. Vorrei dirti ancora tante cose, ma tu puoi ben immaginare il mio stato d'animo e come mi riesca difficile riunire i pensieri e le idee. Ricordami a tutti quanti mi sono stati vicini. Scrivi anche ad Adolfo, che mi attendeva proprio oggi da lui. La mia roba ti verrà recapitata ad Aosta. Io sarò sepolta qui, perché neppure il mio corpo vogliono restituire. Mamma, mia piccola Mucci adorata, non ti vedrò più, mai più e neppure il conforto di una tua ultima parola, né della tua immagine. Ho presso di me una piccola fotografia di Mirko: essa mi darà il coraggio di affrontare il passo estremo, la terrò con me.
   Addio mamma mia, cara povera Mucci; addio Mirko mio. Fa sempre innanzitutto il tuo dovere di soldato e di italiano. Vivete felici quando la felicità sarà riconcessa agli uomini e non crucciatevi tanto per me; io non ho sofferto in questa prigionia e domani tutto sarà finito per sempre.
   Della mia roba lascio te, Mucci, arbitra di decidere. Vorrei che la mia piccola fede la portassi sempre tu per mio ricordo. Salutami Vittorio. A lui mi rivolgo perché in certo qual modo mi sostituisca presso di te e ti assista in questo momento tragico per noi Addio per sempre, Mucci! Franca
 
 
LETTERE DEI CADUTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA L’Ultima Crociata Editrice. 1990. Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI (Indirizzo e telefono: vedi> EDITORI)
        La storia dell’agente speciale Scaglietti (la cui testimonianza è anche inserita in "Donne di Salò" di Ulderico Munzi) è stata ricostruita dall’ISSES (Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa 299, 80153 Napoli) e cortesemente fatta pervenire al nostro periodico)

 


I SERVIZI SPECIALI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



A PONTI SUL MINCIO ALZABANDIERA IN MEMORIA DEI CADUTI DEI “SERVIZI SPECIALI”
 
 
    Quest'anno, nel corso del tradizionale alzabandiera dedicato ai commilitoni dei Servizi Speciali, il camerata Giarnetto Bordin ha riservato una sorpresa alle ausiliarie della R.S.I.: il suo discorso commemorativo è stato intieramente dedicato a quel Gruppo di agenti speciali composto da donne. Ha detto, fra l'altro:
 
    Proporzionalmente al limitato numero degli agenti segreti, furono molto numerose, spesso poco più che adolescenti, le italiane che si offersero di compiere pericolose e delicate missioni in territorio nemico. Provenivano sia da reparti del Servizio Ausiliario Femminile che da altre organizzazioni della R.S.I.
    Oggi vorrei citare quelle che fecero parte di quel -gruppo speciale autonomo che andava sotto il nome di copertura "Dottor De Santis- Allevamento Volpi Argentate". Vorrei citarle. Secondo i dati in nostro possesso, una per una, nominativamente, scusandomi con le camerate di cui non si conosce il nome. Desidero anzitutto precisare che debbono considerarsi tutte "Ausiliarie", a pieno titolo, anche quelle che non provenivano dai ruoli del Servizio Ausiliario Femminile ma, come ho detto, da altri settori della R.S.I.
    Del Gruppo "Allevamento Volpi Argentate", fecero dunque parte:
    La Sottotenente Mulatto Anna, la Maresciallo Vinciguerra Maria, la Sergente Maggiore Di Mato Anna e le Ausiliarie, Spera Olga di anni 50, Chechi Fernanda di anni 22, Barocci Adriana. Boni Tea e De Brentis Anna Maria, di anni 20, Braldi Giovanna di 19 anni, Ansaloni Amelia di 18 anni. 
    Nonché le Giovanissime Carla Costa e Carla Saglietti di soli 17 anni. Quest’ultima oggi purtroppo non è potuta venire, sicuramente impedita da cause di forza maggiore e a Lei rivolgiamo un cameratesco saluto.
    Molte di queste ragazze durante le missioni, come accadde anche alla nostra Carla Saggiati, vennero catturate, imprigionate, sottoposte a pesanti interrogatori e condannate a dure pene detentive, quando non anche a morte come avvenne per Fernanda Chechi, che fortunatamente ebbe poi la pena tramutata in lunghi anni di carcere. Carla Costa è purtroppo prematuramente scomparsa qualche anno fa (che per la minore età non potè essere condannata alla fucilazione) divenne per tutti noi un simbolo, e fu considerata uno dei migliori agenti dei Servizi Speciali, per abilità, intelligenza e coraggio. Catturata dopo alcune missioni venne processata da un Tribunale Militare Alleato che le inferse una dura condanna. L’avvocato inglese (Felding) che durante il processo presso la Corte Marziale ne curò la difesa, ammirato per il suo coraggioso comportamento, tornò in Italia negli anni '50 per nuovamente incontrarla e riconfermarle tutta la sua ammirazione e la sua stima.
    Non fece parte delle "Volpi Argentate", ma non possiamo dimenticare tra le appartenenti ai Servizi Speciali l’Ausiliaria Franca Barbieri, di 21 anni, ragazza di particolare coraggio e bellezza. Aggregata ad uno speciale Reparto di Informazioni che aveva sede in Val d'Aosta, alla metà di luglio del 1944 le venne affidata la pericolosa missione di scoprire e individuare la dislocazione delle basi partigiane in quella valle.
    Sospettata di essere un’informatrice, venne arrestata e tradotta presso il Comando di "Maser", capo delle bande autonomiste della Vallata. Sottoposta a stringenti interrogatori riuscì a non tradirsi, ma cadde nel tranello tesogli da un infiltrato che si finse di simpatie fasciste. Dopo alcuni contatti con costui gli affidò due messaggi da far recapitare al Capo della Provincia di Aosta, messaggi nei quali era indicata la dislocazione delle sedi dei comandi partigiani. Tradita nella sua fiducia e definitivamente scoperta, un "tribunale" partigiano la condannò a morte il 24 luglio 1944.
    Il giorno seguente, condotti davanti al plotone d'esecuzione, i partigiani che lo componevano, ritenendo ingiusta la sentenza e commossi ed ammirati dal coraggio che Franca Barbier dimostrava, si rifiutarono di eseguire l'ordine di sparare. Il comandante del plotone, un ex maresciallo dell’Esercito, meglio definirlo un killer - la fulminò freddamente con un colpo alla nuca. Alla sua memoria, per ordine di Mussolini venne conferita la medaglia d'oro al valor militare.
 
 
NUOVO FRONTE N. 172. Marzo 1997 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 
 
 

