venerdì 29 ottobre 2021

DONNE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

 

DONNE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



LE DONNE ITALIANE NELLA RSI Sacrifici che sono dimenticati
Lidia Baldrati Antolini 
 
 
    Dedichiamo insieme un po' del nostro tempo e dei nostri pensieri alle donne italiane, che quaranta e più anni fa sono passate attraverso una indimenticabile trasformazione della società in cui vivevano. 
    Le donne che accettavano i sacrifici della guerra, quelle che - loro malgrado - li subivano, ma soprattutto quelle che erano consapevoli e partecipi degli avvenimenti eccezionali di quei mesi. La RSI ha attirato molti giovani: ragazzi e ragazze hanno affollato le riaperte federazioni fasciste, confortando i pochi veterani che "per l'onore d'Italia" erano ancora disposti a battersi. Ma non delle giovani vorrei per ora parlare: è quasi un obbligo quando si hanno 18 anni essere pronti a tutto per un ideale; la giovinezza dovrebbe essere sinonimo di generosità e di ardimento. Fortunati noi che abbiamo sentito in gioventù il richiamo della Patria! 
    Penso piuttosto a quelle donne adulte che avevano responsabilità di famiglia, responsabilità aumentata da quando gli uomini erano partiti per la guerra. 
    Vogliamo ripensarle ora che anche noi abbiamo attraversato le varie età della vita e possiamo, nel quadro di quei tempi e di quelle vicende, esaminare il comportamento delle donne italiane. 
    Da tre anni esse convivevano con l'ansia per la sorte dei mariti, dei figli o fratelli lontani, reggevano da sole il peso dell'educazione dei figli e lottavano quotidianamente con le crescenti difficoltà degli approvvigionamenti. Come erano queste donne degli anni Quaranta? La faziosa propaganda del dopoguerra ha insistito su una arretratezza della condizione femminile voluta dal regime. Certamente la donna, allora, era meno autonoma, ma non perché lo volesse il governo dell’epoca, era così il costume dei tempi; le donne erano in gran parte casalinghe, c'era una più marcata suddivisione dei compiti, delle responsabilità e delle professioni. I costumi si evolvono gradualmente e così è avvenuto da noi come probabilmente ovunque. 
    Piuttosto ricordiamo che, durante il Ventennio fascista, erano sorte organizzazioni di partito e dopolavoristiche cui partecipavano entrambi i sessi. Ma soprattutto quello che ha determinato sicuramente un diffuso affrancamento femminile è stato il rigore con cui veniva fatto rispettare l'obbligo scolastico in questo modo l'istruzione, che è la base di una corretta emancipazione, era diventata patrimonio comune a tutte le donne al di sotto di una certa età. Ricordiamo poi l'istituzione dell'Opera Maternità e Infanzia che aiutava, consigliava, proteggeva la donna nel momento più delicato e difficile della sua vita. Le donne italiane non erano insensibili a questi provvedimenti, tanto che nel 1935 rinunciarono al loro oro per aiutare la Patria nell'impresa etiope. 
    Ma dopo tre anni di guerra non possiamo meravigliarci che nella popolazione si trovasse un sentimento di stanchezza, un desiderio di pace, quella pace che avrebbe fatto tornare i soldati, ricomponendo le famiglie. 
    Nell'estate 1943, quando la guerra era nel suo momento più drammatico, con il territorio nazionale invaso e un cambiamento alla guida del governo che aveva portato incertezza e confusione, gli angloamericani avevano intensificato i bombardamenti sulle città, facendo molte vittime fra donne, vecchi e bambini e distruggendo la casa di molte famiglie, costrette a trovare rifugio presso estranei, in paesi lontani. 
    Credo che la perdita della casa per una donna sia un dolore paragonabile a quello della morte di un congiunto; per l'uomo la casa può essere solo un appoggio funzionale, ma per la donna è sempre essenziale: è il risultato delle sue scelte, della sua inventiva; modesta o ricca, è l'insostituibile guscio della sua vita. 
    Lo sfollamento comportava faticosi viaggi in treni stracolmi, lunghi tratti di cammino, orari incerti, mezzi malsicuri. E sempre la minaccia di bombardamenti e mitragliamenti. Per noi ragazzi viaggiare sui carri merci poteva essere divertente, ma per una persona di mezza età doveva essere veramente penoso. Dopo il tradimento dell'8 settembre e lo sbandamento dell'esercito regio, la vita riprendeva con difficoltà acuite nel nuovo stato repubblicano. 
    Le notizie dei congiunti lontani erano ancora più incerte e gli approvvigionamenti delle città sempre più problematici. Noi tutti, penso, ci siamo vantati coi nostri figli delle limitazioni di cui abbiamo sofferto; ma chi stava in prima linea in questa battaglia quotidiana erano le nostre mamme, che dovevano mettere in tavola i pasti con le poche briciole che passava il razionamento. Con la mia esperienza successiva di madre mi sono domandata spesso come riuscissero. Ricordo l'avvilimento nel dover sottostare al ricatto degli speculatori della borsa nera, non solo la rabbia per la sempre crescente esosità, ma anche la convinzione che l'opera di imboscamento delle risorse alimentari in questo commercio clandestino contribuisse a minare il morale degli italiani ed alimentasse il disfattismo e le diserzioni del proprio dovere. 
    Chi ha passato quei mesi lontano dalla propria casa, in caserme fredde o in accantonamenti esposti al nemico, con turni di guardia, marce estenuanti, col pericolo sempre incombente di una imboscata, chi ha visto cadere il comandante o il camerata, penserà che i nostri disagi erano ben poca cosa rispetto alle proprie vicissitudini, ma credete, le donne di cui sto parlando, nelle loro difficoltà vedevano la rappresentazione di quelle che i loro figli, mariti o fratelli stavano sopportando, e soffrivano per questo più che per se stesse. 
    La tragedia della guerra civile aveva portato l'insidia anche sul territorio nazionale; il nemico non era più oltre una frontiera, ma sulle montagne a ridosso dei centri abitati, pronto a colpire. Questo nuovo aspetto della guerra non ha risparmiato i civili; in gran numero sono state assassinate le aderenti al PFR, le sorelle e le madri dei volontari, le insegnanti, colpevoli di aver inculcato l'amor di Patria, le dipendenti degli uffici pubblici che apparivano come rappresentanti dello Stato, in genere obiettivi molto facili da colpire, persone che non si cautelavano e non si difendevano. 
    Ho contato nei nostri elenchi, nelle provincie del Centro e Nord Italia, 1153 nominativi femminili ed oltre 700 ignoti. Sono notizie incomplete, molto al di sotto della realtà: mentre per i caduti delle formazioni militari i superstiti hanno conservato il ricordo ed aiutato le ricerche, per i civili spesso non è rimasta traccia o per lo sterminio di intere famiglie o perché i parenti, per paura o per opposta idea, hanno nascosto le informazioni. La guerra civile penetrava spietata nelle comunità di ogni livello; le diverse tendenze spesso si manifestavano anche in seno alla stessa famiglia. Pensiamo alla tragedia di una madre che vede i figli schierati in opposte fazioni, apertamente nemici. Come deve essersi sentita, dovendo ammettere che se uno era un idealista l'altro era un traditore? Una donna le proprie certezze le trovava e le coltivava nell'ambito della famiglia; scarsi i giornali, non molto diffusa la radio, le idee si formavano e si condividevano nell'esperienza comune. Ora l'unità familiare era spaccata, ma il cuore della donna sanguinava per entrambi i figli. 
    Molte si sono trovate in questa tragica situazione; citerò come esempio un nome noto: Edda Ciano Mussolini. Io non ho conosciuto nè frequentato le donne schierate con la fazione partigiana; qualche anno fa ho saputo che era morta la vecchia madre di un noto comandante partigiano che aveva dato veramente del filo da torcere alle formazioni della RSI. Mi sono chiesta cosa avrà pensato quella madre, in tutti questi anni, constatando che al nome del figlio non era stata intitolata nessuna via o piazza o scuola, come per altri partigiani di minor importanza. I suoi compagni l'avevano ucciso nell'estate del '45, il capitano Neri aveva avuto la dabbenaggine di volersi opporre alla spartizione del tesoro rapinato a Dongo. Si è meritato perciò, oltre alla morte, la dimenticanza. Ma non basta il dolore e l'amarezza di questa madre per compensare il mare di dolore che ha sommerso le madri d'Italia che, dopo aver perso un congiunto volontario della RSI, l'hanno sentito condannare, vilipendere, accusare di tutti i mali della Patria. 
    Le donne d'Italia però non hanno trovato soltanto sofferenza e lacrime in quella breve stagione di guerra. Nonostante tutte le avversità, molte conservavano, se non la speranza della vittoria, la convinzione che la Patria meritasse ogni sacrificio, senz'altra contropartita che l'orgoglio di compiere il proprio dovere. 
    Per queste donne la grande occasione è venuta nella primavera del '44, quando il governo della RSI ha aperto la coscrizione di volontarie in una formazione militare denominata “Servizio Ausiliario Femminile". Molte furono le donne, giovani e meno giovani che accolsero la chiamata e partirono per questa esperienza entusiasmante. 
    Nel dopoguerra si è volutamente taciuto di questa realtà, che smentiva la già citata immagine della mentalità fascista come antiquata e che negava al sesso femminile dignità e senso di responsabilità.
    Qualche accenno è stato fatto descrivendo il Servizio Ausiliario Femminile come una manovra di propaganda che cercava effetti spettacolari, contando su un fanatismo scriteriato ed isterico.
    Nulla di più falso. Non c'era niente di spettacolare nello spirito e nel contegno di queste volontarie: si sottomisero all'addestramento, accettarono la disciplina, si sobbarcarono trasferimenti e compiti pesanti senza discutere. Non erano guerrigliere col mitra ed uniformi di fantasia. Indossavano con orgoglio il loro bel grigioverde contraddistinto dai gladi e da un sobrio fregio rosso sul basco; erano consapevoli di rappresentare una provocazione sferzante per la numerosa popolazione degli attendisti e degli imboscati. Il loro contegno era sempre controllato e sereno, non ignoravano di essere guardate con occhio critico e ostile e che ogni loro mancanza avrebbe screditato l'organizzazione. Dalla primavera del '44 a quella del '45 fu un continuo fiorire di arruolamenti; le italiane gremivano i corsi di addestramento che le trasformavano in disciplinati soldatini.
    Erano contestate da molti, perbenisti e pavidi, che non sopportavano di confrontare la loro pochezza con il coraggio di queste donne.
    Talune vennero accolte con qualche  diffidenza anche dai camerati, ma non se ne lasciarono intimidire; accettarono incarichi modesti di scritturali, infermiere, magazziniere, interpreti, felici di sostituire lo scarso personale maschile tenendolo disponibile per compiti  più idonei. Non erano per questo risparmiate dagli attacchi del nemico che colpiva di preferenza i bersagli meno difesi. I partigiani sapevano bene che ogni ausiliaria era una volontaria determinata e convinta e che era inutile tentarla alla diserzione, come talvolta poteva accadere coi militari di leva. Anch'esse diedero un ricco contributo di sangue generoso: conosciamo i nominativi di 194 ausiliarie uccise ed altre 14 non sono state identificate. Se considerate che non sono le perdite di una battaglia ma che sono state assassinate ad una ad una, troverete agghiacciante questo dato. Fu il primo esperimento di donne soldato in Italia e resterà unico per le circostanze straordinarie in cui si è svolto, per il rischio che comportava, per il significato di riscossa che rivestiva.
    Un pensiero infine alla nostra lontana, indimenticabile giovinezza. Quando il Fascismo si è affermato in Italia, lo Stato esisteva da pochi decenni; era come se uscisse da una prima adolescenza travagliata da inquietudini e contrasti. 
    Il Ventennio che seguì ebbe i caratteri di una giovinezza con grandi entusiasmi, grandi sogni, inevitabili intemperanze, ma anche fervido di importanti intuizioni, di realizzazioni felici. 
 Per 20 anni gli italiani hanno pensato in grande! Così, come la viveva la Nazione, anche noi vivevamo la nostra giovinezza. Aver avuto 18 anni quando li aveva anche la nostra Patria è stato un privilegio raro, che ci ha coinvolto e ci ha segnato per tutta la vita.
 
