
LA SERA DEL 4 GIUGNO
LA SERA DEL
4 GIUGNO
Bartolomeo Zanenga
La donna era apparsa dritta
ed immobile sulla soglia della casa colonica, al di là della curva.
Nella piana immensa ed assolata dell'Agro dopo Albano, verso Ardea, chissà
dove, al di là della curva una casa con tre alberi verdi dinnanzi
- un'oasi! - e come un miraggio la giovane donna diritta sulla soglia a
guardare con occhi irrealmente vivi.
La Compagnia che dal mattino
era in movimento per strade polverose, sulla traccia di misteriosi segnali,
senza carte, senza cognizione dei luoghi, sorretta dalla volontà
di giungere presto a contatto col nemico invisibile, e presente sotto forma
di granate di ogni calibro e tipo che giungevano da Sud da Est da Ovest,
da terra dal mare dal cielo, si ricompose un attimo sotto l'illusoria protezione
delle tre piante verdi e fresche.
Si buttarono giù di
schianto, gli uomini accaldati e stanchi e sporchi, assieme alle stramaledette
mitraglie, agli stramaledetti mortai da «81» che pesavano e
rompevano le ossa, buttarono giù di schianto, con l'incoscienza
sicura degli artificieri veterani di cento battaglie, le pesanti cassette
spigolose delle munizioni. E smisero di bestemmiare per un attimo alla
guerra ed a chi gliela faceva fare (ma chi, se erano tutti volontari?),
ai tedeschi che avevano detto il mattino, con un vago gesto abbracciante
tutto l'orizzonte: «Là sono i Tommies» e li avevano
piantati senza viveri, senza ulteriori indicazioni, senza bussole, senza
carte topografiche.
Smisero di bestemmiare
alla calura dell'agro che non aveva più canali né fontane,
alle bombe di quelli dal cielo dal mare dalla terra - chi si raccapezzava?
- dai quattro punti cardinali, con un miagolio provocante che metteva il
prurito alle mani.
Smisero non perché
ne fossero saturi, ma solo perché era comparsa una figura di donna
la quale immobile stava ad osservare i soldati, accarezzando meccanicamente
le teste bionde di due bimbi immobili.
Attorno razzolavano poche
galline; ed era festa per loro saltabeccanti da una buca all'altra: le
buche scavate dalle granate nel terreno arato, fra il grano divelto.
I soldati erano sdraiati,
a mezzo il giorno del trentun maggio, e la donna stava immobile. Immobile
stava a presidio della casa che il lavoro dei suoi uomini e suo avevano
fatta accogliente, ridente tra il lussureggiare del grano dove era stata
la palude. Gli uomini non c'erano più, gli uomini che pochi anni
prima erano venuti dal Veneto o dal Piemonte o dalle alte valli della Lombardia
(biondi erano i bimbi), i badili a spallarm come fucili per fare la loro
guerra.
Ma la donna era rimasta.
Gli uomini si erano sparsi
per il mondo, s'erano perduti in Africa, nei Balcani, in Russia, chi sa
dove.
Ma la donna era rimasta, non
s'era perduta. E aveva svezzato i bimbi, aveva allevato i polli, aveva
forse seminato il grano nei campi, il grano che mietevano ora - immaturo
- le granate al fosforo. E veniva a dare alla sua maniera il saluto ai
soldati che andavano in giù verso Ardea, dove c'era il nemico che
con le granate al fosforo bruciava gli steli ancora verdi, sbrecciava poco
a poco le mura gialle della casa colonica con il porticato per le macchine
ed i ferri, con la loggia per i vasi dei gerani rossi.
Alla sua maniera, immobile
sulla soglia, carezzando le testoline bionde dei suoi due bambini che stavano
forse recitando al buon Dio una preghiera per quei soldati dalle strane
divise, dallo stranissimo elmetto mai visto, che venivano da chissà
quale terra lontana, a salvare dalla furia degli uomini pazzi gli steli
verdi del grano.
