Io
sono entrato come socialista nella vita politica e come tale la
lascerò. Già mio padre era un convinto socialista ed io mi nutrivo di
queste idee quando prendevo ancora il latte materno e più tardi,
crescendo, ho continuato a seguirle, a coltivarle e a svilupparle nella
mia mente. Debbo molto a mio padre. La mia strada di socialista era già
stata tracciata : non avevo che da seguirla, il che feci con profonda
convinzione. Divenni molto giovane membro del partito socialista
italiano, nel quale si convogliavano allora le speranze di molti, che in
buona fede credevano ormai maturi i tempi per la riforma sociale.
Anch’io ritenevo che il socialismo possedesse il magico < Apriti
Sesamo > capace di schiudere le porte a un nuovo ordine sociale, a un
nuovo periodo della storia, e dedicai tutte le mie energie per il
raggiungimento di questa mèta fulgidissima. Ben presto mi accorsi però
che la barca sulla quale navigavo mi avrebbe portato a un sicuro
naufragio: gli operai, sui quali particolarmente si appoggiava il
socialismo per conseguire i suoi fini politici e sociali, erano
tutt’altro che maturi per così grande conquista. Mi formai inoltre il
convincimento che un socialismo attuato secondo i concetti di Marx non
avrebbe mai consentito di liberare effettivamente gli operai dalla loro
schiavitù sociale. Malgrado ciò, dedicandovi molti degli anni più belli
della mia vita, ho tentato con le parole, con gli scritti e con l’azione
di pervenire alla migliore realizzazione dell’idea socialista; ma,
ripeto, agli operai mancava la comprensione necessaria e soprattutto
mancava loro lo spirito combattivo, senza il quale non è possibile
ottenere alcun vero mutamento sociale.
Allorché
soggiornai in Svizzera, quale rifugiato politico, frequentai per un
certo tempo l’ambiente di Lenin ed ebbi subito la possibilità di
rendermi conto che, ad eccezione di Lenin stesso che indubbiamente era
un uomo di straordinaria intelligenza, tutti gli altri non erano che dei
chiacchieroni e degli stupidi e che alcuni erano addirittura degni di
essere rinchiusi in un manicomio. Cercai perciò un motivo per potermi
staccare da questo ambiente e riprender la mia libertà di movimento.
Seppi che, dopo che me n’ero andato, Lenin disse ai suoi compagni: Io invece ero contento di essermi liberato dalla tirannia che Lenin esercitava sui suoi compagni.
Ero
ormai decisamente convinto che per poter mettere in pratica il vero
socialismo, si dovevano gettare solide fondamenta nella coscienza degli
uomini e che la classe operaia, come era allora, non avrebbe mai potuto
costituire da sola la base per un nuovo ordine sociale.
Se le idee
socialiste dovevano divenire una cosa reale, tutto il popolo e non solo
una classe di esso, avrebbe dovuto partecipare con piena convinzione
all’’idea della lotta di classe, e io stesso sentivo maturare in me, di
anno in anno, la certezza che proprio l’idea della lotta di classe fosse
sbagliata. Franava nella mia mente uno dei grandi pilastri del mio
pensiero giovanile. Per tale motivo fui accusato di apostasia; i miei
vecchi compagni socialisti mi danno del rinnegato perché oggi attuo ciò
che ieri ho condannato e perché non ho conservato quella ch’essi
chiamano coerenza di pensieri e di azioni, ossia quel vecchiume di
metodi frusti e di idee sballate, ch’essi si aspettavano da me.
Io
ritengo che questo sia un rimprovero stupido, poiché quando un uomo
cammina senza mai fermarsi verso la mèta, non ha alcuna importanza la
via che egli percorre per raggiungerla. Anche l’idea più rivoluzionaria
può essere tradotta in pratica purché si sappia essere tanto elastici di
mente da saper adottare metodi che almeno in apparenza siano
rigidamente conservatori. Tutto sta nel sapersi adattare alle situazioni
mutevoli e alle esigenze di ambiente, di epoca, di educazione; per
restare fedeli alle premesse non è necessario irrigidirsi nel metodo.
Secondo
me, uno degli errori principali del sistema marxista è quello di voler
considerare il socialismo innanzi tutto come una questione puramente
economica.
Noi vediamo ora nell’Unione Sovietica l’esperimento più
grandioso e significativo della messa in pratica del marxismo puro.
Quali ne sono gli effetti pratici? Non un progresso sociale della classe
alla quale il marxismo avrebbe dovuto recare forza, decoro e
prosperità, ma la decadenza totale delle masse, una decadenza morale e
materiale della peggior specie. E non mi si dica che si tratta soltanto
di uno stadio passeggero, poiché in tal caso bisogna dire che questo
stadio passeggero dura da troppo tempo. In fin dei conti l’applicazione
integrale del marxismo avrebbe dovuto già nella sua prima fase
alleggerire notevolmente i gravami delle masse lavoratoci e migliorarne
le condizioni sociali. Ciò però non si è verificato, e allora bisogna
dedurre che anche nell’Unione Sovietica non si è fatto altro che
promettere agli operai delusi, pressappoco come fa la Chiesa, un
miglioramento futuro, per rinfocolare le loro speranze, ma che in
sostanza da quasi trent’anni nulla di concreto ha realizzato il regime
marxista per i lavoratori se non immobilizzarli con la forza brutale e
l’impiego della polizia.