 
VOLONTA' N. 5. Maggio 1995


giovedì 21 ottobre 2021

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

 LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA E IN PARTICOLARE NELLA PROVINCIA DI UDINE


Guido Bellinetti                                     


 
 
    La Repubblica Sociale Italiana si manifestò non solamente o precipuamente col suo apparato militare, impiegato su diversi fronti: orientale contro le bande di Tito, occidentale contro l'esercito francese e i maquis, meridionale contro gli alleati e all'interno, per l'ordine pubblico, contro la guerriglia partigiana, ma anche con la sua responsabile e intensa attività nel campo legislativo, amministrativo e sociale più ampio, assicurando così la sopravvivenza del tessuto civile, dell'apparato produttivo, delle provvidenze alla popolazione. La sua gestione centrale e periferica si realizzò grazie ad una burocrazia rigida, responsabile, preparata nel ventennio fascista, ed all'apporto generoso di migliaia d'impiegati, dirigenti e amministratori. Molti di questi pagarono con la vita propria e anche dei familiari la dedizione al dovere verso lo Stato repubblicano e alla solidarietà verso la gente comune, i profughi, i senza tetto, i diseredati e gli sbandati in genere.
    Il quadro offerto da chi a posteriori, con il fine di alterare una realtà storica, ha ricostruito quel tempo e posto lo scontro tra la RSI e chi si opponeva ad essa sullo stesso piano, stabilendo così una arbitraria parità di funzioni e di peso, è storicamente insostenibile. La stessa interpretazione, affermatasi con più favore recentemente, di "guerra civile" comporta un'artificiosa gonfiatura dell'attività di guerriglia, promossa al livello di paritaria contrapposizione a uno Stato forte di 800.000 circa uomini in armi e nell'esercizio delle sue attività sovrane. Basta considerare che un soldato inquadrato in un esercito regolare, comportava all'epoca un supporto di almeno 4 uomini nelle retrovie per concludere che le esigenze di movimento, armamento, rifornimento delle divisioni della RSI e dell'armata germanica sul territorio italiano, sostenute nella misura suddetta, vanificano una contrapposizione di qualche migliaio di uomini, limitato sia nella capacità operativa che nei movimenti e negli armamenti esclusivamente individuali. L'azione di disturbo, essenzialmente periferica, del fatto "partigiano" deve quindi essere ridimensionata, superando gli schemi dell'agiografia ufficiale.
    La verità è che la RSI ha svolto la sua funzione, indipendentemente dalle valutazioni storico politiche, poggiando su un complesso amministrativo efficiente e responsabile, tenuto contro delle difficoltà in cui si è realizzato. Pur incombendo, in quel tempo, lo stato di guerra con i pericoli conseguenti, in primis l'azione distruggitrice dei bombardamenti aerei e le strettoie create dai tedeschi a seguito dell'armistizio di Badoglio, in materia di disponibilità di prodotti industriali e d'uso pieno, stante la priorità militare delle comunicazioni e dei trasporti ferroviari e stradali con relativo carburante, lo sforzo del governo della RSI fu immane e realizzato con la collaborazione di milioni di lavoratori e impiegati. Tutto questo, paradossalmente, si realizzò anche a beneficio di quelli che lo osteggiavano.
    Per riportarsi alla situazione reale del tempo, si ricordi l'episodio del generale americano Taylor, che, accomiatandosi dal Re, rifugiatosi al sud, si sentì chiedere una dozzina di uova per la Regina.
    Nella RSI la dedizione dei Prefetti, dei Segretari del P.F.R. e degli Alti commissari interprovinciali o degli Enti pubblici, dei mille e mille dirigenti e dipendenti fu encomiabile e generosa, nonostante le incursioni nemiche, la penuria di generi alimentari d'ogni tipo e i furti di sciacalli che privavano le popolazioni dei viveri.
    Nel clima snervante in cui operò l'autorità, su tutto il territorio nazionale anche laddove non esistevano presidi militari, reparti in armi, difese che offrissero un minimo di sicurezza nel lavoro e nella sopravvivenza, lo Stato non venne mai meno ai suoi compiti e corrispose stipendi, sussidi, sovvenzionamenti, ripristino di opere danneggiate. L'assistenza del governo della RSI comprese anche le famiglie dei militari internati in Germania o dei dispersi e tra questi, sicuramente, anche degli sbandati e dei partigiani in Italia e Jugoslavia.
    Se questo era il clima nel territorio della Repubblica, particolare era quello nello stesso territorio, limitato al cosiddetto "Litorale adriatico", parte sottoposta dai tedeschi dopo l'armistizio Badoglio a stretto controllo per esigenze militari, dettate dall'ubicazione come cerniera tra territorio italiano e jugoslavo e comprensivo delle province di Gorizia, Pola, Fiume - oltre che Trieste. Nelle prime incombeva, oltretutto, l'astio delle soldataglie slave arruolate dai tedeschi che si sommava a quello delle bande di Tito.
    La volontà degli italiani, nonostante tutto, non venne meno e non cedette alle minacce e alle intimidazioni. 
    Gli ammassi furono conferiti regolarmente, i concentramenti di bestiame si realizzarono periodicamente, il burro consegnato e nemmeno le coperture di biciclette mancarono. I trasporti ferroviari assicurati, salvo le temporanee interruzioni per bombardamenti aerei, prontamente riparate. Il tutto nel rischio mortale di ogni giorno.
    Secondo i dati raccolti, nella provincia di Udine, la situazione cominciò a deteriorarsi agli inizi del 1945 e sicuramente in relazione all'andamento sfavorevole delle operazioni militari su tutti i fronti.
    A Bicinicco di Pordenone i partigiani assassinarono il Segretario comunale il 1° Gennaio 1945 e dopo pochi giorni fu ammazzato il figlio diciottenne del Segretario di S. Pietro di Gorizia.
    Dopo il catastrofico bombardamento aereo di Udine, 350 senza tetto furono sistemati nelle case dei parrocchiani di S. Maria del Carmine. Dopo una successiva devastante incursione, la Cooperativa delle mense di guerra organizza i pasti per 1700 sinistrati.
    Il 9 febbraio 1945 venne ordinato il censimento di tutto il bestiame da carne della provincia e organizzato un sistema di raccolta in appositi centri, sì da disporre la requisizione mensile degli animali.
    Nel febbraio 1945 oltre 1000 bambini ricevettero la refezione scolastica gratuitamente, mentre il 18 dello stesso mese il Commissario per il Litorale Adriatico Rainer ordinò che a tutti i dipendenti pubblici venisse corrisposta una gratifica straordinaria per il genetliaco del Fuhrer. A seguito delle proteste, nel mese successivo, il beneficio fu esteso anche ai dipendenti privati. Certamente tra i primi e i secondi si poteva supporre fossero anche i doppiogiochisti, ma non risulta che qualcuno abbia rifiutato l'imbarazzante dono. A Tolmezzo in Carnia, per esempio, il direttore della sezione del Corpo forestale della RSI, dott. Romano Marchetti, era anche il capo delle formazioni partigiane Osoppo della zona: presumibilmente avrà accettato anche lui quel denaro, perché in fondo, togliere "al nemico" rappresentava una raffinata forma di sabotaggio dall'interno.
    Il 26 febbraio 1945 il Comune di Udine aumentò tasse e imposte comunali quasi raddoppiandole e moltiplicandole per due se il reddito familiare avesse superato le centomila lire annue.
    Ai primi di marzo le edicole della periferia della città vennero minacciate se avessero esposto il quotidiano del Partito fascista repubblicano; nessun risultato.
    Alla fine dello stesso mese la vidimazione delle tessere di lavoro obbligatorio divenne quindicinale e successivamente giornaliera.
    Malgrado tutto le tasse vennero pagate e i bilanci comunali lo dimostrano. Conoscendo la mole di lavoro dei Comuni, della Provincia, della Prefettura, della Questura e degli altri enti pubblici, si può bene immaginare quali fossero le difficoltà da affrontare giorno per giorno, ora per ora, sempre al fine di assicurare alla popolazione il possibile per la sua vita. A tutto provvidero le autorità della RSI tanto nelle zone a ridosso del fronte che nei paesi di alta montagna, dove la disfatta partigiana nell’inverno del 1944 richiese il noto proclama del maresciallo inglese Alexander che invitava a colpire alle spalle tedeschi e fascisti, rinnovato dalla primavera del 1945 da analoghi appelli del clero. In realtà l'attività più sollecita fu diretta al furto dei viveri diretti ai paesi ed alle frazioni più lontane.
    Il giorno di Pasqua 1945 giunsero a Udine alcuni convogli ferroviari dalla Germania con feriti e ammalati italiani che non avevano aderito alla RSI: malgrado la catastrofe finale fosse vicina, Mussolini inviò a Tarvisio da Milano alcuni funzionari con la somma di lire 8 milioni per le urgenze da risolvere.
    Negli archivi comunali, provinciali o prefettizi, nonostante le condizioni di indescrivibile abbandono, è conservata la corrispondenza sia pubblica che privata, quest'ultima spesso specchio delle ragioni, talvolta assurde e incompatibili con la tragedia che si svolgeva attorno, personali e familiari. Una madre scrive il 3 luglio 1944 al Prefetto di Udine chiedendo semplicemente il rientro del figlio internato in Germania, pur sottolineando che non aveva aderito alla RSI nè per il lavoro in Germania. Il Prefetto annota sul foglio della donna in data 7 Giugno: "urgente rimpatrio dalla Germania. Confermare subito".
    È rintracciabile, nella ricerca archivistica, il documento riassuntivo dell'attività assistenziale verso i bambini, svolta nella provincia di Udine, dall'O.N.B. ossia l'organizzazione fascista giovanile. La nota riporta:
     Assistiti  Spese  
 Befana fascista   5.870   266.500
Refezione scolastica gratuita  13.400  3.616.000
Patronato scolastico   13.380  356.000
Sussidi assistenziali   136  73.000
Indumenti    560  111.000
Indennità infortuni   96  56.000
Premi demografici   16  36.000
Colonie estive    5.528  3.000.000
Orfani di guerra in istituti scolastici 674  1.000.000
Medicinali    450  25.000
Cure ambulatoriali   457  28.000
Borse studio    26  52.000
Sussidi individuali   720  100.000
    Inoltre: distribuiti 4000 pacchi dono indumenti, ospitati più di 100 ragazzi con vitto e alloggio, allestita una colonia montana a Gemona con cento bimbi senza tetto, creata una mensa aziendale a lire 10 a pasto per 200 impiegati cittadini. A parte: distribuzione di coperte, lenzuola, letti e materassi a oltre 100 profughi delle terre invase e dall'Istria. Firmato: Cap. De Barba. (Archivio Com. Udine. 288- 1945 - Cat.II).
    È augurabile che si avvii una ricerca attenta presso gli archivi del territorio già amministrato dalla RSI, per ricostruire un quadro dell'attività svolta negli anni 1943-1945, dal governo repubblicano. È un aspetto poco conosciuto o addirittura falsato della storia della Repubblica Sociale Italiana, il cui accertamento consentirebbe di stabilire alfine la vera portata non solo della sua presenza su tre quarti del territorio nazionale, ma anche il peso reale dell'opposizione palese o occulta creatasi alla fine del 1943 e successivamente definita "resistenza".
    Se anche vi furono, localmente come nella zona "libera di Carnia", episodi in cui le forze governative furono temporaneamente neutralizzate, perché esposte in zone non sufficientemente presidiate -si badi bene, in tempi vicini alla conclusione sfortunata della guerra - la RSI ristabilì sempre l'ordine e il suo ordinamento giuridico, amministrativo e burocratico, nell'interesse soprattutto della popolazione. Questa affermazione di legittimità non s'ebbe solo nelle città presidiate da migliaia di soldati e militi, ma anche nei centri minori, grazie anche all'apporto di dirigenti funzionari, impiegati e operai, che non si sottrassero ai loro doveri, nemmeno di fronte al rischio della vita.
 