CARLA, “VOLPE ARGENTATA” CON KATIA, ALBA, GIANNA, MIRELLA
 
 
FUGA PER ARRUOLARSI
 
     Mi iscrissi alle Squadre giovanili Onore e Combattimento (Federazione di Roma) per il corso di infermiera. Ma non ero ancora soddisfatta: sognavo di più volevo di più!... la Patria muore... Il mio pensiero dominante era quello di poter andare al fronte.
    Chiedevo a tutti, interrogavo tutti... e fu proprio in Federazione che sentii parlare di "un Colonnello che arruolava anche donne"... "E dove sta, questo Colonnello?". "Non so di preciso, ma mi hanno detto che è in Piazza Colonna, al Palazzo della Stampa".
    Quando mi si disse di passare, il Colonnello era in piedi vicino alla finestra e mi parve di un'imponenza statuaria. Mi chiese burbero cosa ero andata a fare ed interruppe il torrente delle mie parole con una sferzata quasi ironica: "Ma qui si muore, lo sai? Si sedette dietro la scrivania e disse che il suo era un Reparto Speciale, che anche le donne erano tenute alla più rigida disciplina militare e che anche loro affrontavano la bella morte sul campo e la brutta morte davanti ad un plotone d'esecuzione: giacché , per noi la prigionia non è mai un sistema per riportare la buccia a casa, per noi la prigionia è il principio della fine. Sarai processata, condannata a morte e fucilata nello spazio di trenta giorni. Ma puoi essere fiera: sarai fucilata al petto. E' la morte dei soldati".
    La selezione era rigorosa: occorrevano volontari di sicura fede, di volontà tenace e di un coraggio cosciente del pericolo, perché quei volontari avrebbero portato la guerra, la loro guerra, nel territorio occupato dal nemico.
    Quello del Colonnello De Santis era infatti un Reparto Speciale della GNR e dell'Esercito. In RSI, i Reparti Speciali hanno avuto una particolare importanza e un notevole sviluppo perché, a causa dell'insufficienza di mezzi -specie per quanto riguarda l'aviazione- si fece sentire la necessità di sopperire alla penuria di materiale meccanico con mezzi umani. E mentre il nemico inviava ovunque e senza tregua i suoi aerei da ricognizione e da bombardamento, l'Esercito Repubblicano, povero di mezzi e ricco di valore, inviava i suoi informatori, i suoi guastatori, i suoi sabotatori: Legionari che volontariamente e coscientemente offrivano sé stessi per una missione spesso senza ritorno.
    Per le missioni da svolgersi lungo la linea del fuoco e nelle immediate retrovie nemiche, oppure quando si trattava di un gruppo e non di un solo sabotatore o ricognitore, gli Agenti Speciali indossavano la regolare divisa.
    Per le missioni lontano dal fronte e nell'interno del territorio invaso vestivano necessariamente in borghese, ma avevano in tasca un autentico documento di riconoscimento. Il soldo era di mille lire al mese.
    Traversavano le linee in qualsiasi ora del giorno. Erano decisi a tutto: vivevano in continuo pericolo di vita: cadendo prigionieri, dichiaravano la loro fede e si chiudevano poi in un ostinato silenzio; né minacce né lusinghe né torture hanno potuto strappare loro nomi di altri Volontari.
    Processati e condannati a morte, andavano al supplizio come se andassero verso il trionfo. Chiedevano di non essere bendati e morivano gridando Viva l'Italia.
    I migliori di noi sono caduti. Noi superstiti abbiamo sfiorato la morte più volte (quella sul campo e quella al palo). Non ci siamo mai abbassati a rinnegare alcunché nemmeno davanti ai Tribunali che, dovevano condannarci. Abbiamo passato anni nelle patrie galere, con condanne che andavano da 10 anni all'ergastolo. Se non siamo morti e se siamo già liberi, non dobbiamo ringraziare nessuno, perché nulla abbiamo chiesto a nessuno. Se domani la Patria ci chiedesse ancora di buttare la nostra vita allo sbaraglio, perché un invasore strapotente calpesta il suolo italiano e perché l'Italia non ha mezzi sufficienti per resistere, agiremmo come abbiamo agito, certi di non mancare alle leggi della lealtà e dell'onore: non siamo pentiti.
    Al Comando l'atmosfera si faceva sempre più rovente. Tornavano i primi Volontari da Cassino, da Anzio, da Nettuno. Raccontavano con una semplicità sconcertante le più straordinarie avventure e le reclute mordevano i freni. Chiesi al Comandante di arruolarmi definitivamente. Mi rivolse alcune domande di carattere personale: dovetti dire che ero figlia unica e che i miei non volevano lasciarmi partire. "Quanti anni hai?". "Diciassette". "Non posso prendermi la responsabilità di arruolare una minorenne contro la volontà dei suoi. Ottieni il permesso e poi ne riparleremo". Fu irremovibile ed io vedevo crollare tutte le mie speranze. I miei si insospettirono e cominciarono a sorvegliare ogni mio movimento. Scappai. Era la sera del 2 giugno 1944: il Comandante mi diede una divisa, ma volle avvertire la mia famiglia. Riuscì ad avere la comunicazione a notte inoltrata: so che tentò di convincere mia madre, che dall'altra parte dei filo piangeva: il Comandante promise di rimandarmi a casa.
    La mattina seguente, quando ci fu data la sveglia, il Colonnello era già chiuso nell'ufficio: distrusse parte dei documenti e messo il resto in una borsa diede l'ordine dello sgombero. Ci trasferimmo alla Caserma Ferdinando di Savoia, vicino alla Stazione Termini.
    Era la fine. Passammo la notte dal 3 al 4 fuori Caserma pronti per la partenza. Roma, nel suo muto spavento sembrava accorgersi solo allora della guerra. Non una voce, non una luce: per via Nazionale lo scalpiccìo dei cavalli della colonna che trasportava verso Nord i feriti. Al mattino del 4, in Caserma e in ordine di marcia. Aerei nemici gettavano manifestini: "Italiani, sabotate l'esercito fascista in fuga...... Ma nella nostra ritirata nulla aveva l'aspetto di una fuga."
    Giunse il Comandante: "Dovevamo partire con un camion e tre macchine: ci stringeremo perché due delle macchine sono introvabili: qualcuno ha avuto paura. Resti pure". Mandò avanti con Katia e le ragazze la macchina rimasta. Fece caricare sul camion viveri per alcuni giorni e vi fece salire gli uomini. Si rivolse a me e mi esortò a tornare in famiglia, mantenendo così la promessa fatta a mia madre. Diede l'ordine di partire e salì in cabina accanto all'autista. Fu un attimo: il camion era già in moto, mi aggrappai alla sponda posteriore e saltai dentro. I Camerati mi fecero posto e mi misero tra le mani una rivoltella: "Se noi spariamo, spara anche tu devi premere il grilletto". Il Comandante non si era accorto di nulla. Percorremmo via Nazionale, passammo per piazza Venezia ed istintivamente gettammo lo sguardo al balcone. Voltammo per il Corso e raggiunto Ponte Milvio, prendemmo la Statale n. 3, Flaminia. Roma nel giro di poche ore sarebbe diventata bivacco di truppe di colore. Raggiungemmo Milano il 9 giugno, stabilendoci provvisoriamente nella caserma della già 2411 Legione MVSN in via Vincenzo Monti. Vi fu la cerimonia del giuramento dei nuovi arruolati: tesi il braccio verso il Tricolore e pronunciai le parole di rito  "Nel nome di Dio e dell'Italia, giuro ... ".
    Per accordi tra il Comandante e il Capo del Reparto tedesco Kora di Viale Monza seguimmo presso tale Comando il corso d'istruzione su uomini e mezzi militari alleati. Seguii due turni contemporaneamente, un giorno uno e un giorno l'altro, uno per l'Esercito e uno per l'aeronautica (non seguii le lezioni per la Marina) perché ero già stata assegnata ad un settore interno). Il corso si proponeva di metterci in grado di riconoscere reparti e dispositivo nemici. L'istruzione verteva dalle notizie più semplici (distinzione di gradi e di unità) sino a quelle più complesse riguardanti i mezzi più perfezionati. Terminai il corso verso la fine di luglio. 
  
