CHI VOLLE LA GUERRA CIVILE E
PERCHE'?
ATTIVITA' DEI GAP NEL MODENSE. ELENCO
DI ASSASSINATINino Colombari
NELLA PRIMAVERA del 1944, come già in attività
nelle province di Reggio Emilia e Bologna, il P.C.I. Modenese decise di
creare un apparato militare sotto forma di bande armate e "gappiste''
per la città, la bassa modenese e in diverse località dell'Appennino
modenese. Per le zone di montagna venne scelto, quale comandante e responsabile
politico, un comunista di Pavullo nel Frignano (MO) che assunse il nome
di copertura "Armando'' e diede vita alla Brigata Garibaldi Riveda.Nei mesi di giugno e luglio 1944 il Comando provinciale della G.N.R.
di Modena decise di ritirare la Guardia Nazionale Repubblicana in molte
località dell'Appennino modenese lasciando ai Carabinieri il controllo
dell'ordine pubblico. Queste località dopo il ritiro del contingente
della GNR vennero occupate dai partigiani comunisti comandati da Mario
Ricci, detto "Armando''. La notizia che importanti centri come Frassinoro,
Polignago, Frignano ecc. non erano più presidiati dalle Guardie
della GNR, divenne operativa ai primi di giugno 1944. I capi partigiani,
sorpresi essi stessi dal precipitare della situazione, diedero ordine ai
loro uomini di occupare i presidn che la GNR e i tedeschi avevano evacuato.
L'unico comune della zona ancora presidiato dalla GNR era quello di Montefiorino,
un grosso borgo di circa settemila abitanti. Il 13 giugno "Armando'' fu è in grado
di raggruppare le proprie bande nella prima divisione Garibaldi Modena.
Allorchi la sera del 15 giugno giunse la notizia che anche il presidio
di Montefiore stava ripiegando. La notizia, prima della caduta di Roma e dello sbarco
alleato in Normandia, crer nel campo partigiano uno stato di autentica
ebbrezza. E si misero a giocare al nuovo Stato, con l'idea di contrapporre
alla Repubblica di Mussolini una repubblica partigiana. Il 18 giugno 1944
il campanone di Montefiorino si mise a suonare a stormo, dando vita alla
cosiddetta "repubblica di Montefiorino''. La notizia che nella zona dell'Appennino modenese
si era costituita una "zona libera'' partigiana giunse anche al comando
alleato. Ben presto, mentre cominciava l'afflusso di materiale bellico
aviolanciato dagli angloamericani, gli Ufficiali alleati, di concerto con
Armando elaborarono un ambizioso piano operativo che doveva fare della
"repubblica di Montefiorino'' un elemento strategico decisivo nel
quadro dell'affluenza verso la valle del Po. I tedeschi erano giustamente allarmati da questa
costituenda "fortezza'' dietro le loro linee che metteva in pericolo
tutto il loro schieramento sull'Appennino toscoemiliano. Essi erano al
corrente di ufficiali e tecnici alleati che collaboravano con l' "Armando''. La cosiddetta "fortezza di Montefiorino'' era
composta esclusivamente di ex prigionieri sovietici al comando di A.V.
Tarasov, un comunista russo che dopo l'8 settembre era rimasto per alcune
settimane nella fattoria dei fratelli Cervi a Campegine di Reggio Emilia.
Dopo l'arresto dei fratelli Cervi, Tarasov si era portato nel modenese
con il concorso di altri suoi connazionali e aveva costituito il "battaglione
sovietico'' dotato di un armamento più scelto e potente rispetto
a quello delle bande partigiane italiane. Il generale Messerle, che comandava il dispositivo
tedesco del Sud Emilia, inviò un suo Ufficiale al comando partigiano
di Montefiorino con il compito di trattare una tregua, ponendo delle precise
condizioni che non vennero accettate dall'Armando. Al Comando italotedesco non restò quindi
che ricorrere alla maniera forte, vale a dire al rastrellamento.Tra il 20 e 26 luglio 1944 furono convogliati nella zona due battaglioni
della GNR e circa duemila soldati tedeschi. Di fronte avevano circa duemila
guerriglieri. Tra questi il "battaglione sovietico'' costituiva il
punto di forza dello schieramento partigiano. All'alba del 28 luglio 1944 le truppe italogermaniche
iniziarono il loro movimento in direzione di Montefiorino. L'attacco venne condotto da tre colonne, due provenienti
da nord (Carpiteri e Castellarano) e una da sud (Piandelagotti) in base
al classico piano di "rastrellamento ad anello''. La più grossa resistenza opposta da singoli
gruppi di guerriglieri fu quella del "battaglione sovietico'' che
sapeva di lottare per la propria sopravvivenza. La difesa partigiana venne
infranta dovunque. Tutti i grossi centri, compreso Montefiorino, caddero
nelle mani delle truppe italotedesche.Armando, gli ufficiali alleati e un migliaio di uomini, raggiunsero
in Toscana le Divisioni americane. Così fu che la tanto decantata
"repubblica di Montefiorino'' ebbe la durata di un sospiro. Il 15 dicembre 1953 l'onorevole democristiano Alessandro
Coppi dichiarava: "Troppo spesso nel linguaggio comune si parla di
guerra civile. Quale guerra civile? Se altrimenti fosse, io direi che le
medaglie che ornano i gonfaloni dei nostri Municipi e delle nostre Province
andrebbero strappate e gettate nel crogiuolo per ritornare semplice metallo.
Se si tolgono i presunti, i sedicenti e gli assassini, i partigiani veri
rimangono veramente pochi!''. Nel breve periodo di esistenza della cosiddetta
"repubblica di Montefiorino'' (circa sei settimane) le bande partigiane
comuniste assassinarono (in quanto loro prigionieri da tempo) 14 Militi
della GNR, in località Pianello, che dista circa un chilometro dal
comune di Montefiorino, a colpi di mitragliatrice dopo averli denudati
e lasciati per tre giorni nel luogo del massacro! E altri 19 Militi in
zone limitrofe a Montefiorino. Il parroco di Vitriola, frazione di Montefiorino,
Don Pietro Cassinelli, che ha provveduto alla sepoltura dei 14 Militi della
G.N.R. nel cimitero di Vitriola, mi ha confermato quanto su descritto.
Assassinati in località Pianello:Barbieri Federico, Casati Luigi, Castellani Alfredo, Cassinelli Antonio,
Castelli Costante, Colombari Pietro, Corsini Armido, Landi Alfredo, Lania
Domenico, Mattei Domenico, Nasi Enzo, Sanna Salvatore, Santini Giuseppe,
Cap. GNR Zanotti Andrea.Altri militi della GNR assassinati e uccisi alle spalle in località
limitrofe a Montefiorino:Gerli Giovan Battista, Allievo ufficiale, ucciso a Montefiorino l'8
marzo 1944Astolfi Dante, ucciso a Montefiorino, recuperata la salma il 22 aprile
1945Bonaccini Mario, assassinato dai partigiani sul Monte Spino di PalavanoBonvicini Venturino, ucciso il 22 marzo 1944 a MontefiorinoPedrelli Gian Bruno, Brigadiere della GNR assassinato a Montefiorino
perchè disse "non mi arrendo''.Prati Ildo, nato nel 1932, ucciso a Montefiorino il 28 aprile 1944
dai partigiani comunistiRicci Vittorio, di Pietro, assassinato a Montefiorino il 30/6/1944.
Salma mai ritrovataCampeggi Emilio, guardia di custodia, ucciso a Montefiorino il 15 giugno
1944.Cassanelli Alderigo, come sopraCasari Giuseppe, come sopraCastellani Alessandro come sopraDal Bue Raffaele come sopraGerminiasi Angiolino come sopraGiubbolini Angelo come sopraGozzi Guerrino come sopraMalagoli ? come sopra in forza al 30 battaglione Italiano di PoliziaMontorri Nando come sopraMoscardini Gian Battista come sopraPiana Luigi come sopraCivili assassinati:Parenti Dina, Ausiliaria, 45 anni, impiccata a Santa Giulia insieme
ad una ragazza di 16 anni: Donatella Pietra, detta Pierina, il 31 agosto
1944Binachessi Arrigo, ucciso a Montefiorino nel maggio 1944Bocchi Maria, assassinata a Montefiorino nel febbraio 1945Buffignani Siro, di Montefiorino, assassinato il 10 gennaio 1945Cavazzini Maria, di Montefiorino, assassinata dai partigiani nel 1944,
tuttora ignota la sepoltura.Ferrari Dario, fu Pietro, di anni 28, assassinato dai comunisti il
20 giugno 1944 a Montefiorino.Gualtieri Valdina, in Martini, residente a Montefiorino. Bruciata viva
in casa. Il marito Ercole, riuscito a fuggire in un primo momento, venne
raggiunto e assassinato dai partigiani comunisti il 4 giugno 1944 a Gusciola
di Montefiorino.Idri Ilario, assassinato il 31 luglio 1944 a Montefiorino.Ugolini ?, anni 70. Geometra a Vitriola di Montefiorino. Torturato
e assassinato a Romanoro.Bertacca Lamberto, massacrato dai partigiani a Limidi di Soliera con
altri 6 legionari. Catturato ancora vivo, gli venne ingiunto di gridare,
se voleva salva la vita, "Viva i partigiani, viva la Russia''. Rispose
gridando "Viva l'Italia'' e venne subito ucciso. Purtroppo l'elenco degli uccisi e assassinati dai
partigiani comunisti al comando di Armando è largamente incompleto. Quando ho raccolto i nominativi degli uccisi e assassinati
militari della RSI e civili, regnava ancora il terrore nelle diverse persone
interrogate e quindi l'omertà quasi assoluta. Aggiungo altri criminali episodi di cui si sono
"gloriati'' i cosiddetti "liberatori'' partigiani prevalentemente
comunisti. L'inverno 1944/45 fu ricco di episodi di inaudita
ferocia: il "massacro della Casa Rossa'' e la "strage della famiglia
Pallotti''.In viale Carducci, a Carpi, in un edificio denominato "Casa Rossa''
abitava una povera famiglia, composta di donne e di un solo uomo. Una famiglia
di contadini che si era sempre disinteressata di politica. Ma la più
giovane delle sue componenti era fidanzata con un fascista repubblicano.
I partigiani comunisti decisero quindi di uccidere tutti gli abitanti della
"Casa Rossa''. La notte dell'8 gennaio 1945, la casa fu invasa
dai guerriglieri armati. Virginia Moranti, Domenica Gatti, Anna Maria Sacchi,
Maria Poli e Secondo Martinelli furono raggiunti ognuno nelle loro stanze
e falciati a raffiche di mitra. L'ultima superstite della famiglia, Cita
Vincenti, ottantenne e paralitica, che non aveva potuto alzarsi dal letto,
venne uccisa con un colpo in bocca. La notte seguente, a San Damaso, fu la volta dell'intera
famiglia Pallotti, composta da Carlo Pallotti, Veterinario, la moglie Maria
e i figli Luciano di 14 anni e Maria Luisa di 12 anni. Salendo una scaletta,
tre armati raggiunsero il piano superiore. Si udl un ordine secco seguito
da raffiche di mitra. Poi più nulla. Carlo Pallotti, sua moglie
e i due bambini giacevano riversi sul pavimento di mattoni, unendo i loro
rivoli di sangue. Carlo Pallotti fu spogliato della bella giubba di pelle
che indossava, alla Signora Maria furono tolti gli orecchini, l'orologio
da polso e le fedi. A Maria Luisa venne strappata una medaglietta della
Madonna. Così terminr l' "azione di guerra'' dei giustizieri! Testimone di questo inaudito cruente massacro fu
il contadino Fernando Vaschieri al quale gli assassini dissero: "Non
ti muovere fino all'alba. Stattene tranquillo perchè hai visto cosa
succede ai nostri nemici''. Terrorizzato il Vaschieri non si mosse sino
all'alba del giorno seguente. A guerra finita i massacratori della famiglia Pallotti
vennero identificati dalla Polizia e il 31/3/1949 il Prefetto di Modena
indirizzr al ministero degli Interni il dispaccio seguente: "L'orrendo
crimine, per la qualità delle vittime e l'efferatezza con cui fu
consumato, destò unanime raccapriccio e nulla fu inventato''. Alla strage parteciparono: Reggianini Michele di
28 anni, Maletti Dante di anni 29, Sarnesi Savino di 23 anni, Benassi Ennio
di anni 23, Costantini Giuseppe di 41 anni, Menabue Gerardo di anni 35
ed altri due non ancora identificati, facenti parte delle squadre Sap e
Gap. I partigiani arrestati confessarono la strage. Furono assolti per
avere agito in base a ordini superiori e perchè il fatto costituiva
"azione di guerra''. Sinistra giustizia proletaria!NUOVO FRONTE N. 209 2001
***
LA RESISTENZA PATRIOTTICA AL SUD
Quattro capitoli tratti dal libro MEZZOGIORNO
E FASCISMO CLANDESTINO (1998), dedicato a: "Agli Eroi Ignoti
dei Servizi Speciali torturati e seviziati dagli "Alleati" prima
di fucilarli e poi seppellirli in tombe senza nome. Ai ragazzi e ragazze
di Firenze fucilati ferocemente sui gradini di S. Maria Novella. A Colui
che volle e seppe opporsi a tanti lutti della spirale dell'odio e strenuamente
vietò atti che potessero innescare la scintilla della guerra civile
nel Sud. Perchè gli italiani sappiano."
