L'IMBOSCATA
DI VIA RASELLA
Ma questa era guerra?
Ivaldo Giaquinto
Nella ricorrenza del venticinquesimo
anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, avvenuta a Milano
il 23 marzo 1919, un gruppo del movimento clandestino di resistenza romano
preparò e attuò un temerario attentato contro i tedeschi,
che ebbe tragiche conseguenze di sangue per la popolazione romana e scosse
profondamente la coscienza nazionale.
Il 23 marzo 1944 alle ore
15 circa, nell'interno della città aperta di Roma, in pieno centro
storico, in via Rasella, all'altezza di palazzo Tittoni, mentre passava
un reparto di 156 uomini della 11a Compagnia del Reggimento "Bozen",
comandato dal maggiore Helmut Dobbrick - che da quindici giorni era solito
percorrere quella strada per rientrare in caserma dopo le esercitazioni
- scoppiava una bomba a miccia ad alto potenziale collocata in un carrettino
per la spazzatura urbana, confezionata con 18 chilogrammi di esplosivo
frammisto a spezzoni di ferro. La tremenda esplosione causò la morte
di trentadue militari tedeschi e di due civili italiani di cui un bambino
di dieci anni.
Subito dopo lo scoppio una
squadra di appoggio, che sostava tra via del Boccaccio e via del Traforo,
lanciava delle bombe a mano contro la coda del reparto per disorientare
i militari e quindi si dileguava verso via dei Giardini allontanandosi
rapidamente dalla zona.
Coloro che presero parte all'azione
furono: Rosario Bentivegna che, travestito da spazzino, trasportò
la bomba con la carretta; Franco Calamandrei, che si tolse il berretto
per indicare a Bentivegna che il reparto aveva imboccato via Rasella e
che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa; Carla Capponi, che
aspettava Bentivegna all'angolo di via delle Quattro Fontane; e poi Carlo
Salinari, Pasquale Balsamo, Guglielmo Blasi, Francesco Cureli, Raoul Falciani,
Silvio Serra e Fernando Vitagliano. Questi giovani (tra i 20 e i 27 anni)
facevano parte di uno dei tanti gruppi denominati di Azione Patriottica
(Gap) e dipendevano dalla Giunta militare, emanazione del Comitato di Liberazione
Nazionale (Cln), di cui erano responsabili Giorgio Amendola (comunista),
Riccardo Bauer (azionista) e Sandro Pertini (socialista). L'ordine di eseguire
l'imboscata di via Rasella, preparata nei minimi particolari da Carlo Salinari,
fu dato dai responsabili della Giunta militare. Successivamente Bauer e
Pertini dichiararono di non essere stati preventivamente informati e che
l'ordine venne dato da Amendola a loro insaputa. Amendola stesso, qualche
tempo dopo, confermò la versione, rivendicando a se stesso la responsabilità
di aver dato ai "gappisti" l’ordine operativo per l'attentato.
La sera del 26 marzo i giornali
pubblicarono il testo del comunicato ufficiale germanico. In uno stile
freddo, burocratico, la cittadinanza romana viene a sapere che: "Nel
pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato
con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per
via Rasella. In seguito a questa imboscata trentadue uomini della polizia
tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita
da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino
a che punto questo fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano.
Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi
banditi scellerati. Il Comando tedesco ha perciò ordinato che per
ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati: quest'ordine
è stato eseguito".
Processo Kappler. Tribunale
Militare di Roma, 20 luglio 1948. Momento drammatico di alta tensione in
aula quando, nel corso dell'udienza, esce dal pubblico una voce straziante
di donna che investe violentemente Rosario Bentivegna presente in aula
in qualità di testimone: "Assassino, codardo! Ho la mia creatura
alle Fosse Ardeatine, perché non ti sei presentato, vigliacco?".
È un’invettiva che esce dal cuore lacerato di una madre. Scottante,
crudele. Essa pone il problema morale della guerriglia e solleva un dubbio
atroce: si poteva evitare la rappresaglia dei tedeschi? In altre parole,
se i responsabili materiali dell'attentato si fossero presentati, il Comando
tedesco avrebbe ugualmente deciso la rappresaglia?
Il presidente del Tribunale,
gen. Euclide Fantoni, pone la domanda a uno dei protagonisti presenti,
Rosario Bentivegna, appunto. Il teste risponde che la presentazione degli
attentatori non fu esplicitamente richiesta dai tedeschi. “Se ci fosse
stata - afferma - mi sarei presentato". E aggiunge: "la colonna
tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano
arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati".
"No, - ribatte Kappler
- l’eccidio avrebbe potuto essere evitato se si fosse presentato l'attentatore
o se fosse venuta un'offerta della popolazione. D’altra parte, da mesi
erano affissi manifesti per gli attentati con l'indicazione della rappresaglia
da uno a dieci".
"No, - dice l'accusa
- i manifesti di cui parla l'imputato Kappler erano stati affissi due mesi
prima e lasciati esposti per soli due giorni".
