venerdì 10 maggio 2019

Storia Contemporanea

Storia Contemporanea

Anche se la speranza è che questo articolo lasci un po’ di rabbia nel lettore, la prima notizia è, a suo modo, tranquillizzante: non preoccupatevi, finora calma piatta. All’orizzonte nessun segnale di cambiamento anche perché nessuno sospetta che ci sia anche questo problema. O, per lo meno, che il problema sia grosso come in realtà è. E cioè che in Italia si fanno pochi documentari di Storia. Come mai? La risposta arriverà tra un po’. Per ora partiamo dalla premessa, che è la solita: l’Italia che è un gigante dal punto di vista artistico-storico-culturale diventa un nano non appena si cerchi, in un modo qualunque, di trasformare in peso specifico questa dote unica al mondo. Che sia la gestione dei musei o del flusso turistico, la conservazione dei beni culturali o la tutela dei centri storici o del paesaggio, la consapevolezza della nostra Storia o la valorizzazione dei giacimenti culturali «periferici», l’organizzazione dei fondi archivistici o la divulgazione: qualunque sia la carta presa dal mazzo il risultato è sempre lo stesso. Un ritardo spaziale rispetto agli altri Paesi europei, uno schiaffo in faccia alla logica, un insulto a quella che è la nostra incredibile (e per lo più trascurata) eredità storico-culturale.
In linea con tutti gli scandali e le inefficienze italiane che da anni vengono messe in fila da magistratura e stampa d’inchiesta, anche l’assenza di una produzione di documentari storici qualitativamente e quantitativamente all’altezza della storia italiana ha radici numerose, complesse e sufficientemente aggrovigliate. Ritardi culturali complicati dalla burocrazia; la latitanza degli imprenditori che va a braccetto con un mercato nostrano - in apparenza? – asfittico; il deficit di progettualità che trae linfa dalla scarsa considerazione dei grandi operatori stranieri abituati a considerare il mercato italiano come un mercato di acquirenti, neanche troppo sofisticati, e non certo di produttori, men che meno di qualità. Eh già, perché quello che si vede nelle reti generaliste o nei canali satellitari o del digitale terrestre, ha una sponda anche nel campo del documentario storico: che siano i cartoni animati Disney o giapponesi, che sia il Dottor House oppure le «Casalinghe disperate», un quiz come «Chi vuol essere milionario» o un gioco come «Affari tuoi», oppure un reality come il Grande Fratello o «X Factor» la nostra TV è sfacciatamente debitrice dei format e delle serie prodotte all’estero, in primis negli USA ovviamente. L’Italia è un mercato televisivo di primo piano per più di un aspetto ma da noi la produzione è secondaria rispetto alla trasmissione di programmi realizzati all’estero o è incanalata nella riproposizione di format TV (cioè di modelli di programmi da seguire scrupolosamente) comprati a caro prezzo sul mercato internazionale. Così come le nostre emittenti, quando vogliono trasmettere qualche cosa di storico, si svenano per comprare documentari prodotti dalla BBC, da Discovery Channel o dalla statunitense A&E Television Network, proprietaria – tra le altre cose – del marchio «History Channel». Ovviamente c’è anche altro, soprattutto prodotto in casa RAI ma, come vedremo tra poco, non c’è comunque da stare allegri.
Ma quali sono – e dove – gli spazi per i documentari storici? La risposta più semplice riguarda Mediaset: da nessuna parte. Le televisioni fondate da Berlusconi riflettono alla perfezione gli orientamenti culturali dell’uomo che le ha create (salvo poi denunciare a ripetizione una presunta preponderanza culturale dei propri avversari, preponderanza che non si è mai cercato di contrastare in alcun modo segno che o non è così fastidiosa o non è così preponderante): poco spazio alla cultura, nessuno alla Storia. Ogni tanto qualcosa faceva capolino su Rete 4: la trasmissione «Solaris» tra un bel po’ di natura ogni tanto si concedeva qualche tema storico, per lo più con documentari d’acquisto realizzati all’estero. Quando poi trasmissioni come «Vite Straordinarie» si accostano a temi storici (es. Mussolini o Padre Pio) la mano invece che al telecomando vorrebbe correre direttamente alla pistola. Tempo fa Claudio Brachino si cimentò con una trasmissione dal titolo «Top Secret» (Italia 1) ma considerarla una trasmissione di inchiesta storica sarebbe eccessivo. Andando molto indietro nel tempo c’è stato anche il caso, invero un po’ patetico, di Roberto Gervaso, ridotto a parlare a ruota libera anche di personaggi storici, in piena notte, o quello, più ambizioso, della «Macchina del Tempo» (per qualche tempo diventata anche una TV satellitare e una rivista senz’anima) condotta da Alessandro Cecchi Paone. Cecchi Paone ha cercato di accreditarsi come divulgatore storico, prendendo la scorciatoia di acquistare documentari stranieri in cui inserire, ogni manciata di minuti, un proprio intervento. In seguito, Cecchi Paone, con meno mezzi ha fatto la stessa operazione (sempre su Rete 4) con «Appuntamento con la Storia».