MISSIONE DI FERRAGOSTO

 
 
    La sera del 6 agosto ero di guardia. Arrivò Gianna "Il Comandante mi ha mandato a sostituirti. Ti vuole in ufficio". "Partirai stanotte -esordì il Colonnello. Sei destinata ad un settore tenuto dalle truppe tedesche: andrai a ritirare oggi la parola d'ordine e il fazzoletto che serviranno a farti riconoscere e che ti daranno diritto al loro aiuto: ti accompagneranno sino in vista del nemico. Missione di prima linea: Firenze e dintorni".
    "La città resiste ancora ma il nemico è già penetrato nella zona di qua d'Arno. Hai avuto istruzione e addestramento: sai cosa devi fare e quali sono i nostri scopi.-gira, osserva, annota mentalmente truppe, armi, spostamenti nemici. Ti tratterrai tre giorni e rientrerai. Buona o cattiva che sia la tua fortuna, comportati bene".
    Ritirai la parola d'ordine: Gero 106, una parola di nessun significato, comune a tutti i Reparti in collegamento con quel Comando tedesco, seguita da un numero che distingueva gli Agenti.
    Avrei potuto dare la parola d'ordine soltanto ad un ufficiale: per evitare eventuali equivoci con i soldati mi venne consegnato un insospettabile fazzoletto bianco con orlo a giorno contenente un inchiostro simpatico. Scesi verso Firenze accompagnata da un solo soldato: la macchina non poteva proseguire. Montammo in motocicletta e, saltando da una buca all'altra, giungemmo a Villa Palmieri alle porte di Firenze. La maggioranza dei soldati era sistemata nelle cantine. Un capitano indicò un punto della carta: "Qui c'è un ponte -mi spiegò- l'estrema punta tenuta ancora dai nostri soldati. Il nemico tenta una manovra aggirante, ha già occupato Campo di Marte: i nostri, se non vogliono rimanere accerchiati dovranno presto lasciare la posizione. E' già tutto minato".
    "Vi accompagneremo fino al ponte e quando avremo chiuso i cancelli alle vostre spalle sarete in territorio ostile. Davanti a voi si apre un largo viale alberato, Viale Regina Vittoria, che sbocca in Piazza Cavour. In via Cavour troverete il primo comando nemico".
    Il 14 mi diedero per guida una Camicia Bruna. Scendemmo verso la città. Le strade erano deserte, le case abbandonate. Gli scarponi chiodati della mia guida risuonavano sinistramente. Sul ponte una casa semidiroccata serviva di ricovero ai pochi soldati rimasti. Il ponte era sbarrato da una doppia cancellata. Fu scambiata la parola d'ordine. Aperto il primo cancello, venne nuovamente sprangato. Entrammo in casa: un breve corridoio e una parte di quella che era stata una cucina. Un sergente mi assicurò che non avrebbero sparato per darmi il tempo di raggiungere Piazza Cavour. "Voi, comunque, appoggiatevi al muro". Uscimmo insieme, ci avvicinammo al secondo cancello, mi indicò il tratto che avrei dovuto seguire al mio ritorno. “Non dimenticatevene, il ponte è minato". Aprì il cancello, mi diede la mano e... "Buona fortuna, camerata!". Era ancora buio, e mi misi a correre piegate in avanti."Raggiunsi senza incidenti la fine del viale: oltre Piazza Cavour iniziava la zona sotto occupazione. Se avessi potuto raggiungerla, sarei potuta passare inosservata.
    Il cielo si schiariva. Sentivo venire dal centro i primi ansimi della città. Salii lungo il mio muro, mi sollevai e portai i piedi al di sopra e da lassù spiccai un salto, attraversai di corsa la Piazza deserta ed imboccai via Cavour con passo affrettato ma calmo.
    "Correte i fascisti sparano dalle finestre!" L'insperato aiuto di Camerati che non conoscevo mi aprì la strada verso il Duomo e mi diede la consolante sensazione di non essere poi tanto sola in quella città invasa ...
    A mezzogiorno gli americani avevano terminato il ponte militare gettato sui piloni dell'ex-ponte Santa Trinita. Per i civili niente. Anch'io passai più volte avanti e indietro, saltando nell'acqua tra le macerie.
    Girai tutto il giorno per Firenze: verso sera ero in Piazza Santa Maria Novella: un partigiano davanti alla bella Basilica aveva attirato un gruppetto di persone. Mi avvicinai anch'io: "Li abbiamo ammazzati subito, tutti e dieci... Qui, vedete?". Ed indicava sul selciato larghe tracce di sangue.
    Voltai a caso in Via degli Orti Oricellari. Al numero 25 una scritta bilingue, che proibiva l'ingresso ai militari, attirò la mia attenzione. "E' una casa di suore... fra di loro non desterò sospetti..." e allungai la mano al campanello. Fui accompagnata dalla Superiora, la quale, ascoltata cortesemente la mia richiesta chiese allarmata. "Non sarete mica fascista, vero?". "No, certamente" risposi con sforzo. "Sapete, non per cattiveria ma di fascisti non ne possiamo assolutamente alloggiare".
    La mattina di Ferragosto ripresi il mio giro: un gruppo di fascisti era asserragliato in Stazione. Al pomeriggio vi fu l'ordine alleato di consegna delle armi. A Campo di Marte, il 16, notai grandi rinforzi di artiglieria. Avevo mentalmente Notato ogni particolare di carattere bellico secondo le istruzioni ricevute: la missione era ormai al termine e la sera del 16 verso il tramonto presi la strada che doveva riportarmi al ponte. Arrivai in piazza Cavour senza che nessuno mi dicesse nulla. Sulla mia destra, dall'altra parte, si apriva viale Regina Vittoria, la terra di nessuno. "Ehi voi! dove andate?". Non mi voltai affatto, scattai come una molla. Mi buttai al centro della strada ed attaccai la corsa più veloce di tutta la mia vita. Sentii il fischio acuto di qualcosa che mi raggiunse e mi sorpassò: il gruppo alle mie spalle aveva aperto il fuoco dando così l'allarme. Gridavano e sparavano all'impazzata prendendomi di mira, ma nessuno aveva il coraggio di venirmi a fermare nel mezzo della strada. La mitragliatrice sul ponte, anche se silenziosa, appoggiava ugualmente il mio ritorno.
    Divoravo la strada inseguita da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mi mancava poco ormai... ancora due traverse, ancora una... I tedeschi si erano affacciati all'unica finestra che dava sul viale per seguire la scena... li distinguevo già bene... Giunsi con il fiato grosso alla fine del viale, attraversai senza rallentare lo spazio davanti al cancello chiuso, mi arrampicai come una scimmia sulle sbarre dello stesso, puntai le braccia, saltai dall'altra parte.
    Ricordai l'ultima raccomandazione del sergente ("il ponte è minato"). Tenni la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girai l'angolo e piombai come un bolide in mezzo ai soldati che mi aspettavano. Ero salva!
    Mi accompagnarono a Villa Palmieri e di là verso Milano, ospite dei Tedeschi presso Bologna, attendevo la macchina del mio comando, ero in giardino a godermi il fresco, quando vennero a chiamarmi: avrei rivisto il Colonnello e i Camerati: finalmente!
 
 
Carla Costa, la Volpe argentata.
 