I FRANCHI TIRATORI
A NAPOLI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo IV-Francesco Fatica Otto settembre 1943: si scatena
la reazione tedesca in tutta Italia in risposta al tradimento badogliano.
A Napoli avvengono alcuni tumulti: bande di popolani affamati saccheggiano
depositi di viveri; i tedeschi effettuano rastrellamenti. In tale caos
c'era chi pensava a sfruttare la reazione di quanti si sentivano vessati
dalle rappresaglie dei tedeschi ormai in ritirata, per creare un movimento
"partigiano" nella logica attesa degli "alleati" che
il nove settembre erano sbarcati in forze a Salerno. Ma i tedeschi opposero
una resistenza così accanita che gli anglo-americani furono sul
punto di reimbarcarsi. Tuttavia il 27 settembre, dopo che le retroguardie
della divisione Göring avevano rotto il contatto, gli inglesi si affacciarono
dal valico di Chiunzi sulla pianura, ormai sgombra di ostacoli verso Napoli. A Napoli i "partigiani"
aspettavano di giorno in giorno l'arrivo degli "Alleati" per
uscire dai loro rifugi. Guidati dalle frange comuniste - come avvenne pure
al Nord - si preparavano a provocare rappresaglie quanto più sanguinose
possibili, in modo da muovere lo sdegno popolare e scavare un solco profondo
di odio, necessaria premessa per spezzare la coesione del corpo sociale
della Nazione. Questa tecnica fu sempre cinicamente e tenacemente applicata
fino ad ottenere lo scoppio della guerra civile al Nord. Così veniva
sperimentata ed introdotta in Italia per la prima volta quella strategia,
già applicata con successo dai comunisti in altre parti del mondo,
basata sull'assassinio come metodo di lotta per provocare rappresaglie.
Meglio ancora se la rappresaglia provoca una strage, come avvenne poi una
prima volta alle Fosse Ardeatine. Si inaugurava così proprio a Napoli
questa stagione di pseudo-libertà caratterizzata dall'odio e dal
terrorismo, prima sconosciuto in terra d'Italia. In quegli ultimi giorni
di settembre Domenico Tilena aveva riaperto la sede provinciale del Fascio
a Via Medina, ottenendo l'adesione di un centinaio di iscritti mentre lo
stesso Colonnello Scholl, comandante militare germanico della Città,
ne restò allibito, dichiarando che si trattava di una follia, avendo
ormai gli invasori alle porte1. Fu ricostituita anche la Milizia, con sede
nella scuola elementare Vincenzo Cuoco, arrivando a raggiungere gli effettivi
di tre compagnie, una delle quali riuscirà poi a disimpegnarsi per
raggiungere la Repubblica Sociale Italiana. Molti altri, tra cui gli ultimi
tre federali del PNF, Domenico Pellegrini-Giampietro, Fabio Milone, Francesco
Saverio Siniscalchi2 e, tra i giovanissimi, gli allora quasi imberbi Enzo
Erra, Franco d'Alò e Aldo Serpieri, e il più maturo capitano
del genio ing. Gaetano del Pezzo, duca di Caianello, si diressero al Nord,
cercando di raggiungere Roma con mezzi di fortuna per continuare a combattere
contro gli invasori. Sparsasi prematuramente il
27 la voce dell'arrivo degli anglo-americani in città, alcuni "partigiani",
raccolti gli sbandati sfuggiti alle retate tedesche, iniziarono la caccia
al fascista isolato. Al Vomero, Vincenzo Calvi fu aggredito da un folto
gruppo e spinto a frustate verso un loro rifugio. Essendo però passata
una pattuglia tedesca, i partigiani si eclissarono e Calvi scampò
ai suoi aggressori3. Scrive Enzo Erra "poichè
tedeschi e guerriglieri sparavano, anche i fascisti presero le armi che
trovarono, e cominciarono a sparare". Il 28 e 29 tiratori fascisti
erano già entrati in azione. Artieri dice che erano "pochi,
accaniti, qualche centinaio"4. Nessuno di loro ha lasciato
scritti o testimonianze. Si conosce solo quanto dichiarato dagli avversari.
Questi franchi tiratori fascisti, a differenza dei "partigiani",
non potevano sperare nel soccorso di truppe amiche avanzanti, "non
lottavano per vincere, dice ancora Enzo Erra, e sapevano di non avere un
domani"5, i partigiani, oltretutto, si coagulavano in gruppi che sopravanzavano
gli assediati per numero, prudenza e tattica temporeggiatrice. Per i fascisti
si trattò di un fenomeno assolutamente spontaneo e perciò
disorganico, che può interpretarsi come una estrema, ostinata e
disperata manifestazione di fedeltà ad un mondo che vedevano crollare
intorno a loro. Altri, più organizzati,
invece, decisero di continuare la lotta nella clandestinità anche
dopo l'occupazione "alleata". La gran massa della popolazione
civile restò ostinatamente barricata in casa o nei rifugi antiaerei
e nei ricoveri di fortuna o presso parenti ed amici; chi potè sfollò
in campagna. In effetti si può affermare che la popolazione si mantenne
diligentemente estranea alle scaramucce in corso per repulsione verso le
turpitudini di cui giungeva voce e per evitare coinvolgimenti delle persone
care. Franchi tiratori fascisti
ci furono sicuramente al Vomero, al Museo, a Porta Capuana, a Piazza Mazzini,
nelle vie del centro, ma anche in periferia. Scrive Artieri che un fascista
isolato sparò con una mitragliatrice da una terrazza della Rinascente,
nella centralissima Via Toledo. Accerchiato, quando stava per essere preso,
si precipitò con l'arma da una finestra. Ancora Artieri descrive,
come confermano anche altri autori, l'altra tragica vicenda di un capitano
della Milizia che a Via Duomo si asserragliò e combattè strenuamente;
quando gli insorti lo raggiunsero, si uccise. E sempre Artieri testimonia
di un altro fascista che in Piazza Marinelli sparò e tirò
bombe, ma venne preso e fucilato. L'antifascista de Jaco riconosce
"pochi si salvarono, pochissimi chiesero pietà: non il Tommasone,
che aveva sparato per tre giorni da una casa alla Salute (adesso Via M.R.
Imbriani), non il Porro, non altri uccisi in combattimento o fucilati sommariamente"6.
Testimoni oculari mi hanno raccontato che al Tommasone fu intimato di rinnegare
la sua fede fascista e di insultare il Duce. Essendosi sdegnosamente rifiutato,
fu assassinato nel tratto di via Salvator Rosa compreso tra l'angolo di
via Gesù e Maria e Piazza Mazzini. Sulla base di questa testimonianza
ritengo di poter smentire la versione ufficiale che vorrebbe il Tommasone
fucilato sotto i portici della Galleria Principe Umberto. Il Porro, preso
nel rione Materdei fu trascinato via tra il ludibrio di una piccola folla
di facinorosi e spinto su un cumulo di immondizie, dove persino suo padre
fu costretto a sputare sul figlio. Quindi fu ucciso in un crescendo di
vilipendi e sevizie orchestrati platealmente dalla istigazione più
feroce all'odio contro il fascista, ormai disarmato e inoffensivo. Il de
Jaco narra di due franchi tiratori fascisti di via Duomo, uno dei quali
venne "buttato giù dal balcone" e l'altro fucilato. Un
altro ancora fu massacrato a colpi di pietra7. Ancora ferocia, ancora coinvolgimenti
della popolazione su istigazione bestiale di pochi agitatori. Il De Antonellis
tratta di un commando che uccise molti partigiani tra via Salvator Rosa
e il Museo; un altro gruppo che sparava su Piazza Dante dal liceo Vittorio
Emanuele; singoli tiratori a via Toledo, in via dei Mille, alla salita
Magnacavallo (attualmente via F. Girardi). Secondo De Antonellis i fascisti
asserragliati nella caserma Paisiello, in piazza Montecalvario, avendo
tenuto duro per due giorni, quando furono attaccati in forze il giorno
30, dopo un'ora di sparatoria, riuscirono a dileguarsi8, (approfittando,
evidentemente, di smagliature di assedianti tremebondi). Alfredo Parente
scrive che nuclei fascisti "tenevano duro in alcune zone della città"
e segnala "una vera battaglia tra partigiani e fascisti in via nuova
Capodimonte"9. Il Tamaro testimonia episodi di fascisti tiratori in
via dei Mille, al parco CIS in via Salvator Rosa, (più precisamente
di fronte al parco CIS che era invece occupato dai partigiani n.d.a.) a
piazza Carità e aggiunge che un nucleo "barricatosi dentro
una casa in Piazza Plebiscito resistette per due giorni". La torre
degli Arditi a porta Capuana fu occupata, presa e rioccupata in ripetuti
scontri tra fascisti e partigiani; tiratori fascisti furono protagonisti
di alcune sparatorie al Vomero, restando spesso uccisi10. Artieri racconta
l'episodio di un uomo che si era esposto allo scoperto durante una sparatoria
al Vomero, afferrato dal Tarsia per farlo mettere al riparo, si divincolò
insolentendolo. Colpito poi con due bastonate al capo, fu atterrato e,
"portato in salvo in un portone, gli si trova una tessera". Era
il Federale di Enna. "Volevo morire" - dice. "Non morì".
Testimoni oculari mi hanno riferito che il tenente de Fleury, che poi me
lo ha confermato personalmente, appostato in posizioni strategiche ad Afragola,
oppose strenua resistenza con i suoi militi fino all'arrivo degli anglo-americani. Il reparto al completo, sempre
agli ordini del focoso tenente, riuscì a disimpegnarsi, ad impadronirsi
di un autocarro ed a ripiegare a nord, per continuare la lotta sotto la
bandiera della R.S.I. Spavaldamente votati al sacrificio
supremo, apparvero al Berti quattro giovanissimi tiratori fascisti a Piazza
Mazzini, imberbi kamikaze in camicia nera, piantati in mezzo alla piazza,
armati soltanto di moschetto, mentre i partigiani appostati prudentemente
al riparo delle finestre dei palazzi circostanti, sparavano su di loro.