Se il capitolo Mediaset è cosa che si risolve in poche righe non è così per quello RAI. La TV di Stato italiana infatti, pur tra mille ritardi, settarismi e miopie, ha prodotto e produce molti documentari ma continua ad acquistarne troppi all’estero, limitando così gli spazi per l’industria documentaristica italiana. Di quelli che sono i limiti strutturali di un sistema televisivo che non investe in cultura si dirà più avanti. Qui – visto che di RAI si parla – basterà anticipare un elemento: la TV di Stato tende ad acquistare, quando acquista, tutti i diritti dei documentari che intende trasmettere. Cosa vuol dire? Vuol dire che il produttore privato che abbia realizzato un documentario se vuole venderlo alla RAI (come del resto fanno anche altri grandi del panorama televisivo internazionale) deve cedere ogni diritto sulla sua opera. In pratica non potrà rivendere la sua opera, ad esempio, ad altre emittenti straniere ma si dovrà accontentare dell’unica vendita alla RAI per cui la vita del documentario si risolve in una unica messa in onda, sovente con tagli sostanziosi e nessuna citazione di chi l’ha realizzato e prodotto.
Se a coronamento di tutto questo si aggiunge che il prezzo di mercato di un documentario di circa 50 minuti difficilmente supera i 20 mila euro e molto spesso scende molto più in basso, ecco che un rapido elenco delle spese necessarie a produrre il documentario può lasciare i non addetti ai lavori attoniti quasi quanto quelli del settore. La cifra che si riesce a spuntare deve comunque coprire i costi di riprese, viaggio e montaggio, di scrittura e regia, lo speaker, la grafica, eventuali materiali di repertorio, diritti di ripresa in alcuni luoghi, magari intervistati celebri che chiedono un compenso… La premessa per la nascita di una industria del settore sarebbe quindi la possibilità per i produttori di mantenere la proprietà delle proprie opere e di cederne lo sfruttamento per un certo periodo o per un certo numero di repliche ad una sola emittente per ogni nazione e per ogni canale di trasmissione. Insomma, si può vendere in Italia ad una TV generalista e ad un canale satellitare a pagamento e, contemporaneamente, ad un canale tematico in Germania e ad uno in Polonia e così via… Si potrebbero quindi realizzare contemporaneamente più vendite in diverse realtà, ricavando cifre maggiori da quelle di un’unica e definitiva vendita ad una sola emittente. Ma per farlo c’è bisogno di un po’ di ossigeno finanziario e bisogna avere un catalogo, bisogna cioè differenziare l’offerta, avere più prodotti da vendere per soddisfare il maggior numero di potenziali acquirenti: il documentario che può interessare in Germania magari non va bene in Brasile oppure quello che può piacere alle TV arabe non è commercializzabile in Russia. Ma come porsi, da produttori di storia italiani in uno scenario globale se la TV commerciale predominante non si cura del tema e quella di Stato non stimola la produzione nazionale (cosa che invece fa, ad esempio, per il cinema o la fiction)?