Dovrebbero ammettere apertamente i signori
di Mosca di aver tolto agli uomini la gioia di vivere, permettendo loro
soltanto di vegetare nelle peggiori condizioni economiche. Per mettere
in atto la loro assurda formula comunista essi hanno allontanato tutte
le persone veramente produttive di ogni categoria e di ogni professione,
perché soltanto così avrebbero potuto imporre la loro volontà alle
masse. E la questione è stata risolta in maniera radicale, uccidendo
tutti coloro che la pensavano diversamente.
Qualsiasi osservatore
intelligente di questi avvenimenti, che ora non possono più essere
tenuti nascosti, dopo che milioni di uomini degli Stati dell’Europa
occidentale hanno avuto la possibilità durante la guerra di vedere con i
propri occhi cosa fosse il socialismo marxista dell’Unione Sovietica e
di constatare con orrore la miseria delle masse, qualsiasi osservatore,
dicevo, dovrebbe aver capito che questa forma di socialismo, malgrado
tutte le promesse, non potrà mai portare a quel successo che i veri
socialisti auspicavano.
È una cosa naturale che ogni uomo nel corso
della sua vita desideri la parte a lui spettante di felicità, di
proprietà e di libertà e che lotti per conseguire tutto questo. Se però
io ostacolo questa naturale aspirazione dei miei simili, non potrò mai
dire di me stesso che sono un socialista e che la felicità delle masse
mi sta a cuore; sarò invece un tiranno, che mantiene a tutti i costi il
potere soltanto con misure draconiane. E questo appunto è ciò che si è
fatto nella Russia Sovietica. Peggio ancora è il voler sostenere che
tutto questo è democrazia, una parola questa che suona come un’atroce
beffa e che ha perduto ormai il suo vecchio valore nel mondo.
In ciò
che i rappresentanti del marxismo e della democrazia si ostinano oggi a
chiamare socialismo, c’è un errore fondamentale, di cui soltanto pochi
si rendono conto; io però fin dagli anni della mia giovinezza mi sono
fatto la convinzione che il socialismo non è né una questione puramente
economica, né una questione di classe riguardante soltanto una certa
parte del popolo; ma che è invece e innanzi tutto una questione di
carattere. Pertanto, se si vuole veramente agire nell’interesse del
popolo e del suo miglioramento sociale, non ci si deve limitare a
imporre sic et simpliciter un nuovo sistema socialista quando mancano
gli uomini probi e capaci che sappiano guidare quel popolo sulla via del
progresso e delle conquiste sociali. Se il socialismo deve essere
realizzato, esso presuppone che i suoi attuatori non lo abbiano
concepito soltanto come idea, ma è necessario che essi siano passati
attraverso una dura scuola, capace di innalzare gli uomini, anziché
abbassarli. Perciò debbono essere educati prima di tutto gli uomini, che
un giorno dovranno realizzare il nuovo socialismo e ciò non può essere
naturalmente ottenuto in pochi anni.
È sbagliato sostenere che il
socialismo, come generalmente si afferma, voglia arrivare a una stupida
uguaglianza di valori, di capacità, di meriti. È vero il contrario. Il
socialismo può essere tradotto in pratica soltanto quando gli uomini
migliori e di carattere più forte di un popolo, anziché venire
allontanati o soppressi, come è stato fatto in Russia, siano educati al
servizio delle nuove idee affinché possano adoperare tutte le loro forze
e la loro intelligenza non solo a loro proprio vantaggio, ma al
servizio della comunità.
Dobbiamo creare dei caratteri che vedano nel
raggiungimento delle idee sociali e nel sacrificio assoluto della
propria personalità al servizio della comunità la loro massima fortuna e
la mèta della loro vita. In altre parole dobbiamo creare dei capi
permeati di sentimenti altruistici, idealistici. Tali uomini non si
trovano soltanto in determinate classi e professioni, ma, secondo la mia
esperienza, essi si distribuiscono in maniera uniforme in tutte le
classi di una nazione, si trovano tanto fra gli operai che nella
borghesia, come pure nelle così dette classi elevate. Generalmente è
difficile identificare e accostare tali individualità, poiché simili
caratteri sono fieri e chiusi e preferiscono lavorare silenziosamente,
lontani dagli occhi e dal giudizio della gente. Ma quando si riesce a
trovarli e a metterli al posto che loro spetta, essi contribuiscono in
modo veramente esemplare alla propagazione delle idee sinceramente
sociali ed al rapido progresso dell’umanità.
Bisogna aver fede nella
bontà dell’uomo e nello sviluppo dell’umanità; soltanto allora si potrà
concepire tutta la grandezza ed il significato delle idee socialiste. I
pessimisti, che credono che il nostro mondo e gli uomini non possano
essere migliorati, non potranno mai trovare la forza per mettersi al
servizio di un’idea che renda felice l’umanità, e lasceranno passare
innanzi a sé la vita restandone estranei.
