Momenti bui della nostra storia
IL BOMBARDAMENTO DI BARI
Di Giorgio Perona
Qualcuno ha detto
che l’albero che cade nella foresta lontana non fa rumore e se nessuno
lo sente cadere, è come se quell’albero non fosse mai caduto…
La cronaca che vi
vogliamo raccontare in questa puntata, è quella che potremmo definire la
storia di un albero mai caduto: il segreto del bombardamento di Bari.
Questa è un’altra
delle storie minori, l’ennesimo angolo buio, che nessun libro scolastico
italiano vi racconterà mai; eppure, chiunque di voi potrebbe, leggendo i
testi di storia della marina militare statunitense, scoprire che
l’episodio del bombardamento di Bari è tuttora considerato dagli
strateghi della marina USA, come il più grande disastro militare
americano di tutti i tempi, secondo solo al bombardamento di Pearl
Harbor! L’episodio di Bari non rappresenta però solo il secondo più
disastroso bombardamento navale della storia americana, ma è anche uno
dei più tragici (e finora meglio conservati) segreti della storia della
seconda guerra mondiale italiana.
Prologo
Il nostro racconto
inizia in Italia, in un sonnolento pomeriggio sul finire del 1943, in
uno di quei giorni assolati con il cielo terso, come qualche volta
l’inverno nel nostro mezzogiorno ci sa regalare.
In quel pomeriggio
del 2 dicembre 1943, la ricognizione aerea tedesca, inviò il primo
tenente pilota Werner Hahn, a compiere un volo di perlustrazione del
fronte sud italiano.
Il suo obiettivo
era l’osservazione e l’eventuale rilevazione fotografica del porto di
Bari, in quel momento occupato dagli Alleati.
La giornata era
primaverile ed il cielo era totalmente sgombro di nuvole; il piccolo
ricognitore, incrociando a 23.000 piedi di altezza, lasciò dietro di sé
una scia di condensa, rivelandolo subito agli occhi degli addetti alla
difesa contraerea del porto.
Ma i reparti
incaricati al servizio, parvero non curarsi affatto della curiosità di
quell’innocuo velivolo che ronzava, solitario e noioso, sulle loro
teste.
Non ricevendo
molestie dalla contraerea inglese, il pilota tedesco decise di fare un
secondo passaggio, sorvolando la città prima di fare rotta verso il
nord, puntando verso casa.
Werner Hahn pensò
che se quello che aveva visto era vero e le sue previsioni erano esatte,
La Luftwaffe avrebbe potuto lanciare un serio attacco contro
quell’interessante bersaglio.
Bari a quell’epoca
era una città di circa 200.000 abitanti, la guerra aveva risparmiato in
gran parte i suoi quartieri; sia la città vecchia che la bari nuova
infatti, avevano complessivamente patito pochi danni dall’invasione
alleata.
Questi ultimi
infatti avevano deciso semplicemente di risparmiarla, pianificando
anzitempo di trasformarla nella principale base logistica e di
rifornimento alleata per tutti i futuri sviluppi della Campagna
d’Italia.
In quel finire del
1943 a Bari, al torpore sonnolento della città, faceva da contrasto il
grande fermento del porto con l’andirivieni continuo delle navi alleate.
Tonnellate di
rifornimenti venivano sbarcate lungo quasi tutto l’arco della giornata,
trasformando l’antica quiete della città in una specie di alveare
operoso.
Quel 2 dicembre,
almeno 30 navi alleate erano ormeggiate ai moli del porto od alla fonda
in attesa di scaricare, ancorate spesso così vicine tra loro che alcune
quasi si toccavano.
Il porto era sotto
la giurisdizione britannica; in parte questo avveniva perché bari era la
base logistica per l’8° Armata del generale Bernard Law Montgomery. Ma
la città era stata al tempo stesso designata come Quartier Generale
della 15th Air Force americana, che era stata costituita appena nel
novembre precedente.
La primaria
missione di cui si sarebbe dovuto occupare la neocostituita forza aerea,
era quella di bombardare i bersagli individuati nei Balcani, in Italia
ma soprattutto in Germania.
Il comandante della
15th Air Force era il maggiore generale James H. “Jimmy” Doolittle e
questi era arrivato il 1 dicembre a Bari.
Gli americani
avevano messo a punto, in quel tempo, la strategia dei bombardamenti
diurni “di precisione”, ma l’8th Air Force americana di stanza in
Inghilterra aveva sofferto terribili perdite proprio nel tentativo di
verificare la validità di questa nuova teoria (1).
Gli organici della
caccia della Luftwaffe, nei cieli della Germania sembravano, in quel
frangente, aumentare anziché decrescere.