Così li vide il Berti, interprete di una colonna tedesca che, in
ritirata, transitava per Piazza Mazzini. La colonna si fermò,
i quattro giovani in camicia nera furono invitati a salire, ma si rifiutarono
affermando spavaldamente di voler invece aspettare gli anglo-americani
per opporre l'ultima resistenza. Oltre alla testimonianza del Berti in
"Wermacht-Napoli 1943" di loro non si è saputo più
nulla11. La caccia al fascista da parte dei partigiani si protrasse ferocemente
fino all'arrivo degli anglo-americani ed anche oltre, con contorno di devastazioni
e saccheggi sistematici dei rispettivi appartamenti. Il primo ottobre a
Ponticelli fu linciato in piazza con rinnovata ferocia e sadica voluttà
Federico Travaglini, già fiduciario del Fascio di Ponticelli prima
del 25 luglio, che pure non aveva, per generale riconoscimento, mai trasceso
nella sua carica e non aveva neppure più svolto attività
politica. Il cadavere venne vilipeso oscenamente persino da donne e bambini12. Non era mai successo nella
storia di Napoli. Appaiono così i primi
frutti di una cinica e spietata regia estranea alla nostra cultura, la
stessa regia barbara e feroce che sarà poi imposta al Nord e di
cui ancora oggi dobbiamo registrare gli effetti disgreganti. NOTE Il testo è stato emendato dalle numerose
note (vedi numeri di riferimento da 1 a 12) presenti sull'originale cartaceo. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
VALERIO PIGNATELLI
da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo VIII-Francesco Fatica Come abbiamo già visto,
il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara venne designato quale capo
delle "Guardie ai Labari". Eccezionale personaggio di
grande coraggio, carattere avventuroso, indipendenza e stile di vita, vita
vissuta intensamente, sempre teso nella lotta per i più alti ideali,
nacque a Chieti nel 1886; come già detto, fu comandante di Arditi
nella grande guerra; di Dubat nella guerra di Etiopia; di Frecce Nere nella
guerra di Spagna; carico di medaglie e di ferite, di ordini militari nei
più alti gradi (di Savoia, italiano - della Legion d'onore, Francese
- della Silver Star, americano - della Cruz Laureada di San Fernando, spagnolo)
alla sua non più tenera età aveva voluto ancora ottenere
il comando di un reparto di paracadutisti, dopo aver regolarmente frequentato
e superato i corsi ed i lanci a Tarquinia. Durante la sua movimentatissima
vita aveva trovato il modo di impegolarsi nella rivoluzione comunista di
Bela Kun in Ungheria: era addetto militare a Budapest e rimase, unico diplomatico
straniero a proteggere gli interessi di quasi tutti i paesi europei. Ritenne ancor più doveroso
partecipare agli eventi della rivoluzione della stessa Russia Sovietica,
dove combattè ovviamente con i "Bianchi" di Wrangel. Nel 1920 fu implicato in Messico
in una delle tante rivoluzioni di quel periodo finendo per essere acclamato
imperatore in una provincia del Sud, sia pure per soli dieci giorni; Valerio
Pignatelli ne rideva per primo quando lo raccontava. Purtroppo, quell'avventura
fu funestata dalla tragica perdita della prima moglie. Egli stesso scampò
per puro miracolo oltre frontiera, negli Stati Uniti, dove arrivò
ferito senza scarpe, sconosciuto. Ma dopo sei mesi riuscì
a risalire la china e sposò la figlia del miliardario Hearts proprietario
di una catena di giornali estesa dal Pacifico all'Atlantico. Da questa
seconda moglie dovette divorziare più tardi per incompatibilità
con lo stile di vita dei miliardari americani. Tornato in Italia, sposò
poi Maria De Seta, che aveva già conosciuta molti anni prima, giovanissima;
Maria fu per lui la moglie ideale in quanto concordava con lo stile e con
gli ideali a cui egli aveva consacrato la vita. Valerio Pignatelli aveva aderito
tra i primi al movimento fascista, ma si era dimesso più volte;
fu in accesa polemica anche con Farinacci. Il 25 luglio '43 Pignatelli,
più ribelle che prono alla dittatura fascista, avrebbe potuto ritenersi
esonerato dall'incarico delle ipotizzate Guardie ai Labari, incarico imprecisato
e pressocchè irrealizzabile per i sopravvenuti eventi. Invece, coerentemente
con il suo stile di vita e con i suoi ideali, il principe ritenne di aver
il dovere di attuare a qualunque costo il difficilissimo mandato. Come già detto nel
cap. I, Ettore Muti, Barracu e Pignatelli preparavano un colpo di mano
per liberare Mussolini, ma poi si divisero i compiti e Pignatelli tornò
in Calabria per ricostruire l'organizzazione delle "Guardie ai labari"
nell'imminenza dell'invasione. A Napoli nel frattempo agiva,
su disposizioni avute direttamente da Ettore Muti, un altro protagonista
della lotta clandestina, il tenente Antonio De Pascale che nel 1941 durante
la sanguinosa battaglia di Monastir, nella campagna di Grecia, era stato
ferito molto gravemente mentre, come comandante di compagnia, avanzava
allo scoperto alla testa dei suoi soldati all'attacco di una munita posizione
dominante greca. De Pascale riuscì miracolosamente
a sopravvivere per l'intervento personale di Mussolini che seguiva l'attacco
dall'osservatorio di Stato Maggiore. Così De Pascale fu imbarcato
di urgenza su una nave ospedale e quindi trasferito a Bologna, dove fu
ancora una volta operato e trattenuto in convalescenza e per le cure riabilitative.
A Bologna fu visitato da Ettore Muti, che cercava elementi affidabili tra
gli ufficiali distintisi per condotta valorosa e responsabile, onde utilizzarli
in una azione di opposizione alle trame disfattiste che si concretarono
poi nella seduta del Gran Consiglio il 25 luglio del 1943, ed ebbe da lui
istruzioni per le azioni future. In seguito a ciò de Pascale ebbe
un permesso dall'ospedale per venire a Napoli, ove contattò il tenente
Sorrentino, il prof. Farnetti e Nando di Nardo, anch'egli reduce dal fronte
greco, Enzo Di Lorenzo, Nicola Galdo e Vito Videtta. Verso la metà di dicembre
1943 Pignatelli ricevette a mezzo radio, con un cifrario precedentemente
concordato con Barracu, l'ordine di spostarsi a Napoli per meglio seguire
le operazioni degli eserciti "alleati" e per tenere contatti
diretti anche con i fascisti della Campania. Il principe appena giunto
a Napoli riprese i rapporti con il colonnello Luigi Guarino, vecchio ardito
di guerra, Fiamma Nera, di cui era molto amico e poi entrò in contatto
con Nando di Nardo e con Antonio de Pascale che aveva attivato il nucleo
previsto da Muti. A loro si aggiunsero ben presto
decine e decine di uomini e donne ferventi e decisi. Mi limito a citare l'ing.
Ruggero Bonghi, il prof. Giuseppe Calogero, Nicola Galdo, che scriveva
e stampava un giornale con un ciclostile trafugato nottetempo dalla sede
del GUF, la prof.ssa Elena Rega, che poi sposò De Pascale, il libraio
Bolognesi, Pasquale Purificato, Antonio Picenna, il marchese Capitano di
vascello Marino de Lieto, anche lui superdecorato eroe della I guerra mondiale,
che, facendo base nello studio dell'arch. De Pascale, partiva per certe
sue solitarie, segretissime missioni di sabotaggio arrivando a rischiare
la vita in strenui corpo a corpo, come un qualunque giovane assaltatore. De Pascale diceva di lui e
di qualche altro che agiva in "solitario", che facevano una loro
guerra privata. Pignatelli si servì
principalmente della collaborazione dell'avv. Nando di Nardo e dell'arch.
Antonio de Pascale a Napoli, dell'avv. Luigi Filosa a Cosenza e per i contatti
con la Puglia, e del tenente Pietro Capocasale e di Simone Ansani nella
provincia di Catanzaro1. Così Pignatelli non
disponendo di alcun finanziamento, fu costretto ad agire sacrificando beni
personali ed utilizzando al meglio l'abnegazione di camerati in Calabria,
in Puglia ed in Campania2. Gruppi organizzati secondo
le direttive venute da Roma, vennero collegati con vari gruppuscoli nati
spontaneamente fra giovani ed anziani. A Napoli riuscirono a prendere
contatti con il mondo dell'antifascismo e con le massime autorità
del governo badogliano e degli eserciti di occupazione. I collegamenti con la Calabria
erano tenuti dal colonnello Guarino, superando proibitive difficoltà
di viaggio. Intanto aveva preso contatti
con Pignatelli il tenente di vascello Paolo Poletti, agente speciale della
RSI, che era riuscito ad infiltrarsi nell'OSS (servizio segreto americano). Giovanni Artieri nella sua
"Cronaca della Repubblica Italiana" racconta come il principe
e la principessa si sistemarono strategicamente in una villetta sulla collina
di Monte di Dio, nella piazzetta del Calascione, villetta che fu frequentata
da intellettuali antifascisti e dal più qualificato mondo militare
inglese e americano presente a Napoli, dalle massime autorità del
governo del "Re", dal generale Wilson, dai capi dei servizi segreti
militari (l'Intelligence Service, inglese - l'OSS, americano - il SIM,
italiano), dai capi dell'amministrazione di occupazione (AMGOT), dal prefetto,
dai generali "alleati" di passaggio per la città. A tutta
questa gente i principi Pignatelli offrivano lauti pranzi, in una cornice
aristocratica abbagliante e... "con roba calabrese" allora irreperibile
a Napoli, ottenendone preziose informazioni militari e politiche, come
scrisse lo stesso Pignatelli nel suo rapporto inviato alla Corte Centrale
di Disciplina del MSI nel giugno 1948 in occasione di una polemica con
il prof. Pace. Scrisse Giovanni Artieri del
principe e della principessa3: "Lavora-vano, insomma nel rosso dell'uovo.
Apparivano insospettabili agli occhi inglesi e americani; Valerio per le
innumerevoli relazioni collegate con la sua vita negli Stati Uniti, per
la sua amicizia con Alexander Kirk e innumerevoli diplomatici americani
e inglesi; lei, per uguali relazioni, specialmente nell'establishment britannico
e fin quasi ai gradini del trono; perfetti inoltre nelle lingue che parlavano
con l'accento di Oxford, passaporto di efficacia insuperabile presso il
mondo anglosassone. Così tra l'ottobre 19434 e l'aprile 1944, nel
cuore stesso di Napoli e del mondo antifascista e anglo-americano, visse
e operò una cellula binaria singolarissima, che animò gran
parte della "resistenza" nell'Italia meridionale". Pignatelli e sua moglie raccoglievano
larga messe di notizie preziose per l'attività clandestina e per
la R.S.I. Quando al principe fu trasmesso
l'ordine di recarsi nella R.S.I., lasciandosi però la possibilità
di tornare al Sud, Pignatelli riuscì ad ottenere un lasciapassare,
ma soltanto per sua moglie, attraverso i buoni uffici del tenente di vascello
Paolo Poletti (infiltrato, come si è detto, nell'OSS americano). Nel frattempo però
un certo tenente Nuvolari5 era riuscito ad ottenere la fiducia e le simpatie
dei principi Pignatelli e dei loro camerati. Accompagnò la principessa
insieme a Poletti fino al punto in cui Ella si avviò a passare le
linee inoltrandosi arditamente nei campi minati. Maria Pignatelli si incontrò
con Barracu e fu portata in aereo da Mussolini, che voleva essere minutamente
informato sull'attività clandestina fascista e voleva soprattutto
essere sicuro che nessuna provocazione fosse attuata, facendo così
evitare sanguinose rappresaglie in grado di accendere la miccia della guerra
civile anche al Sud. Fu stabilito anche un cifrario
sulla base, in chiave nove, della poesiola "La vispa Teresa"
ed un codice da adoperare nella trasmissione per i prigionieri di guerra
(Pignatelli era "Il cappellano", Barracu era "Ciccio",
Mussolini "l'autocarro" e via di seguito)6. Ma l'Intelligence Service,
che aveva infiltrato il suo agente Nuvolari, essendo al corrente della
vera identità della principessa che aveva attraversato le linee
sotto falso nome, non appena la Pignatelli ritornò a Sud, pretese
dagli americani l'arresto dei principi nonostante le disperate manovre
del tenente di vascello Poletti, il quale per salvare i principi, finì
per scoprire il suo gioco. Fu anch'egli arrestato e torturato
fino a farlo impazzire in una villetta isolata alle falde del Vesuvio,
nei pressi di Torre del Greco, dove gli alleati tenevano i loro "interrogatori". Poletti non parlò;
oramai ridotto ad un povero essere urlante fu tradotto al carcere di Santa
Maria Capua Vetere ed ivi rinchiuso nella cella n° 8, la cella imbottita
riservata ai pazzi furiosi. Il 19 maggio del '44, il sergente
americano di guardia lasciò a bella posta la porta della cella aperta
e non appena Poletti continuando ad urlare nudo ed ammanettato, uscì
nel corridoio, gli scaricò addosso la pistola di ordinanza7. La salma fu rigettata nella
cella e, chiusa a chiave, venne lasciata per due giorni a terra. Alla fine
fu messa a forza in una bara molto piccola rispetto alla sua corporatura. Il principe e la principessa,
probabilmente a causa delle loro amicizie importanti e forse anche per
soffocare lo smacco delle compromissioni delle alte personalità
che erano state loro ospiti, furono "interrogati" con metodi
meno feroci, ma psicologicamente stressanti. La principessa, considerata
più debole, fu messa al muro due volte, inscenando finte fucilazioni.