Primo nostro dovere è
dunque quello di trovare il mezzo di formare un nucleo-base di uomini
superiori che sappiano con puro disinteresse mettersi al servizio della
comunità, e soltanto allora potremo incominciare ad assolvere il compito
di dare al mondo un nuovo ordine sociale. Io ho dovuto convincermi
sempre di più quanto sia difficile trovare tali uomini. Non esito a
dichiarare che più di una volta ho dovuto soffrire atrocemente per le
delusioni cagionatemi dai miei errori, ma sarebbe stato assai peggio se
io mi fossi fermato, se mi fossi dichiarato vinto e avessi lasciato che
le cose continuassero come andavano. È contro questa mentalità che
combatto con tutte le mie forze, poiché se non lo facessi, tanto sarebbe
valso che non avessi mai cominciato e avessi pensato invece a crearmi
un’esistenza certamente più tranquilla e meno faticosa, come giornalista
e magari come professore in una delle tante università italiane. Poter
mettere al servizio del popolo e dello Stato la mia energia e quella di
coloro sui quali speravo di poter contare sino alla fine, è Stato uno
dei motivi per i quali ho creato il movimento fascista. Ho tentato di
migliorare il carattere di quegli uomini che mi avevano seguito
spontaneamente, dando loro dei compiti ben determinati, ma oggi dovrei
confessare di non essere riuscito in tale impresa.
Ho potuto
constatare più volte che le buone qualità di un uomo si sviluppano
maggiormente in proporzione alla grandezza e alle difficoltà del compito
che gli si assegna: ed è anche per questa ragione che ho richiamato in
vita gli emblemi dell’antico Impero romano, per mostrare al popolo che
esso è custode di una grande tradizione e che potrà raggiungere la
felicità e il benessere soltanto quando avrà la forza e la capacità di
riprendere l’opera di ricostruzione al punto nel quale si è verificata
la decadenza dell’Impero romano.
Se si da uno sguardo profondo agli
avvenimenti che causarono il lento processo di inquinamento e di
decadimento, si vedrà che la colpa non è delle dittature, ma bensì del
così detto ordine democratico. Quanto più lo Stato romano si allontanava
dal suo ordine aristocratico, tanto più aumentavano il disordine e la
decadenza, sino a che tutto andò a finire nelle mani di individui
incapaci che invano cercavano di coprirsi col mantello della monarchia.
Gli errori ed i crimini della monarchia romana appaiono evidenti al
lettore attento della nostra
storia.Perciò
io ho tentato di far rinascere nel fascismo le antiche virtù del popolo
romano e cioè: la dedizione alla comunità, la fedeltà, il coraggio, lo
spirito di sacrificio, sperando di poter ricostruire su di esse il nuovo
impero.
Non ho perseguito queste idee e queste mète per cupidigia di
potere o per sete di conquista, né tanto meno per farmi un nome nella
storia; lo scopo delle conquiste fasciste era soltanto quello di
raggiungere una prima mèta, da cui poter trarre i mezzi per la creazione
di un nuovo ordine sociale in Italia. E quanto più il fascismo si
propagava nel cuore e nel cervello di tutti gli italiani, divenendo
parte della loro vita morale, tanto più si avvicinava il momento nel
quale avrebbe dovuto nascere il socialismo del futuro. Poiché è giusto
ch’io le confessi apertamente che non ho mai avuto l’intenzione di fare
del fascismo una specie di religione eterna. Quanto più il fascismo si
sviluppava, tanto più poteva diventare liberale, e oggi credo di aver
raggiunto il punto in cui posso dare la mano a qualsiasi mio
compatriota, che come me sia disposto a lavorare per il raggiungimento
di un vero socialismo.
Secondo me, tutto ciò che oggi nel mondo viene
chiamato socialismo, non potrebbe resistere ad una severa critica; tale
mia affermazione le diventerà subito chiara se esaminerà gli aspetti
economici del socialismo.
Come è noto, nell’Unione Sovietica anche le
più piccole imprese sono state socializzate, cioè alla proprietà
privata si è sostituita la proprietà comune. Da queste misure vennero
colpiti non soltanto gli ex-proprietari e gli artigiani indipendenti, ma
anche gli operai e gli impiegati che lavoravano al loro servizio.
Considerando la questione da un punto di vista obiettivo, ci si deve
domandare: che cosa ci guadagna l’operaio o il contadino o l’impiegato,
dal fatto che l’azienda o la fabbrica presso cui lavora diventi
proprietà dello Stato? Che cosa succede quando in luogo del capitale
privato entra in azione il capitale dello Stato? La risposta è evidente e
semplice: niente; al contrario la posizione dell’operaio peggiora.
