IDEE
FONDAMENTALI
I
Come ogni salda
concezione politica, il fascismo è prassi ed è
pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e
dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze
storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro.
Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di
luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale
che la eleva a formula di verità nella storia
superiore del pensiero. Non si agisce spiritualmente
nel mondo come volontà umana dominatrice di volontà
senza un concetto della realtà transeunte e
particolare su cui bisogna agire, e della realtà
permanente e universale in cui la prima ha il suo
essere e la sua vita. Per conoscere gli uomini bisogna
conoscere l’uomo; e per conoscere l’uomo bisogna
conoscere la realtà e le sue leggi. Non c’è concetto
dello stato che non sia fondamentalmente concetto
della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee
che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie
in una visione o in una fede, ma è sempre, almeno
virtualmente, una concezione organica del mondo.
II
Così il fascismo
non si intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti
pratici, come organizzazione di partito, come sistema
di educazione, come disciplina, se non si guardasse
alla luce del suo modo generale di concepire la vita.
Modo spiritualistico. Il mondo per il fascismo non è
questo mondo materiale che appare alla superficie, in
cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri
e per sé stante, ed è governato da una legge naturale,
che istintivamente lo trae a vivere una vita di
piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del fascismo è
individuo che è nazione e patria, legge morale che
stringe insieme individui e generazioni in una
tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto
della vita chiusa nel breve giro del piacere per
instaurare nel dovere una vita superiore libera da
limiti di tempo e di spazio: una vita in cui
l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il
sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa
morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in
cui è il suo valore di uomo.
III
Dunque concezione
spiritualistica, sorta anche essa dalla generale
reazione del secolo contro il fiacco e materialistico
positivismo dell’Ottocento. Antipositivistica, ma
positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica,
né passivamente ottimistica, come sono in generale le
dottrine (tutte negative) che pongono il centro della
vita fuori dell’uomo, che con la sua libera volontà
può e deve crearsi il suo mondo. Il fascismo vuole
l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue
energie: lo vuole virilmente consapevole delle
difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle.
Concepisce la vita come lotta pensando che spetti
all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna
di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo
strumento (fisico, morale, intellettuale) per
edificarla. Così per l’individuo singolo, così per la
nazione, così per l’umanità. Quindi l’alto valore
della cultura in tutte le sue forme – arte, religione,
scienza – e l’importanza grandissima dell’educazione.
Quindi anche il valore essenziale del lavoro, con cui
l’uomo vince la natura e crea il mondo umano
(economico, politico, morale, intellettuale).
IV
Questa concezione
positiva della vita è evidentemente una concezione
etica. E investe tutta la realtà, nonché l’attività
umana che la signoreggia. Nessuna azione sottratta al
giudizio morale; niente al mondo che si possa
spogliare del valore che a tutto compete in ordine ai
fini morali. La vita perciò quale la concepisce il
fascista è seria, austera, religiosa: tutta librata in
un mondo sorretto dalle forze morali e responsabili
dello spirito. Il fascista disdegna la vita «comoda».
V
Il fascismo è una
concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo
immanente rapporto con una legge superiore, con una
Volontà obiettiva che trascende l’individuo
particolare e lo eleva a membro consapevole di una
società spirituale. Chi nella politica religiosa del
regime fascista si è fermato a considerazioni di mera
opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre a
essere un sistema di governo, è anche, e prima di
tutto, un sistema di pensiero.
VI
Il fascismo è una
concezione storica, nella quale l’uomo non è quello
che è se non in funzione del processo spirituale a cui
concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella
nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni
collaborano. Donde il gran valore della tradizione
nelle memorie, nella lingua, nei costumi, nelle norme
del vivere sociale. Fuori della storia 1’uomo è nulla.
Perciò il fascismo è contro tutte le astrazioni
individualistiche, a base materialistica, tipo sec.
XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni
giacobine. Esso non crede possibile la «felicità»
sulla terra come fu nel desiderio della letteratura
economicistica del `700, e quindi respinge tutte le
concezioni teleologiche per cui a un certo periodo
della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva
del genere umano. Questo significa mettersi fuori
della storia e della vita che è continuo fluire e
divenire. Il fascismo politicamente vuol essere una
dottrina realistica; praticamente, aspira a risolvere
solo i problemi che si pongono storicamente da sé e
che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione.
Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna
entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle
forze in atto.
VII
Antiindividualistica,
la concezione fascista è per lo Stato; ed è per
l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato,
coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua
esistenza storica. E’ contro il liberalismo classico,
che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha
esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si
è trasformato nella stessa coscienza e volontà
popolare. Il liberalismo negava lo Stato
nell’interesse dell’individuo particolare; il fascismo
riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo.
E se la libertà dev’essere l’attributo dell’uomo
reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava
il liberalismo individualistico, il fascismo è per la
libertà. E’ per la sola libertà che possa essere una
cosa seria, la libertà dello Stato e dell’individuo
nello Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello
Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto
meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il
fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e
unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia
tutta la vita del popolo.
VIII
Né individui
fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici,
associazioni, sindacati, classi). Perciò il fascismo è
contro il socialismo che irrigidisce il movimento
storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale
che le classi fonde in una sola realtà economica e
morale; e analogamente, è contro il sindacalismo
classista. Ma nell’orbita dello Stato ordinatore, le
reali esigenze da cui trasse origine il movimento
socialista e sindacalista, il fascismo le vuole
riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo
degli interessi conciliati nell’unità dello Stato.
IX
Gli individui
sono classi secondo le categorie degli interessi; sono
sindacati secondo le differenziate attività economiche
cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto
Stato. Il quale non è numero, come somma d’individui
formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il
fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il
popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei
più; ma è la forma più schietta di democrazia se il
popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente
e non quantitativamente, come l’idea più potente
perché più morale, più coerente, più vera, che nel
popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi,
anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella
coscienza e volontà di tutti. Di tutti coloro che
dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono
ragione di formare una nazione, avviati sopra la
stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come
una coscienza e una volontà sola. Non razza, nè
regione geograficamente individuata, ma schiatta
storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da
un’idea, che è volontà di esistenza e di potenza:
coscienza di sé, personalità.
X
Questa
personalità superiore è bensì nazione in quanto è
Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secondo
il vieto concetto naturalistico che servì di base alla
pubblicistica degli Stati nazionali nel secolo XIX.
Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al
popolo, consapevole della propria unità morale, una
volontà, e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto
di una nazione all’indipendenza deriva non da una
letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e
tanto meno da una situazione di fatto più o meno
inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da
una volontà politica in atto e disposta a dimostrare
il proprio diritto: cioè, da una sorta di Stato già in
fieri. Lo Stato infatti, come volontà etica
universale, è creatore del diritto.
XI
La nazione come
Stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto
si sviluppa. Il suo arresto è la sua morte. Perciò lo
Stato non solo è autorità che governa e dà forma di
legge e valore di vita spirituale alle volontà
individuali, ma è anche potenza che fa valere la sua
volontà all’esterno, facendola riconoscere e
rispettare, ossia dimostrandone col fatto
l’universalità in tutte le determinazioni necessarie
del suo svolgimento. E perciò organizzazione ed
espansione, almeno virtuale. Cosi può adeguarsi alla
natura dell’umana volontà, che nel suo sviluppo non
conosce barriere, e che si realizza provando la
propria infinità.
XII
Lo Stato
fascista, forma più alta e potente della personalità,
è forza, ma spirituale. La quale riassume tutte le
forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. Non
si può quindi limitare a semplici funzioni di ordine e
tutela, come voleva il liberalismo. Non è un semplice
meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà
individuali. È forma e norma interiore, e disciplina
di tutta la persona; penetra la volontà come
l’intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale
dell’umana personalità vivente nella comunità civile,
scende nel profondo e si annida nel cuore dell’uomo
d’azione come del pensatore, dell’artista come dello
scienziato: anima dell’anima.
XIII
Il fascismo
insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore
d’istituti, ma educatore e promotore di vita
spirituale. Vuoi rifare non le forme della vita umana,
ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a
questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda
addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La
sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo
dell’unità, della forza e della giustizia.