Il compito della
15th Air Force doveva essere quello di sottrarre parte della pressione
della caccia tedesca che impegnava in quel momento l’8th.
In aggiunta agli
usuali materiali di guerra, le navi ancorate a Bari, erano cariche del
carburante per i bombardieri di Doolittle e di altri rifornimenti di
prima necessità.
La scelta di Bari
quale Quartier Generale della 15th Air Force americana era l’evidente
vicinanza all’aeroporto di Foggia, designato a sua volta, quale base
principale dei bombardieri americani ed a quell’epoca in allestimento.
La città quindi,
venne invasa anche da tutto il personale tecnico che avrebbe poi dovuto
insediarsi nell’aeroporto di Foggia.
Erano giunti così,
circa 250 tra ufficiali dell’aviazione americana e tecnici civili di
primo impiego oltre ad altre diverse centinaia di avieri e di personale
civile da impiegare nei lavori di allestimento delle piste e degli
hangar.
Totalmente
assorbiti nel compito di dare velocemente una base alla nuova forza
aerea, gli AMERICANI diedero poco rilievo alla possibilità che i tedeschi
potessero organizzare un raid aereo su Bari.
La Luftwaffe in
Italia aveva, ormai da molto tempo, rallentato la sua attività.
Lo sviluppo
sfavorevole della Campagna d’Italia, l’aveva via via indebolita ed i
suoi scarsi organici difficilmente avrebbero potuto essere impegnati in
uno sforzo maggiore dell’attività di ordinaria routine. O almeno questo,
era quello che i capi Alleati pensavano.
I voli della
ricognizione tedesca su bari venivano di regola osservati dalle batterie
contraeree britanniche con annoiato distacco.
All’inizio, gli
artiglieri inglesi avevano sparecchiato qualche caricatore all’indirizzo
di quegli ospiti indesiderati, ma poi avevano cominciato ad ignorarli
nella convinzione di voler almeno risparmiare le munizioni.
Rispondendo alle
inevitabili polemiche circa le inapplicate misure di sicurezza, il Vice
Maresciallo dell’Aria britannico, Sir Athur Coningham, tenne una
conferenza stampa nel pomeriggio dello stesso 2 dicembre assicurando i
reporters al seguito alleato, che la Luftwaffe in Italia doveva
ritenersi semplicemente disfatta. Egli disse di confidare nel semplice
fatto che non riteneva più in grado i tedeschi di attaccare Bari.
Dichiarò di ritenere “un personale affronto ed insulto” se la
Luftwaffe fosse riuscita a tentare la più piccola e significativa azione
in quell’area.
Nessuno pur
tuttavia, era realmente convinto che la resistenza delle forze aeree
tedesche fosse stata realmente spezzata. Ad esempio, il capitano
dell’esercito britannico A. B. Jenks, che era il responsabile per la
difesa del porto, sapeva perfettamente che le misure contraeree adottate
erano insufficienti e che la preparazione dello stesso personale addetto
alla difesa era inadeguato. Ma la sua voce e quella di pochissimi altri
ufficiali, rimaneva inascoltata rispetto ai cori compiacenti della
restante parte degli ufficiali, tutti facenti parte dell’ossequioso
seguito del Vice Maresciallo dell’Aria, Sir Coningham.
Il porto
Quando arrivavano
le prime ombre della sera, i docks del porto di Bari venivano illuminati
a giorno perché lo scarico dei cargo potesse proseguire. Questa
luminaria, che qualcuno definì da sagra paesana, spesso durava per tutta
la notte.
Nessuna precauzione
ulteriore venne mai presa, nessuno parve mai sentire l’obbligo di
imporre una qualche misura di oscuramento.
Nel porto, le navi
da carico e le navi cisterna attendevano il loro turno per essere
scaricate.
Il capitano Otto
Heitmann, ufficiale di rotta della nave tipo Liberty “SS John Bascom”,
osservava dal ponte della sua nave il lento procedere delle operazioni
di scarico.
Sperava in cuor suo
che potessero subire una qualche accelerazione.
Egli aveva
presentato una formale richiesta alle autorità del porto per ottenere
una precedenza nelle operazioni di scarico, ma non aveva ottenuto
risposta. Questo lo aveva molto indispettito, ma non mancò di nascondere
il suo disappunto all’equipaggio.
Se Heitmann avesse
saputo che cosa la “SS John Harvey”, altra nave Liberty ancorata
al loro fianco, portava nelle sue stive, avrebbe avuto ben altre ragioni
di preoccupazione.
La “SS John
Harvey”, comandata dal capitano Elwin F. Knowles, era una tipica
nave Liberty; anonima ed assolutamente simile a tutte le altre navi
ancorate in quel momento nel porto.