 
STORIA VERITA’


mercoledì 13 ottobre 2021

I RELIGIOSI NELLA RSI

                      I RELIGIOSI NELLA RSI 





                      Luca Tadolini
                      Presidente Centro Studi Italia
                      (Reggio Emilia)
I RELIGIOSI NELLA RSI
Bruno De Padova
 
 

    VESSILLO DI FEDE E DI CIVILTA IL SAIO DEI CAPPELLANI FRA'GINEPRO, DON SCARPELLINI E PADRE EUSEBIO, CON ALTRI NOVECENTO SACERDOTI-SOLDATO, PORTARONO NELLA RSI LA POTENZA COSTRUTTIVA DELLA COSCIENZA CRISTIANA
    L'albeggiare nelle molteplici, drammatiche giornate sofferte da Genova dopo quella della cosiddetta liberazione di cinquant'anni or sono, si distingueva più che per il levare del sole, da un ben diverso spettacolo, cioè da quel «mattutino di Stalin» caratterizzante in ogni quartiere del capoluogo ligure, sulle piazze, per i viali e nei «carrugi» una crescente, spietata caccia al fascista o presunto tale che, per settimane, sparse sempre più sangue e lasciò abbandonati un grande numero di cadaveri in ogni area urbana, da Voltri a Nervi.
    Fu in una di quelle mattine che il cappellano militare Fra' Ginepro di Pompeiana respinse il ritiro in luogo sicuro: «Il mio posto non è in noviziato; se quando i miei fratelli andarono alla guerra li seguii come cappellano militare, se quando caddero prigionieri li seguii nei campi di concentramento, ora che sono trattenuti in carcere li devo seguire nella galera.», rispose il «confessore del Duce» a chi voleva salvarlo dal pericolo sempre più incombente di una sua cattura, essendo molto ricercato dai partigiani.  E più tardi - dopo essersi presentato da solo ai capi del CLN nella cella più grande del carcere di Marassi salì sul pancaccio e così supplicò per tutti i reclusi a viva voce: «O Cristo Signore, che per salvare l'umanità sei stato incatenato e crocifisso, ascolta il grido lamentoso che ogni giorno Ti eleviamo dal fondo della nostra galera.
    Non tardare a mettere in luce la nostra innocenza ed a restituirci alla nostra casa, fatti migliori dalle sofferenze patite. Volgi uno sguardo pietoso alla famiglia che è rimasta senza sostegno, alla Patria che attraversa momenti dolorosi, al Mondo coperto di ossami e di macerie.  E fa che per tutti sia pace, prosperità e benedizione.  Così sia!»
    Questa orazione, come ci conferma il Pio Cappuccino (Fra' Ginepro) nel suo tomo Convento e galera, fece subito il giro di tutte le celle di Marassi, col tempo lo farà anche nelle altre carceri d'Italia, lo sequestreranno in diversi penitenziari - quando scritto - come messaggio fascista, ma superando ogni barriera verrà recitata anche dai tubercolotici di Pianosa e dai pazzi di Aversa.
    Avvenne così che sull'altare del più severo sacrificio eretto per la Storia dai più intrepidi credenti nei valori civili della Nazione, di socialità e di libertà, illuminato durante l'intera epopea della Repubblica Sociale Italiana dallo splendore del sacrificio di ognuno che volle contribuire al migliore sviluppo dei popoli, si localizzarono anche quelli dei numerosi Cappellani-Soldato che dopo la vergogna per l'Italia dei tradimenti del 25 luglio e dell'8 settembre 1943 non disertarono, ma vollero continuare la loro inclita missione di Fede cristiana a fianco dei Combattenti per l'Onore della Patria.
 