DOTTRINA
POLITICA E SOCIALE
I
Quando,
nell’ormai lontano marzo del 1919, dalle colonne del Popolo
d’Italia io convocai a Milano i superstiti
interventisti-intervenuti, che mi avevano seguito sin
dalla costituzione dei Fasci d’azione rivoluzionaria –
avvenuta nel gennaio del 1915 -, non c’era nessuno
specifico piano dottrinale nel mio spirito. Di una
sola dottrina io recavo l’esperienza vissuta: quella
del socialismo dal 1903-04 sino all’inverno del 1914:
circa un decennio. Esperienza di gregario e di capo,
ma non esperienza dottrinale. La mia dottrina, anche
in quel periodo, era stata la dottrina dell’azione.
Una dottrina univoca, universalmente accettata, del
socialismo non esisteva più sin dal 1905, quando
cominciò in Germania il movimento revisionista facente
capo al Bernstein e per contro si formò, nell’altalena
delle tendenze, un movimento di sinistra
rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo
delle frasi, mentre, nel socialismo russo, fu il
preludio del bolscevismo. Riformismo,
rivoluzionarismo, centrismo, di questa terminologia
anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume
del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal
Sorel, dal Lagardelle del Mouvement Socialiste,
dal Péguy, e dalla coorte dei sindacalisti italiani,
che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità
nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato
e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con
le Pagine libere di Olivetti, La Lupa
di Orano, il Divenire sociale di Enrico
Leone. Nel 1919, finita la guerra, il socialismo era
già morto come dottrina: esisteva solo come rancore,
aveva ancora una sola possibilità, specialmente in
Italia, la rappresaglia contro coloro che avevano
voluto la guerra e che dovevano «espiarla». Il Popolo
d’Italia recava nel sottotitolo «quotidiano dei
combattenti e dei produttori». La parola «produttori»
era già l’espressione di un indirizzo mentale. Il
fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina
elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un
bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma, nei
primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che
io diedi all’organizzazione, ne fissava i caratteri.
Eppure chi rilegga, nei fogli oramai gualciti
dell’epoca, il resoconto dell’adunata costitutiva dei
Fasci italiani di combattimento, non troverà una
dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di
accenni, che, liberati dall’inevitabile ganga delle
contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni,
svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali, che
facevano del fascismo una dottrina politica a sé
stante, in confronto di tutte le altre e passate e
contemporanee.«Se la borghesia, dicevo allora, crede
di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi
dobbiamo andare incontro al lavoro… Vogliamo abituare
le classi operaie alla capacità direttiva, anche per
convincerle che non è facile mandare avanti una
industria o un commercio… Combatteremo il
retroguardismo tecnico e spirituale… Aperta la
successione del regime noi non dobbiamo essere degli
imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato
saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Il
diritto di successione ci viene perché spingemmo il
paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria.
L’attuale rappresentanza politica non ci può bastare,
vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli
interessi… Si potrebbe dire contro questo programma
che si ritorna alle corporazioni. Non importa!… Vorrei
perciò che l’assemblea accettasse le rivendicazioni
del sindacalismo nazionale dal punto di vista
economico»… Non è singolare che sin dalla prima
giornata di Piazza San Sepolcro risuoni la parola
«corporazione» che doveva, nel corso della
Rivoluzione, significare una delle creazioni
legislative e sociali alla base del regime?