Con
il capitale privato l’operaio o l’impiegato aveva la possibilità di
esprimere i suoi desideri e le sue pretese ad un singolo o ad un gruppo
di interessati e poteva eventualmente costringerli a venire a un accordo
soddisfacente. Trattandosi invece di una azienda statalizzata, al
singolo proprietario si sostituisce una forza anonima, lo Stato, che non
può esser individuato e col quale non si può raggiungere alcun accordo.
La
burocrazia, della quale non si può fare a meno, cresce smisuratamente e
ciò a danno dell’operaio, che non potrà più liberarsi dal suo stato di
schiavitù. A tale riguardo è significativo che in Russia sia severamente
proibito all’operaio di usare la sua arma usuale, cioè quella dello
sciopero. Se tutto ciò viene chiamato socialismo, posso dire soltanto
che: o non si sono seriamente studiati questi problemi, oppure che non
si può realizzare una vera riforma. In realtà bisognerebbe, per fare del
vero socialismo, superare lo stato di asservimento degli operai ad una
forza anonima, sia questa il capitale privato o il capitale dello Stato.
I
contrasti si acuiscono e invece di abolire le differenze di classe, si
aprono nuove ferite e solchi più profondi, elevando una barriera tra lo
Stato e la massa. È assolutamente inesplicabile come si sia giudicato
possibile raggiungere uno sviluppo migliore delle masse lavoratrici con
questo sistema.
L’operaio si trova indifeso di fronte ad una forza
sostenuta da tutti i mezzi militari e polizieschi e la sua situazione
diventa peggiore di quella del più povero bracciante di campagna, poiché
ricade in una schiavitù eterna. Persine le rappresentanze delle forze
lavoratrici nei parlamenti democratici non sono in grado di cambiare
questo stato di cose, tanto che anche nei paesi più ricchi e progrediti
l’operaio deve ancora pregare ed implorare, senza avere il diritto di
partecipare agli utili prodotti dal suo lavoro.
Da quanto sopra
risulta evidente che il sistema sociale oggi in atto non può continuare e
che deve essere sostituito con altri ordinamenti. Lo Stato non ha il
compito di adoperare la sua forza per mantenere il privilegio del
capitale privato o del capitale dello Stato. Il miglior modo per
governare un paese è quello di far sentire il meno possibile l’esistenza
dello Stato e la sua azione. Alla socializzazione sono adatte soltanto
quelle aziende e quegli impianti che servono a tutti i cittadini e che
debbono essere in ugual misura a disposizione di tutti. Fanno parte di
queste le ferrovie, le poste, i telegrafi, la radio, le società di
navigazione, le linee aeree ed altre aziende industriali che possono
svilupparsi soltanto nel libero gioco delle energie cooperanti e
nell’ordine naturale di forti richieste; dovranno invece continuare col
sistema attuale buona parte delle piccole e medie aziende indipendenti,
che hanno a capo uomini di salda energia e di provata capacità e che
sanno imporre anche alla grande industria i progressi della tecnica e
che, con la loro concorrenza, costringono gli organismi industriali a
sforzi produttivi sempre maggiori.
È inutile precisare che l’economia
si troverebbe ben presto in difficoltà, qualora non ci fossero dei
bravi operai specializzati, ed è quindi interesse della comunità di
aiutare per quanto possibile l’istruzione di giovani operai con corsi di
specializzazione. Ci si deve anche guardare dal limitare l’iniziativa
privata nel campo della cultura, specialmente per quanto riguarda il
teatro.
Lo Stato può benissimo dare l’esempio in tutti i campi
culturali, però bisogna mettere ben in chiaro che non può essere che un
esempio. Altrettanto valga per l’arte, che si basa soltanto sulla
capacità del singolo individuo: anche qui lo Stato può aiutare gli
elementi più promettenti affidando loro incarichi e compiti particolari e
incoraggiandoli ad opere sempre migliori; ma qualsiasi altra
intromissione dello Stato deve essere evitata.
I confini di un
socialismo di Stato sono alquanto limitati e bisogna trovare una giusta
via di mezzo tra capitale privato e capitale di Stato, se si vuole
ottenere praticamente un nuovo ordine sociale. Nel sistema del capitale
privato c’è una forza anonima, il denaro, che a mezzo delle banche e
della borsa delimita i valori che possono o non possono essere prodotti
in relazione agli interessi del capitale. Quindi non sono le necessità
della massa che determinano lo sviluppo della produzione, poiché si
ripeterà sempre il tentativo di ottenere a mezzo della rarefazione dei
prodotti un aumento dei prezzi onde aumentare il reddito del capitale.
Più di una volta si è verificato che, per ottenere un maggior reddito
sui prodotti, si sia reso impossibile al produttore agricolo di vendere i
suoi prodotti impedendone il trasporto. In luogo di questo sistema
sorpassato e condannabile deve esserne escogitato uno più aderente agli
interessi della nazione e tale nuovo sistema non consiste unicamente
nella socializzazione delle grandi imprese industriali. È un fatto che
anche l’impresa socializzata non può esistere senza capitale, poiché
deve pagare gli operai, acquistare le materie prime, conquistare i
mercati. Ma in questo caso non si tratta di un capitale anonimo, privato
o statale, bensì di un capitale comune o di un capitale di fabbrica, su
basi sociali che non rappresentano più interessi capitalistici privati,
ma sta al servizio dell’azienda, a cui sono interessati tutti gli
operai della fabbrica.