 
PROCESSO A FIRENZE
 
    Divenni la “Signorina Non So”. Il magg. Spingarn ordinò il digiuno: “sino a quando non avrete parlato”. All'ora di pranzo, apparecchiarono il tavolino davanti a me per una delle due ausiliarie americane che dormivano a turno nella mia stanza. Questa, non appena seppe la verità, arrossì violentemente, buttò indietro la sedia uscendo quasi di corsa. Mi spiegarono che la signorina non conosceva gli ordini e che comunque “non si prestava al gioco”. Fu il magg. Spingarn in persona che, per stuzzicare maggiormente il mio appetito, divorò sotto i miei occhi un fumante piatto di spaghetti...
    Dopo l'ordine del digiuno arrivò quello della veglia: dovevo rimanere seduta senza appoggiarmi al tavolino, senza dormire: dovevo “meditare e convertirmi, dovevo parlare”.
    La sera del 27 ottobre (era già molto tardi) entrò nella stanza il maggiore Spingarn: “Credete in Dio?” “Sì”. Il maggiore trovò da obiettare qualcosa (mi aveva già detto di essere ebreo, in ossequio non so se alla verità o se ad un particolare sistema di pseudo-minaccia). “Desiderate un confessore particolare?” “No, per me è lo stesso”. Bene, vi manderemo il parroco di Tavarnelle. Domattina alle 6 vi fucileremo. Così festeggerete degnamente il 23' anno dell'Era Fascista». Risposi: “Onoratissima”. Il parroco non venne mai. La mattina dopo arrivò invece il maggiore con il seguito, ostentando per l'occasione una magnifica grinta scura. Credevo fosse giunta l'ora. Spingarn annunciò: “Per ordine del Comandante Supremo non vi dovremo fucilare finché non avrete parlato... Diteci i nomi dei vostri complici ... parlate... la guerra è perduta per voi ... perché continuare a combattere?... noi sappiamo tutto; noi siamo i padroni del vostro Paese... Il Fascismo è morto... perché sacrificarvi inutilmente? ...” Non avevo niente da dire e quindi rimasi in silenzio domandandomi perché mai mi guardassero tutti a quel modo senza giungere alla conclusione. Finalmente Spingarn chiese: “Non dite almeno qualcosa del fatto che vi lasciamo ancora un po' di vita?” Ah! ora avevo capito! aspettavano forse i miei commossi ringraziamenti. Inscenarono poi una commedia per comunicarmi che a . . Il 9 novembre dalle Carceri di Santa Verdiana in Firenze fui tradotta alle Mantellate di Roma. Gli ordini furono severissimi: segregazione assoluta e pane ed acqua sino a nuovo ordine.
    Saltavano così il vitto passato dagli alleati ai loro prigionieri in Roma, il supplemento carcerario per i minorenni e l'unica minestra regolamentare delle ore 12. ...E gli interrogatori continuavano. Il 25 fui nuovamente trasferita a Firenze: ogni traduzione mi costò sempre un digiuno di 30-36 ore.
    Il ritmo degli interrogatori si andava ormai allentando. A fine novembre avvenne l'ultimo, prima del processo: fu l'interrogatorio più scabroso. Fu il finale estremo di tutta la lunga serie: un confronto. Questa volta l'americano non fece la topica degli avvertimenti (fu un caso o fu il frutto delle lezioni passate?) ma preparò la scena con accortezza. Entrando nel parlatorio di Santa Verdiana ebbi davanti a me una Camerata e l'ufficiale avversario. Sentii qualcosa stringermi lo stomaco: davanti a me era Mirella, l'impaziente minorenne che avevo conosciuto negli ultimi giorni della mia permanenza a Milano e che con tanto entusiasmo si era preparata alla lotta... Ci scambiammo un rapido sguardo superficiale.. Mirella non batté ciglio ed io sedetti rispondendo tranquillamente al saluto del maggiore, che non mi aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Alla sua esplicita domanda ci osservammo finalmente con l'attenzione di chi cerca tratti noti in un volto sconosciuto... il risultato dell'esame fu nullo: negai di conoscerla e Mirella fece altrettanto nei miei riguardi. Il maggiore strabiliò: in base ai dati in loro possesso dovevamo conoscerci per forza. L'americano, non ci credette. Sbraitò a vuoto per un pezzo: finalmente mi congedò. “Gli italiani hanno la pessima abitudine di dire bugie!!”. Così si chiuse la mia istruttoria. Posso dire di essere stata ben fortunata, come sempre: oggi, quando incontro il Camerata che mi mostra le cicatrici delle bruciature e delle percosse ricevute, mi vergogno di essermela cavata così liscia.
    Alcuni giorni dopo, Mirella ed io ci salutammo attraverso il finestrino della gavetta tagliato nella porta delle nostre celle. Mirella era stata catturata a Bombiana e dopo aver passato la giornata in un comando brasiliano venne trasportata a Porretta Terme. Passò per varie carceri e per i campi di Terni e di Miramare, riacquistando la libertà nel settembre 1946. Verso il 10 dicembre, fui chiamata in parlatorio dal cap. Fielding, avvocato difensore d'ufficio e indispensabile per imbastire un processo, (nessuno di noi aveva mai chiesto niente). Era un irlandese che “oh! non era fascista!... ma ci capiva perfettamente perché, anche lui, ai suoi tempi, aveva fatto pazzie per la indipendenza del suo Paese”. Al processo, iniziatosi il 13 dicembre 1944 presso la Corte Militare Alleata in Firenze (via Cavour, 57) mi difese con tutte le sue forze. Voleva evitarmi di salire sulla pedana dei testimoni». “Voi vi accusate” -mi rimproverava- “Che bisogno avete di dire che siete fascista?” “Cap. Fielding, i fatti si negano, la Fede non si rinnega”. Tentò di farmi passare per pazza. La risposta del medico fu circostanziata ed eloquente: affermò che “l'imputata, arruolatasi volontaria in un esercito stremato dalle gravi perdite subite e dalla defezione dei più, aveva obbedito ad un altissimo sentimento dell'Onore, sentimento che aveva trovato la sua espressione nella dedizione ad un'idea e nella volontà di lotta contro chi aveva invaso il suo Paese”.
    Salii a testimoniare la mia Fede. Il P.M. chiese espressamente “Perché vi siete arruolata? Per denaro o perché eravate fascista?”. Alla mia risposta, il povero cap. Fielding si alzò a mezzo, fece un gesto sconsolato e tornò a sedere.
    Avevo contravvenuto al Proclama n. 1 (Parte II -Art. IV- Sez. I) che contemplava la morte con fucilazione al petto. Lo scopo della difesa era non quello di evitare la reclusione (cosa impossibile) bensì di evitare la pena capitale. Fallito il suo tentativo (quello tendente a farmi ricoverare fra gli alienati), a Fielding non rimase che portare a mia difesa gli argomenti dell'accusa. “è leale, è onesta, ha dichiarato senza esitazioni di essere fascista, di non pentirsi affatto delle decisioni prese e di essere pronta a ricominciare da capo”. “Noi concediamo all’imputata la simpatia e se volete, l’ammirazione che ella merita, ma appunto per questo siamo convinti che l’imputata non vorrà mai cooperare con noi e noi abbiamo il dovere di salvaguardare il nostro esercito. Perciò chiedo la pena di morte» tuonava l'accusa. “Ma il mondo ha bisogno di onesti!” replicava la difesa e “l’imputata è fascista, perchè per lei la Causa del Fascismo si è identificata con quella del suo Paese. Ella non ha mai conosciuto un diverso sistema di vita...(ed ora che lo conosco cosa dovrei essere?)”.
    Ho l'impressione però che il capitano Fielding sia stato, almeno in Firenze, l'unica eccezione alla regola: è noto il caso di un legale che al suo imputato dichiarò: “Prima di essere il vostro avvocato, io sono un americano”. Il cap. Fielding fu più tardi dispensato dall'ufficio: venne a salutarmi in carcere e mi spiegò, sorridendo un po' mesto, “di averne salvati troppi. Ora non mi sarà più possibile...“ Grazie ugualmente cap. Fielding. Il processo terminò il 10 dicembre: fui condannata a venti anni di reclusione.
 