A breve la definitiva affermazione del digitale terrestre e il possibile varo di nuove piattaforme satellitari in competizione con Sky, oltre alla diffusione delle web TV ormai già sbarcate sugli schermi casalinghi, porterà ad un allargamento esponenziale dell’offerta di programmi televisivi. Con il prevedibile effetto, in tempi brevi e medi, di una mega-corsa al riciclaggio: da sempre l’innovazione tecnologica precede l’offerta di contenuti: prima è arrivata la radio e poi ci si è chiesti cosa trasmettere e per quanto tempo; così è stato per la televisione e, in tempi più recenti, per internet. Tutti i grandi operatori volevano creare dei portali ma avevano difficoltà a riempirli: è storia di pochi anni fa. Con l’esplosione di canali che ci sarà da qui a un paio d’anni il fenomeno è destinato a ripetersi. Con quali conseguenze? La prima è che chi potrà darà fondo ai magazzini, per cui saremo sommersi da quello che già è andato in onda. Cosa che del resto già fa, tanto per restare dalle parti di Viale Mazzini, la RAI col suo canale satellitare «Raisat Extra» (canale Sky 120) o il neonato «RAI Edu Storia» (canale Sky 806). E se «Raisat Extra» nasce come canale che offre il meglio della programmazione delle tre reti RAI nei giorni immediatamente precedenti (e non a caso risulta essere uno dei migliori canali satellitari) «RAI Edu Storia» nei suoi primi mesi di vita ha offerto – solo nella fascia serale – soprattutto puntate della «Storia siamo noi» di Giovanni Minoli (che non a caso, come direttore di RAI Educazione, è il promotore di questa iniziativa) e altro materiale decisamente datato. Detto questo Minoli ha – insieme al difetto di non stimolare la produzione esterna per i motivi che si son già detti - il pregio di avere, comunque, un progetto di comunicazione storica che, facendo leva sull’immenso archivio RAI, punta a raccontare l’Italia e la sua storia. Peccato che la Storia de «La storia siamo noi» sia solo quella del Novecento, anzi soprattutto quella del secondo Novecento: insomma restano fuori oltre venticinque secoli di fatti e personaggi italiani. Un «buco» un po’ troppo grosso per chi ha ambizioni di divulgazione storica. Detto questo, il prodotto storico della squadra di Minoli è per forma e contenuti nettamente migliore di quello prodotto da altre realtà RAI.
Decentramento, decentramento, decentramento: in RAI il localismo contenutistico viene da sempre praticato con coerenza non sempre proporzionata alla qualità finale. Con la sola eccezione dello sport – RAI Sport offre i propri servizi a tutte le reti di Viale Mazzini – per tutti gli altri temi si va di preferenza in ordine sparso. E così parlano (saltuariamente) di storia gli Angela su RAI Uno e RAI Tre, il TG1 ha una rubrica settimanale di Storia affidata al bravo (ma lasciato un po’ solo) Roberto Olla che nella stessa struttura giornalistica si ritrova, tutte le mattine, i «fondamentali» servizi di Gianni Bisiach (81 anni) titolare inamovibile della rubrica «Un minuto di storia», realizzata come se fossimo ancora negli anni Sessanta e non nel 2009. Su RAI Tre c’è «Enigma» condotto da Corrado Augias che con lo stile dell’inchiesta da studio costruisce, a metà fra storia e costume, puntate sui paralleli tipo «Sissi e Lady Diana» oppure passando con superficiale disinvoltura da Moana Pozzi alla Callas, da Mussolini a Che Guevara, da Grace Kelly a Bernardo Provenzano. A completare il panorama le rade puntate a tema storico di «Porta a Porta», con la solita compagnia di giro di più o meno ottuagenari «esperti» che va da Arrigo Petacco al senatore Giulio Andreotti. Ma il capitolo più discutibile è quello de «La Grande Storia». Una struttura che riesce a produrre ogni anno una manciata di documentari che girano, nella stragrande maggioranza dei casi, intorno ai soliti temi: Fascismo, Nazismo, Comunismo. Il programma fa parte del «Progetto Storia» di RAI Tre così come «Enigma» e «Correva l’anno» (curioso fenomeno che vede la presenza fissa del solo Paolo Mieli che, in genere, chiude la trasmissione raccontando in cinque minuti quello che si è appena visto in 50). Della «Grande Storia», questo giornale si è già occupato nel numero 11 del settembre 2006 per documentare l’incredibile serie di strafalcioni e superficialità di due documentari (su l’Oro di Dongo e sulla battaglia di Montecassino) mandati in onda tra la fine di agosto e il primo settembre di