Soltanto quando si saranno raggiunti questi
presupposti fondamentali, si potrà passare gradualmente la grande
azienda industriale in proprietà degli operai ed impiegati, dal
direttore generale al più umile lavoratore. L’indennizzo al
proprietario, o alla società per azioni, già padroni dell’azienda, deve
essere contenuto in limiti che siano sopportabili per l’azienda e sin da
principio questo criterio dev’essere assolutamente chiaro. A
socializzazione avvenuta, l’impresa diventa una cosa di interesse
comune, al cui sviluppo è vivamente interessato qualsiasi dipendente,
poiché la situazione economica di ogni singolo dipende dall’efficienza
dell’impresa stessa: ciò darà inoltre ad ogni singolo il senso di
responsabilità, non solo verso se stesso, ma verso tutti i suoi
camerati.
Tutto questo è completamente nuovo e prevedo che potrà
essere realizzato soltanto superando gravi difficoltà. Per quanto
riguarda la forma finanziaria di un’azienda socializzata, io penso che
la ricompensa dei singoli operai e impiegati deve essere basata su una
certa tariffa. La tariffa deve essere scalare e deve corrispondere a ciò
che ciascuno produce poiché sarebbe un errore se si volesse pagare in
ugual misura tanto l’uomo che è responsabile di tutto l’andamento
dell’azienda quanto quello che presta soltanto un modesto lavoro
manuale.
Ove ciò non avvenisse si limiterebbe sino dall’inizio la
spinta per raggiungere gradini sociali più elevati, e con ciò verrebbe
eliminato pericolosamente uno dei principali fattori del progresso.
Allorché tutte le spese aziendali saranno coperte, si potranno
utilizzare gli eventuali utili superiori per scopi sociali. Tutte le
aziende si preoccuperanno di procurarsi degli operai e degli impiegati
fidati. Ciò si otterrà più facilmente, dando agli operai dimora stabile e
abitazione propria. Perciò la direzione di una fabbrica provvederà alla
costruzione di abitazioni in misura finora ignota. Essa cercherà di
aggiudicarsi dei terreni adatti nelle vicinanze delle fabbriche per
costruire le abitazioni e d’accordo con il comune provvederà alla
sistemazione dei mezzi di trasporto, poiché buoni mezzi di comunicazione
sono una delle prime necessità per l’attuazione di una ragionevole
politica edilizia.
Il comune, che è sempre molto interessato
all’ingrandimento del suo territorio, farà eseguire i lavori in
compartecipazione con l’azienda per provvedere il nuovo quartiere
aziendale delle fognature, della corrente elettrica e dell’acqua
potabile, eccetera. Secondo un piano ben prestabilito si comincerà a
costruire tenendo presente lo scopo di dare a ciascun operaio la propria
casa con relativo giardino e con stalla (per piccolo bestiame).
Per
entrare in possesso della sua casetta, l’operaio ammortizzerà ogni anno
una piccola somma; finché la casa ed il giardino passino in suo possesso
definitivo, egli la potrà anche vendere, ma soltanto d’accordo con
l’azienda, mentre questa si riserverà il diritto di prelazione
nell’acquisto della casa. Il denaro che affluirà alla cassa dell’azienda
sarà utilizzato per costruire nuove case, finché tutti i dipendenti ne
possederanno una.
È naturale che queste casette dovranno essere munite di tutti i comforts moderni.
Potranno
lo Stato ed il comune aiutare questo progetto? Tale questione è della
massima importanza e io credo di poter affermare che ciò sarebbe
possibile.
Lo Stato ha il dovere di impedire qualsiasi intervento
speculativo sul terreno scelto per la fabbricazione dei quartieri
aziendali, poiché se questo fosse lasciato in mano al libero commercio
la speculazione si impadronirebbe ben presto della cosa e tenterebbe di
appropriarsi forti utili. Ciò deve essere evitato sin dall’inizio, con
tutti i mezzi legali, e tutti coloro che tentassero di ottenere illeciti
guadagni personali col sudore dei lavoratori dovranno essere puniti.
Un
altro punto da evitare è il seguente: quando si esce da una qualsiasi
città italiana, si può osservare come ai suoi margini si sviluppino
aziende agricole che sfruttano anche il più piccolo pezzo di terreno.
Ora, costruendo dei quartieri per operai, si verificherebbe
contemporaneamente una diminuzione del terreno utilizzabile per
l’agricoltura. Questa limitazione non potrebbe essere bilanciata dalla
possibilità di una certa coltivazione negli orti del quartiere stesso;
orbene la mia vecchia esperienza m’insegna che la modesta appezzatura
agricola del piccolo privato non sopperisce neppure in piccola parte
alle esigenze di una grande comunità e che l’approvvigionamento di una
città viene assicurato unicamente dai prodotti agricoli e alimentari
delle grandi proprietà agricole. Perciò è compito dello Stato di
provvedere a sostituire quelle zone agricole periferiche, che dovessero
essere assegnate a quartieri aziendali, con altri terreni viciniori. Ciò
è facilmente comprensibile quando ci si immagini che in certi casi,
come per esempio a Milano, si tratterebbe di costruire centinaia di
migliaia di casette; il che accrescerebbe considerevolmente il
territorio della città, ma diminuirebbe nello stesso tempo il terreno
coltivabile.