RECLUSIONE MILITARE
 
    Il magg. Spingarn attribuì la mite condanna all'appassionata eloquenza della difesa. Mario, processato prima di me, fu invece condannato a morte e fucilato a Fiesole, Cave di Maiano. Le sue ultime ore al carcere delle Murate furono un esempio per i compagni e questi non l'hanno dimenticato; oggi testimoniano del suo comportamento e ne onorano la memoria. Sono di quell'inverno -e specialmente del periodo susseguente al 1° Gennaio 1945 in cui si ebbe da parte alleata un irrigidimento delle condanne- esempi di eroismo: volò di cella in cella, oltrepassando mura e grate, il racconto circa i due Camerati che, chiamati per l'esecuzione della sentenza capitale, si erano presentati violacei per il freddo, ma sorridenti, in canottiera, calzoncini e zoccoli. Agli americani sbigottiti, avevano spiegato, con il tono più naturale di questo mondo, di aver lasciato gli indumenti ai Camerati rimasti in cella, giacché loro di lì a poco non ne avrebbero avuto bisogno. Andarono al muro cantando e caddero gridando: Viva l'Italia! Tanti altri si immolarono e furono sepolti senza un nome e senza una croce. Al mio ritorno a Santa Verdiana capii la segregazione che mi aveva riservato la Corte Militare: niente leggere, niente posta, niente lavorare... “fino a nuovo ordine”.
    Rifiutai il ricorso in appello (su domanda da presentarsi entro 30 giorni dalla sentenza) e quindi, dopo tale termine, la condanna passò in giudicato.
    Dopo la fine della guerra, il 25 giugno 1945, fui tradotta per l'esecuzione della pena a Perugia con le due Camerate con le quali in Firenze avevo tentato la fuga: una, Daga, studentessa in medicina, caduta prigioniera ed internata in un campo di concentramento, ne era fuggita, raggiungendo nuovamente le linee, quando all'ultimo momento, per la spiata di un contadino, aveva perso per la seconda volta la libertà: tradotta nelle carceri fiorentine, era stata condannata a morte il 16 gennaio 1945 e solo nel marzo le era stata comunicata la commutazione all'ergastolo. L'altra, Eureka, caduta prigioniera nel novembre 1944, era stata condannata a venti anni nel marzo 1945.
    Ci fu tolta la segregazione e permesso di comunicare con le famiglie. Più tardi, ci raggiunsero nel Penitenziario di Perugia, provenienti da quello di Urbino, tre bolognesi, processate dal Tribunale Militare Alleato di Riccione e condannate ciascuna a dieci anni (due di loro erano state in un primo tempo condannate a morte). Alba, del cui arresto e della cui condanna avevo avuto notizia nel corso della mia seconda missione, era stata assegnata al Penitenziario di Trani (Bari) con una sentenza di 18 anni.
    Sette siamo state le condannate dai Tribunali Alleati in base al Proclama N. 1; un'altra volontaria, proveniente da Milano, fu processata, alla fine della guerra, da un Tribunale Italiano che la condannò a cinque anni, con il condono del 1946; altre furono assolte e internate nei vari campi di concentramento; alcune, non furono mai scoperte.
    Nel giugno del 1946, i giornali scrissero che “i militari condannati da Tribunali Alleati (circa trecento tra uomini e donne) non avrebbero usufruito dell’amnistia italiana”. Quando, nel dicembre 1947, le forze alleate lasciarono l'Italia, i nostri casi divennero di competenza delle Autorità Italiane. Queste ci passarono alle carceri giudiziarie e riaprirono i processi, giacché gli Alleati avevano consegnato soltanto gli estratti delle sentenze e non i verbali delle istruttorie da loro condotte. Risultando a nostro carico azioni militari non contemplate dal Codice italiano, nel 1948 fummo liberati.
 
 
ACTA DELL’ISTITUTO STORICO REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA N. 3. Settembre-Novembre 1996 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