Il punto da chiarire, quindi,
non era tanto quello di sapere se la rappresaglia ci sarebbe stata oppure
no. Era noto alle autorità politiche e amministrative, e a larga
parte della popolazione, che ad ogni attentato le rappresaglie c'erano
sempre, puntualmente. Quello che bisognava appurare era se un avviso, un
comunicato fosse stato diramato dal Comando tedesco agli esecutori dell'attentato
per invitarli a presentarsi onde evitare una strage di persone innocenti.
Come abbiamo visto dagli atti del processo, Bentivegna lo esclude.
Ma Domenico Anzaldi di Roma, in una lettera al settimanale "Panorama"
(n. 414 del 28 marzo 1974) afferma: "Senza voler entrare nella polemica
sulle responsabilità della strage delle Fosse Ardeatine, desidero
testimoniare che la sera dell'attentato di via Rasella è stato affisso
sui muri di Roma, e io l'ho letto, un manifesto preannunciante che il Comando
tedesco avrebbe fatto uccidere dieci «comunisti badogliani»
per ogni militare tedesco morto" .
In una intervista Bentivegna
dichiara: "Non credo che se mi fossi costituito la rappresaglia non
sarebbe avvenuta..." ("Oggi" n. 52 del 24 dicembre 1946).
Ma due avvenimenti tragicamente
analoghi a quello di via Rasella, al contrario di quello sublimati dall'olocausto
di quattro innocenti, mettono in una luce diversa l’affermazione di Bentivegna.
Quello di Palidoro, in provincia di Roma, avvenuto nel settembre 1943,
è noto. Avendo i tedeschi catturato ventidue ostaggi per consumare
su di essi la rappresaglia in seguito allo scoppio di una bomba nella locale
caserma, il vicebrigadiere dei Carabinieri, Salvo d'Acquisto, con grande
eroismo e coraggio si presentò al Comando tedesco dichiarandosi,
sebbene innocente, autore dell'attentato. Venne fucilato, ma col suo sacrificio
salvò la vita di ventidue innocenti che stavano per essere fucilati;
medaglia d'oro al valor militare. Meno noto è quello di Fiesole,
in provincia di Firenze, svoltosi nell'agosto 1944. Tre carabinieri della
locale stazione - Vittorio Marandola, Alberto La Rocca e Fulvio Sbarretti
- per salvare le vite di dieci innocenti ostaggi si presentarono ai nazisti
che li fucilarono immediatamente contro un muro dell'albergo Aurora; medaglie
d'oro al valor militare.
Dice Bentivegna: "La
colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti
e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li
ho attaccati". Al processo Kappler si apprese, invece, che il reparto
di 156 militari preso di mira dai "gappisti" romani non era di
truppe combattenti, ma era formato da riservisti altoatesini che non operavano
rastrellamenti e arresti ma erano destinati a compiti di ordine pubblico,
compatibili con le norme che regolavano il funzionamento della città
aperta di Roma.
In un giornale di Milano,
nell'edizione romana del 19 febbraio 1978, in un servizio dal titolo: "Parla
uno dei partigiani di via Rasella per l'attentato del 23 marzo 1944",
Pasquale Balsamo sottolinea: "È stata universalmente riconosciuta
una azione di guerra". Il Tribunale Militare di Roma, che il 20 luglio
1948 condannò Kappler all'ergastolo, pur stigmatizzando duramente
il massacro perpetrato alle Cave Ardeatine, sia per la sua sproporzione
che per l'inaudita crudeltà e ferocia usata verso le inermi e innocenti
vittime, trattate peggio delle bestie da mattare, dovette prendere atto
che, secondo il diritto internazionale (art. I della Convenzione dell'Aia
del 1907), l’attentato di via Rasella fu un fatto illegittimo. Chi invece
considerò l'imboscata di via Rasella "un'azione legittima di
guerra" fu la Magistratura ordinaria, che con sentenza della Corte
di Cassazione dell' 11 maggio 1957 non accolse le richieste di risarcimento
avanzate dai parenti delle vittime, già respinte dal Tribunale e
dalla Corte d'Appello civili di Roma, e sentenziò definitivamente
che ogni attacco contro i tedeschi costituiva un “atto di guerra".
In seguito, l’attentato fu sempre rivendicato come azione di guerra da
tutte le autorità dello Stato.
La condanna all'ergastolo
inflitta a Kappler dalla Magistratura militare fu invocata non per la rappresaglia
seguita all'azione di via Rasella; non per aver fatto uccidere dieci italiani
per ognuno dei trentadue "tedeschi" morti in via Rasella, eseguendo
un ordine superiore, ma per il delitto di omicidio volontario per aver
fatto fucilare 15 persone in più: 335 anziché 320. Dieci
per il trentatreesimo militare altoatesino deceduto successivamente in
ospedale (senza aver ricevuto specifico ordine dal gen. Maeltzer, suo superiore
diretto), e cinque per errore contabile sul numero delle persone contenuto
in una lista delle vittime designate. Nella condanna fu anche considerato
il reato di requisizione arbitraria di beni per avere, nel settembre del
1943, estorto agli ebrei romani 50 chilogrammi di oro.
Scrive Jo Di Benigno nel suo
libro "Occasioni mancate": "Era ormai cosa nota a tutti
che per ogni tedesco ucciso, dieci italiani venivano sacrificati. L'attentato
di via Rasella non ha nulla di glorioso".