Nei primi tempi furono detenuti nella villa de Falco sulle pendici del
Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco: forse la stessa dove era stato
torturato il martire Poletti e, prima di lui, altri Agenti Speciali della
R.S.I. Intanto anche Di Nardo fu
compromesso per una lettera inviata a Roma al barone Marincola di San Floro
a mezzo del tenente Sorrentino. Avvenne la delazione del barone
o di sua moglie, americana, che decise probabilmente di "servire gli
interessi del suo Paese in guerra" come scrive ancora l'Artieri. Seguì
l'arresto di Di Nardo che era subentrato a capo dell'organizzazione clandestina
fascista e, naturalmente, del tenente Sorrentino. Risultati vani gli interrogatori
fatti dagli "alleati" i Pignatelli furono passati al CS (che
aveva sede in Napoli a Via Fiorelli) capeggiato dal maggiore Pecorella,
dei CC.RR., che, in stato d'ira, arrivò a colpire l'anziana principessa
con il calcio della pistola sulla fronte, provocandole una ferita lacero-contusa
che sanguinò abbondantemente8. Per inviare i messaggi da
Via Fiorelli, Pignatelli finì per servirsi degli stessi militari
incaricati di sorvegliarlo, evidentemente ben disposti a lasciarsi convertire.
Quattro di essi furono scoperti e imprigionati, ma ebbero sempre un contegno
virile e dignitoso, alla pari degli altri detenuti politici. Arrestato Di Nardo, al vertice
dell'organizzazione restò De Pascale. A dargli man forte attraversarono
le linee un gruppo di marò della X MAS al comando del tenente Bartolo
Gallitto. In mezzo ad essi però c'era un agente doppio che li tradì;
così furono arrestati e, con essi, anche De Pascale. Un altro Agente Speciale che
aveva attraversato le linee e si era presentato a De Pascale fu Antonio
Granata, napoletano verace, ottimo soldato che seppe tener testa intelligentemente,
senza mollare alcuna informazione, al famigerato maggiore Pecorella giocandolo
sui tempi fino a poter usufruire dell'amnistia del '46. Granata finì con De
Pascale nella stessa cella, la cella n° 97 del padiglione Italia del
carcere di Poggioreale, illuminata da un'unica finestrella a bocca di lupo.
Il padiglione Italia riservato ai detenuti politici era talmente affollato
di fascisti che fu necessario occupare alcune celle dell'adiacente padiglione
H, ove anch'io ebbi la ventura di essere ospitato. Onoratissimo. Del processo contro i fascisti
di Napoli e gli "agenti speciali" di Bartolo Gallitto parleremo
in seguito. Dopo l'occupazione di Roma,
il principe fu trasferito a Regina Coeli. Qui, a metà luglio, ricevette
in modo del tutto insolito - dati i regolamenti carcerari - la visita di
suo cognato, il principe Antonio Pignatelli di Terranova, che fu guidato
direttamente nella sua cella, accompagnato dal procuratore generale del
Tribunale americano di Roma, presentatogli come un caro amico. Il cognato
si offrì di tirarlo fuori dal carcere con l'aiuto dell'amico americano,
ma Pignatelli rifiutò recisamente. Dopo aver trascorso un paio
di mesi a Regina Coeli, Pignatelli, fu trasferito nel campo di concentramento
di Padula9, ricavato nella celebre Certosa, dove incontrò altri
duemila camerati colà ristretti, polarizzando ogni attività
politica e morale degli internati. Nel marzo 1945 fu trasferito
nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro per essere processato da quel Tribunale
militare. Fu in quell'occasione che
potei osservarlo da lontano, durante "l'ora d'aria", essendo
anch'io detenuto nello stesso carcere. I secondini avevano ordini severissimi
di non farlo avvicinare dagli altri detenuti. Egli prendeva il sole a torso
nudo in un recesso del cortile del vecchio carcere per dar sollievo alle
sofferenze provocate dai postumi delle sue molte ferite di guerra di cui
si intravedevano chiaramente le cicatrici10. Processato dal Tribunale Territoriale
Militare di Guerra della Calabria, fu condannato a dodici anni di carcere,
essendo riuscito a minimizzare l'attività svolta ed avendo incontrato,
evidentemente, la disponibilità di giudici che non gradivano compromettersi
troppo11.
Schizzo dal vero eseguito da Vittorio Capocasale, coimputato di Pignatelli,
nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro. Dopo la condanna fu spedito
al borbonico penitenziario di Procida dove finalmente incontrò quei
giovani del processo degli "88 fascisti di Calabria" che, essendo
stati condannati a pene più rilevanti, erano stati assegnati allo
stesso penitenziario. A Procida erano affluiti anche
altri fascisti provenienti da varie parti. Per tutti costoro Pignatelli
costituì ancora una volta una guida morale e ideale12. Il principe venne poi trasferito
nel carcere militare di Napoli (Castel S. Elmo) e fu sottoposto a nuova
istruttoria per le vicende del gruppo di clandestini napoletani, ma il
processo si estinse per l'amnistia del giugno 1946, come sarà riferito
nel cap. XIV. E' da ricordare che, secondo
quanto testimoniò Antonio Bonino, vice-segretario del P.F.R., Mussolini,
richiedendo la consegna del principe Valerio Pignatelli e Signora, offrì
in cambio qualsiasi persona, non escluso lo stesso Ferruccio Parri13. In una parentesi letteraria
della sua vita il principe aveva anche scritto qualche romanzo di cappa
e spada, quindi aveva dimestichezza con la penna e si era proposto di scrivere,
in collaborazione con la moglie, una storia dettagliata dell'attività
clandestina fascista. Purtroppo nel 1965 Valerio
Pignatelli morì a Sellia Marina (CZ) senza aver portato a termine
la sua fatica. Le sue carte furono consegnate
anni dopo dalla principessa al giornalista Marcello Zanfagna deputato del
Msi-DN, il quale, preso da mille impegni contingenti, non seppe trovare
il tempo per portare a termine il libro che si era proposto di pubblicare. Purtroppo i documenti di Pignatelli,
insieme a molte altre carte di altro genere, andarono disgraziatamente
perduti in una vicenda di alienazione di immobile alla morte di Marcello
Zanfagna. Ci restano oggi il rapporto
che Pignatelli inviò il 7-6-1948 alla Corte Centrale di Disciplina
del MSI, la memoria di Nando Di Nardo, le testimonianze dirette dello stesso
Di Nardo (prima della morte) e dell'arch. Antonio De Pascale, i quali ressero,
dopo Pignatelli, il comando generale della lotta clandestina fascista nell'Italia
meridionale. E' impossibile parlare dell'attività
politico-militare di Valerio Pignatelli senza accennare a colei che fu
la sua migliore collaboratrice e forse ispiratrice, che certamente seppe
affrontare rischi e difficoltà con ardire e forza d'animo sovrumani. Maria Elia era figlia di un
ufficiale di Marina; crebbe nella piena adesione alla massima fascista
del "Vivere pericolosamente", praticò sport audaci e amò
rischiare in lunghe e temerarie navigazioni a vela. Sposò molto
giovane il marchese De Seta. Con Valerio si incontrarono una prima volta
ma presero vie diverse; più tardi, quando si sposarono, Maria e
Valerio unirono due caratteri avventurosi ed impetuosi, entrambi prorompenti
nel più appassionato amor di patria spinto fino ad osare l'estremo
sacrificio, come d'altronde non era raro trovare allora in uomini, donne,
giovani ed anche giovanissimi cresciuti nel clima fascista. Due caratteri molto simili,
con interessi e forti sentimenti comuni, si incontrarono e talvolta si
scontrarono, giungendo però ad ottenere, in un comune afflato, la
conquista delle mete agognate. Maria Pignatelli ebbe modo
di mostrare le sue altissime qualità quando svolse la sua missione
in R.S.I., che iniziò affrontando tranquillamente le insidie dei
campi minati durante l'attraversamento delle linee nella zona di Cassino
e che portò a termine con perizia di diplomatico, facendosi apprezzare
e stimare da italiani e da tedeschi14. In particolare, durante una
colazione con Barracu e Kesserling, questi ebbe a scrivere su di un cartoncino,
che era sul tavolo "Se l'Italia ha molte donne intrepide come lei
è una nazione che non può morire". Ed effettivamente Maria Pignatelli
fu una donna intrepida anche quando fu "interrogata" dagli "alleati"
che usarono mezzi di tortura morali, psicologici ed intimidazioni scientificamente
studiate arrivando a metterla al muro ben due volte per finte fucilazioni. Passata poi al C.S. badogliano,
fu minacciata con la pistola in pugno dal capitano CC.RR. del C.S. De Fortis,
e fu schiaffeggiata15. Sempre nei locali del C.S.
fu percossa col calcio della pistola dal maggiore Pecorella e fu vista
con la fronte sanguinante dall'architetto De Pascale colà detenuto.
Anche la principessa fu portata a Roma e rinchiusa alle Mantellate, quindi
nel campo di concentramento di Padula. Alla chiusura di questo campo
fu trasferita in quello di Terni tenuto dagli inglesi e da qui in quello
di Riccione, anch'esso inglese, dove riuscì ad evadere audacemente
conducendo poi vita clandestina fino al 9 dicembre 1947 e cioè fino
all'entrata in vigore del trattato di pace. In tutte le carceri ed i campi
dove fu rinchiusa, la principessa divenne guida morale e politica delle
altre internate; tornata alla vita civile, si interessò sempre di
aiutare i camerati perseguitati dalla sorte, e soprattutto dagli antifascisti. Maria Pignatelli è
quindi degna di essere iscritta nell'albo d'oro delle donne fasciste che
tutto diedero alla Patria, quali furono le Ausiliarie, quali le giovanissime
franche tiratrici di Firenze, e quali perfino, oso dire, le ingenue ragazze
del Sannio che avrebbero voluto lottare assieme ai camerati e che, in mancanza
di contatti, isolatamente intrepide, presero l'iniziativa di lanciare dalle
finestre mucchi di schegge di vetro sugli invasori anglo-americani16. NOTE Il testo è stato emendato dalle numerose
note (vedi numeri di riferimento da 1 a 16) presenti sull'originale cartaceo. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
IL PROCESSO DEGLI
88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo X-Francesco Fatica L'organizzazione clandestina
fascista in Calabria merita una particolare menzione, sia per il numero
degli imputati nel processo che si tenne a Catanzaro nell'aprile 1945,
che per l'importanza delle strutture finalizzate al sabotaggio ed alla
guerriglia che vennero scoperte dagli inquirenti. Dalle indagini dei CC.RR.