"MIRELLA" VOLPE ARGENTATA Storia di una "ragazza di Mussolini"
Francesco Fatica
 
                                                           TRE AUSILIARIE 1944--45
 

 
    Carla Saglietti, classe 1927, era figlia di Franca Fasola, fiduciaria del Gruppo Rionale Fascista "Guglielmo Oberdan’’ a Milano nel 1944.
    Voleva partecipare in prima persona, con tutta la veemenza del suo spirito generoso, alla lotta che vedeva coalizzate contro l’Europa dell’Asse le mercenarie milizie multirazziali degli "Alleati’’.
    Perciò chiese insistentemente alla mamma di aiutarla ad arruolarsi. Questa, fortemente combattuta fra l’istinto materno e l’amor di patria, fu costretta a far tacere gli impulsi che avrebbero voluto difendere la figlia, ancor giovanissima, dai pericoli insidiosi di una guerra sempre più feroce e disumana, che ormai insanguinava atrocemente anche le strade di Milano.
    E quindi condusse la figlia dalla vice comandante del SAF (Servizio Ausiliario Femminile) della Brigata Nera "Aldo Resega’’, tenente Lydia Votta (1), che inviò Carla alla sede di accasermamento e uffici della GNR in Via V. Monti a Milano.
    Qui la giovane ausiliaria fu assegnata a lavori di ufficio come "scrivana’’.
    La cosa non poteva soddisfare il temperamento esuberante di Carla che, pur rendendosi conto di dare un contributo più che valido alla lotta in corso, si sentiva tenuta ai margini ed anelava invece ad operare militarmente, a diretto contatto con il nemico.
Si sentiva depressa, non utilizzata a pieno in quel lavoro di ufficio che non riusciva ad interessarla. Voleva far qualcosa di più esaltante. Perciò non appena una collega, che già militava nei "Servizi Speciali’’, l’avvicinò con le dovute cautele, accettò entusiasticamente di provare a lavorare in quel campo che seduceva la sua immaginazione.
    La camerata le diede l’indirizzo di Villa Hilke, in via Ravizza a Milano, sede operativa del Servizio Segreto G.S.A. (Gruppo Speciale Autonomo) denominato quasi goliardicamente "dottor De Santis, Allevamento volpi argentate’’ (1).
    Dopo un colloquio che chiariva le linee principali del servizio di questo gruppo, il dottor De Santis (al secolo Tommaso David) l’arruolò e le assegnò il nome in codice "Mirella’’, dato che nel reparto c’era già un’altra Carla (Carla Costa).
    Finalmente Carla Saglietti aveva trovato lo scopo che dava un senso pieno alla sua vita e vi si consacrò.
    Il nome in codice "Mirella’’ le dava il crisma della sua missione, si sentiva felice nella sua nuova responsabilità.
    Seguì quindi diligentemente il corso di addestramento specializzato presso il "Kora’’ agli ordini del maggiore tedesco Kurt Krupp. (3).
    Il corso verteva essenzialmente sul riconoscimento, ai fini strategici, delle truppe nemiche attraverso i "totem’’ di reparto e sull’identificazione dei vari mezzi corazzati nonché delle artiglierie. Venivano insegnate inoltre tecniche da seguire secondo la specialità dell’agente e tra l’altro anche tecniche di evasione in caso di cattura.
    Nel novembre 1944 "Mirella’’ era già preparata.
    Venne trasportata a bordo di un camion tedesco verso il fronte. Durante il viaggio nessuno parlò; "Mirella’’ era sola con i suoi pensieri, sempre più emozionata. Si concentrò sulla missione da compiere.
    Si era resa pienamente conto dei pericoli a cui andava incontro, ma era fermamente decisa ad affrontare ogni evenienza. Si domanda come potrebbe superare gli ostacoli della prima linea dello schieramento nemico, ma non vede l’ora di poter provare a sé stessa che ce la farà.
    Si arrampicarono sull’Appennino tra Bologna e Pistoia. L’impazienza dell’attesa le provocava fremiti che non aveva mai provati.
    Finalmente arrivarono a Pietracolora, 820 metri sul livello del mare, un piccolo borgo, casette basse, massimo due piani, arroccato sulla montagna.
    Faceva freddo: "Mirella’’ venne accolta nel modesto fabbricato dove erano accasermati i tedeschi. Le venne offerta una rustica cena e poté riposare un poco, prima di affrontare le fatiche dell’attraversamento delle linee. "Mirella’’ si sforzò, si impose di dormire per essere pronta ad iniziare, nelle migliori condizioni, la missione assegnatale.
    Passò qualche ora. La svegliarono. Un camerata tedesco l’accompagnò per una trentina di metri lungo la strada che scende verso Bombiana in mani nemiche.
    Rimasta sola, si strinse nel suo cappottino, i piedi erano gelati nonostante i calzettoni e gli scarponcini, ma ben presto non avvertì più il freddo. Scendeva automaticamente sforzandosi di vedere attraverso le nebbiolina avanti a sé.
    Vedeva qualche bagliore lontano e udiva il brontolio dei cannoni.
    Sola nella nebbia, tra due sterminati eserciti che si combattevano... e lei proseguiva verso un nemico pronto ad aggredirla con mille tentacoli. Sola. Ma doveva proseguire, voleva vincere tutte le prove che l’aspettavano.
    Ma ecco, l’artiglieria tedesca iniziò un fuoco di copertura per distrarre gli avamposti "alleati’’. Non era più sola.
    Sentiva vicino, però, anche il nemico ed il suo spirito si disponeva alla lotta, si dispiegava in un fervore che accendeva la sua anima e non le faceva sentire il vento gelido che le ghiacciava le guance.
    Giudicò opportuno lasciare la strada per scendere più rapidamente e anche per evitare pattuglie nemiche in perlustrazione. Ascoltava con attenzione spasmodica, analizzando ogni rumore diverso dal rombo dei cannoni e dal fischio leggero del vento tra i rami degli alberi.
    Le parve di distinguere a tratti il fruscio lontano di un torrente nel fondo valle. Doveva essere il torrente Silla, come aveva studiato sulla cartina, un affluente del fiume Reno.
    Non era affatto agevole scendere sul terreno accidentato. Più di una volta stette per cadere. Sagome contorte di alberi emergevano dalla foschia.
    Era ben cosciente delle possibilità di incontrare campi minati. Era un rischio da affrontare senza doversene preoccupare, ogni precauzione sarebbe stata inutile. Le dispiaceva soltanto pensare che non avrebbe potuto portare a termine la sua missione.
    Il suo istinto acuto l’avvertiva della presenza di altri indistinti pericoli; avrebbe voluto procedere con maggiore prudenza, evitare di far udire i suoi passi fra le foglie secche, gli urti degli scarponcini sui rami caduti e sulle pietre sporgenti.
Era già molto affaticata ma non ammetteva indulgenza per il suo fisico; bisognava far presto, molto presto.
Ma improvvisamente ebbe un sussulto, una voce straniera con accento portoghese. Ah! Forse un maledetto brasiliano.
Un nero alto e possente emerse dalla nebbia e le si piantò davanti puntandole il fucile.
"Mirella’’ scattò, raccolse tutte le sue forze, avvertì una forte scarica di adrenalina. In un attimo giudicò la situazione: non c’era nulla da fare, bisognava arrendersi e, caso mai, dopo, tentare la fuga o l’evasione, secondo le istruzioni apprese al corso, sapeva di non poter demordere, sapeva di dover stare ancora all’erta, sempre all’erta, per cogliere ogni occasione.
    Venne portata a Porretta Terme e poi a Scandicci, vicino Firenze. Un lungo viaggio in camionetta in mezzo a nemici armati che la guardavano con curiosità insinuante.
    Mantenne un contegno dignitoso e distaccato.
A Scandicci un ufficiale americano, un italoamericano, il capitano Moretti della Quinta Armata, la interrogò con aria bonaria, quasi cordiale e "Mirella’’ tirò fuori, con la maggiore naturalezza possibile, la storia che avevano preparato al corso di addestramento: voleva raggiungere la nonna bisognosa di aiuto, con tutti i particolari già studiati in maniera adeguata.
Ma il capitano Moretti non la bevve. Traspariva dal suo viso che egli sapeva qualcosa, forse qualcuno lo aveva informato... Poi "Mirella’’ ne ebbe la certezza, conosceva addirittura il suo nome in codice: "Mirella’’!
    L’interrogatorio si fece più duro, sempre più duro.
    "Mirella’’ venne spintonata violentemente, sempre più violentemente, venne sbattuta sul muro, più volte... più volte.
    Le si annebbiò la vista: quasi svenne. Non poteva reagire, non doveva reagire. Ma odiava il nemico, che le si svelava in tutta la sua abiezione. Lo odiava con tutte le sue forze.
    Un italo-americano: un traditore. Uno che ha rinnegato le sue radici e che ora si accanisce contro una piccola ragazza che non può reagire.
    Alla fine il capitano Moretti si stancò e "Mirella’’ fu chiusa a chiave in una cameretta buia.
    Non aveva mangiato, ma non sentiva fame. Era tutta pesta e dolorante, ripeteva a sé stessa che bisognava recuperare tutte le energie possibili per poter lottare senza cedere.
    Fece subito una rapida ispezione della cameretta nella vana ricerca di qualche appiglio che potesse favorire l’evasione.
    Poi si propose di riposare per recuperare le forze.
    La porta si socchiuse, arrivò furtivamente un pietoso militare Usa che le portò una tavoletta di cioccolata e, mentre lei l’addentava, lui le si buttò addosso, brancicandola con le sue manacce che le fanno ribrezzo, nausea, orrore.
"Mirella’’ si divincolò, urlò, tirò calci con i suoi bravi scarponcini, graffiò con le unghie quei viso puzzolente di whisky.
    Nel trambusto arrivò gente e il militare battè in ritirata.
    Arrivarono altri soldati. Sopravvenne l’ineffabile capitano che chiese a "Mirella’’ se era sicura di quanto stava denunciando.     Traspariva dalla sua voce un impercettibile punta di sarcasmo.
    Poi tornò la calma. Ma "Mirella’’ non potè più dormire.
    Era una tecnica di tortura psicologica di cui non era consapevole, ma che la prostrò e le spezzò i nervi. Odiava il nemico ancora di più e si confermò nella giustezza della lotta intrapresa.
    Bisognava resistere. Doveva recuperare le forze: era questo il suo assillo. Voleva dormire, doveva dormire, ma non poteva più.
    Capì che avrebbe dovuto mangiare almeno quella cioccolata, ma le faceva schifo.
    Restò sconvolta fino al mattino e quando finalmente avrebbe voluto dormire la riportarono all’interrogatorio.
    Ancora quell’odioso capitano Moretti che si pavoneggiava nella sua esecrabile divisa: elegante, curate, ben stirata.
"Mirella’’ si irrigidì sulla negativa.
    Allora Moretti la minacciò di fucilazione e "Mirella’’ si sentì stranamente liberata dall’ossessione di quell’interrogatorio. Finalmente era finita. Sia pure con la fucilazione, ma era finita.
La portarono fuori, circondata da divise caki, uomini armati di "Tompson’’; la appoggiarono ad una transenna ed il capitano Moretti si disse molto dispiaciuto della sua prossima fine, e parlava, parlava...
    Aspettava il crollo di "Mirella’’. Ma lei non lo sentiva più; era chiusa nella corazza della sua fede. Si sentiva finalmente libera e fece un ultimo gesto di disprezzo e di odio al suo aguzzino; la sua educazione le impediva di sputargli in faccia; gli fece le boccacce.
    Il capitano restò disorientato, spazientito, non sapeva più cosa fare. Era anche meravigliato dalla saldezza morale di quella che gli appariva come una ragazzina, ma che aveva più forza morale di un uomo.
    Tuttavia la spedì alle carceri di Firenze - Santa Verdiana - tra le detenute comuni.
    E lì, nel parlatoio di Santa Verdiana, avvenne il confronto con Carla Costa, l’altra "volpe argentata’’ che avevano arrestato in missione (4).
    Le due ragazze recitarono benissimo la commedia:
    Non la conosco
    Nemmeno io.
    Durante la permanenza nelle carceri di Firenze subì ancora un tentativo di violenza, ma su questo punto "Mirella’’ non ha mai voluto dare completa testimonianza.
    Malgrado la mancanza di prove certe, gli "Alleati’’ non mollarono. "Mirella’’ non poteva essere incriminata come Carla Costa, ma fu inviata senza preoccuparsi di darne una qualsiasi giustificazione, all’ "R. internee camp’’ di Collescipoli i provincia di Terni ("R’’ sta per "Recalcitrants’’). Era un campo di rieducazione tenuto dagli inglesi con metodi perfidamente persecutori.
A Collescipoli fu raccolta l’élite del fascismo clandestino del Sud ma furono reclusi anche gli agenti speciali della RSI che erano scampati ai campi minati, agli scoppi delle granate, alle fucilazioni.
    Lì "Mirella’’ conobbe la principessa Maria Pignatelli di Cerchiara, arrestata a Napoli al ritorno dalla sua missione in RSI, dove era stata ricevuta dal Duce.
    Recluse in uno dei capannoni della fabbrica di gomma sintetica Pirelli, utilizzati come campo di concentramento, le internate erano sottoposte a vessazioni ed angherie di ogni genere. Come quando un soldato inglese voleva portare a ballare una reclusa di sui si era invaghito: Nicoletta de Terlizzi.
    Essendosi lei sdegnosamente rifiutata, fu uccisa sotto gli occhi delle sue camerate allibite (5).
    Intanto in RSI Anna Bagaggia, una camerata che conosceva la mamma di Carla Saglietti, ascoltanto "Radio Londra’’ per motivi di servizio, apprese che Carla era stata catturata e fucilata. Avvertì la famiglia che ne ebbe un enorme, lancinante dolore.
Perfidi metodi terroristici di Albione per fiaccare il nostro morale.
    Il campo di Collescipoli restò aperto anche dopo la fine della guerra civile Fino al maggio 1946, epoca in cui fu smobilitato.
Molti detenuti furono rimessi in libertà ma i più "recalcitrants’’ furono trasferiti al campo di Riccione-Rimini "Campo Miramare’’, ultimo campo di concentramento inglese rimasto aperto in Italia.
    Tra questi, ovviamente, ci fu anche "Mirella’’.
    Il campo di Riccione era stato un campo di aviazione: era attrezzato solo con tende. La sezione femminile invece era sistemata in un padiglione della ex Colonia Marina della GIL, che era nelle vicinanze, strettamente sorvegliata da sentinelle polacche severissime, zelantissime e sospettosissime, ma non abbastanza da impedire l’evasione della principessa Maria Pignatelli, che non fu più ripresa.
    Intanto da interrogatori, subiti già in precedenza dagli agenti del Servizio Speciale "P.D.M’’, nel dopoguerra era emersa la verità sulla fuga di notizie relative alla identità degli agenti speciali: il badogliano tenente Gaeta (che sia sempre maledetto), si era infiltrato in Repubblica Sociale ed era addirittura riuscito a conquistare la fiducia dei tedeschi. Segnalava al nemico angloamericano i nomi veri ed i nomi in codice degli agenti speciali, missioni, orari e località dei tentativi di passaggio delle linee.
    A guerra finita si gloriava delle sue gesta di spia.
    Così "Mirella’’ e Carla Costa vennero a sapere chi dovevano ringraziare per le loro tribolazioni.
    Ma forse non tutti i mali vennero per nuocere: chissà che fine avrebbero fatto Carla Costa e Carla Saglietti nella primavera di sangue del 1945, che vide tanta ausiliarie bestialmente sacrificate con infame rito barbarico sull’ara della "liberazione’’ ignominiosamente insanguinata.
    Carla Saglietti, invece, alla chiusura del campo di Riccione, nell’estate del 1947 fu restituita alla vita civile.
Ma l’Italia che trovò le fece rimpiangere il campo di concentramento.
 