    NASCE, COL GIURAMENTO, LA NUOVA FEDELTA’
    Procediamo però, con ordine: nella Rsi, attraverso la Seconda sezione dell'Ordinariato Militare per l'Italia (istituzione introdotta dal Fascismo nel 1926 per il Regio Esercito e la Mvsn, poi inserita per volontà di Mussolini nel Concordato con la Chiesa cattolica) venne disciplinato il servizio dei Cappellani Volontari nelle varie Forze Armate repubblicane, al quale aderirono oltre novecento ministri ecclesiastici operanti non solo presso i più importanti Comandi oppure in altri Distretti militari, ma anche nelle diverse Unità divisionali, nei distaccamenti della Guardia Nazionale Repubblicana, in quelli successivi delle Brigate Nere, nella X Flottiglia Mas, in ogni Reparto speciale ecc. nonché in Francia, Balcania, Dodecanneso, Egeo, tra i Lavoratori italiani nel Terzo Reich, tra le truppe italiane prigioniere (e non «cooperatrici») in India, Usa, Gran Bretagna, Urss e altrove.
    In qualità di Pro-Vicario generale militare per le FF.AA. della Rsi sino al marzo 1945 rimase mons.  Giuseppe Casonato, poi - dopo la circolare natalizia del '44 mediante la quale iniziava ad esercitare pressioni politiche contrarie all'azione del Governo repubblicano gli succedette il Cappellano capo del Piemonte mons.  Silvio Solero.  In precedenza, sul testo del giuramento di fedeltà alla Rsi, l'ordinario militare mons. A. Bartolomasi aveva frapposto inizialmente qualche difficoltà essendo stata da lui avanzata una formula diversa da quella predisposta dal Governo, ma entro il dicembre '44 tutti i Cappellani Volontari avevano giurato secondo la formula regolamentare, cioè: «Giuro di servire e di difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo.  Lo giuro dinanzi a Dio e ai Caduti, per l'unità, per l'indipendenza e per l'avvenire della Patria.».
    Sull'alta qualità dell'opera svolta dai Cappellani in grigioverde a nessuno può essere rimasto qualche dubbio, tanto è vero che lo stesso mons.  Bartolomasi dopo il 1945 specificò come i «volontari cappellani militari della Rsi furono e restano l'orgoglio dei cappellani militari italiani, per l'ineccepibile condotta morale, per il senso eroico ed assoluto di servizio nell'assistenza religiosa e spirituale dei reparti loro assegnati, per l'amore di Patria nell'assistere e sostenere il morale di una popolazione civile, sotto l’inenarrabile flagello che si abbatteva sull'intera Nazione italiana».
    L'albo di gloria dei Cappellani militari dell'Onore distingue ben ventotto ministri della Chiesa caduti per servizio o per mano terroristica durante la Rsi e sono i seguenti: Fra' Fortunato Bertoni (Modena), Mario Boschetti (Ferrara), Guerrino Cavazzoli (Germania), Sebastiano Caviglia (Asti), Padre Crisostomo Ceragioli (Siena), Padre Antonio Ciervo (Egeo), Padre Sigismondo Damiani (Macerata), Edmondo De Amicis (Torino), Rosino Di Nallo (Frosinone), Giovanni Di Pietro (Teramo), Emilio Femandez (Ferrara), Carlo Ferrari (Grosseto), Padre Fernando Ferrarotti (Aosta), Vittorio Floriani (Germania), Giuseppe Gabana (Trieste), Padre Ceslao Galletti (Roma), Domenico Gianni (Bologna), Umberto Lotti (Austria), Padre Simone Nardin (Fiume), Adolfo Nannini (Firenze), Fra' Cleto Parodi (Egeo), Pietro Roba (Imperia), Padre Angelico Romiti (Torino), Leandro Sangiorgio (Vercelli), Carlo Terenziano (Reggio Emilia) e Antonio Torricella, -" (Francia).
    Inoltre, sono sei i Sacerdoti-Soldato caduti l'8 settembre in Albania, Dalmazia, Montenegro e Serbia, vittime del comunismo balcanico; due quelli nei campi non-cooperatori in India.  Ascendono a quarantaquattro i Cappellani militari italiani deceduti prima e dopo l'armistizio badogliano nei campi sovietici di prigionia.
    Molto più numerosi sono invece i sacerdoti di Cristo che nel corso della Rsi oppure subito dopo il tragico 25 aprile persero la vita, accusati di amicizia per i fascisti oppure per le truppe germaniche in quanto rei di avere segnalato urgenti necessità delle popolazioni e degli sfollati, come accadde - ad esempio - a don Aladino Petri nel Pisano, vicino alla storica torre di Caprona, assassinato insieme al maestro Lughetti da tre fuorilegge dei Gap in bicicletta.
 
    DON TULLIO CALCAGNO E «CROCIATA ITALICA»
    Coscienza del Vangelo e fedeltà ai valori della Patria sono i canoni morali su cui la forte idealità di don Tullio Calcagno fece leva per aprirsi al calvario 1943-45, lungo l'ascesa del quale la sua Fede cattolica e il suo amore per l'Italia furono perseguitati senza pietà, mai riuscendo però, ad indebolire la virile temerarietà della sua missione.
    Il dramma degli eventi politico-militari dell'estate 1943 colsero don Calcagno in Umbria, dove era parroco della cattedrale di Terni e mentre sull'antica Interamna, trasformata dal Fascismo in grande centro industriale, i bombardieri anglo-statunitensi della Raf e dell'Usaf rovesciarono morte e distruzione.  Dinanzi a così grave scempio morale e materiale, il parroco della cattedrale ternana, sentendo nell'animo la rudezza di Bernardino da Siena e conservando la mitezza di Francesco d'Assisi, si aprì alla focosità di Domenico da Guzmàn con la robustezza di fede appartenente ad Ignazio di Loyola, divenne testardo come G. Galilei di fronte al Sant'Uffizio e non si arrese ai messi papali quanto Gerolamo Savonarola, lasciò la città bagnata dal Nera e salì nella Valle Padana per trovare a Cremona - dove l'armonia dei liutai Amati, Guarnieri e Stradivari era salita in cielo più del Torrazzo - il fulgore coerentemente innovativo di Roberto Farinacci, l'incisività critica del quotidiano Il Regime Fascista, l'ardore combattivo delle Schutzstaffeln italiane per la realizzazione costruttiva ed operosa dei punti fondamentali del Pfr, sincronizzati nel «Manifesto di Verona».  E qui, dopo la notte dei tradimenti, respingendo la materialità del comodo imboscamento, don Calcagno dà vita al settimanale più intrepido di religiosità e patriottismo e Crociata Italica si aprì anche all'assidua collaborazione dei Cappellani volontari della Rsi. E’ vero che per la continua incisività di Crociata Italica e per le relazioni settarie inoltrate alla Santa Sede dalla Curia cremonese e di Milano, presto don Calcagno venne sospeso «a divinis» da Bolla pontificia, ma è doveroso rammentare che il sacerdote di Terni non dissentì mai con il Pontefice Pio XII in materia di Fede, ma con il Sant'Uffizio che, appellandosi al Codice Canonico esigeva l'astensione di questo religioso dall'esercizio giornalistico della politica, mentre in quel tempo - tra i cortei schiamazzanti al seguito degli invasori «alleati» dove erano riusciti ad arrivare - si evidenziavano sempre più molti preti che, con il fazzoletto rosso al collo... celebravano la cosiddetta liberazione, cantando Bandiera rossa con i «fratelli» partigiani comunisti e alzando il braccio sinistro in alto e con il pugno della mano ben chiuso.  Anticipavano di cinquant'anni l'attuale «passione» filomarxista di molti, troppi prelati altolocati.
    Quando nell'aprile '45 pervenne il tracollo militare, il massacro di Dongo, il ludibrio di piazzale Loreto e la carneficina spietata di fascisti o presunti tali, nessuno dei monsignori estensori delle relazioni per la sospensione del sacerdote-direttore di Crociata Italica nutrì un po' di pietas almeno latina per impedire che venisse trascinato da Crema al carcere di San Vittore a Milano e poi buttato in piazzale Susa per rabbiosa fucilazione.  Troppi non capivano che, come Petrarca, don Calcagno - in politica seppe scrivere «per ver dire, non per odio d'altrui, né per disprezzo».
 
    CAPPELLANI CON GLADIO, ALFIERI DI FEDE
    Esiste nell'Ordinariato militare per l'Italia la nobiltà morale per gli alfieri della cappa di San Martino ed essa ha in Angelo Roncalli (Papa Giovanni XXIII), Giulio Facibeni (fondatore a Firenze della Madonnina del Grappa, ospitante i perseguitati della Rsi), Carlo Gnocchi (realizzatore di Pro Juventute a Milano), Luigi Soverini (officiante a Roma per 20 anni la Santa Messa in latino il 28 aprile in San Marco di Palazzo Venezia) e Giovanni Errani (sacerdote Divisione Etna della Rsi) i Cappellani militari benemeriti nella vita religiosa e civile. E’ dal loro esempio che durante la Repubblica sociale i loro colleghi con i Gladi quale mostrina assolsero alla propria missione con la franchezza e con la sensibilità francescane di cui militari e popolazione avevano la maggiore necessità con senso di misericordia umana.
    Il decano dei Cappellani della Rsi fu don Angelo Scarpellini, romagnolo, insegnante di lettere a Bologna, giornalista, scrittore.  Pubblicò nel 1939 il libro Augusto nella luce del Vangelo, nel 1942 il volume Italia della Conciliazione, poi lasciò la cattedra per essere vicino ai soldati e alle loro sofferenze.  Don Scarpellini fu assiduo collaboratore di Crociata Italica con gli articoli firmati Pier l'Eremita e, in conseguenza di ciò, non ottenne il dovuto inserimento nei ruoli dell'Ordinariato militare per l'Italia dei Cappellani volontari, ma ciò non gli impedì di emergere nel ruolo di Sacerdote-soldato prima nella Brigata Nera «Facchini» e poi nella Brigata Nera Mobile «Pappalardo», comandata quest'ultima dal prof.  Pagliani.  Dopo il 25 aprile venne condotto a Coltano e poi, su richiesta di un magistrato di Reggio Emilia, si presentò a quel Tribunale dove venne incarcerato e poi processato per collaborazionismo, condannato a 24 anni di reclusione e poi assolto in Cassazione.  Ma nel carcere di Reggio Emilia venne sottoposto dai partigiani a gravi sevizie che gli procurarono sordità totale, timpani rotti, denti spaccati e una frattura al cranio.  Quando i partigiani vennero tradotti dinanzi a lui per individuare chi lo aveva martirizzato, e pure riconoscendoli, al magistrato che lo invitava ad indicare i responsabili delle sevizie egli rispose: «Non riconosco nessuno!».
    Allorché riebbe la libertà, don Scarpellini - sebbene invalido - riprese la sua attività educativa, portò la sua voce in tante conferenze per illuminare gli Italiani sull'ampiezza del sacrificio dei Martiri e dei Caduti della Rsi, chiese la Pacificazione che inserisse nella Costituzione della Repubblica del 2 giugno la parificazione dei diritti dei combattenti e dei dipendenti pubblici della Rsi a quelli del regno del Sud, nonché di ogni beneficio da ciò derivante e, nel contempo, diede alle stampe La Rsi nelle lettere dei suoi Caduti, pubblicando anche Fausto Longiano (1959), La Pieve di San Giovanni in Compito (1962),, Don Alessandro Berardi patriota riminese (1963) e altro ancora, ma nel 1979 Dio lo chiamò a sé.
 