(Carabinieri Reali) vennero portati in luce quattro centri operativi clandestini:
a Catanzaro, a Nicastro - Sambiase (oggi Lamezia Terme), a Crotone ed a
Cosenza. Ma, come si può ben capire, fu adottata ogni tipo di precauzione
per sminuire agli occhi degli inquirenti la vastità e l'efficienza
dell'organizzazione che operava clandestinamente anche in molte altre zone. I CC.RR. di Nicastro fin dal
settembre '43 avevano dovuto notare le manifestazioni di un'attività
clandestina fascista nel Nicastrese che andò man mano intensificandosi
fino ad arrivare ad attentati dinamitardi intimidatori contro strutture
del partito comunista e abitazioni di personalità antifasciste. Furono arrestati alcuni giovanissimi,
già iscritti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), comandati
dallo studente liceale Lionello Fiore Melacrinis: un biondino amato da
tutti, bello, bravo, studioso, ardito e trascinatore. Era una squadra agguerrita
di adolescenti delle scuole superiori, avevano raccolto un notevole armamentario
bellico e si preparavano a ritirarsi sulle montaghe delle Pre Sila, che
sovrastano Nicastro, per passare a vere e proprie operazioni di guerriglia. Nel frattempo tentativi andati
però a vuoto, di sabotaggi di ponti a Sambiase ed a Soverato, portarono
alla scoperta di altri clandestini e di notevole quantità di materiale
esplodente. Ancora una scoperta dei CC.RR.
questa volta nei pressi di Cosenza: il sottotenente Vittorio Bruni aveva
consegnato armi del Regio Esercito ai clandestini fascisti. Intanto, per una fortuita
coincidenza, quasi contemporaneamente veniva segnalato nei pressi di Crotone
un trasporto clandestino di bombe a mano che portò, dopo varie vicissitudini,
al rinvenimento di un notevole deposito di armi da guerra in un casolare
di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore dell'esercito
in congedo. Morelli aveva sacrificato
beni personali per finanziare l'organizzazione di una squadra che era ormai
pronta a prendere la via della Sila per operare con sufficiente armamento,
vettovaglie ed attrezzature. Tutto questo non fu ovviamente rivelato al
processo ma l'entità del materiale bellico ritrovato era un indizio
abbastanza eloquente. Le vettovaglie invece furono del tutto trascurate. Le indagini furono spinte
in tutte le direzioni e fu relativamente facile trovare indizi che incriminarono
a Catanzaro alcuni dei promotori dell'organizzazione e portarono alla scoperta
di altri depositi di armi e munizioni. Il tenente Pietro Capocasale
era stato prima dell'arresto, un attivo coordinatore dell'organizzazione
clandestina. Aveva tessuto una fitta rete di collegamenti per conto del
principe Valerio Pignatelli con i gruppi citati e con molti altri rimasti
clandestini, disseminati in tutta la Calabria. Dopo breve latitanza fu arrestato
a Bari l'avv. Luigi Filosa che aveva raccolto attorno a sè in Cosenza
un gruppo di professionisti, studenti universitari e fascisti di ogni estrazione
sociale, giovani ed anziani, di Cosenza e della provincia, ed era in collegamento
anche col resto della Calabria, con la Puglia e con Napoli. Essi si preparavano alla guerriglia
raccogliendo armi e vettovaglie, ma si preparavano anche ad effettuare
sabotaggi in grande stile, prendendo di mira i tralicci dell'alta tensione
che portavano l'elettricità prodotta dalle centrali idroelettriche
della Sila. Le centrali erano sorvegliate
da reparti "alleati", ma le linee elettriche restavano vulnerabilissime1. Il tenente Capocasale, nei
suoi giri di ispezione e coordinamento, aveva raccomandato in particolare
ai ragazzi di Nicastro di mantenersi calmi per poter meglio prepararsi
ad intervenire non appena le circostanze si fossero mostrate favorevoli,
evitando così di compromettere la clandestinità con azioni
troppo scoperte in un piccolo centro, dove , le indagini potevano essere
mirate più facilmente. Ma le sue raccomandazioni furono spesso trasgredite,
sia per la linea dura che il notaio Ugo Notaro, anziano fascista intransigente,
capitano di fanteria in congedo, voleva imporre, sia per la naturale irruenza
di molti giovanissimi clandestini che, autonomamente e spavaldamente, continuarono
ad usare esplosivi anche dopo l'arresto dei loro coetanei più sfortunati. Gli "Alleati", secondo
un clichet ormai abitudinario, lasciarono il processo agli italiani di
Badoglio. Il Tribunale Militare Territoriale della Calabria, con sede a
Catanzaro, fu investito della responsabilità di istruirlo. Ma gli
ufficiali del Regio Esercito non dimostrarono affatto entusiasmo e tanto
meno zelo per l'incarico ricevuto, anzi adoperarono ogni possibile solerzia
per limitarne la portata2. Può apparire strano
che un tribunale militare in tempo di guerra non operi nell'ambito del
codice penale militare di guerra. Bande armate, fucilazioni,
invece, furono argomenti immediatamente scartati. Così essi passarono
disinvoltamente all'art. 270 del codice penale: associazione sovversiva.
Ma anche questa imputazione venne successivamente derubricata, con l'aiuto
degli avvocati della difesa, in associazione a delinquere Francesco Tigani Sava, nel
suo documentato studio sul "processo degli 88", afferma che i
giudici fecero una sentenza destinata ad essere facilmente annullata per
mettersi al sicuro contro eventuali capovolgimenti di fronte, ma non si
può escludere che essi sentissero, sia pure sotto la divisa dell'esercito
regio, battere ancora un cuore che non riusciva a dimenticare del tutto
l'amore per l'Italia e per i suoi figli. Analogamente il magg. Oreste
Pecorella capo di stato maggiore del SIM (Servizio informazioni militari),
che aveva redatto il rapporto sull'argomento con oggetto: movimento fascista
nell'Italia meridionale, sfumò molto le responsabilità degli
aderenti alla cospirazione, negò che fra i vari gruppi clandestini
scoperti esistessero collegamenti. Addirittura poi, venuto a conoscenza
delle notizie sulle armi segrete tedesche (bomba atomica, la nube misteriosa
sul nord Europa, l'offensiva di Von Rustedt), andò a trovare Nando
Di Nardo, detenuto nella certosa di Padula, trasformata in campo di concentramento
per duemila fascisti, e gli dichiarò di aver evitato di citare nel
suo rapporto tanti particolari a sua conoscenza, che avrebbero indubbiamente
aggravato la posizione degli imputati e che avrebbero consentito il collegamento
del processo degli 88 fascisti di Calabria con quello del principe Valerio
Pignatelli e altri fascisti napoletani e calabresi3. In quell'occasione Pecorella,
dopo aver usato parole di stima e di solidarietà, quasi di complicità,
si raccomandò apertamente affinchè Di Nardo convincesse Pignatelli
a non infierire su di lui nel caso che le parti dovessero invertirsi. Il
6 aprile del '45, dopo circa un anno di istruttoria, i giudici, finito
il dibattimento, si riunirono in camera di consiglio4. Le strade di Catanzaro brulicavano
di folla; fascisti e simpatizzanti si agitavano minacciosamente sotto il
naso di carabinieri e poliziotti radunati in tutta fretta. L'aula magna del tribunale,
affollatissima di pubblico, era vigilata dall'alto attraverso i finestroni,
da carabinieri armati di mitra ostentatamente rivolti in basso verso il
pubblico. La Corte temporeggiava. Finalmente,
appena poco prima dell'alba, le strade si sfollarono; dopo ben 19 ore di
camera di consiglio, i giudici si decisero a leggere la sentenza: 10 anni
di reclusione per Pietro Capocasale, 9 anni per Gaetano Morelli, 8 anni
per Luigi Filosa e per Attilio e Giuseppe Scola (di Crotone) ancora 8 anni
per Antonio Colosimo, Nino Gimigliano e Aldo Paparo (di Catanzaro) nonchè
Ugo Notaro (di Nicastro), 6 anni per chi fu ritenuto partecipante più
attivo, mentre 4 anni per i semplici partecipanti. Infine ai minorenni
24 mesi di reclusione. Altri imputati per cui non era stato possibile raggiungere
la prova di colpevolezza, vennero assolti. Era l'alba del 7 aprile. Appena letta la sentenza,
una sorta di ruggito di rabbia sgorgò dalla folla e gli imputati
in piedi di fronte ai giudici allibiti esplosero nel canto di "Giovinezza";
era un raptus generale, i carabinieri sui finestroni, confusi, non sapevano
cosa fare. Più tardi, nel chiuso
del furgone cellulare che li riportava in carcere, il mastodontico brigadiere
Putortì e i carabinieri di scorta, con gli occhi rossi dalle lacrime
trattenute, si unirono ai condannati nel canto di "Giovinezza". NOTE Il testo è stato emendato dalle numerose
note (vedi numeri di riferimento da 1 a 3) presenti sull'originale cartaceo. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
INTERVISTA
A DE PASCALE da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo XVI-Francesco Fatica Sappiamo già che trascorse
le vicende descritte nei precedenti capitoli, avvenne, come s'è
visto, l'arresto di Pignatelli e di Guarino e subito dopo anche quello
di Di Nardo, compromesso da una lettera inviata al barone Filippo Marincola
di S. Floro. Restò quindi unicamente
a De Pascale la responsabilità della dirigenza del movimento clandestino
fascista in Campania. Oggi egli è rimasto
l'unico vivente dei responsabili del vertice clandestino fascista dal '43
al '45. A lui quindi mi sono rivolto per attingere direttamente alla fonte
- dopo oltre 50 anni di riserbo - le notizie ed i chiarimenti che meglio
possono concludere questa ricerca storica. — Caro De Pascale, per cominciare, ti prego di
descrivermi i sentimenti che animavano, oltre te, anche i gregari della
lotta clandestina.— De Pascale: - Eravamo ispirati dagli stessi
ideali che ci avevano animati sui campi di battaglia, con in più
la rabbia disperata di vedere calpestato il suolo della Patria da orde
straniere, che gozzovigliavano nelle nostre città, umiliandoci ogni
giorno con la loro arroganza e poi soprattutto sentivamo il bisogno supremo
di riscattare ad ogni costo l'Italia dalla vergogna dell'armistizio e del
tradimento. Anche noi, come i camerati del Nord, ci preparavano a batterci
per l'onore d'Italia. — Ti prego ancora di ricordare qualche nome di
camerati impegnati nella lotta clandestina.— Oltre Di Nardo e il col. Guarino, che teneva
i contatti con le bande armate calabresi, ricordo Nicola Galdo, che stampava
un giornale clandestino con il ciclostile che avevamo recuperato dal G.U.F.,
il prof. Calogero, il libraio Bolognesi, il marchese capitano di vascello
Marino de Lieto, super decorato, eroe della prima guerra mondiale, che
conduceva una sua guerra personale segretissima e solitaria contro gli
anglo-americani, sabotando ponti ed apprestamenti militari, finendo coinvolto
talora addirittura in corpo a corpo come un giovane sabotatore di commando.