II
Gli anni che
precedettero la marcia su Roma, furono anni durante i
quali le necessità dell’azione non tollerarono
indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si
battagliava nelle città e nei villaggi. Si discuteva,
ma – quel ch’è più sacro e importante – si moriva. Si
sapeva morire. La dottrina – bell’e formata, con
divisione di capitoli e paragrafi e contorno di
elucubrazioni – poteva mancare; ma c’era a sostituirla
qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, a
chi rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli,
dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e
minori, chi sappia indagare e scegliere, troverà che i
fondamenti della dottrina furono gettati mentre
infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni,
che anche il pensiero fascista si arma, si raffina,
procede verso una sua organizzazione. I problemi
dell’individuo e dello Stato; i problemi dell’autorità
e della libertà; i problemi politici e sociali e
quelli più specificatamente nazionali; la lotta contro
le dottrine liberali, democratiche, socialistiche,
massoniche, popolaresche fu condotta
contemporaneamente alle «spedizioni punitive». Ma
poiché mancò il «sistema» si negò dagli avversarii in
malafede al fascismo ogni capacità di dottrina, mentre
la dottrina veniva sorgendo, sia pure tumultuosamente
dapprima sotto l’aspetto di una negazione violenta e
dogmatica come accade di tutte le idee che
esordiscono, poi sotto l’aspetto positivo di una
costruzione che trovava, successivamente negli anni
1926, `27 e `28, la sua realizzazione nelle leggi e
negli istituti del regime. Il fascismo è oggi
nettamente individuato non solo come regime ma come
dottrina. Questa parola va interpretata nel senso che
oggi il fascismo esercitando la sua critica su se
stesso e sugli altri, ha un suo proprio inconfondibile
punto di vista, di riferimento – e quindi di direzione
– dinnanzi a tutti i problemi che angustiano, nelle
cose o nelle intelligenze, i popoli del mondo.
III
Anzitutto il
fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire
e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni
considerazione di politica attuale, non crede alla
possibilità né all’utilità della pace perpetua.
Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia
alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo
la guerra porta al massimo di tensione tutte le
energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai
popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le
altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai
l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della
vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta
dal postulato pregiudiziale della pace, è estranea al
fascismo cosi come estranee allo spirito del fascismo,
anche se accettate per quel tanto di utilità che
possano avere in determinate situazioni politiche,
sono tutte le costruzioni internazionalistiche e
societarie, le quali, come la storia dimostra, si
possono disperdere al vento quando elementi
sentimentali, ideali e pratici muovono a tempesta il
cuore dei popoli. Questo spirito anti-pacifista, il
fascismo lo trasporta anche nella vita degli
individui. L’orgoglioso motto squadrista «me ne
frego», scritto sulle bende di una ferita, è un atto
di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una
dottrina non soltanto politica: è l’educazione al
combattimento, l’accettazione dei rischi che esso
comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il
fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile
il suicidio; comprende la vita come dovere,
elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e
piena: vissuta per se, ma soprattutto per gli altri,
vicini e lontani, presenti e futuri.
IV
La politica
«demografica» del regime è la conseguenza di queste
premesse. Anche il fascista ama infatti il suo
prossimo, ma questo «prossimo» non è per lui un
concetto vago e inafferrabile: l’amore per il prossimo
non impedisce le necessarie educatrici severità, e
ancora meno le differenziazioni e le distanze. Il
fascismo respinge gli abbracciamenti universali e, pur
vivendo nella comunità dei popoli civili, li guarda
vigilante e diffidente negli occhi, li segue nei loro
stati d’animo e nella trasformazione dei loro
interessi né si lascia ingannare da apparenze mutevoli
e fallaci.
V
Una siffatta
concezione della vita porta il fascismo a essere la
negazione recisa di quella dottrina che costituì la
base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano:
la dottrina del materialismo storico secondo il quale
la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto
con la lotta d’interessi fra i diversi gruppi sociali
e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione.
Che le vicende dell’economia – scoperte di materie
prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche
– abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che
esse bastino a spiegare la storia umana escludendone
tutti gli altri fattori, è assurdo: il fascismo crede
ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in
atti nei quali nessun motivo economico – lontano o
vicino – agisce. Negato il materialismo storico, per
cui gli uomini non sarebbero che comparse della
storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei
flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le
vere forze direttrici, è negata anche la lotta di
classe, immutabile e irreparabile, che di questa
concezione economicistica della storia è la naturale
figliazione, e soprattutto è negato che la lotta di
classe sia l’agente preponderante delle trasformazioni
sociali. Colpito il socialismo in questi due capisaldi
della sua dottrina, di esso non resta allora che
l’aspirazione sentimentale – antica come l’umanità – a
una convivenza sociale nella quale siano alleviate le
sofferenze e i dolori della più umile gente. Ma qui il
fascismo respinge il concetto di «felicità» economica,
che si realizzerebbe socialisticamente e quasi
automaticamente a un dato momento dell’evoluzione
dell’economia, con l’assicurare a tutti il massimo di
benessere. Il fascismo nega il concetto materialistico
di «felicità» come possibile e lo abbandona agli
economisti della prima metà del `700; nega cioè
l’equazione benessere=felicità che convertirebbe gli
uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di
essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla
pura e semplice vita vegetativa.