    DIO E PATRIA, SINTESI IDEALE
    Nell'ardente fucina di volontà cristiana e patriottica di Crociata Italica si cimentarono molti altri sacerdoti quali padre Blandino della Croce, don Antonio Bruzzesi, Fra' Galdino, padre Egidio del Borgo, il benedettino Ildefonso Troya che, insieme al tenace Fra' Ginepro di Pompeiana, perfezionarono i rispettivi intendimenti religiosi nell'aiuto a tutti i sofferenti della tragedia nazionale.  D'altronde, il primo articolo di fondo del n° 1 di Crociata Italica era intitolato Dio e Patria e in esso don Calcagno specificava: «Siamo cattolici, apostolici, romani, figli devoti e membri vivi dell'unica Santa Chiesa e tali intendiamo restare, con la grazia di Dio, fino alla tomba, nell'eternità della Chiesa trionfante.  Siamo repubblicani, perché col tradimento del re, il regno ha cessato di esistere per tutti gli italiani e per tutti gli uomini onesti, e ad esso è succeduto, nel modo più legittimo, la Repubblica Sociale Italiana, sotto la guida di colui che, fino alla vigilia della vergognosa catastrofe, era il Duce universalmente riconosciuto da popoli e governanti, da pontefici e sovrani.»
    Su questa ispirazione, insieme ai Sacerdoti-Soldato indicati e agli altri novecento che nel tempo 1943-45 assolsero alla missione apostolica di Cappellani volontari della Rsi, indirizzò con vigore la propria azione francescana padre Eusebio che già nel giugno 1940 - due giorni dopo l'entrata dell'Italia in guerra - si era arruolato nell'Ordinariato militare seguendo le sorti dei soldati prima tra gli Alpini, distinguendosi in Albania e in Russia, indi nella base atlantica di Bordeaux, fino ad essere catturato dai Tedeschi l'8 settembre ad Antibes.  Padre Eusebio, al secolo Sigfrido Zappaterreni e nativo di Montecelio (l'attuale Guidonia), condannò la congiura di Grandi e Bottai, non accettò il tradimento di Vittorio Emanuele III°e di Badoglio, ed aderendo alla Rsi si fece promotore di tante conferenze per stimolare gli Italiani alla riscossa morale.
    Assumendo nel 1944 l'incarico di Capo Cappellano militare delle Brigate Nere, padre Eusebio accentuò i suoi incontri e dialoghi con il Duce e in settembre, mentre gli invasori iniziavano a scontrarsi contro la Linea Gotica, Mussolini - nel tratteggiare i problemi connessi ai rapporti fra lo Stato repubblicano e la Chiesa - gli disse: «In vari rapporti si nota una recrudescenza rossa che non preoccupa affatto il clero della Repubblica.  Certe connivenze e complicità con i fuorilegge sono sintomi di decadenza morale e prove incontrovertibili di malafede.» Ma il colloquio non era finito. Mussolini continuò: «Ogni settimana Mezzasoma mi fa il rapporto scritto sulla stampa cattolica.  Su centinaia di opuscoli, riviste e foglietti parrocchiali non sono mai riuscito a trovare un accenno contro il comunismo.  Lo stesso dicasi delle allocuzioni che il clero fa la domenica nelle chiese.  Ditemi, cosa significa tutto questo nel momento critico che si attraversa?»
    All'uomo liberato da Skorzeny sul Gran Sasso dalla prigionia dei badogliani di a . liora, il Cappellano capo delle BB.NN. rispose accentuando le sue prediche ai combattenti ed ai cittadini, aperse il suo fervore francescano invocando il dovere delle genti per la difesa della Patria, sollecitò una pace non dolorosa per la Nazione, affinché i «fioretti» del santo di Assisi maturassero nel cuore degli Italiani l'incitamento alla «perfetta letizia» dopo tante sofferenze.
    In fedeltà alla Vocazione francescana, alla bandiera tricolore dell'Onore, padre Eusebio coronò di splendore la sua missione di Cappellano della Rsi nella primavera '45 quando - in Galleria a Milano - profuse nella sua più ardente allocuzione l'invito ai credenti in Dio e nella Patria a professare virtù di buon frutto per la rinascita della Nazione e per costruire la Civiltà del futuro.
 
    MISSIONI DI APOSTOLI SULLE FRONTI ITALIANE
    A fianco di Fra' Ginepro e di Padre Eusebio che svolgevano il loro compito di apostoli del Cattolicesimo oltreché quali «confessori del Duce», anche come missionari di sostegno morale ai combattenti, con uguale coscienza del Verbo cristiano si distinsero sulle fronti della Linea Gotica, sulle Alpi occidentali e sulle doline carsiche, in Istria e nella Dalmazia, quanto sul Baltico e nell'Egeo, i Cappellani volontari della Rsi a fianco delle nostre truppe in grigioverde.
    Ecco nella Divisione Littorio l'esempio fulgente di Padre Marcello, al secolo Primiero Tozzi, che segui questa Unità militare della Rsi dall'addestramento in Germania nel centro di Senne alla difesa della sovranità italiana in Valle d'Aosta, dopo essere stato in precedenza predicatore francescano dei Padri Minori nella Toscana, Tenente Cappellano degli Alpini sulla fronte greco-albanese.  Padre Marcello confortò i soldati in grigioverde sulle impervie vette della fronte aostana, segui i feriti negli ospedali e confortò le famiglie dei Caduti durante e dopo la guerra, anche quando divenne Coadiutore diocesano nella parrocchia di N. S. Gesù Cristo in Lastra a Signa, non mancando mai nei contatti con i «suoi» reduci.
    Nel rammentare gli eroismi dei soldati della Littorio su quella fronte nell'inverno 1944-45 padre Marcello scrisse: «Alzatevi, amici, e rimanete in alto.  Sulle cime non vi è nebbia, né fango, né mosche. » Le «penne nere» del 4° Rgt.  Alpini della Rsi avevano già compiuto questo confronto, erano stati eroici nel sacrificio per l'Italia repubblicana.  In modo analogo, tra altre «penne nere», altri artiglieri da montagna, genieri e complementari della Divisione Alpina Monterosa si distinse il sacerdote-alpino Luigi Miglio con tutti i cappellani dislocati nei vari reparti, dal campo germanico di addestramento in Miinsingen all'offensiva d'inverno nella Garfagnana oppure nei contrattacchi e nelle «sortite» sulle Alpi occidentali, dal Colle della Maddalena al Piccolo S. Bernardo e al Moncenisio, ovunque le truppe alpine diedero prova del loro ardimento sulle vette, ove - sia ben chiaro - Dio ad esse è più vicino.
    A fianco della Divisione F.M. San Marco eccelle Padre Candido Carlino, in quella Etna è presente Padre Giovanni Errani, nel Rgt.  Paracadutisti Folgore il temerario don Ovidio Zinaghi, mentre con la X Flottiglia Mas oltre a Padre Martinengo quale Cappellano capo si sono distinti don G. Graziani e don A. Castoldi nel Btg.  Barbarigo, don B. Folloti nel Btg.  Lupo, don R. Pio nei Btgg. NP e Sagittario, don Pettro nel 3' Rgt. Artiglieria e, su a Tamova, con il Btg. Fulmine, proteso con le altre truppe autonome a difendere l'italianità di Gorizia dall'aggressione del IX Korpus di Tito, non mancava don Casinúro Canepa.
 
    SPIRITO E COSCIENZA DEL CREDO EUROPEO
    Questa leggenda di Fede e di eroismo assume più valore proprio mentre il nostro vecchio Continente inizia a potenziare, attraverso la Cce, la propria, nuova prova di unificazione politica, economica e produttiva che la liberi dalla soggezione alla finanza degli Usa, nonché dall'influenza vessatoria della plutocrazia anglo-statunitense cui del progresso civile dell'Europa nel Terzo Millennio importa niente.
    D'altronde, gli altri non possono capire come sulla Via Crucis dell'Europa di mezzo secolo fa, dove il vessillifero del Credo cattolico e italiano - quale era Fra' Ginepro - si ergeva illuminando con lo splendore del suo Saio la nitidezza del Tricolore repubblicano per la pace del lavoro e per l'equilibrio delle coscienze, si rafforzò il valore etico posto a seme sul solco della Storia nel trascorrere dei millenni per la Civiltà, da quello latino del Diritto al Cristianesimo francescano, dall'Arte rinascimentale alle scoperte della Tecnica, dai moti liberali e socialistici (Bismarck li sostenne nell'800 per l'Europa) all'equilibrio fascista dell'economia produttiva attraverso le conquiste di emancipazione garantite dalla socializzazione.
    In questo, il Saio di Fra' Ginepro e degli altri Cappellani Volontari della Rsi assume il più eletto valore per lo Spirito e per le Coscienze.  Ha consolato le sofferenze di tanti Martiri e di molti Caduti.  E simbolo di Italia, di Europa, significa Civiltà.
 