Poi la Compagnia si mosse
ed un canto s'alzò. Un canto che la donna - la ragazza! - non aveva
mai udito ma di cui, strano, afferrava il significato. Erano parole italiane,
chiare parole italiane che uscivano dalle gole roche di quei soldati: «Se
ci lanciamo in un campo di grano - vengon le donne e ci danno la mano ...
».
Partivano i soldati spingendosi
innanzi carrette «arrangiate» chissà dove, cariche fino
all'inverosimile, trascinandosi dietro cassette di munizioni, l'orecchio
teso ai rumori della guerra vicina, gli occhi rivolti dalla parte della
donna. La quale improvvisamente capì: italiani. Erano soldati italiani.
Erano i suoi uomini che ritornavano a difendere la sua razza, la sua terra,
la sua casa, il suo grano. E lasciò i bimbi, e corse fino al limite
dell'aia, e gridò qualcosa.
Uno rispose: «Folgore!»
A quel grido alto si raddrizzarono
le schiene curve sotto il peso dei mortai e delle mitraglie e delle munizioni.
E un altro più lontano:
«Siamo paracadutisti!». «Paracadutisti italiani!»
ripeté dopo un attimo, staccando le sillabe, con forza, con rabbia.
La donna alzò il braccio
in un gesto che sembrava saluto e forse era benedizione. Vicino scoppiò
una salva, rabbiosa, impotente.
Quattro giorni di epopea,
chi vi canterà?
Battaglione Folgore, Battaglione
Nembo, Battaglione Azzurro, chi dirà dei ragazzi che componevano
i vostri ranghi e passavano baldi pochi giorni innanzi per le vie di Spoleto,
cantando beffarde canzoni alla morte e all'amore, i vostri mille ragazzi
belli e sprezzanti, angeli pazzi che si buttavano giù dal cielo
ridendo, e facevano girar la testa alle ragazze più sagge con uno
schiuder di labbra, e voltar le spalle ai più bei Reggimenti della
vecchia Inghilterra con uno sgancio di bombe a mano?
Epopea del primo Reggimento
Folgore, nell'inferno dell'agro, «per l'Onore d'Italia». Quattro
giorni e cadeste a mucchi, nelle buche dell'agro, finché ci fu un'arma
intatta, una pallottola inesplosa. Cadeste per l'Onore, per salvar Roma
all'Italia, all'Europa, alla Civiltà; anche per la donna - per la
ragazza - che vi aveva salutati benedicendo con la mano tesa. E non passarono.
Non passarono finché foste vivi, ragazzi della «Sesta»,
della «Settima», finché non fosti stroncato tu, diciassettenne
Camuncoli che avevi lasciato alla Base, alle foci del Clitumno, l'aureo
libretto del Mazzini - con dedica del tuo papà - «Dei diritti
e dei doveri» finché non fosti stroncato verso Pratica di
Mare.
Non passarono finché
non ti colpì a tradimento una granata al contrassalto - Gelcic di
Pola - e forse pensavi alla settima sorella, quella che per cantare, per
cantare, per cantare solamente e non voleva niente, forse alla tua «mula»
diciottenne, pensavi forse alla bella morte ed al Poeta monocolo di cui
declamavi nelle ore perdute le strofe belle. Gelcic di Pola. Di Pola!
Non passarono finché
verso Ardea, mentre portavi all'assalto la tua mitraglia lucente, d'impeto,
Albio Pezzi, pirata della morte, come ti definivi canzonandoti con l'eterno
sorriso di bambino buono, finché non vedesti sbocciare sulla tua
camicia nera - la camicia fuori ordinanza, che indossavi nei dì
di festa, sfidando l'ira del Sig. Maggiore - una rossa rosa all'altezza
del cuore, che si allargava sempre più.
Non passarono finché
aveste una granata da metter dentro le bocche rosse dei vostri mortai,
uomini della «Ottava Compagnia», soli ormai, al tramonto del
quattro giugno, contro l'intera Armata prudentemente attestata in attesa
delle batterie, dei carri armati, dei generi di conforto, delle segnalazioni
radio dal retroterra nemico, delle squadriglie di bombardieri, delle truppe
di colore, della resa (la resa del Folgore, unica cosa che non venne!),
dei preti, degli sciuscià, delle segnorine.