Di lui e di qualche altro, che agiva come lui, dicevo che facevano una
loro guerra privata. Ma, naturalmente, debbo
citare ancora l'attivissima ed entusiasta Elena Rega, che poi divenne mia
moglie, Pasquale Purificato, Picenna, il tenente della Decima MAS Bartolo
Gallitto, che attraversò le linee con altri marò. Mi spiace
tralasciare tanti altri nomi di elementi di secondo piano, però
tutti validi, pieni di entusiasmo, disciplinati e pronti ad ogni sacrificio. Ma voglio ricordare ancora,
con venerazione, il tenente di vascello Paolo Poletti, agente dei Servizi
Speciali della RSI, infiltrato nell'OSS americano, che finì torturato
atrocemente, fino ad impazzirne e fu poi assassinato cinicamente dal sergente
americano di guardia. Non si lasciò sfuggire un nome, un accenno,
un indizio. Quando poi anch'io fui
arrestato e detenuto a disposizione del C.S., capeggiato dal famigerato
maggiore Pecorella dei CC.RR., fui ristretto in quei locali a Napoli, in
via Fiorelli, da dove altri giovani dei Servizi Speciali furono prelevati
per essere fucilati a Nisida. Un giorno poi conclusero
che gli interrogatori non avrebbero approdato a nulla e allora tentarono
di eliminarmi con la messa in scena della tentata fuga;ma io ebbi nervi
saldi e non cascai nel tranello. — Inscenare un tentativo di fuga è l'espediente
banalmente, ma cinicamente, usato per coprire un assassinio. Così
fecero con Ettore Muti, così con Paolo Poletti. Possiamo dire che
gli antifascisti non esitavano di fronte agli assassinii.— E' proprio così. In Repubblica Sociale
una serie di feroci, premeditati assassinii innescò la guerra civile. Da Radio Bari prima e Radio
Napoli poi, si incitavano i partigiani all'assassinio sistematico come
metodo di lotta. Noi invece abbiamo sempre evitato attentati sanguinosi
e soprattutto spargimento di sangue fraterno. Eravamo ben informati delle
abitudini e delle abitazioni degli avversari, qui al Sud, ma abbiamo deliberatamente
evitato di innescare rappresaglie che avrebbero lasciato un solco profondo
di odio tra gli italiani. Se pure fossimo stati tentati
di agire in questo senso, avevamo avuto continue, categorie disposizioni
da Mussolini, sia per via radio, ma anche, più esplicitamente, attraverso
il rapporto della principessa Pignatelli. Avremmo potuto facilmente
ripetere a Napoli un attentato simile a quello di via Rasella per ottenere
una strage di rappresaglia simile, se non peggiore di quella delle Fosse
Ardeatine; ma a noi è sempre ripugnata la strategia stragista. Avevamo invece previsto
tassativamente che, in caso di attentati, uno di noi avrebbe dovuto costituirsi
per addossarsene la responsabilità, onde evitare rappresaglie con
vittime civili. La tecnica del "sangue
chiama sangue", come tutti sanno, fu invece largamente attuata dai
comunisti e dai loro accoliti, utili e feroci idioti. Noi no. Al Sud non c'è
stata guerra civile. — Bene; tu sai che anch'io, pur giovane ed impaziente
gregario, oltre tutto lontano dal centro organizzativo e direttivo di Napoli,
avevo lo stesso orientamento tattico, per costituzione morale derivata
dall'educazione fascista avuta nella GIL e nel clima in cui ero vissuto,
ma dobbiamo spiegare adesso: questa organizzazione clandestina che c'era
a fare se non poteva, nè doveva lottare liberamente, senza esclusione
di colpi?— Come già ti ho detto altre volte,
Mussolini voleva assolutamente che, almeno al Sud, fossero evitate le feroci
nefandezze della guerra civile. Noi clandestini avremmo
dovuto entrare in azione alla grande solo nel caso, non improbabile, di
un capovolgimento della situazione militare, cosa che sembrò più
volte imminente, sia per le tanto propagandate armi segrete tedesche (vedasi
bomba atomica) sia per le controffensive, in particolare quella di Von
Rustedt nelle Fiandre che sembrò aver sgominato gli eserciti alleati. Lo stesso maggiore Pecorella,
a contatto con il Servizio Informazioni Militari, quando subodorò
possibile una certa concretezza nelle nostre speranze, si recò alla
Certosa di Padula a perorare presso Di Nardo, colà detenuto, la
sua causa personale, scoprendo sue benemerenze di doppiogiochista, chè
non aveva rivelato tutto quello che aveva scoperto, cercando di non aggravare
la nostra posizione processuale. Concludendo, Mussolini
volle evitare ogni sia pur minimo spargimento di sangue fraterno. Per esempio,
i comunisti di vertice a Napoli, a cominciare da Togliatti, alias Ercole
Ercoli, avrebbero potuto agevolmente essere eliminati. Non fu così. Se oggi nel Meridione non
si è scavato un profondo solco di sangue fra italiani, il merito
è soltanto di noi fascisti e soprattutto di Mussolini. MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F.
Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator
Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO
NELL'ITALIA OCCUPATAFrancesco Fatica Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1°
guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente
in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe
nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria.
La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano,
sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena
divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di
vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino
a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo
brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei
e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì
al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria
Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere
il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio
dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne
vice direttrice.Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi
freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia,
inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare
il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di
foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni,
ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile
per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori.
Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando
così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni
pecorile conformismo.La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa
di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati",
era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi
eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte,
si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare
le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile
sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno,
nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli
e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso,
più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati
bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva
la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale,
e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera
gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a
casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di
fare una doccia.Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti
erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica,
cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi
allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la
sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe
perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri
viventi.Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque
delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava
dai superiori di far apparire potabili.La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò
alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono
al dito.I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le
oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente
nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte
e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi
uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati,
ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del
GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare
le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della
Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava
a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati.
Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli,
molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da
parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano
ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché
si erano persi i collegamenti.Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati
a dichiarare solennemente: «La guerra continua».E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate
vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli
repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente,
anche sul fronte interno.Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi",
questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava,
ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati
i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al
di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione
l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza,
che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri
camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case
private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati
e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della
Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti
con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente
disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia
dei fascisti.Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di
giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti,
si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli
fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF,
con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di
Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano
a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire
i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di
prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive",
nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese
si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio",
che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni,
allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari;
lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase:
«La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati,
non valeva più.Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi
sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in
tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città
purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre
peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati,
quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le
sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente
dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi
e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa
di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano
per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case
dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista?
Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse
la possibilità di fare un ricco bottino.Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile
riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò
disperatamente.Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero;
i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono:
isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando
la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero
colpire.Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco,
per l’onore d’Italia.Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero
di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo
morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati
da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine",
ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con
le amlire o con le PallMall.Si ritrovarono in pochi: i migliori.Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna.
Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente
pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo
rigoroso contributo progettuale.Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della
RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere
contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento
clandestino fascista.I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la
principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo
acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza
e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare
il parere assieme a quello della principessa.Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de
Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo
Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente
a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre
personalità che potevano, conversando "liberamente", magari
un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche,
che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di
grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute
le relative comunicazioni radio.Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de
Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie,
che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena
Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della
cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti,
che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna
dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare
e sistemare questi abiti.La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati
di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con
gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono
la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati
sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano
e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi,
ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti
e …memorizzavano.Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario,
sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene
attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così
tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto
divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti
a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente
in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione
politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in
codice a mezzo radio al Nord.Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato
a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando
nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa
volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale
agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo
e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero
certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno
al Sud.In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare
Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente
memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore
Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del
tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire
Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava.
Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con
gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione
un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario,
ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano;
i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare,
con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato
anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti
speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare
con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale,
che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più
minuti dettagli.Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere
tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati
direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così
si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di
consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente
intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa
e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di
Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi,
pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa
di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento
dell’assenso del Duce.Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI,
per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato
di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli
fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di
Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi
di Guarino e Di Nardo.La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive
del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro
maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare
Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva
fatto male i suoi conti.Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale,
ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica.
Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo
ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in
cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono,
secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente
una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un
fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa
della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive,
pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!»,
urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la
"dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con
i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto
fare una doccia.Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come
sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente
sentimenti simili.Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo
sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare
in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte
le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una
sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli
riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente
spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino,
che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non
solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata.
Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni
sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega,
non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente
e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando
questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei
e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali
manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a
vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da
quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il
Pecorella si arrabbiava stizzosamente.Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de
Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio,
sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe
gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e
scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava
ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa.
Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca,
ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi
videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep,
che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse
al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per
quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate,
ma ormai solidali compagne.Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere
i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella
sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente
imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse
rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino
de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto
la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una
brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva
bisogno di continue medicazioni.Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando
dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito
dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové
convincersi che era tutto tempo sprecato.Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al
carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente
armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione
improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo
un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista
(che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa
rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che
l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe
nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati
custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì;
il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo
a Poggioreale.Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di
Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità
femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva
per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della
sua prigionia.Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field
Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese,
avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare
sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti
più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente
molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi
un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava
Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente
lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già
prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi,
lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben
più aggressive.Francesco Fatica Elena
aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza
e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.Finalmente Pecorella
si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile,
o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero
di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.A questo punto,
per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo
riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.Tra gli ufficiali
dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel
CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì,
la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente,
del dopo.Le regioni dell’Italia
occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca,
sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi
dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato
ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al
servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con
il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato"
ancora.Dunque era necessario
preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani
che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si
sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo
soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.Capitava così
che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati"
usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano
esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena
fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della
RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio:
Carla Costa.Per liberarli dalle feroci rappresaglie
dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento
per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere,
ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere
abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.Gli "Alleati" si illudevano
anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi,
ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento
e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio
scelto al meglio.Dunque Elena Rega non fu fucilata, non
fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare
italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati
punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad
altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso
Junio Valerio Borghese.Il processo fu bloccato; il relativo incartamento
è tuttora "coperto dal segreto di Stato".Per sottrarre Elena dalle grinfie dei
vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in
campo di concentramento per la durata della guerra". Dapprima fu ristretta nel settore femminile
del Campo di concentramento di Padula, il famigerato "371 PW Camp
di Padula " gestito dagli inglesi nella allora fatiscente Certosa,
dove trovò la compagnia della camerata Maria Pignatelli, anch’essa
giudicata meritevole di essere "preservata in campo di concentra
mento per la durata della guerra".I sacrifici e le privazioni di ordine
materiale oltre che morale che Elena fu costretta a sopportare nel campo
di "Padula" furono gravi: basti pensare che gli inglesi, che
gestivano il campo, nei primi tempi non si vergognarono di dare da mangiare
ai prigionieri ghiande e niente altro. Tanta proterva perfidia era già
stata corretta quando arrivò Elena, ma la fame era sempre tanta,
perché gli inglesi non erano affatto rispettosi di tabelle dietologiche
né della convenzione di Ginevra. Bisognava poi sopportare le angherie
delle guardie del campo, indiani, che erano sempre pronti ad infierire
sui prigionieri, forse per una malcelata forma di razzismo alla rovescia,
ovviamente con il beneplacito degli inglesi.Ma per sua fortuna Elena aveva la compagnia
ed il cameratismo della principessa Pignatelli e di altre camerate italiane
e tedesche. E, di tanto in tanto, Le veniva concesso di partecipare, insieme
alla principessa a qualche raro colloquio con il principe Pignatelli, con
Di Nardo o con Picenna, reclusi nel settore maschile del campo. Tuttavia
non si deve pensare che nel campo ci fossero soltanto fascisti; a Padula
erano state recluse anche persone che non avevano commesso "crimini
fascisti"; erano persone che, per loro sfortuna, si erano trovate
a dar fastidio, o non avevano voluto inchinarsi ad un qualche altezzoso,
rapace e tracotante ufficiale "alleato".Il 25 maggio 1945 il campo di "Padula"
fu chiuso; molti civili, giudicati innocui e ravveduti dagli ufficiali
del campo, furono rimessi in libertà; ormai la guerra era finita.Tanti altri invece furono trasferiti nel
"R civilian internee camp di Collescipoli" (Terni), dove
"R" sta per "Recalcitrants". Il campo
era tenuto dagli inglesi. .Ritenevano, gli "Alleati", che i recalcitrants
dovessero essere ulteriormente rieducati, o che fossero addirittura
incorreggibili.In questo campo fu selezionata quindi
l’aristocrazia spirituale del Fascismo.Elena Rega e Maria Pignatelli furono,
giustamente, trasferite a Collescipoli, onoratissime del titolo di "recalcitrants".Ma la perfidia inglese giunse ad immaginare
un sistema per dividere italiane da tedesche: furono scelte alcune tra
le più altezzose, rozze e presuntuose prigioniere tedesche perché
imponessero alle italiane i lavori più avvilenti. Queste umiliazioni
ferirono profondamente tanto Elena Rega che la principessa Pignatelli.
Ma il loro morale non ne riuscì fiaccato, anzi dobbiamo pensare
che le due gentildonne, più che mai legate dal cameratismo consolidato
in anni di comuni sofferenze fisiche e morali, avessero elevato il loro
morale e la grinta al massimo, se dobbiamo credere a quanto scrive uno
storico comunista: «La principessa Maria Pignatelli organizza
cerimonie celebrative del fascismo e perfino sfilate».1 Ma le
angherie degli inglesi non per questo erano meno dispotiche: si pensi che
un soldato inglese arrivò a freddare cinicamente sul fatto la giovane
camerata Nicoletta de Terlizzi, sotto gli occhi delle sue esterrefatte
compagne di reclusione, perché si era sdegnosamente rifiutata di
andare a ballare con lui.2 *** Elena Rega tornò alla vita civile
dopo l’amnistia del giugno 1946.La vita civile! Era stata licenziata per….