quell’anno. Ma la storia della «Grande Storia» vanta altre perle, il cui «valore» è amplificato dalla supponenza con cui i documentari vengono presentati nonostante la frequente sciatteria dei testi sovente sganciati dalle immagini. Eppure a disposizione ci sono gli immensi archivi dell’Istituto LUCE, archivi la cui vastità non autorizza a scegliere una immagine a caso: quando, ad esempio, si parla di Mussolini nel 1943 è ammissibile mostrare un Mussolini di 10, 15 anni prima? La Storia richiede precisione che non è pignoleria ma semplicemente informazione corretta, soprattutto quando non si può addurre la scusante della carenza di immagini o quella del poco tempo a disposizione. C’è gente come il celebrato Nicola Caracciolo che passa mesi e mesi per confezionare prodotti sempre uguali e montati come se fosse ancora al tempo della sua gioventù che coincide con il periodo che continua a raccontare in modo ossessivo, trovando ogni volta il «filmato inedito». A proposito di inediti, sempre la «Grande Storia» anni fa mandò in onda, in due puntate, un documentario sugli ultimi giorni di Mussolini firmato dall’americano Peter Tompkins che giunse anche a stravolgere il senso di una fondamentale testimonianza per piegarlo alla sua tesi. Caso piuttosto raro nella storia del documentario la seconda puntata si chiuse con un cartello di scuse e di rettifica. Solo un cartello…
Troppi esempi su Mussolini e il Fascismo? Il problema è che (non sola) la «Grande Storia» ama cimentarsi soprattutto con certi temi, sia per ragioni di audience sia perché avendo a disposizione l’archivio dell’Istituto LUCE, è giocoforza limitarsi al Novecento. Anche per la «Grande Storia» la grande storia è solo quella del XX secolo: prima devono essere avvenute solo cose trascurabili… In realtà l’Istituto LUCE rappresenta un altro ostacolo allo sviluppo del documentario storico italiano. Un ostacolo perché, offrendo molto materiale su relativamente pochi aspetti (Grande Guerra, Fascismo, periodo coloniale, monarchia, Seconda guerra mondiale, guerra civile, ricostruzione, boom economico…) vellica la pigrizia di autori e registi, indirizzandoli sempre verso i soliti temi. Ed è anche un ostacolo perché la sua privatizzazione ha creato una strozzatura sul fronte produttivo difficilmente aggirabile. Nonostante alcuni recenti accordi con la giovane associazione dei documentaristi italiani (Doc/it, Associazione dei documentaristi italiani, www.documentaristi.it) il LUCE vende il materiale d’archivio a costi e condizioni comunque sproporzionate rispetto alla realtà del mercato: diverse centinaia di euro per ogni minuto e che devono essere corrisposte ogni volta che il documentario viene messo in onda. Con i prezzi che corrono non è quindi difficile capire che è un po’ complicato montare un documentario di 50 minuti anche con solo 5/10 minuti di filmati di repertorio. Ci sono poi altri esempi da fare: ad esempio quello dei National Archives di Washington dove il materiale è gratuito e si paga solo il riversamento dal master alla cassetta digitale. Chi ottiene il materiale ne diventa proprietario e può farne ciò che vuole. Questo nell’America che molti, in tutti gli schieramenti, hanno per modello, salvo poi non copiarla nelle cose che oggettivamente fa in modo encomiabile e democratico. «Democratico» è il termine giusto perché il LUCE era, di fatto, un archivio pubblico audiovisivo. Con la sua privatizzazione si è fatto in modo che un bene pubblico (in questo caso migliaia di ore di riprese storiche) venisse trattato in termini di «mercato» (anche se, come si è visto, del reale andamento di mercato non si cura) privando così gli italiani del pieno godimento di un patrimonio comune. Una scelta fatta già anni addietro e che ora può sembrare di grande attualità visto che per rimediare allo sfascio del nostro patrimonio storico-museale-paesaggistico si parla sempre più di frequente dell’ingresso di privati nella gestione di realtà come Pompei o Venezia. Ma ora che anche l’acqua potabile di molti e importanti comuni sta per essere affidata in gestione ai privati, perché stupirsi di come si cerca di cavar denaro da vecchi rulli di pellicola?
Fabio Andriola
direzione@storiainrete.com


                                                                                                                                              

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