Qualcosa non ingranò,
in quel momento, se una Cicogna dalla croce uncinata poté sorvolare
a lungo il fronte, se per delle ore non giunsero le batterie, i carri armati,
i generi di conforto all'armata angloamericana prudentemente attestata
parecchie miglia a Sud di Castel Porziano, nel cui bosco discorrevano tranquilli,
le gambe incrociate in attesa dell'ora x, per dare inizio alla ritirata,
i trenta uomini superstiti dell'«Ottava Compagnia», guardando
malinconicamente le uniche due bocche da fuoco rimaste, inutili ormai per
assoluta mancanza di granate.
Sparì la Cicogna volando
bassa a rasentare le cime degli alberi e si fece un grande silenzio sulla
terra. Era il tramonto del quattro giugno e gli uomini del Folgore, i soli
soldati in armi rimasti di qua dal Tevere, a Sud di Roma, non avevano più
una pallottola per i fucili, né una granata per i mortai, né
una bomba da lanciare a mano contro i cingoli dei carri armati. Presto
quelli se ne sarebbero accorti - qualcuno avrebbe dato la notizia per radio
- e sarebbero giunti a Roma sicuri. Perciò gli uomini e le cose
tacevano, nel bosco di Castel Porziano, in segno di lutto. O forse era
giunta la notizia, misteriosamente, che a pochi chilometri, a Castel di
Decima, era caduto anche il Comandante del Folgore, per far compagnia ai
suoi ragazzi, rimasti a presidio dell'agro, il Maggiore Rizzatti. E gli
uomini e le cose presentavano le armi, nell'imminenza del crepuscolo.
Finalmente il rombo di una
moto. La staffetta era giunta ad annunciare lo scadere dell'ora. Gli uomini,
i rimasti, fecero zaino in spalla, raccattarono le loro inutili armi, quelle
dei compagni che non potevano più portarle. Qualcuno si comprimeva
qualche parte del corpo, camminando a fatica. Pallottole - o schegge -
intelligenti.
Allora si mosse un cespuglio,
tra due pini, ne usci una figura umana, barcollante ma decisa. I paracadutisti
del Folgore si fermarono sorpresi. La donna - la ragazza - della casa colonica,
si assestò al collo, stringendolo meglio col braccio sinistro, il
bimbo più piccolo, lasciò la mano del più grandicello
e alzò il braccio. Senza possibilità di equivoci: era saluto,
questa volta.
- Folgore - disse - vengo con voi. E si accodò
alla colonna.
Le furono d'attorno, le tolsero
di braccio il bimbo, uno se lo mise a cavalcioni, sulle spalle, sopra lo
zaino, si levò l'elmetto, glielo calcò in testa. L'elmetto
scese a coprire i riccioli biondi, la fronte sudicia, di sghimbescio. Il
bimbo non aveva paura, stava buono, reclinando un poco il capino, ad assecondare
il passo. Anche il più grande venne issato su, di forza, sopra solide
spalle. Volle anche lui l'elmo, ma lo portava con fierezza, tenendosi solidamente
aggrappato ai capelli del soldato, soldato anche lui, ormai, di prima linea.
Alla ragazza diedero il braccio due, con un largo gesto di antica nobiltà
vera, della stirpe millenaria, ritrovato dopo chissà quanti anni
o forse inventato al momento, poi che molti di essi, gli uomini del Folgore,
la corte l'avevan fatta solo alla Signora della canzone, sotto la mitraglia.
La giovane madre si appoggiò fidente alle braccia che la sostenevano
e sorrise, ed era la prima volta, forse, da quando i suoi uomini erano
partiti per la guerra. Sorrise e ripeté decisa: «Vengo con
voi».