 
NOTE
(1) cfr G. Pisanò - Gli ultimi in grigioverde - Storia delle Forze Armate della RSI -CDL edizioni - Milano 1995 p. 2319 e p. 2322.
(2) cfr G. Pisanò op. cit. 2365 e 2366 in cui ci dà anche l'elenco completo delle agenti femminili che qui riportiamo: S. Ten. Anna Mulatto, maresciallo Maria Vinciguerra, serg. Magg. Anna Di Mato, ausiliarie Amelia Ansaloni (18 anni), Giovanna Braldi (19 anni), Adriana Barocci, Tea Boni (20 anni), Fernanda Chechi (22 anni), Carla Costa (17 anni), Anna Maria De Brentis (20 anni), Carla Saglietti (17 anni), Olga Spera (50 anni).
Manca l'elenco degli agenti uomini ma sappiamo che uno di loro fu Mario Martinelli, fucilato il 30.1.1945 alle cave di Maiano, Firenze, come riferito da Carla Costa.
La quasi totalità degli agenti venne catturata dal nemico e condannata a morte o a lunghe pene detentive.
(3) cfr G. Pisanò op. cit. pp. 2367-2370. La scuola di addestramento per i servizi speciali, in sigla "Kora" era a Milano in Viale Monza.
(4) vedasi Carla Costa - Servizio Segreto - le mie avventure in difesa della Patria oltre le linee nemiche - Quaderni di Storia Verità - Europa Libreria Editrice, Roma, 1998, pp. 76 e 77.
(5) Lettera della principessa Maria Pignatelli a D. Rousset databile verso la fine del 1949 riportata nel libro La lampada e il Fascio di R. Guarasci, Reggio Calabria, Laruffa Ed., 1987.
(6) Dattiloscritto di Carlo Rivolta, Rho, 1999.
 
 
 NUOVO FRONTE N. 196 Novembre e N. 197 Dicembre 1999 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)


domenica 6 giugno 2021

LE FIAMME BIANCHE. EPIGONI DEL VOLONTARISMO GIOVANILE ITALIANO

 LE FIAMME BIANCHE. EPIGONI DEL VOLONTARISMO GIOVANILE ITALIANO


Arnaldo Fracassini
 
 