I miei avversari, partigiani del capitale privato, hanno
sempre sostenuto che con la socializzazione io creerei grandi
difficoltà alle industrie e che gli operai e gli impiegati non sarebbero
in grado di condurre con responsabilità una azienda. In merito a ciò io
rispondo che il proprietario dell’azienda o il direttore generale può
sempre rimanere, in qualità di impiegato, come membro dell’azienda e
continuare a esercitare le sue funzioni qualora egli goda della fiducia
dei suoi dipendenti. Per il resto, conoscendo bene gli operai, sono
convinto che nei loro ranghi esistono elementi capaci e intelligenti,
che forse non hanno mai avuto occasione di manifestare le proprie
possibilità creative e industriali. In qualsiasi azienda socializzata si
riveleranno quasi automaticamente coloro che possono occupare i primi
posti e che sapranno far fiorire l’industria. Ci saranno sempre
certamente dei casi di rivalità e di invidia, ma in fin dei conti questi
sono difetti umani dei quali bisogna tener conto e non è nocivo allo
sviluppo di un carattere se i posti più ambiti non gli vengono come un
regalo del ciclo, perché alla fine saranno sempre i migliori ad imporsi.
Secondo la mia esperienza, è proprio l’operaio che sa distinguere bene
tra vera capacità e chiacchiere vane. E se i miei avversari sostengono
che qualora io volessi mettere in pratica i miei piani, l’azienda
diverrebbe un parlamentino di chiacchiere e il lavoro si ridurrebbe di
giorno in giorno, risponderò che queste cose le può dire solo chi non
conosce gli operai e crede che le grandi masse potrebbero lasciarsi
abbindolare a lungo dalle stupide chiacchiere.
Effettivamente qualche
volta vien fatto di meravigliarsi della pazienza angelica con la quale
le masse sopportano anche le ingiustizie più grandi e si lasciano
giocare. Ma un giorno anche la più grande pazienza si esaurisce, e
allora guai a coloro che hanno scherzato con la pazienza delle masse
lavoratrici. È possibile condurre pel naso per un certo tempo gli
operai, ma guidarli si può soltanto quando essi hanno il sentimento che
la persona che li guida non abbia unicamente buone intenzioni verso di
loro, ma anche la capacità per farli avanzare sulla via giusta, poiché è
proprio nella vita sociale che si distinguono presto le cose e gli
uomini di valore da quelli senza valore.
Supponendo che una azienda
sia riuscita a risolvere tutti i compiti ad essa imposti e sia riuscita a
fiorire, c’è ancora un pericolo che la minaccia. Ho fatto l’esperienza
che in un’azienda specializzata sovraccarica di ordinazioni, gli operai
hanno spesso cercato di conseguire i massimi guadagni, aumentando il
loro lavoro con ore straordinarie fino all’inverosimile. Ciò
naturalmente non deve essere possibile nell’azienda socializzata, dove
non sarà ammesso che si sfrutti oltre a un certo limite la capacità
produttrice del singolo. Qualora il numero degli operai non si riveli
più sufficiente per produrre tutto il lavoro necessario, l’azienda dovrà
aprire le sue porte e accogliere nuove forze lavoratrici. Questi sono
sacrifici che il singolo deve fare per la comunità, poiché socialismo
significa anche essere pronti al sacrificio.
Per la prosperità dello
Stato e quindi dei singoli individui che lo compongono è utile che gli
operai rimangano fissi al loro posto di lavoro e che non si verifichi
più la continua fluttuazione da un’officina all’’altra. In tal modo gli
operai non avranno più tante difficoltà a formarsi la loro famiglia,
come succede inevitabilmente a coloro che sono eternamente costretti a
spostarsi periodicamente per trovare lavoro. C’è da tenere in
considerazione anche il fatto che col nuovo ordine sociale l’operaio
nullatenente diventa proprietario; che non è soltanto comproprietario di
una grande azienda, ma che è anche possessore di un pezzo di terreno.