 
TABULA RASA 5 Settembre 1995. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

L'OLOCAUSTO DEI RELIGIOSI NELLA RSI
 
 
AMATEIS Don Giuseppe, parroco di Coassolo (Torino), ucciso a colpi di ascia dai partigiani comunisti il 15 marzo 1944, perché aveva deplorato gli eccessi dei guerriglieri rossi.
AMATO Don Gennaro, parroco di Locri (Reggi o Calabria), ucciso nell'ottobre 1943 dai capi della repubblica comunista di Caulonia.
AMBROSI Don Luigi.
ARINCI Marino: seminarista.
BANDELLI (Bandeli) Don Ernesto, parroco di Bria, ucciso dai partigiani slavi a Bria il 30 aprile 1945.
BARDET (Border) Don Luigi, parroco di Hone (Aosta), ucciso il 5 marzo 1946 perché aveva messo in guardia i suoi parrocchiani dalle insidie comuniste.
BARDOTTI Don Ugo.
BAREL Don Vittorio, economo del seminario di Vittorio Veneto, ucciso il 26 ottobre 1944 dai partigiani comunisti.
BARTHUS Padre Stanislao della Congregazione di Cristo Re (Imperia), ucciso il 17 agosto 1944 dai partigiani perché in una predica aveva deplorato le «violenze indiscriminate dei partigiani».
BARTOLINI (Bortolini) Don Corrado, parroco di Santa Maria in Duno (Bologna), prelevato dai partigiani il 1° marzo 1945 e fatto sparire.
BASTREGHI Don Duilio, parroco di Cigliano e Capannone Pienza, ucciso la notte del 3 luglio 1944 dai partigiani comunisti che lo avevano chiamato con un pretesto.
BEGHE' don Carlo, Parroco di Novegigola (Apuania), sottoposto il 2 marzo 1945 a finta fucilazione che gli produsse una ferita mortale.
BONIFACIO Don Francesco, curato di Villa Gardossi (Trieste), catturato dai miliziani comunisti Jugoslavi l'11 settembre 1946 e gettato in una foiba.
BOLOGNESI Don Sperindio, parroco di Nismozza (Reggio Emilia), ucciso dai partigiani comunisti il 25 ottobre 1944.
BORTOLINI Don Raffaele, canonico della Pieve di Cento, ucciso dai partigiani la sera del 20 giugno 1945.
BOVO (Bove) Don Luigi, parroco di Bertipglia (Padova), ucciso il 25 settembre 1944 da un partigiano comunista poi giustiziato.
BRAGHINI Dino: Chierichetto.
BULLESCHI Don Miroslavo, parroco di Monpaderno, (Diocesi di Parenzo e Pola), ucciso il 23 agosto 1947 dai comunisti iugoslavi.
BEGNE' Don Carlo
BUSI Don Gogoli.
CALCAGNO Don Tullio - direttore di «Crociata Italica», fucilato dai partigiani comunisti a Milano il 29 aprile 1945.
CALE'- Don Ernesto.
CAVIGLIA Don Sebastiano, cappellano della GNR, ucciso il 27 aprile 1945 ad Asti.
CERAGIOLO Padre Giovan-Crisostomo, o.f.m., cappellano militare decorato al valor militare, Prelevato il 19 maggio 1944 da partigiani comunisti nel convento di Montefollonico e trovato cadavere in una buca con le mani legati dietro la schiena.
CIOCCHETTI Don Paolo
CORSI Don Aldemiro, parroco di Grassano (Reggio Emilia), assassinato nella sua canonica, con la domestica Zeffirina Corbelli, da partigiani comunisti, la notte del 21 settembre 1944.
CORTIULA Don Virgilio, ucciso con suo padre e Pavine Virgilio.
CRECCHI Don Ferruccio, parroco di Levigliani (Lucca), fucilato all'arrivo delle truppe di colore nella zona, su false accuse dei comunisti del luogo.
CURCIO Don Antonio, cappellano dell'11° Btg.  Bersaglieri, ucciso il 7 agosto 1941 a Dugaresa da comunisti croati.
DAMIANI Padre Sigismondo, o.f.m. ex cappellano militare, ucciso dai comunisti slavi a San Genesio di Macerata l' 11 marzo 1944.
DAPPORTO Don Teobaldo, arciprete di Casalfiumanese (Diocesi di Imola), ucciso da un comunista nel settembre 1945.
DE AMICIS Don Edmondo, cappellano, pluridecorato della prima guerra mondiale, venne colpito a morte dai «gappisti», a Torino, sulla soglia della sua abitazione nel tardo pomeriggio del 24 aprile 1945, e spirò dopo quarantotto ore di atroce agonia.
DIAZ Don Aurelio, cappellano della Sezione Sanità della divisione «Ferrara», fucilato nelle carceri di Belgrado nel gennaio del '45 da partigiani «Titini».
DOLFI Don Adolfo, canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il 28 maggio 1945 a torture che lo portarono alla morte l'8 ottobre successivo.
DONATI Don Enrico, arciprete di Lorenzatico (Bologna), massacrato il 28 maggio 1945 sulla strada di Zenerigolo.
DONINI Don Giuseppe, parroco di Castagneto (Modena).  Trovato ucciso sulla soglia della sua casa la mattina del 20 aprile 1945.  La colpa dell'uccisione fu attribuita in un primo momento ai tedeschi, ma alcune circostanze, emerse in seguito, stabilirono che gli autori del sacrilego delitto furono gli altri.
DORFMANN Don Giuseppe, fucilato nel bosco di Posina (Vicenza) il 27 aprile 1945.
D'OVIDIO Don Vincenzo, parroco di Poggio Umbricchio (Teramo), ucciso nel maggio '44 sotto accusa di filo-fascismo.
ERRANI Don Giovanni, cappellano militare della GNR, decorato al vm., condannato a morte dal CNL di Forli, salvato dagli americani e poi deceduto a causa delle sofferenze subite.
FALCHETTI Don Giovanni.
FASCE Don Colombo, parroco di Cesino (Genova), ucciso nel maggio del '45 dai partigiani comunisti.
FAUSTI Don Giovanni, superiore generale dei Gesuiti in Albania, fucilato il 5 marzo 1946 perché Italiano.  Con lui furono trucidati altri sacerdoti dei quali non si è mai potuto conoscere il nome.
FERRAROTTI Padre Femando, o.f.m., cappellano militare reduce dalla Russia, ucciso nel giugno 1944 a Champorcher (Aosta) dai partigiani comunisti.
FERRETTI Don Gregorio, parroco di Castelvecchio (Teramo), ucciso dai partigiani slavi ed italiano nel maggio 1944.
FERRUZZI Don Giovanni, arciprete di Campanile, Diocesi di Imola, ucciso dai partigiani il 3 aprile 1945.
FILIPPI Don Achille, parroco di Maiola (Bologna), ucciso la sera del 25 luglio 1945 perché accusato di filofascismo.
FONTANA Don Sante, parroco di Comano (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 6 gennaio 1945.
FORNASARI Mauro: seminarista.
GABANA don Giuseppe, della diocesi di Brescia, cappellano della VI legione della Guardia di Finanza ucciso il 3 marzo 1944 da un partigiano comuni sta.
GALASSI Don Giuseppe, arciprete di S. Lorenzo in Selva (Imola), ucciso il 1° maggio 1945 perché sospettato di filofascismo.
GALLETTI Don Tiso, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), ucciso il 9 maggio 1945 perché aveva criticato il comunismo.
GIANNI Don Domenico, cappellano militare in Jugoslavia, prelevato la sera del 21 aprile 1945 e soppresso dopo tre giomi.
GUICCIARDI Don Giovarmi, parroco di Mocogno (Modena), ucciso il 10 giugno 1945 nella sua canonica dopo sevizie atroci da chi, col pretesto della lotta di liberazione, aveva compiuto nella zona una lunga serie di rapine e delitti, con totale disprezzo di ogni legge umana e divina.
ICARDI Don Virgilio, parroco di Squaneto (Aqui), ucciso il 4 luglio 1944, a Preto, da partigiani comunisti.
ILARDUCCI Don Luigi, parroco di Garfagnolo (Reggio Emilia), ucciso il 19 agosto 1944 da partigiani comunisti.
JEMMI Don Giuseppe, cappellano di Felina (Reggio Emilia), ucciso il 19 aprile 1945 perché aveva deplorato gli «eccessi inumani di quanti disonoravano il movimento partigiano».
LAVEZZARI Serafino: Seminarista.
LENZINI Don Luigi, parroco di Crocette di Pavullo (Modena), trucidato il 20 luglio 1945.  Nobile, autentica figura di Martire della Fede.  Prelevato nottetempo da un'orda di criminali, strappato dalla sua chiesa, torturato, seviziato, fu ucciso dopo lunghissime ore di indescrivibile agonia, quale raramente si trova nella storia di tutte le persecuzioni.  Si cercò di soffocare con lui, dopo che le minacce erano risultate vane, la voce più chiara, più forte e coraggiosa che, in un'ora di generale sbandamento morale, metteva in guardia contro i nemici della Fede e della Patria.  Il processo, celebrato in una atmosfera di terrore e di omertà, non seppe assicurare alla giustizia umana i colpevoli, mandanti ed esecutori, i quali, con tale orribile delitto, non unico, purtroppo, hanno gettato fango, umiliazione e discredito sul nome della Resistenza Italiana.  Ma dalla gloria all'Eternità, come nella fosca notte del Martirio.  Don Luigi Lenzini fa riudire la ultime parole della sua vita, monito severo e solenne, che invitano a temere e a stimare soltanto il giusto Giudizio di Dio. (N.B. - Volantino fatto stampare a Pavullo l'8 agosto 1965).
LOMBARDI Don Nazzareno.
LORENZELLI Don Giuseppe, priore di Corvarola di Bagnone (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 27 febbraio 1945, dopo essere stato obbligato a scavarsi la fossa.
LUGANO Don Placido.
MANFREDI Don Luigi, parroco di Budrio (Reggio Emilia), ucciso il 14 dicembre 1944 perchè aveva deplorato gli «eccessi partigiani».
MATTIOLI Don Dante, parroco di Coruzza (Reggio Emilia), prelevato dai partigiani rossi la notte dell'11 aprile 1945.
MERLI Don Ferdinando, mensionario della Cattedrale di Foligno, ucciso il 21 febbraio 1944 presso Assisi da jugoslavi istigati dai comunisti italiani.
MERLINI Don Angelo, parroco di Fiainenga (Foligno), ucciso il medesimo giomo dagli stessi, presso Foligno.
MESSURI Don Armando, cappellano delle Suore della S. Famiglia in Marino, ferito a morte dai partigiani comunisti e deceduto il 18 giugno 1944.
MORA Don Giacomo.
NANNINI Don Adelfo, parroco di Cercina (Firenze), ucciso il 30 maggio 1944 da partigiani comunisti.
NARDIN Don Simone, dei benedettini Olivetani, tenente cappellano dell'ospedale militare «Belvedere» in Abbazia di Fiume, prelevato dai partigiani jugoslavi nell'aprile 1945 e fatto morire tra sevizie orrende.
OBID Don Luigi, economo di Podsabotino e San Mauro (Gorizia), prelevato da partigiani e ucciso a San Mauro il 15 gennaio 1945.
PADOAN Don Antonio, parroco di Castel Vittorio (Imperia), ucciso da partigiani l'8 maggio 1944 con un colpo di pistola in bocca ed uno al cuore.
PAVESE Don Attilio, parroco di Alpe Gorreto (Tortona), ucciso il 6 dicembre 1944 da partigiani dei quali era cappellano, perché confortava alcuni prigionieri tedeschi condannati a morte.
PELLIZARI Don Francesco, parroco di Tagliolo (Acqui), chiamato nella notte del 5 maggio 1945 e fatto sparire per sempre.
PERAI Don Pompeo, parroco dei Ss.  Pietro e Paolo di città della Pieve, ucciso per rappresaglia partigiana il 16 giugno 1944.
PERCIVALLE Don Enrico, parroco di Varriana (Tortona), prelevato da partigiani e ucciso a colpi di pugnale il 14 febbraio 1944.
PERKAN Don Vittorio, parroco di Elsana (Fiume), ucciso il 9 maggio 1945 da partigiani mentre celebrava un funerale.
PESSINA Don Umberto, parroco di San Martino di Carreggio, ucciso il 18 giugno 1946 da partigiani comunisti.
PERSICHILLO Don Giovanni.
PETRI Don Aladino, pievano di Caprona (Pisa), ucciso il 2 giugno 1944 perché ritenuto filo-fascista.
PETTINELLI Don Nazzareno, parroco di Santa Lucia di Ostra di Senigallia, fucilato per rappresaglia partigiana l'l 1 luglio 1944.
PIERAMI Giuseppe, seminarista, studente di teologia della diocesi di Apuania, ucciso il 2 novembre 1944, sulla Linea Gotica, da partigiani comunisti.
PISACANE Don Ladislao, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso da partigiani slavi il 5 febbraio 1945 con altre dodici persone.
PISK Don Antonio, curato di Canale d'Isonzo (Gorizia), prelevato da partigiani slavi il 28 ottobre e fatto sparire per sempre.
POLIDORI Don Nicola, della diocesi di Nocera e Gualdo, fucilato il 9 giugno 1944 a Sefro da partigiani comunisti.
PRECI Don Giuseppe, parroco di Montalto (Modena).  Chiamato di notte col solito tranello, fu ucciso sul sagrato della chiesa il 24 maggio 1945.
RASORI Don Giuseppe, parroco di San Martino in Casola (Bologna), ucciso la notte sul 2 luglio 1945 nella sua canonica, sotto accusa di filo-fascismo.
REGGIANI Don Alfonso, parroco di Amola di Piano (Bologna), ucciso da marxisti la sera del 5 dicembre 1945.
RIVI Rolando, seminarista, di Piane di Monchio (Reggio Emilia), di 16 anni, ucciso il 10 aprile 1945 da partigiani comunisti, solo perchè indossava la veste talare.
ROCCO Don Giuseppe, parroco di Santa Maria, diocesi di S. Sepolcro, ucciso da slavi il 4 maggio 1945.
ROMITI Padre Angelico, o.f.m., cappellano degli allievi ufficiali della Scuola di Fontanellato, decorato al v.m., ucciso la sera del 7 maggio 1945 da partigiani comunisti.
SALVI Don Guido.
SANGIORGI Don Leandro, salesiano, cappellano militare decorato al v.m., fucilato a Sordevolo Biellese il 30 aprile 1945.
SANGUANINI Don Alessandro, della congregazione della Missione, fucilato a Ranziano (Gorizia), il 12 ottobre 1944 da partigiani slavi per i suoi servimenti di italianità.
SLUGA Don Lodovico, vicario di Circhina (Gorizia), ucciso insieme al confratello Don Pisacane il 5 febbraio 1944.
SOLARO Don Luigi, di Torino, ucciso il 4 aprile 1945 perché congiunto del federale di Torino Giuseppe Solaro anch'egli soppresso.
SPINELLI Don Emilio, parroco di Campogialli (Arezzo), fucilato il 6 maggio 1944 dai partigiani sotto accusa di filo-fascismo.
SPOTTI Nerumberto, Chierichetto.
SQUIZZATO Padre Eugenio o.f.m., cappellano partigiano ucciso dai suoi il 6 aprile 1944 fra Corio e Lanzo Torinese perché impressionato dalle crudeltà che essi commettevano, voleva abbandonare la formazione.
TALE' Don Ernesto, parroco di Castelluccio Formiche (Modena), ucciso insieme alla sorella l'l 1 dicembre 1944.
TAROZZI Don Giuseppe, parroco di Riolo (Bologna), prelevato la notte sul 26 maggio 1945 e fatto sparire.  Il suo corpo fu bruciato in un forno di pane, in una casa colonica.
TATICCHIO Don Angelo, parroco di Villa di Rovigno (Pola), ucciso dai partigiani jugoslavi nell'ottobre 1943 perchè aiutava gli italiani.
TAZZOLA Don
TERENZIANI Don Carlo, prevosto di Ventoso (Reggio Emilia), fucilato la sera del 29 aprile 1945 perché ex cappellano della milizia.
TERILLI (Terilli) Don Alberto, arciprete di Esperia (Frosinone), morto in seguito a sevizie inflittegli dai marocchini, eccitati da partigiani, nel maggio 1944.
TESTA Don Andrea, parroco di Diano Borrello (Savona), ucciso il 16 luglio 1944 da una banda partigiana perché osteggiava il comunismo.
TORRICELLA Mons.  Eugenio Corradino, della diocesi di Bergamo, ucciso il 7 gennaio '44, ad Agen (Francia) da partigiani comunisti per i suoi sentimenti d'italianità.
TRCEK Don Rodolfo, diacono della diocesi di Gorizia, ucciso il l° settembre 1944 a Montenero d'Idria da partigiani comunisti.
VENTURELLI Don Francesco, parroco di Fossoli (Modena), ucciso il 15 gennaio 1946 perché inviso ai partigiani.
VIAN Don Gildo, parroco di Bastia (Perugia), ucciso dai partigiani comunisti il 14 luglio 1944.
VIOLI Don Giuseppe, parroco di Santa Lucia di Medesano (Parma), ucciso il 31 novembre 1945 da partigiani comunisti.
ZALI Don Francesco.
ZAVADLOV Don Isidoro.
ZOLI Don Antonio, parroco di Morra del Villar (Cuneo), ucciso dai partigiani comunisti perché durante la predica del Corpus Domini del 1944 aveva deplorato l'odio tra fratelli come una maledizione di Dio.
 