VI
Dopo il
socialismo, il fascismo batte in breccia tutto il
complesso delle ideologie democratiche e le respinge,
sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro
applicazioni o strumentazioni pratiche. Il fascismo
nega che il numero, per il semplice fatto di essere
numero, possa dirigere le società umane; nega che
questo numero possa governare attraverso una
consultazione periodica; afferma la disuguaglianza
irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che
non si possono livellare attraverso un fatto meccanico
ed estrinseco com’è il suffragio universale. Regimi
democratici possono essere definiti quelli nei quali,
di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di
essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta
in altre forze talora irresponsabili e segrete. La
democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re
talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo
re che sia tiranno. Questo spiega perché il fascismo,
pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza
– assunto un atteggiamento di tendenzialità
repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma,
convinto che la questione delle forme politiche di uno
Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel
campionario delle monarchie passate e presenti, delle
repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia
e repubblica non sono da giudicare sotto la specie
dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si
estrinseca l’evoluzione politica, la storia, la
tradizione, la psicologia di un determinato paese. Ora
il fascismo supera l’antitesi monarchia-repubblica
sulla quale si attardò il democraticismo, caricando la
prima di tutte le insufficienze, e apologizzando
l’ultima come regime di perfezione. Ora s’è visto che
ci sono repubbliche intimamente reazionarie o
assolutistiche, e monarchie che accolgono le più
ardite esperienze politiche e sociali.
VII
«La ragione, la
scienza – diceva Renan, che ebbe delle illuminazioni
prefasciste, in una delle sue Meditazioni filosofiche
– sono dei prodotti dell’umanità, ma volere la ragione
direttamente per il popolo e attraverso il popolo è
una chimera. Non è necessario per l’esistenza della
ragione che tutto il mondo la conosca. In ogni caso se
tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe
attraverso la bassa democrazia, che sembra dover
condurre all’estinzione di ogni cultura difficile, e
di ogni più alta disciplina. Il principio che la
società esiste solo per il benessere e la libertà
degli individui che la compongono non sembra essere
conforme ai piani della natura, piani nei quali la
specie sola è presa in considerazione e l’individuo
sembra sacrificato. E’ da fortemente temere che
l’ultima parola della democrazia così intesa (mi
affretto a dire che si può intendere anche
diversamente) non sia uno stato sociale nel quale una
massa degenerata non avrebbe altra preoccupazione che
godere i piaceri ignobili dell’uomo volgare». Fin qui
Renan. Il fascismo respinge nella democrazia l’assurda
menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico e
l’abito dell’irresponsabilità collettiva e il mito
della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la
democrazia può essere diversamente intesa, cioè se
democrazia significa non respingere il popolo ai
margini dello Stato, il fascismo poté da chi scrive
essere definito una «democrazia organizzata,
centralizzata, autoritaria».
VIII
Di fronte alle
dottrine liberali, il fascismo e in atteggiamento di
assoluta opposizione, e nel campo della politica e in
quello dell’economia. Non bisogna esagerare – a scopi
semplicemente di polemica attuale – l’importanza del
liberalismo nel secolo scorso, e fare di quella che fu
una delle numerose dottrine sbocciate in quel secolo,
una religione dell’umanità per tutti i tempi presenti
e futuri. Il liberalismo non fiorì che per un
quindicennio. Nacque nel 1830 come reazione alla Santa
Alleanza che voleva respingere l’Europa al pre-’89, ed
ebbe il suo anno di splendore nel 1848 quando anche
Pio IX fu liberale. Subito dopo cominciò la decadenza.
Se il `48 fu un anno di luce e di poesia, il `49 fu un
anno di tenebre e di tragedia. La repubblica di Roma
fu uccisa da un’altra repubblica, quella di Francia.
Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della
religione del socialismo, col famoso Manifesto dei
comunisti. Nel 1851 Napoleone III fa il suo illiberale
colpo di Stato e regna sulla Francia fino al 1870,
quando fu rovesciato da un moto di popolo, ma in
seguito a una disfatta militare fra le più grandi che
conti la storia. Il vittorioso è Bismarck, il quale
non seppe mai dove stesse di casa la religione della
libertà e di quali profeti si servisse. E’ sintomatico
che un popolo di alta civiltà, come il popolo tedesco,
abbia ignorato in pieno, per tutto il sec. XIX, la
religione della libertà. Non c’è che una parentesi.
Rappresentata da quello che è stato chiamato il
«ridicolo parlamento di Francoforte», che durò una
stagione. La Germania ha raggiunto la sua unità
nazionale al di fuori del liberalismo, contro il
liberalismo, dottrina che sembra estranea all’anima
tedesca, anima essenzialmente monarchica, mentre il
liberalismo è l’anticamera storica e logica
dell’anarchia. Le tappe dell’unità tedesca sono le tre
guerre del `64, `66, `70, guidate da «liberali» come
Moltke e Bismarck. Quanto all’unità italiana, il
liberalismo vi ha avuto una parte assolutamente
inferiore all’apporto dato da Mazzini e da Garibaldi
che liberali non furono. Senza l’intervento
dell’illiberale Napoleone, non avremmo avuto la
Lombardia, e senza l’aiuto dell’illiberale Bismarck a
Sadowa e a Sedan, molto probabilmente non avremmo
avuto, nel `66, la Venezia; e nel 1870 non saremmo
entrati a Roma. Dal 1870 al 1915, corre il periodo nel
quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il
crepuscolo della loro religione: battuta in breccia
dal decadentismo nella letteratura, dall’attivismo
nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo,
futurismo, fascismo. Il secolo «liberale» dopo aver
accumulato un’infinità di nodi gordiani, cerca di
scioglierli con l’ecatombe della guerra mondiale. Mai
nessuna religione impose così immane sacrificio. Gli
dei del liberalismo avevano sete di sangue? Ora il
liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi templi
deserti perché i popoli sentono che il suo
agnosticismo nell’economia, il suo indifferentismo
nella politica e nella morale condurrebbe, come ha
condotto, a sicura rovina gli Stati. Si spiega con ciò
che tutte le esperienze politiche del mondo
contemporaneo sono antiliberali ed è supremamente
ridicolo volerle perciò classificare fuori della
storia; come se la storia fosse una bandita di caccia
riservata al liberalismo e ai suoi professori, come se
il liberalismo fosse la parola definitiva e non più
superabile della civiltà.
IX
Le negazioni
fasciste del socialismo, della democrazia, del
liberalismo, non devono tuttavia far credere che il
fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso
era prima di quel 1789, che viene indicato come l’anno
di apertura del secolo demo-liberale. Non si torna
indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo
profeta De Maistre. L’assolutismo monarchico fu, e
così pure ogni ecclesiolatria. Cosi «furono» i
privilegi feudali e la divisione in caste
impenetrabili e non comunicabili fra di loro. Il
concetto di autorità fascista non ha niente a che
vedere con lo stato di polizia. Un partito che governa
totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella
storia. Non sono possibili riferimenti e confronti. Il
fascismo dalle macerie delle dottrine liberali,
socialistiche, democratiche, trae quegli elementi che
hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si
potrebbero dire i fatti acquisiti della storia,
respinge tutto il resto, cioè il concetto di una
dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli.
Ammesso che il sec. XIX sia stato il secolo del
socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è
detto che anche il sec. XX debba essere il secolo del
socialismo, del liberalismo, della democrazia. Le
dottrine politiche passano, i popoli restano. Si può
pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un
secolo di «destra», un secolo fascista; se il XIX fu
il secolo dell’individuo (liberalismo significa
individualismo), si può pensare che questo sia il
secolo «collettivo» e quindi il secolo dello Stato.
Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi
ancora vitali di altre dottrine è perfettamente
logico. Nessuna dottrina nacque tutta nuova, lucente,
mai vista. Nessuna dottrina può vantare una
«originalità» assoluta. Essa è legata, non fosse che
storicamente, alle altre dottrine che furono, alle
altre dottrine che saranno. Così il socialismo
scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico
dei Fourier, degli Owen, dei Saint-Simon; cosi il
liberalismo dell’800 si riattacca a tutto il movimento
illuministico del `700. Così le dottrine democratiche
sono legate all’Enciclopedia. Ogni dottrina tende a
indirizzare l’attività degli uomini verso un
determinato obiettivo; ma l’attività degli uomini
reagisce sulla dottrina, la trasforma, l’adatta alle
nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi
dev’essere essa stessa non un’esercitazione di parole,
ma un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche
del fascismo, la sua volontà di potenza, il suo volere
essere, la sua posizione di fronte al fatto «violenza»
e al suo valore.
X
Caposaldo della
dottrina fascista è la concezione dello Stato, della
sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per
il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale
individui e gruppi sono il relativo. Individui e
gruppi sono «pensabili» in quanto siano nello Stato.
Lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo
materiale e spirituale delle collettività, ma si
limita a registrare i risultati; lo Stato fascista ha
una sua consapevolezza, una sua volontà, per questo si
chiama uno Stato «etico». Nel 1929 alla prima
assemblea quinquennale del regime io dicevo: «Per il
fascismo lo Stato non è il guardiano notturno che si
occupa soltanto della sicurezza personale dei
cittadini; non è nemmeno una organizzazione a fini
puramente materiali, come quello di garantire un certo
benessere e una relativa pacifica convivenza sociale,
nel qual caso a realizzarlo basterebbe un consiglio di
amministrazione; non è nemmeno una creazione di
politica pura, senza aderenze con la realtà materiale
e complessa della vita dei singoli e di quella dei
popoli. Lo Stato così come il fascismo lo concepisce e
attua è un fatto spirituale e morale, poiché concreta
l’organizzazione politica, giuridica, economica della
nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e
nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo
Stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma
è anche il custode e il trasmettitore dello spirito
del popolo così come fu nei secoli elaborato nella
lingua, nel costume, nella fede. Lo Stato non è
soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto
futuro. E’ lo Stato che trascendendo il limite breve
delle vite individuali rappresenta la coscienza
immanente della nazione. Le forme in cui gli Stati si
esprimono, mutano, ma la necessità rimane. E’ lo Stato
che educa i cittadini alla virtù civile, li rende
consapevoli della loro missione, li sollecita
all’unità; armonizza i loro interessi nella giustizia;
tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze,
nelle arti, nel diritto, nell’umana solidarietà; porta
gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più
alta espressione umana di potenza che è l’impero;
affida ai secoli i nomi di coloro che morirono per la
sua integrità o per obbedire alle sue leggi; addita
come esempio e raccomanda alle generazioni che
verranno, i capitani che lo accrebbero di territorio e
i genii che lo illuminarono di gloria. Quando declina
il senso dello Stato e prevalgono le tendenze
dissociatrici e centrifughe degli individui o dei
gruppi, le società nazionali volgono al tramonto».
XI
Dal 1929 a oggi,
l’evoluzione economica politica universale ha ancora
rafforzato queste posizioni dottrinali. Chi
giganteggia è lo Stato. Chi può risolvere le
drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato.
Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se
non dallo Stato, entro lo Stato. Dove sono le ombre
dei Jules Simon, che agli albori del liberalismo
proclamavano che «lo Stato deve lavorare a rendersi
inutile e a preparare le sue dimissioni»? Dei Mac
Culloch, che nella seconda metà del secolo scorso
affermavano che lo Stato deve astenersi dal troppo
governare? E che cosa direbbe mai dinnanzi ai
continui, sollecitati, inevitabili interventi dello
Stato nelle vicende economiche, l’inglese Bentham,
secondo il quale l’industria avrebbe dovuto chiedere
allo Stato soltanto di essere lasciata in pace, o il
tedesco Humboldt, secondo il quale lo Stato «ozioso»
doveva essere considerato il migliore? Vero è che la
seconda ondata degli economisti liberali fa meno
estremista della prima e già lo stesso Smith apriva –
sia pure cautamente – la porta agli interventi dello
Stato nell’economia. Se chi dice liberalismo dice
individuo, chi dice fascismo dice Stato. Ma lo Stato
fascista è unico ed è una creazione originale. Non è
reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le
soluzioni di determinati problemi universali quali
sono posti altrove nel campo politico dal
frazionamento dei partiti, dal prepotere del
parlamentarismo, dall’irresponsabilità delle
assemblee, nel campo economico dalle funzioni
sindacali sempre più numerose e potenti sia nel
settore operaio come in quello industriale, dai loro
conflitti e dalle loro intese; nel campo morale dalla
necessità dell’ordine, della disciplina,
dell’obbedienza a quelli che sono i dettami morali
della patria. Il fascismo vuole lo Stato forte,
organico e al tempo stesso poggiato su una larga base
popolare. Lo Stato fascista ha rivendicato a sé anche
il campo dell’economia e, attraverso le istituzioni
corporative, sociali, educative da lui create, il
senso dello Stato arriva sino alle estreme propaggini,
e nello Stato circolano, inquadrate nelle rispettive
organizzazioni, tutte le forze politiche, economiche,
spirituali della nazione. Uno Stato che poggia su
milioni d’individui che lo riconoscono, lo sentono,
sono pronti a servirlo, non è lo Stato tirannico del
signore medievale. Non ha niente di comune con gli
Stati assolutistici di prima o dopo l’89. L’individuo
nello Stato fascista non è annullato, ma piuttosto
moltiplicato, cosi come in un reggimento un soldato
non è diminuito, ma moltiplicato per il numero dei
suoi camerati. Lo Stato fascista organizza la nazione,
ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso
ha limitato le libertà inutili o nocive e ha
conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo
terreno non può essere l’individuo, ma soltanto lo
Stato.
XII
Lo Stato fascista
non rimane indifferente di fronte al fatto religioso
in genere e a quella particolare religione positiva
che è il cattolicismo italiano. Lo Stato non ha una
teologia, ma ha una morale. Nello Stato fascista la
religione viene considerata come una delle
manifestazioni più profonde dello spirito; non viene,
quindi, soltanto rispettata, ma difesa e protetta. Lo
Stato fascista non crea un suo «Dio» così come volle
fare a un certo momento, nei delirii estremi della
Convenzione, Robespierre; né cerca vanamente di
cancellarlo dagli animi come fa il bolscevismo; il
fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi,
degli eroi e anche il Dio cosi come visto e pregato
dal cuore ingenuo e primitivo del popolo.
XIII
Lo Stato fascista
è una volontà di potenza e d’imperio. La tradizione
romana è qui un’idea di forza. Nella dottrina del
fascismo l’impero non è soltanto un’espressione
territoriale o militare o mercantile, ma spirituale o
morale. Si può pensare a un impero, cioè a una nazione
che direttamente o indirettamente guida altre nazioni,
senza bisogno di conquistare un solo chilometro
quadrato di territorio. Per il fascismo la tendenza
all’impero, cioè all’espansione delle nazioni, è una
manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il
piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che
sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che
muoiono sono rinunciatarii. Il fascismo è la dottrina
più adeguata a rappresentare le tendenze, gli stati
d’animo di un popolo come l’italiano che risorge dopo
molti secoli di abbandono o di servitù straniera. Ma
l’impero chiede disciplina coordinazione degli sforzi,
dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti
dell’azione pratica del regime e l’indirizzo di molte
forze dello Stato e la severità necessaria contro
coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo
e fatale dell’Italia nel secolo XX, e opporsi agitando
le ideologie superate del secolo XIX, ripudiate
dovunque si siano osati grandi esperimenti di
trasformazioni politiche e sociali: non mai come in
questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità,
di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua
dottrina, da mille indizii appare che quella del
secolo attuale è il fascismo. Che sia una dottrina di
vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede:
che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il
fatto che il fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi
martiri. Il fascismo ha oramai nel mondo
l’universalità di tutte le dottrine che,
realizzandosi, rappresentano un momento nella storia
dello spirito umano.