Come
un filo rosso si trascina attraverso la nostra conoscenza della storia
la convinzione esistente in ogni essere umano, di qualunque condizione e
professione, che la sua felicità terrena consista soltanto nel
diventare proprietario di un pezzo di terreno. È stata certamente una
misura molto saggia quella presa dai vecchi capi militari dell’antica
Roma di dare ai loro legionari, allorché venivano congedati dopo una
battaglia vittoriosa, un pezzo di terreno, legandoli così anche per il
futuro allo Stato e ai suoi interessi. Ora il singolo non dovrà più
temere per il futuro dei suoi figli, perché dopo la sua morte essi
diventano per diritto eredi; e non ci sarebbe motivo perché non dovesse
esserci questa eredità anche per i beni guadagnati con l’industria, come
è sempre stato per i beni agricoli. È vero che soltanto gli
appartenenti alle aziende possono diventare gli eredi del padre, ma
normalmente il figlio seguirà il padre se questi per l’avanzata età o
per motivi di malattia dovrà abbandonare il lavoro, e in tal modo si
formerà uno stretto vincolo tra l’azienda e le famiglie dei suoi
impiegati e operai. Con ciò la famiglia raggiunge una base molto più
solida di quanto non sia possibile oggi nell’attuale regime
capitalistico.
Se tutta la responsabilità dell’azienda vien messa
nelle mani degli operai e impiegati, è evidente che all’’azienda spetta
di assumersi l’impegno di provvedere ai malati e agli invalidi.
Probabilmente ciò verrà risolto creando delle casse per pensioni, alle
quali dovrà essere depositata di volta in volta una parte del guadagno.
Il capitale creato in questa maniera può essere lasciato all’azienda che
ne godrà gli interessi. Se uno dei membri si ammala, la cassa malattia
deve provvedere per lui. Le aziende più piccole probabilmente dovranno
unirsi alle mutue statali, mentre quelle più grandi creeranno delle
proprie mutue e, poiché ogni membro dell’azienda ha interesse di
mantenere la sua capacità di lavoro e in caso di malattia di guarire il
più presto possibile, le spese della cassa malattia saranno
relativamente lievi, eccezion fatta per i casi di epidemie, e quindi
anche i contributi potranno essere altrettanto bassi. Se uno dei membri
diventa invalido anzitempo, l’assicurazione per l’invalidità dovrà
provvedere affinché possa vivere serenamente per il resto dei suoi
giorni. Ritengo indispensabile che ogni grande azienda abbia i suoi
propri medici per controllare con visite regolari e periodiche lo stato
di salute dei dipendenti per ragioni di igiene generale e per evitare il
sorgere e il propagarsi di epidemie o di malattie infettive. Qualora
uno dei membri dell’azienda non sia più in grado di compiere tutto il
suo lavoro, egli sarà sottoposto a una visita medica di controllo che
stabilirà il lavoro adatto alle forze dell’operaio o dell’impiegato. Il
medico sarà responsabile del funzionamento degli impianti igienici
dell’azienda che non dovranno consistere solamente nell’infermeria,
nella farmacia e nei gabinetti di chirurgia e di specialità, ma anche
negli impianti di riscaldamento, di aereazione, di docce, ecc. I giudizi
del medico sono importantissimi per l’azienda e le innovazioni o i
cambiamenti da lui proposti dovranno essere subito eseguiti. Le regolari
visite di controllo daranno anche la possibilità di riconoscere in
tempo il manifestarsi di malattie croniche, come per esempio la
tubercolosi, e di far quindi curare tali malattie da medici
specializzati, in ospedali o in sanatori. Sarà bene se la direzione
dell’azienda stipulerà sin dall’inizio un contratto con degli ottimi
sanatori per poter far ricoverare e curare i suoi dipendenti.
Specialmente gli operai più anziani dovranno essere assistiti e vigilati
dal medico, che interverrà prontamente ai primi sintomi di malattie
reumatiche, poi-ché, come si sa, queste richiedono, data l’età, cure
maggiori. Deve essere stroncato nel modo più assoluto lo sviluppo delle
malattie veneree; qualora queste si verificassero, il medico deve
provvedere perché i malati non vengano riammessi nell’azienda fintanto
che qualsiasi possibilità di contagio non sia passata. Al lavoratore
naturalmente non deve essere interdetto di scegliersi un medico di
fiducia; il medico dell’azienda non deve essere anche il medico curante,
ma sarà compito dell’azienda di stipulare un contratto con le
organizzazioni mediche locali e con gli ospedali in merito al pagamento
per le loro prestazioni ai dipendenti dell’azienda. Questo sistema di
vigilanza sanitaria dovrebbe avere una benefica influenza sulla morale
pubblica. Le forze spirituali e materiali dei lavoratori ne trarranno un
notevole giovamento.
Il socialismo sarà il più forte strumento per
la pace che sia mai esistito nel mondo: con la sua attuazione verrebbero
a mancare tutte quelle cause che portano di solito alla guerra. Quando
le masse sono contente non esistono più limiti al progresso degli
uomini. Quando gli interessi capitalistici e le manovre di borsa non
governeranno più l’economia, si raggiungerà quel livello ideale di
prosperità comune che escluderà la possibilità di guerre.