Intanto eran giunti, a quelli,
i primi pezzi, e mezz'ora dopo che la colonna aveva iniziato la marcia
silenziosa un colpo d'assaggio scoppiò lontano, nettamente fuori
bersaglio. Ma bastò per ricordare ai paracadutisti la guerra dimenticata
ed i nemici al di là della collinetta con il pericolo cui la giovane
donna si esponeva deliberatamente.
- Andare dove?
- Noi non andiamo in nessun
luogo.
- Dove andiamo noi non c'è
posto per le donne.
Si provò un sergente
a dissuaderla - e ormai la Compagnia marciava in ordine sparso, per evitare
le salve che ricominciavano a piovere fitte, se pure alla cieca - rincalzò
la dose il tenente, il solo ufficiale rimasto. Ma tutto fu inutile.
Allora, giunti ormai al Tevere
e schieratisi - in attesa che i ponti saltassero, questo era l'ordine -
al di qua della strada, tennero consiglio. E decisero che la donna ed i
ragazzi avrebbero passato il Tevere, decisero che il Folgore avrebbe procurato
loro una macchina, li avrebbe portati al Nord. Di più non potevano
fare neppure i soldati del Folgore, dieci chilometri a sud di Roma, la
sera del quattro giugno.
Ma gridare Folgore! e cantare
potevano. E cantarono, in attesa che i ponti saltassero, la canzone che
era piaciuta alla ragazza quattro giorni prima.
Quindi ripresero la marcia,
sulla via Ostiense, verso Roma, verso il traghetto che li attendeva, attenti
ai rumori, dietro, pronti a buttarsi nel fiume, decisi a far giungere di
là almeno la donna ed i ragazzi, ospiti d'onore del Folgore la sera
del quattro giugno.
Ma non successe niente ancora
una volta. Era stanca la Signora della canzone o qualche ruota non ingranava
nell'Armata multicolore, a Sud? Forse non erano ancor giunti i marocchini
d'Esperia cui i voleri degli onnipotenti avevan riservato i primi fiori
di Roma imbandierata, i primi baci delle segnorine esultanti la notte del
quattro giugno.
Era sera, ormai, era l'imbrunire,
anche se il sole ostinatamente si rifiutava di scendere al mare. Giunsero
al traghetto sfiniti, e ancora non s'udivano rumori sospetti alle spalle:
la prima parte della promessa era stata mantenuta senza dover ricorrere
a mezzi estremi, senza ulteriore sacrificio di uomini. La Signora
della canzone era veramente sazia.
Ad attendere gli uomini, al
traghetto, a fare la guardia ai battelli di gomma c'era un solo soldato,
un paracadutista sorridente. Era il Comandante del Folgore, il nuovo
Comandante da poche ore, da quando il Maggiore Rizzatti era morto sul carro
nemico. Aveva tenuto fede alla consegna, aveva atteso i suoi ragazzi, i
ragazzi che dovevano essere ancora in qualche posto, magari una sola squadra,
magari un uomo solo, poiché gli inglesi e gli americani e i marocchini
tardavano tanto.
Prima passarono gli ospiti,
poi i soldati. Ultimo passò il Comandante che non sorrideva più.
I soldati erano passati, non occorreva più fingere. E neppure i
soldati fingevano più: su d'un camion, assieme ai feriti, erano
partiti gli ospiti, accodati alla lunghissima, lenta colonna. Non sorridevano
più perché il Comandante era passato e al di là s'udivano
ora rumori sospetti. Avevano avuto in dono qualche nastro per le mitraglie,
al di qua del Tevere, qualche colpo per i fucili, e s'erano messi sull'argine,
in attesa, non ancora convinti che Roma non era più la Capitale
d'Italia e del Mondo.
Questo accadde la sera del
quattro giugno ai ragazzi del Primo Reggimento Folgore «Per l'Onore
d'Italia». E se i marocchini di Esperia entrarono in Roma, non fu
colpa loro, non fu proprio colpa loro, dei ragazzi del Folgore.
NUOVO FRONTE N. 143-144 . Giugno-Luglio
1994. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
Riportato da «Asso di bastoni» del 9 ottobre 1949.







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