"abbandono di posto" ! No, non era una barzelletta; soltanto
i "superiori" non avevano saputo trovare nella sua carriera burocratica
una qualsiasi piccola ombra a cui appigliarsi per licenziarla, per liberarsi
di una così ingombrante vestale del dovere, della legalità
e della dirittura morale; e per giunta fascista.Gli avvocati Nando Di Nardo e Francesco
Saverio Siniscalchi (da poco quest’ultimo tornato dalla RSI, Di Nardo aveva
anche lui recuperato la libertà in seguito all’amnistia) la difesero
nella causa che fu intentata ed ottennero la riassunzione della camerata.Ma non era finita; la fedele seguace dell’Idea
cadde sotto la scure dell’epurazione.Anche Tonino de Pascale aveva ripreso
la vita civile e, com’era nell’ordine delle cose, si sposarono.Elena poté dispiegare le sue doti
affettive e pratiche nella creazione di una nuova famiglia, una nuova cellula
della Società. E nell’allevamento e nell’educazione di due splendide
figlie, ma anche di moltissimi affezionatissimi cani e gatti.Un romanziere fantasioso e attento agli
effetti emozionali sui lettori, chiuderebbe qui la storia a lieto fine
di Elena.Ma questa è una storia vera; Elena
Rega de Pascale l’ha scritta con la Sua vita intensamente e rigorosamente
vissuta. La famiglia, fulcro dei suoi interessi vitali, non l’ha distratta
dai suoi doveri sociali, anzi, anche nel nome della famiglia, per l’avvenire
della Sua famiglia e per l’avvenire di tutte le altre famiglie, Elena Rega
de Pascale ha continuato la sua battaglia rigorosa e attenta per il Fascismo,
marciando idealmente a fianco al marito, nel Fronte dell’Italiano, nei
primi fervidi anni del MSI e nel MIF di nuovo con la principessa Maria
Pignatelli .E continuò a partecipare alle cerimonie
celebrative del fascismo con lo stesso fervente animo e con la stessa incorruttibile
fede della giovane Elena Rega, quella irriducibile "recalcitrant",
reclusa nell’"R internee civilian camp di Collescipoli". NOTE1 Pier Giuseppe Murgia, Il vento del
Nord, SugarCo Edizioni, Milano, 1975, p. 123.2 Lettera che la principessa scrisse a
David Rousset (fine 1949). Archivio di Stato di Cosenza, b. 32, f. 43,
Sf. 5.NUOVO FRONTE N. 228 Maggio 2003 e N. 229 Giugno 2003.
MARIA
PIGNATELLI E IL FASCISMO CLANDESTINO AL SUDFrancesco Fatica Maria era la figlia prediletta
dell’Ammiraglio conte Giovanni Emanuele Elia, nacque a Firenze nel 1894,
crebbe nella piena adesione alla massima "Vivere pericolosamente’’,
poi adottata anche dai fascisti, praticò sport audaci e amò
rischiare in lunghe e temerarie navigazioni a vela.Sposò, molto giovane, il marchese De Seta, ma dopo due anni
si separarono.Maria e Valerio Pignatelli si incontrarono una prima volta, ma presero
vie diverse. Molto più tardi, nel 1942, quando di sposarono, pur
essendo già maturi, unirono due caratteri avventurosi ed impetuosi,
entrambi prorompenti nel più appassionato amor di patria, spinto
fino ad osare l’estremo sacrificio. Va aggiunto, comunque, che non era
impossibile trovare tali valori in uomini, donne, giovani ed anche giovanissimi
cresciuti nel clima fascista.Due caratteri molto simili dunque, con interessi e forti sentimenti
comuni, si incontrarono e tavolta si scontrarono, giungendo però
ad ottenere, in un comune afflato, la conquista delle mete agognate, essendo
fervidi esponenti di una certa nobiltà che ancora conservava gelosamente
il culto del coraggio, dell’onore e della dedizione quasi fanatica alla
Patria.A Napoli, a partire dal dicembre del ’43, i Pignatelli riuscirono a
intraprendere rapporti "amichevoli e cordiali’’ con il mondo dell’antifascismo
e con le massime autorità del governo badogliano nonché degli
eserciti di occupazione, al solo scopo di ricavarne informazioni preziose
di carattere politico e militare.I Pignatelli, come ho scritto in un precedente articolo, ebbero stretti
rapporti con i fascisti clandestini di Napoli e dintorni, di cui diressero
l’attività, collegandola a quella delle altre province occupate
dall’invasore.Intanto aveva preso contatto con Pignatelli anche il Tenente di Vascello
Paolo Poletti, agente speciale della RSI, nome in codice Paolo Masi, che
era riuscito ad infiltrarsi nell’OSS (Office of Strategic Service, il servizio
segreto americano, che nel dopoguerra diventò la CIA).Giovanni Artieri, nella sua Cronaca della Repubblica Italiana
racconta come il principe e la principessa si sistemarono strategicamente
in una villetta sulla centrale collina di Monte di Dio, nella piazzetta
del Calascione, villetta che fu frequentata da intellettuali antifascisti
e dal più qualificato mondo militare inglese e americano presente
a Napoli, dalle massime autorità del governo del "Re’’, dal
generale Wilson - con cui Pignatelli si era stretto d’amicizia in circostanze
tragiche in Russia, durante la rivoluzione – dai capi dei servizi segreti
militari (l’Intelligence Service, inglese – l’OSS, americano – il SIM,
italiano), dai capi dell’amministrazione di occupazione (AMGOT, Allied
Military Government of Occupied Territory), dal prefetto badogliano, dai
generali "alleati’’ di passaggio per la città.A tutti questi nemici i principi Pignatelli, soffocando ogni repulsione,
offrivano ricevimenti e lauti pranzi, in una cornice aristocratica abbagliante
e… "con roba calabrese’’ allora irreperibile a Napoli, ottenendone
preziose informazioni militari e politiche1.Scrisse Giovanni Artieri del principe e della principessa2:
"Lavoravano, insomma nel rosso dell’uovo. Apparivano insospettabili
agli occhi inglesi e americani; Valerio per le innumerevoli relazioni collegate
con la sua vita negli Stati Uniti, per la sua amicizia con Alexander Kirk
e innumerevoli diplomatici americani e inglesi; lei, per uguali relazioni,
specialmente nell’establishment britannico e fin quasi ai gradini del trono;
perfetti inoltre nelle lingue che parlavano con l’accento di Oxford, passaporto
di efficacia insuperabile presso il mondo anglossassone. Così tra
l’ottobre 19433 e l’aprile 1944, nel cuore stesso di
Napoli e del mondo antifascista e anglo-americano, visse e operò
una cellula binaria singolarissima, che animò gran parte della ‘resistenza’
nell’Italia meridionale’’.Pignatelli e sua moglie raccoglievano larga messe di notizie preziose
per la RSI, ma anche, ovviamente, per l’attività clandestina.Intanto al principe fu trasmesso, per radio, l’ordine di recarsi nella
RSI, lasciandosi però la possibilità di tornare al Sud. Pignatelli
riuscì ad ottenere un lasciapassare, ma soltanto per sua moglie,
attraverso i buoni uffici del T.V. Paolo Poletti (infiltrato, come si ricorderà,
nell’OSS americano). Infatti la principessa, in quanto donna, avrebbe suscitato
minori sospetti.Maria Pignatelli, accompagnata dal dott. Avallo, genero del questore
fascista Stracca, fece un primo tentativo di passaggio delle linee il 2
aprile, nella zona dell’8a Armata, tra Vasto e Lanciano (zona
conosciuta abbastanza dettagliatamente da Nando Di Nardo, del direttivo
clandestino fascista). Ma furono fermati dal FSS (Field Security Service,
il controspionaggio inglese) e per quattro giorni di sospettosi controlli
trattenuti in zona. Finalmente furono rilasciati per intervento del T.V.
Poletti dell’OSS.Tornata a Napoli, Maria ritentò il passaggio il 9 seguente,
giorno di Pasqua, accompagnata da Paolo Poletti, ma anche, purtroppo, dal
Ten. Nuvolari del SIM, (Servizio Informazioni Militari, badogliano) che
però prendeva ordini direttamente dagli inglesi. Nuvolari, ovviamente
nascondendo i suoi intenti, si era infiltrato nell’organizzazione di Pignatelli,
avendone guadagnata la fiducia con fervorose e cordiali dichiarazioni di
fede fascista e di strenua volontà di riscattare l’onore nazionale.Questa volta il passaggio delle linee fu tentato nella zona di Cassino,
dove operava la Va armata americana.Poletti e Nuvolari accompagnarono la principessa fino al punto in cui
Ella si avviò a passare le linee inoltrandosi poi, arditamente,
nei campi minati della terra di nessuno.A Roma Maria Pignatelli si recò dagli intimi amici Marincola
di S. Floro, che la ospitarono, ma che soltanto più tardi scoprì
impegnati nel doppio gioco; si incontrò quindi con Barracu, venuto
apposta da Milano e fu portata prima da Kesserling e subito dopo in aereo
da Mussolini, che voleva essere minutamente informato sull’attività
clandestina fascista e voleva soprattutto essere sicuro che nessuna provocazione
fosse attuata, facendo così evitare sanguinose rappresaglie in grado
di accendere la miccia della guerra civile anche al Sud.Fu stabilito un cifrario sulla base, in chiave nove, della poesiola
satirica "La vispa Teresa’’, allora molto nota, ed un codice da adoperare
nella trasmissione per i prigionieri di guerra (Pignatelli era "Il
Cappellano’’, Barracu era "Ciccio’’, Mussolini "l’autocarro’’
e via di seguito). Prima di ripassare le linee per ritornare a Napoli la
principessa lanciò per radio, nelle trasmissioni dalla radio nazionale,
questo messaggio convenzionale al marito: "Bertuccia Maria, Vittoria
Bertucci, Alba Mercoles’’4.Maria Pignatelli tornava a Napoli accompagnata dall’affascinante attrice
cinematografica russa Vittoria Odinzova, che era stata fidanzata del figlio
e con la quale era rimasta in amicizia. Sulla misteriosa comparsa di questa
avvenente donna sono state fatte mille illazioni; scartando le giustificazioni
piuttosto banali portate poi al processo del principe, viene spontaneo
collegare una bella e avventurosa attrice a vicende di spionaggio. Si disse
che Poletti avrebbe chiesto di avere l’affascinante attrice a Napoli, e
fu spiegato perché ne era l’amante, ma noi sappiamo che Poletti
era un agente speciale della RSI. La Odinzova avrebbe potuto molto bene
giocare il ruolo della "Mata Hari’’, allargando così la rete
di informatori già esistente.Ma l’Intelligence Service, che aveva infiltrato il suo agente Nuvolari,
essendo al corrente della vera identità della principessa – che
aveva inutilmente usato la precauzione di attraversare le linee sotto il
cognome da ragazza (Maria Elia) – non appena questa ritornò al Sud,
pretese dagli americani l’arresto dei principi, nonostante le disperate
manovre del Tenente di Vascello Poletti, il quale per salvare i principi,
finì per scoprire il proprio gioco.Fu anch’egli arrestato e torturato ferocemente, fino a farlo impazzire
in una villetta isolata alle falde del Vesuvio, nei pressi di Torre del
Greco, dove gli "alleati’’ tenevano i loro "interrogatori’’.Poletti non parlò. Ormai ridotto ad un povero essere urlante
fu tradotto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE) ed ivi rinchiuso
nella cella n. 8, la cella imbottita riservata ai pazzi furiosi. E siccome
si dibatteva urlando ingiurie e strappandosi i vestiti di dosso, fu denudato
del tutto e ammanettato. Ma lui continuò a sgolarsi rabbiosamente,
lanciando ingiurie sempre più sanguinose agli angloamericani.Il 19 maggio del ’44, il sergente americano di guardia, indispettito,
con la prepotente arroganza degli invasori – un piccolo sergente, ma tracotante
di proterva iattanza, un sergente precursore del grosso sergente Bush di
oggi – lasciò aperta a bella posta la porta della cella e, non appena
Poletti continuando ad urlare, nudo ed ammanettato, uscì nel corridoio,
gli scaricò addosso la pistola di ordinanza.Il principe e la principessa, probabilmente a causa delle loro amicizie
importanti e forse anche per soffocare lo smacco delle compromissioni delle
alte personalità che erano state loro ospiti, furono "interrogati’’
con metodi meno feroci, ma psicologicamente spossanti. La principessa,
considerata più debole, fu messa al muro due volte, inscenando finte
fucilazioni. Nei primi tempi furono detenuti nella villa De Falco sulle
pendici del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco: forse la stessa villa
dove era stato torturato il martire Poletti e, prima e dopo di lui, altri
Agenti Speciali della RSI.Intanto anche Di Nardo fu compromesso per una lettera inviata a Roma
al barone Marincola di San Floro a mezzo del Tenente Sorrentino.Avvenne la delazione del barone o di sua moglie, americana, che decise
probabilmente di "servire gli interessi del suo Paese in guerra’’,
come scrive ancora l’Artieri. Ne seguì l’arresto di Di Nardo, che
era subentrato a capo dell’organizzazione clandestina fascista e, naturalmente,
del Tenente Sorrentino. È da pensare che era stata segnalata in
precedenza anche la principessa Pignatelli.Risultati vani gli interrogatori fatti dagli "alleati’’, i Pignatelli
furono passati al CS (che aveva sede a Napoli in Via Fiorelli n. 12) capeggiato
dal maggiore Pecorella, dei CC.RR (Carabinieri Reali), che, tra le altre
angherie, in stato d’ira – ma era finta e premeditata quest’ira – arrivò
a colpire l’anziana principessa con il calcio della pistola sulla fronte,
provocandole una ferita lacero-contusa che sanguinò abbondantemente.