Certo non
bisognerà misurare tutte le persone con lo stesso metro: ci saranno
sempre delle differenze, ci saranno sempre i pigri e i diligenti, gli
stupidi e gli intelligenti, i più capaci e i meno capaci; ciascuno sarà
padrone del proprio destino e potrà sviluppare al massimo tutte le sue
capacità, ma entro quei limiti che non gli consentano di danneggiare la
comunità. Una delle più importanti cause di guerra verrebbe a mancare:
la lotta per i valori immaginari, come per esempio il denaro. Quando il
valore del denaro dipenderà soltanto dal lavoro e dalla produzione, e
non dall’oro e dalle azioni, il sistema capitalistico avrà completamente
cessato di esistere. Con ciò una certa categoria di persone verrebbe
esclusa dalla comunità e dalla società e forse distrutta, quelle persone
per le quali il denaro è un dio; e all’umanità non potrà venirne che un
gran bene. Io non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur
possedendo già molto più di quanto non possano consumare, non si sentono
sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro
patrimonio. Eliminare queste brutture umane sarà uno dei compiti del
nuovo mondo socialista.
Avendo per mèta il raggiungimento di un
ordine sociale, come quello del quale abbiamo parlato, io ho iniziato la
mia attività di governo, ma non sono riuscito nel compito prefissomi
perché mi si opposero fin da principio ostacoli che sembravano
insormontabili. L’Italia è un paese molto povero e il suo popolo è
costretto, come quasi nessun altro in Europa, a utilizzare tutto il
guadagno della sua operosità produttiva per importare generi alimentari
necessari alla sua vita. La produzione della nostra terra non è
sufficiente per nutrire la popolazione in continuo aumento. Un terzo
soltanto del nostro territorio può essere sfruttato dall’’agricoltura,
mentre il resto è improduttivo. All’Italia mancano quasi completamente
tutte le materie prime necessarie per l’industria e anche queste debbono
essere importate e il loro costo grava sulle spalle dei lavoratori
italiani dell’industria. Perciò volendo realizzare le mie idee sociali,
dovetti pensare innanzi tutto a ingrandire il terreno coltivabile
cercando nuove terre. Queste potevano essere trovate soltanto nelle
colonie, che, allorché io andai al governo, erano di scarso valore e di
nessun vantaggio economico. Dovetti perciò guardare lontano e cercare la
possibilità di dare all’Italia il necessario spazio vitale, ma, non
appena allungai la mano verso una zona africana di sfruttamento,
cominciarono subito le difficoltà internazionali. Non soltanto venni
attaccato personalmente, ma esisteva anche una totale incomprensione per
le sacrosante necessità del mio paese. Malgrado ciò, non ho desistito
mai dai miei piani; ma non fu per vanità o, come mi si rimprovera, per
imporre la mia volontà al mondo, che attuai la mia politica interna ed
estera, bensì per creare le basi indispensabili all’attuazione del nuovo
ordine sociale. Ho sempre ritenuto legittimo cercare nuove colonie,
come altri paesi fecero prima dell’Italia, anche perché gli italiani
sono stati sempre dei maestri nell’arte della colonizzazione; essi hanno
reso prosperi e fiorenti con il loro lavoro e la loro capacità tutti
quei territori, nei quali si recarono.
Un esempio è dato dalle
colonie francesi di Tunisi ed Algeri, che in realtà sono delle colonie
italiane sotto bandiera francese e le cui grandi ricchezze non
avvantaggiano, come sarebbe giusto, il popolo italiano, bensì i
francesi, i quali possiedono un grandissimo spazio vitale, che non sono
in grado di sfruttare.
Nonostante tutte le difficoltà e tutte le
manovre con le quali si tentò di impedire la mia opera, riuscii a
realizzare con successo una parte dei miei piani coloniali. Quanto il
genio e il lavoro italiani hanno fatto nelle colonie dell’Africa
settentrionale e più tardi nell’Abissinia non può essere scritto che a
caratteri d’oro nella storia coloniale del mondo intero. Credo di avere
ottenuto lo spazio vitale minimo necessario per poter realizzare con
successo le mie idee sociali. Non posso giudicare in questo momento se
più tardi, qualora la popolazione italiana continuasse ad aumentare
nella stessa misura, saranno necessarie altre conquiste. La conquista
delle colonie ci è costata, come il mondo sa, sacrifici e guerre
sanguinose. È stato molto duro per me dover chiedere al popolo italiano
questi sacrifici, ma l’ho fatto con la consapevolezza di agire nel suo
interesse e per la sua prosperità futura, con la convinzione che i
posteri e la storia avrebbero sanzionato le mie azioni. Che cos’altro
avrei potuto fare, se non prendere con la forza ciò che un mondo
incomprensivo e stupido mi negava?
Se dovrò scomparire dalla scena
prima che le mie idee socialiste possano avere piena attuazione, sono
convinto che, sia pure dopo altri errori, il nuovo ordine del mondo sarà
creato nel senso da me indicato. Si dica quello che si vuole, le mie
idee sono le sole che tengano conto degli interessi e delle necessità
delle grandi masse lavoratrici e perciò esse saranno vittoriose,
malgrado tutti gli ostacoli. Allora, e solo allora, il mondo cambierà
aspetto. Al mio socialismo apparterrà il mondo e non al comunismo o al
socialismo di Stato. L’uomo superiore di Nietzsche, come lo immagino io,
e la comunità produttrice, non saranno più degli avversari.