 
L'ULTIMA CROCIATA N. 4. Aprile 1995. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
QUELL'INQUIETO PARROCO DI SQUANETO ASSASSINATO DAI SUOI "COMPAGNI"
Giannuzzi Ugo
 
 
    Il 2 dicembre 1944, intorno alle 18.30, sulla strada Pareto-Miòglia, veniva ucciso a colpi di rivoltella sparati da tre partigiani, il sacerdote Virginio Icardi, parroco di Squaneto, una frazione del Comune di Spigno Monferrato (AL). La salma, rinvenuta il giorno successivo, venne deposta momentaneamente in una vicina cappella campestre; grazie all'intervento del Generale Amilcare Farina, Comandante della Divisione F.M. "San Marco" della R.S.I., che aveva ottenuto il consenso del Vescovo di Acqui, fu tumulata nel Cimitero di guerra di Altare, detto delle "Croci Bianche" e benedetta da un cappellano militare della Divisione stessa, padre Giovanni Del Monte. Il Vescovo in persona si recò a pregare su quella tomba.
     Queste sono le circostanze per le quali don Icardi viene inserito negli elenchi dei sacerdoti uccisi dai comunisti durante e dopo la guerra civile 1943-1945, facendolo quindi figurare come un martire della Fede e dell'Idea. Anche il mensile "Volontà", voce dei "non-cooperatori", lo include recentemente in una lista di venerabili sacerdoti uccisi, sbagliando, peraltro involontariamente perché riporta dati di altra pubblicazione, data e località e con la seguente motivazione: "Ucciso a Preto da partigiani senza una ragione".
    Ma chi era in realtà don Virginio Icardi? Ce lo spiega un documento riservato, da poco venuto alla luce.
    Don Icardi, parroco di Squaneto da circa 10 anni, aveva già in precedenza dato motivo di rilievi da parte dell'autorità ecclesiastica, tanto che aveva chiesto di essere trasferito in altra Diocesi, ma senza esito. Amante della vita movimentata, quasi avventurosa, nel novembre del 1943, cioè dopo l'armistizio dell'8 settembre, in una lettera inviata al suo Vescovo, esprimeva il desiderio di partecipare alla lotta che andava delineandosi fra partigiani da una parte e forze della R.S.I. dall'altra. Naturalmente si cercò di dissuaderlo ma don Virginio non dette ascolto ai consigli del suo superiore e trasformò la sua canonica e la parrocchia in luogo di ritrovo e convegno di partigiani; la qual cosa ovviamente attirò l'attenzione delle autorità preposte al mantenimento dell'ordine pubblico. La sera del 21 maggio 1944 infatti, una pattuglia di militari germanici proveniente da Spigno, bussò alla porta della canonica e don Icardi, spaventatissimo, saltò da una finestra sul retro e fuggì. Da una località sconosciuta inviò una missiva al Vescovo nella quale annunciava che da quel momento si sarebbe dato alla macchia. Il Vescovo si interessò del caso con le autorità e ottenne che il sacerdote potesse far ritorno alla sua parrocchia senza molestie.
    Trascorse così un periodo di irrequietezza durante il quale don Virginio trascurò molti dei suoi doveri sacerdotali e prese parte clandestinamente ad azioni partigiane. Finché il 1° ottobre 1944 abbandonò il suo stato di parroco, vestì abiti secolari, si armò e formò una sua banda di partigiani, comunicando al Vescovo il fatto compiuto e il nome di battaglia da lui assunto di "Italicus".
    Da quel momento Icardi prese un atteggiamento arrogante e brigantesco, molestando, armi alla mano, i parroci della zona, sottoponendoli a malversazioni e incitandoli a contravvenire a ogni disposizione dei superiori. Mise a repentaglio le popolazioni che, per sua colpa, furono soggette ad atti di rappresaglia. Arrivò perfino ad assaltare treni alla stazione di Spigno, depredando i viaggiatori e portando a casa sua a Squaneto la refurtiva, promettendo di dividerla poi con i suoi gregari. In definitiva non agì come un cappellano, non celebrò mai una Messa per i suoi seguaci, ma invitò e praticò solo la violenza. Le sue imprese partigiane sembra siano anche state oggetto di un colloquio telefonico, svoltosi a metà ottobre, tra il suo Vescovo e il Gen.Farina, nella cui zona di competenza l'Icardi agiva. Ma tutti gli appelli e le preghiere del Presule intese a farlo desistere dalla sua attività risultarono inutili.
    Arrivò però il momento che i componenti la sua banda, una diecina di giovani e di ragazze, si stancarono di lui e decisero di abbandonarlo, aggregandosi ad altre formazioni partigiane; il caso determinante fu la cattura di un ufficiale repubblicano che gli venne affidato in custodia ma che lui si lasciò scappare. Minacciato dai suoi, don Icardi fuggì a Cortemilia cercando di unirsi al noto "Mauri" (al secolo Enrico Martini) ma ne fu respinto. Pensò allora di rientrare a Squaneto ma si ritrovò con soli quattro o cinque elementi rimasti e tirò avanti fino a dicembre. La sera del 2 di quel mese con tre di questi partigiani arrivò a Pareto; si separò dai suoi accompagnatori fuori del paese e andò a trovare il parroco del luogo, che ben conosceva; inutilmente venne da questi esortato, ancora una volta, a rimettersi sulla retta via. Don Icardi uscì dalla canonica di Pareto e raggiunse i tre compagni che aveva precedentemente lasciati (sembra che i loro nomi siano noti nella zona) i quali, eseguendo un piano evidentemente prestabilito, lo uccisero a revolverate, abbandonandolo sul posto.
    Come si è già detto, la salma fu trovata il giorno seguente e sepolta nel Cimitero di Altare su iniziativa del Gen.Farina. Fu molto probabilmente questo gesto di umanità e di autentica pacificazione del Comandante della "San Marco" che, negli anni seguenti, ingenerò la convinzione che don Virginio Icardi avesse immolato la sua vita per gli stessi Ideali per i quali caddero don Edmondo De Amicis, padre Cesare Romiti, don Leandro Sangiorgi e tanti, tanti altri sacerdoti che allora furono uccisi per la sola colpa di essere stati Cappellani militari della R.S.I.
 