Ripa di Meana scrive sull'organo
clandestino della Resistenza "L'ltalia nuova" del 4 aprile 1944:
"Per Roma intera la deplorazione dell'attentato fu unanime; perché
assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella
quale il nostro paese è impegnato; perché insensato, dato
che il maggior danno ne sarebbe certamente derivato alla popolazione italiana;
per quell'ampio senso di umanità che distingue noi latini e che
non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra e per il quale
ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell'odio
ma solo nella necessità".
Alla onesta imparziale ricostruzione
che Ivaldo Giaquinto ha scritto per "Volontà", desideriamo
aggiungere qualche nota a seguito di quanto s'è detto nella ricorrenza
del cinquantenario di quel triste episodio. Soprattutto desideriamo evidenziare
gli sforzi che qualcuno, come lo scrittore Paolo Volponi, fa ancora nel
tentativo di giustificare l'attentato di via Rasella per levarsi dallo
stomaco il peso di tanti morti innocenti. Scrive ("Corriere della
sera" del 25 marzo 1994) Volponi: “L'agguato di via Rasella è
stato quindi un vero e proprio atto di guerra, coraggioso e ben condotto",
concludendo "Nessun soldato ha mai dovuto provare la necessità
di espiare per le morti seminate in battaglia": ma quale microscopica
mistificazione, quale vera presa in giro è mai questa. Soldato è
quello in divisa, è quello che si riconosce e in battaglia si trova
di fronte a un soldato nemico a sua volta in divisa, e i due sono uno contro
l'altro, cioè tu cerchi di prevalere su di me ed io cerco di fare
altrettanto su di te.
L'assassino invece è
in abiti borghesi e ti ammazza perché tu non sai che è un
assassino, altro che "morti seminate in battaglia"! Del resto,
sullo stesso quotidiano milanese (23 marzo 1994), Sergio Quinzio è
stato in proposito molto chiaro: "Se i tedeschi infierirono - scrive
- con una rappresaglia al di là dei limiti imposti dalla legge di
guerra, gli attentatori, facendo saltare un reparto di soldati tedeschi
non impegnati in combattimento, compiendo cioè un'azione più
dimostrativa che di reale portata militare e sapendo bene la sproporzione
che avrebbe avuto la rappresaglia, avrebbe dovuto, se proprio avessero
deciso in quel modo, uscire allo scoperto e pagare il prezzo della loro
azione con la loro vita". Coraggiosamente, invece, gli attentatori
fuggirono subito e si tennero ben nascosti, lasciando che i tedeschi uccidessero
- come era stato previsto in precedenza in casi del genere - centinaia
di innocenti, ma non come scrive "Sette" del 24 marzo 1994 perché
"colpevoli soltanto di essere italiani" bensì vittime
inconsapevoli degli attentatori come lo erano stati, senza possibilità
di difendersi, i 35 altoatesini del reparto tedesco obbiettivo degli attentatori.
Le centinaia di morti, altoatesini
compresi, dovrebbero pesare sulla coscienza soprattutto del principale
protagonista dell’episodio, invece Rosario Bentivegna - per questa...gloriosa
azione addirittura decorato di medaglia d 'argento - oggi docente di medicina
del lavoro non esita a dichiarare che rifarebbe tutto.
Adesso il quotidiano di lingua
tedesca "Dolomiten" parlando di via Rasella scrive di "un'azione
insensata sul piano politico e su quello militare... e come ogni altro
atto di viltà, essa rappresenta tutt'altro che un attestato di gloria
per la Resistenza italiana". E "L'Osservatore romano", a
sua volta, condannando l'azione già cinquant'anni fa scriveva essersi
trattato di "una manovra politicamente e militarmente insensata...e
di una diretta sfida a Pio Xll". Nel giugno del 1980 Marco Pannella
si chiedeva pubblicamente se i morti di via Rasella fossero da attribuire
alla necessità della guerra partigiana o non piuttosto al tornaconto
del partito comunista. Pannella in quell'occasione si chiedeva testualmente:
"Quale fu la verità di via Rasella? È vero che gran
parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati
dal PCI, che lo stesso comando ufficiale della Resistenza romana erano
contrari all'ipotesi dell'azione terroristica e furono contrari ai comportamenti
successivi dei dirigenti del PCI? Come mai l'argomento è rimasto
tabù anche per gli storici democratici?".
È l'eroico (?) Bentivegna,
cercando di giustificare la sua viltà nel libro da lui scritto "Achtung
Banditen! Roma 1944" ha affermato "era nostro dovere non presentarci
a un bando del nemico che ci avesse offerto la vita degli ostaggi in cambio
della nostra", quanto dire "meglio che muoiano loro che noi".
Meno disonesto Amendola che
"non riusciva a liberarsi dalla sensazione di una responsabilità
personale" perché, ricordando l'episodio recentemente ha scritto
Silvio Bertoldi, "lo avevano deciso i comunisti del CLN, con l'assenso
del loro leader Giorgio Amendola ".
VOLONTA’ N. 4. Aprile 1994 |
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