Era appunto questa una manovra meditatamente intimidatoria a doppio effetto,
come vedremo meglio.Per inviare i messaggi dal CS di Via Fiorelli, Pignatelli finì
per servirsi degli stessi militari incaricati di sorvegliarlo, evidentemente
ben disposti a lasciarsi convertire, ed ansiosi di riscattarsi dal servaggio
agli "alleati’’. Quattro di essi furono scoperti e imprigionati, ma
tennero sempre un contegno virile e dignitoso, alla pari degli altri detenuti
politici.Arrestato anche Di Nardo, al vertice dell’organizzazione restò
de Pascale.A dargli man forte nel ricollegare gli elementi dell’organizzazione
clandestina scompaginati dai sopravvenuti arresti, attraversò le
linee il Guardiamarina Bartolo Gallitto degli NP della Xa. Gallitto,
agente speciale, richiese l’invio di un bravo radiotelegrafista, che fu
paracadutato prontamente, ma si rivelò purtroppo un agente doppio
che tradì; così furono arrestati gli agenti speciali operanti
a Napoli e, con essi, anche de Pascale ed Elena Rega di cui ho parlato
in un precedente articolo.Dopo l’occupazione di Roma, il principe fu tradotto a Regina Coeli.
Qui, a metà luglio, ricevette in modo del tutto insolito – dati
i regolamenti carcerari – la visita di suo cognato, il principe Antonio
Pignatelli di Terranova, che fu guidato direttamente nella sua cella, accompagnato
dal procuratore generale del Tribunale americano di Roma, presentatogli
come un caro amico. Il cognato si offrì di tirarlo fuori dal carcere
con l’aiuto dell’amico americano, ma Pignatelli rifiutò recisamente,
a meno che non fossero contemporaneamente liberati la principessa e gli
altri imputati.Dopo aver trascorso un paio di mesi a Regina Coeli, Pignatelli fu trasferito
nel campo di concentramento di Padula, ricavato nella celebre Certosa,
dove incontrò altri duemila camerati colà ristretti, polarizzando
ogni attività politica e morale degli internati.Il 19 marzo 1945 fu trasferito nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro
per essere processato da quel Tribunale Militare. Condannato a soli 12
anni di carcere per la buona disposizione dei giudici del Tribunale Militare
– ma anche e soprattutto per la condiscendenza lungimirante di alcuni di
quegli "alleati’’ che già da allora pensavano a preservare
i fascisti in funzione anticomunista – fu scarcerato il 1° luglio 1946,
usufruendo dell’amnistia Togliatti, che era stata concessa, invece, come
tutti sappiamo, per salvare i criminali comunisti.Maria Pignatelli, al contrario, non fu mai processata: fu tenuta in
vari campi di concentramento, sottraendola, così, alla pervicace
e persecutoria "giustizia democratica’’ del Regno di Vittorio Emanuele
prima, e di Umberto poi. E quegli "alleati’’ anticomunisti che vollero
preservarla, ebbero buon fiuto, perché, come vedremo, seppe essere
un’efficace e strenua combattente anticomunista, ma fu anche antidemocratica,
perché seppe sempre conservare i principî basilari dell’idea
fascista, come purtroppo non è avvenuto per tanti presuntuosi "ducetti’’.Maria Pignatelli aveva avuto modo di mostrare le sue altissime qualità
quando svolse la sua missione in RSI, missione che iniziò affrontando
tranquillamente le insidie dei campi minati durante l’attraversamento delle
linee nella zona di Cassino e che portò a termine con perizia di
diplomatico, facendosi apprezzare e stimare da italiani e da tedeschi.
Fu ricevuta anche da Kesserling nel suo quartiere generale sul monte Soratte;
durante una colazione con Barracu e Kesserling, questi ebbe a scrivere
su di un cartoncino, che era sul tavolo: "Se l’Italia ha molte donne
intrepide come lei è una nazione che non può morire’’.Ed effettivamente Maria Pignatelli fu una donna intrepida anche quando
fu "interrogata’’ dagli "alleati’’, che usarono mezzi di tortura
morali, di estrema violenza psicologica ed intimidazioni scientificamente
studiate, arrivando a metterla al muro per ben due volte per finte fucilazioni.Passata poi al C.S. (controspionaggio badogliano), fu minacciata con
la pistola in pugno dal Capitano dei CC.RR. del C.S. De Fortis, che la
schiaffeggiò "come una qualsiasi ladruncola’’. Sempre nei locali
del C.S., essendo stata percossa, come accennato, col calcio della pistola
dal Maggiore Pecorella, fu vista con la fronte sanguinante dall’architetto
de Pascale colà detenuto, che la incontrò – restandone desolatamente
sgomento per lei – mentre usciva insanguinata dall’ufficio del Maggiore,
intanto che l’architetto vi veniva introdotto. Non è da ritenere
che l’incontro fosse stato un caso fortuito; appare chiaro invece che la
coincidenza fu voluta per ottenere un doppio effetto depressivo, effetto
devastante poi per de Pascale, il quale vedeva una camerata che venerava,
ridotta a grondare copiosamente sangue dalla fronte restandone tutta imbrattata,
sul viso, sul collo, sulla veste. Il feroce aguzzino sapeva bene che la
fronte è una zona molto irrorata dal sangue e che quindi una ferita
in quella zona produce un effetto clamoroso.Anche la principessa fu portata a Roma e rinchiusa alle Mantellate
(il carcere femminile), a disposizione degli inquirenti "alleati’’
e poi nel campo di concentramento di Padula, dove si ritrovò con
la camerata Elena Rega, di cui ho avuto occasione di parlare su questa
rivista.È da ricordare che, secondo quanto testimoniò Antonio
Bonino, vice-segretario del P.F.R., Mussolini, richiedendo la consegna
del principe Valerio Pignatelli e Signora, offrì in cambio qualsiasi
persona, non escluso lo stesso Ferruccio Parri.Alla chiusura del famigerato campo di Padula, Maria fu trasferita in
quello di Collescipoli (Terni) tenuto dagli inglesi e da qui in quello
di Miramare (Rimini), anch’esso inglese, da dove riuscì ad evadere
audacemente, conducendo poi vita clandestina, sotto i falsi nomi di Teresa
Marchi e Teresa Manfredi, fino al 9 dicembre 1947 e cioè fino all’entrata
in vigore del trattato di pace.In tutte le carceri ed i campi dove fu rinchiusa, la principessa divenne
guida morale e politica delle altre internate. Anche lo storico comunista
Pier Giuseppe Murgia ha ammesso che la principessa svolgeva a Collescipoli
intensa attività politica tra le recluse ed "organizzava perfino
sfilate’’.Tornata alla vita civile, si interessò sempre di aiutare i camerati
perseguitati dalla sventura, impersonata dagli antifascisti più
spietati.Maria Pignatelli è quindi degna di essere iscritta nell’albo
d’oro delle donne fasciste che tutto diedero alla Patria, quali furono
le Ausiliarie, quali le giovanissime e meno giovani franche tiratrici di
Firenze e di altre città.Va aggiunto che, dopo la guerra, mentre ancora si nascondeva sotto
nomi di copertura, fondò il MIF (Movimento Italiano Femminile, Fede
e Famiglia) che si proponeva di mantenere alta la fiamma della fede fascista
attraverso le sue pubblicazioni e la sua attività. Svolse anche
una valida ed intensa attività assistenziale verso i fascisti perseguitati
dall’antifascismo militante e dalle istituzioni "democratiche’’. Mi
propongo di scriverne in un prossimo articolo.Il MIF organizzò le donne in tutta Italia, naturalmente cercò
di rintracciare e di ingaggiare tutte le Ausiliarie che riuscì a
contattare. Ma non reclutò soltanto donne; molti uomini vi parteciparono
attivamente, tra questi, naturalmente spiccava Valerio Pignatelli.Maria raccontava che il MIF le era stato ispirato dallo stesso Mussolini,
quando l’aveva ricevuta a Gargnano il 16 aprile 1944, durante la sua missione
in RSI. Il 18 aprile fu fondato il SAF.Ha scritto Roberto Guarasci: "La coincidenza del periodo, la sostanziale
identità di intendimenti e di compiti, la esclusiva composizione
femminile, fanno pensare che nelle intenzioni di Benito Mussolini i due
movimenti dovevano essere quasi due facce della stessa medaglia, destinato
l’uno alle terre occupate e l’altro ai territori della RSI5’’,
rilevando ed evidenziando la singolare coincidenza che due soli giorni
dopo si concretizzò nella nascita del SAF nella Repubblica Sociale
Italiana.Il MIF ebbe momenti di grande fervore e fu in relazione con molte organizzazioni
politiche, anche all’estero, in Europa ed in America, come vedremo in seguito
dettagliatamente.La principessa fu la segreteria generale del MIF, e donna Rachele Mussolini
ne fu la presidentessa.Nel dopoguerra il principe e la principessa scrissero molti appunti
per redigere un libro di memorie sull’attività clandestina. Ma il
6.2.1965 Valerio Pignatelli morì a Cerchiara (CZ) senza aver portato
a termine la sua fatica.Le sue carte furono consegnate, anni dopo, dalla principessa al giornalista
Marcello Zanfagna, deputato del MSI-Dn, il quale, preso da mille impegni
contingenti, non seppe trovare il tempo per portare a termine il libro
che si era proposto di pubblicare.Peggio ancora, i documenti di Pignatelli, insieme a tutte le carte
di altro genere, andarono ineluttabilmente perduti in una disgraziata vicenda
di alienazione di immobile, alla morte prematura di Marcello Zanfagna.Ci restano oggi il rapporto che Pignatelli inviò il 7.6.1948
alla Corte Centrale di Disciplina del MSI, la memoria di Nando Di Nardo,
le ripetute testimonianze dirette dello stesso Di Nardo e dell’arch. Antonio
de Pascale, i quali ressero, dopo Pignatelli, il comando generale della
lotta clandestina fascista nell’Italia meridionale, e l’intervento di Bartolo
Gallitto al Convegno di Studi Storici organizzato dall’ISSES a Napoli nel
novembre 1998.Prima di morire, in un incidente stradale in Calabria, nei pressi di
Nicastro (oggi Lamezia Terme) la sera del 10 marzo 1968, Maria Pignatelli
aveva incaricato l’avv. Verrina di depositare l’archivio del MIF presso
l’Archivio di Stato di Cosenza dove è possibile consultarlo ancora
oggi. Attesta Guarasci che Maria Pignatelli "aveva scritto un lungo
memoriale sul passaggio delle linee e sul colloquio avuto con il Duce,
intitolato Ok, Storia della resistenza al Sud, memoriale che aveva
intenzione di pubblicare e che sembra fosse inizialmente contenuto nel
fondo da noi consultato e riordinato’’.Purtroppo se ne è perduta ogni traccia; si può, a ragion
veduta, ipotizzare che fosse contenuto tra le carte consegnate a Zanfagna. NUOVO FRONTE N. 230 Settembre 2003.