 
IL SECOLO D’ITALIA Quotidiano del 23 Marzo 1991

INTRODUZIONE - DODICI PRETI ASSASSINATI A REGGIO EMILIA
da LA CHIESA REGGIANA TRA FASCISMO E COMUNISMO di Rossana Maseroli Bertolotti. Editore Il Girasole d’Oro. 2001.
 
     
    Secondo uno studio del 1963 eseguito dall'azione Cattolica, dal 1940 al 1946 rimasero uccisi trecento sacerdoti italiani.
    L'ultimo fu Don Umberto Pessina, ucciso da ex partigiani comunisti a Reggio Emilia, in località San Martino di Correggio, il 18 giugno 19461.
    Nella provincia di Reggio Emilia, dall'8 settembre al 18 giugno 1946, venivano uccisi 12 religiosi. Otto sacerdoti ed un seminarista dai partigiani comunisti2 , due sacerdoti dalle forze armate tedesche, ed un altro dai soldati della Repubblica Sociale Italiana (RSI).
    Il 30 gennaio 1944, in seguito alla uccisione del capo squadra della RSI, Angelo Ferretti, veniva fucilato, insieme ad altri 8 reggiani, don Pasquino Borghi, parroco di Tapignola, condannato alla pena capitale da una sentenza del Tribunale Speciale Straordinario di Reggio Emilia3.
    Il 20 marzo 1944, veniva fucilato dai paracadutisti della divisione Hermann Goering a Cervarolo, dopo essere stato ingiuriato, insieme ad altri 21 abitanti del paese, il parroco Don Battista Pigozzi.
    Tra il 30 giugno ed il 5 luglio 1944, veniva ucciso a Vallisnera Don Giuseppe Donadelli, insieme ad altri 2 reggiani, da truppe tedesche impegnate nel grande rastrellamento estivo contro Informazioni partigiane nell'Appennino reggiano e modenese.
    Il 19 agosto 1944, veniva ucciso con colpi d'arma da fuoco alla nuca dai partigiani Don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo.
    Il 22 settembre 1944 . veniva ucciso dai partigiani nella sua canonica, insieme alla perpetua Zeferína Corbelli, il parroco di Grassano, Don Aldemiro Corsi.
    Il 25 ottobre 1944, Don Sperindio Bolognesi, parroco di Nísmozza rimaneva ucciso dall'esplosione di una mina anticarro deposta davanti alla sua canonica da un russo militante in una formazione partigiana, che aveva incartato l'ordigno con tanto di un nastro azzurro.
    Il 14 dicembre 1944, veniva ucciso dai partigiani con una scarica di mitra Don Luigi Manfredi, parroco di Budrio di Correggio.
    Il 19 aprile 1945 veniva ucciso dai partigiani don Giuseppe Jemmi, colpevole di aver deplorato in una predica gli eccessi della guerriglia antifascista che il 23 marzo aveva passato per le armi due suoi parrocchiani.
    L'11 aprile 1945, veniva prelevato dalla canonica dai partigiani Don Dante Mattioli, parroco di Meletole, ed il nipote di Mario Mattioli. I loro corpi non saranno mai stati ritrovati.
    Il 13 aprile 1945, veniva trucidato dai partigiani, con colpi di pistola sparati alla testa, il seminarista Rolando Rivi di San Valentino, dell'età di 14 anni, dopo averlo dileggiato e percosso, ed averlo fatto inginocchiare davanti ad una fossa4.
    Il 29 aprile 1945, veniva prelevato nei pressi della basilica della Madonna della Ghiara, a fronte alla Prefettura di Reggio Emilia, da appartenenti Informazioni partigiane, Don Carlo Terenziani.Il sacerdote, dopo essere stato oggetto di scherno e di violenze, veniva fucilato a San Ruffino. Moriva gridando "Viva Cristo Re!".
    Il 18 giugno 1946, viene ucciso da ex partigiani, il parroco di San Martino di Correggio Umberto Pessina.
    La storiografia reggiana della Resistenza di questo ultimo mezzo secolo di dopoguerra ha scelto un silenzio omertoso nei confronti dei sacerdoti uccisi dai partigiani.
    La "Storia della Resistenza reggiana' di Guerrino Franzini, Frigio, caposcuola degli storici-partigiani di matrice comunista, non cita nessuno dei sacerdoti vittime della violenza antifascista. Questo testo rimane tuttora la versione ufficiale della vicenda del partigianato reggiano per l'associazione degli ex combattenti e per gli istituti storici della Resistenza. L'incapacità ad affrontare la vicenda dei sacerdoti uccisi dai partigiani, anche solo dal punto strettamente oggettivo di citare il fatto storico, permane anche oggi fra i più giovani storici della Resistenza reggiana5. Negli anni '90 è stata presa in considerazione la vicenda di Don Umberto Pessina, nell'ambito, però, degli errori giudiziari commessi nell'individuazione degli uccisori e della successiva revisione dei processi nei confronti dei partigiani ingiustamente condannati.
    Rimane isolato lo sforzo di alcuni studiosi della Resistenza cattolici, come Sandro Spreafico e Sereno Folloni, che hanno avuto l'onestà di chiedere il riconoscimento storico dell'esistenza di questi crimini6. Questo esempio, tuttavia, sembra non avere avuto discepoli.
    Al contrario, rimane intatta la consuetudine da parte delle istituzioni reggiane di onorare con cerimonie ufficiali solo i sacerdoti vittime della violenza fascista e tedesca, ignorando i religiosi trucidati dai partigiani.
    L'antifascismo reggiano di matrice comunista non ha mai descritto e condannato, mettendone all'indice i protagonisti, i crimini commessi dai propri combattenti durante la guerriglia partigiana. A fronte di questa incapacità a fare i conti con gli aspetti criminali della propria storia, si è sempre cercato di porre rimedio facendo ricorso alla propria egemonia politica locale e portando come giustificazione il pericolo di una strumentalizzazione neofascista.
    Nei primi anni del dopoguerra, al di fuori del Vescovo Beniamino Socche, solo due giornalisti osarono sfidare il silenzio su questi crimini imposto dall'egemonia comunista: un partigiano delle fiamme verdi, Giorgio Morelli, autore di denunce dei crimini partigiani dal giornale "La Nuova Penna", morto in seguito alle ferite di un attentato comunista avvenuto nel dicembre '45; e Mons. Wilson Pignagnoli, "l'uomo più querelato di Reggio Emilía" per i suoi articoli sul settimanale "La libertà".
    Al di fuori di loro, a Reggio Emilia, solo il locale Movimento Sociale Italiano aveva il coraggio di intervenire sull'argomento.
    Se dopo oltre mezzo secolo a Reggio Emilia è ancora vivo il desiderio di verità sulla parte negata della storia della terra reggiana lo si deve a quella comunità di persone che subì il bagno di sangue, le violenze, ed il Terrore del Triangolo della Morte.
    Costoro, anche quando non vi era speranza di ottenerla, ma, piuttosto, rimaneva il timore di subire altri torti, non hanno mai smesso di chiedere la condanna delle violenze e dei crimini perpetrati dai partigiani.
    Le loro richieste, rimaste inascoltate per decenni, ed il silenzio di chi, pur sapendo, ha taciuto, faranno parte per sempre della nostra storia.