     Il desiderio di partecipare alla guerra accanto ai più "grandi" è un fenomeno di tutti i tempi e di  quei popoli in cui i giovani sono stati educati all'amor patrio ed alla fede verso un ideale.
    Nella sua storia anche l'Italia ha numerosi esempi di "volontarismo" giovanile. Come non  ricordare il gesto di Perasso, ragazzo genovese, noto come Balilla, che scagliando una pietra contro  gli invasori della sua città dette inizio alla loro cacciata?... Ed i numerosi ragazzi accorsi sulle  barricate durante i moti risorgimentali?... E così, dagli studenti toscani che nel 1848 si coprirono di  gloria a Curtatone e Montanara, fino ai "picciotti siciliani" che si unirono ai "Mille" di Garibaldi.
    Quando nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale il fenomeno si ripeté ed i giornali ed i  bollettini dell'epoca ce lo confermano: esempi significativi tra tanti, le due Medaglie d'Oro al valor  militare conferite una allo Scout romano Alberto Cadiolo, "il più giovane combattente insignito della  massima onorificenza" e l'altra a Vittorio Montiglio, figlio di emigranti, imbarcatosi clandestinamente  per tornare in Patria ove, a soli 14 anni, riuscì ad arruolarsi per combattere su tutti i fronti e  promosso S. Tenente a 17!... Ed i leggendari "Ragazzi dei '99 accorsi al fronte dopo Caporetto?...
    Anni dopo, nel '35, durante la campagna in A.O. non pochi ragazzi tentarono di imbarcarsi per  unirsi alle truppe in partenza e con gran delusione si videro respingere. Fu allora che il Luogotenente  Generale della M.V.S.N. Renato Ricci, Presidente dell'Opera Nazionale Balilla, costituì, presso  ogni Comitato provinciale dell'Ente, "manipoli" di Avanguardisti moschettieri, selezionati per doti  fisiche e morali, i quali, in caso di necessità, avrebbero potuto essere impegnati nella campagna  coloniale. Ebbero una divisa speciale ed un armamento che li distinse dagli altri Avanguardisti, un  particolare addestramento premilitare; furono convocati a Bolzano per dimostrare la loro  preparazione, ma la campagna terminò il 9 maggio '36 con la proclamazione dell'Impero ed i  moschettieri rimasero come formazione speciale dell'O.N.B.
    Quando nel 1940 l'Italia entrò nuovamente in guerra circa 24.000 Giovani Fascisti (inquadrati  nella GIL, l'ente che aveva assorbito l'ONB) accorsero volontari per la "Marcia della Giovinezza"  per dimostrare la loro preparazione ed il desiderio di combattere. Nel tardo autunno i 22  Battaglioni nei quali erano confluiti furono sciolti ma molti vollero andare al fronte con le FF.AA.  Nacque il Reggimento "VOLONTARI GIOVANI FASCISTI" che, regolarmente inquadrato  nell'Esercito, si coprì di gloria in Africa settentrionale a Bir el Gobi. Altri Battaglioni di "Volontari  della G.I.L." furono impegnati a fianco delle FF.AA. distinguendosi per valore ed entusiasmo.
    Nel '43, come è noto, il Regio Governo di Badoglio proclamò l'armistizio (8 settembre) e fuggì al  Sud abbandonando l'Italia e tutte le FF.AA. al loro destino. Nel caos che ne seguì le FF.AA.  germaniche, tradite dall'improvviso voltafaccia, con 14 loro Divisioni neutralizzarono 33 delle nostre  ormai allo sbando senza direttive centrali; e dei 900.000 soldati sbandati sui vari fronti circa  400.000 furono "cautelativamente" internati in Germania. Solo circa 180.000 fra Ufficiali, sottufficiali  e soldati (prevalentemente della M.V.S.N.) rimasero al loro posto, a fianco dei Tedeschi, per  salvare l'"Onore d'Italia" e costituirono il primo nucleo delle nuove FF.AA.
    Liberato con ardita operazione dalla prigione sul Gran Sasso, Mussolini formò la Repubblica  Sociale Italiana e fra le molte iniziative per normalizzare la vita della Nazione volle la ricostruzione  delle FF.AA. e ovviamente, riapparve il fenomeno dei volontarismo giovanile: la stampa dell'epoca è  piena di notizie di fughe di giovani da casa e le foto ritraggono molti ragazzi arruolati in Unità  combattenti. Una fra tutte quella del Btg. "BARBARIGO" della Xa Divisione, schierato a Roma  prima di partire per il fronte di Nettuno: in essa si notano due ragazzi in uniforme, accanto al padre,  e la "mascotte" accanto al trombettiere
    Per disciplinare queste fughe, evitare il decadimento morale e non tradire le aspettative di questi  giovanissimi volontari, il Gen. Renato Ricci, Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana e  Presidente della ricostituita Opera Balilla (già forte di circa 650.000 iscritti) riprese l'idea del 1935,  disponendo la formazione presso ogni Comitato provinciale dell'Ente di Reparti di  "AVANGUARDISTI VOLONTARI MOSCHETTIERI", di età non inferiore ai 15 anni (limite che  conobbe qualche deroga in difetto da parte di qualche ragazzo che per prestanza fisica "barò"  sull'età), di sana e robusta costituzione e di ineccepibili doti morali, con l'avallo dei genitori. I reparti,  pur nati nell'O.B., furono posti alle dipendenze del Comando Generale della G.N.R. I giovani  ebbero uniforme simile alle altre dei reparti combattenti ma si distinsero per le "Fiamme bianche" sul  bavero della giubba e dalle quali trassero il nome. Dopo un severo addestramento presso le sedi di  reclutamento il 20 maggio '44 i Reparti furono concentrati in un Campo a Velo d'Astico (VI) per un  ulteriore impegno. Già in quei primi tempi alcuni giovani caddero; come i 7 dei Reparti toscani  falciati da un mitragliamento della tradotta che li trasportava al Campo nazionale presso Canàro  (RO). A Velo d'Astico i circa 6000 FF.BB. furono ripartiti in 6 Legioni. Impegnati diuturnamente in  severe attività cantavano, con la spensieratezza giovanile: "i sedici anni li consumiamo fra la gavetta e  le scarpinate!..." ardenti d'entusiasmo e desiderosi di combattere per mostrare il loro valore. E ben  presto lo dimostrarono: il 18 luglio a Tonezza il I° Battaglione, accantonato nella Caserma della  ex-Scuola A.U. fu attaccato da 60 partigiani, ma i ragazzi, cantando "Fratelli d'Italia", combatterono  valorosamente. Caddero il Ten. PETTINATO e le Fiamme bianche CECCARELLI, NASUTI e  TREVISAN, ma anche tre partigiani.
    Come ha scritto Pisanò: "i giovani che avevano anelato al battesimo di fuoco contro nemici esterni  si trovarono a combattere contro connazionali, ma caddero nella disperata ultima trincea della  Patria, quella che abbracciava la migliore Gioventù d'Italia!... " Quel Battaglione si era dato il motto:  "RENDICI L'ONORE! " e veramente dimostrò di esserne degno.
    Il 10 agosto il Campo fu sciolto, i giovani più idonei furono immessi in due Battaglioni inviati  prima al Albavilla (CO) poi a Marzio (VA) e quando nacque la Divisione "ETNA" della G.N.R. i  ragazzi furono smistati prima nel I° Btg. Ciclisti d’assalto “ROMA", poi in reparti di Difesa  contraerea. Altri passarono in altre formazioni combattenti della R.S.I. ovunque distinguendosi per  l'impegno ed il valore. Citando ancora il Pisanò:... "dove mancò l'esperienza dei vecchi combattenti  supplì il coraggio spesso temerario, e dove non poteva prevalere il numero supplì l'entusiasmo!..."
    L'ultima prova delle "Fiamme bianche", come è noto, avvenne a Bagnolo S. Vito (MN) il 24  aprile'45. La Compagnia "CACCIATORI DI CARRI", ripiegando sotto la pressione nemica, lasciò  alcuni giovani ex-Moschettieri a contrastarla. Rifulse il loro valore, una colonna nemica dovette  arrestarsi ma tre giovani caddero: BASSANI, BRIZZI e DELLA ROCCA, dopo una difesa  disperata!
    Anche se per troppo tempo ignorate, causa la perdita di ruolini e documenti ufficiali, le "Fiamme  bianche" col loro entusiasmo, il loro coraggio, il loro sangue generoso, hanno dimostrato  ampiamente di essere degni dei loro fratelli maggiori e dei loro padri. E tutti coloro che in Italia,  oggi, parlano di COSCIENZA o di VOLONTARISMO per trovare scappatoie al servizio militare  di leva o pretesti per usufruire di sovvenzioni pubbliche, e spesso irridono, con incolpevole  ignoranza, un periodo storico (ipocritamente tenuto loro nascosto o alterato per certi opportunismi  politici) e quelli che combatterono dalla "parte sbagliata", dovrebbero tacere e far tanto di cappello  di fronte a chi, quando in Italia sembrava tutto perduto e gli stranieri, al Sud ed al Nord, ne  calpestavano il territorio, accettò di combattere non per paghe speciali, ma per l'amore e ]'Onore  della Patria. Particolarmente i giovanissimi!