Molti di questi
cargo erano carichi delle merci convenzionali per un fronte di guerra:
cibo, munizioni, equipaggiamenti, carburante.
Ma quella nave così
uguale al altre, così prima di significative differenze, aveva invece un
carico segreto; segreto e mortale.
Approssimativamente
100 tonnellate di bombe cariche di gas iprite (2) erano a bordo.
Le bombe erano una
precauzione, avrebbero dovuto essere utilizzate solo se la Germania
avesse, a sua volta, resuscitato lo spettro della guerra chimica.
Nel 1943, la
possibilità che la Germania potesse utilizzare gas venefici appariva
comunque come un’ipotesi remota (3).
A quel punto del
conflitto l’iniziativa strategica era passata agli Alleati e la Germania
era alla difensiva su tutti i fronti. Le forze tedesche avevano subito
l’enorme disfatta di Stalingrado e subito dopo aveva perso il controllo
del Nord Africa.
Gli Alleati erano
adesso sbarcati in Europa e stavano procedendo lentamente nel tentativo
di risalire la penisola italiana.
Il Presidente
americano Franklin D. Roosevelt, si ispirò nella continuazione della
politica perseguita dai suoi predecessori, che tentarono di bandire la
guerra chimica (Trattato di Washington del 6 febbraio 1922 e successivo
Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925) e l’uso dei gas in generale,
da parte di ogni nazione civile. Pur tuttavia, durante l’avanzata
alleata sul fronte del Nord Africa, vennero rinvenuti ingenti
quantitativi di gas vescicanti (in realtà si trattava di materiale
italiano risalente ancora al primo conflitto mondiale e conservato in
Libia, più precisamente furono rinvenuti composti di fenilcloroarsine e
iprite). Nonostante il materiale ritrovato dimostrasse di essere non in
condizioni di pronto impiego, gli Alleati ipotizzarono uno scenario
strategico nel quale le scorte di armi chimiche dovessero essere
presenti da ambo i lati. La “SS John Harvey”, venne così
selezionata per convogliare sul fronte italiano il suo carico letale e
una volta lì giunto, poterlo detenere come riserva strategica.
Esso si sarebbe
potuto impiegare come eventuale ritorsione ad un ipotizzato attacco da
parte delle forze dell’Asse, attraverso l’utilizzo di armi chimiche.
Il carico letale
della “SS John Harvey” era costituito in massima parte da
contenitori per bombe convenzionali, lunghi circa 120 cm, del diametro
di 20 cm e che potevano contenere circa 30 chilogrammi di iprite
ciascuna.
In caso di
utilizzo, ognuno di quegli ordigni, avrebbe potuto contaminare un’area
di 40 metri di diametro.
L’imbarco del gas
avvenne in una località del Maryland, ufficialmente venne imposto il
segreto militare e l’attività venne coperta con il più completo riserbo.
Persino lo stesso
comandante Knowles non venne subito formalmente informato della cosa.
Ma nel caso della
“SS John Harvey” era stata imbarcata iprite di un tipo recente,
prodotto durante le fasi precedenti del conflitto, ovvero l’Iprite
Levistein H, una sostanza che gassificava facilmente con notevole
aumento di pressione.
Ragione per la
quale era necessario un controllo costante da parte di specialisti che
dovevano seguire il carico.
Per svolgere questa
attività, venne incaricato il 1st Lt. Howard D. Beckstrom del 701st
Chemical Maintenance Company, che venne così imbarcato insieme ad un
distaccamento di altri sei uomini.
Tutti erano esperti
nel maneggio e nella manutenzione di materiale tossico.
Quando venenro
imposti dai comandi statunitensi come membri dell’equipaggio della
“SS John Harvey”, al capitano Knowles risultò immediatamente chiara
la relazione che avrebbero avuto quegli improvvisati “ospiti” con il suo
carico segreto.
Il cargo attraversò
l’Atlantico senza incidenti, evitando gli agguati tesi dai sottomarini
tedeschi che infestavano in quel periodo le vie oceaniche di
collegamento all’Europa.
Dopo uno scalo ad
Orano in Algeria, la nave salpò alla volta di Augusta in Sicilia prima
di procedere per Bari.
Il tenente Thomas
Richardson, che era l’ufficiale addetto alla sicurezza, era uno dei
pochissimi uomini dell’equipaggio che ufficialmente era a conoscenza del
carico letale.
I fogli del suo
piano di imbarco indicavano chiaramente la presenza di oltre 2.000
ordigni a gas iprite del tipo M47A1 nella stiva.
Richardson
naturalmente, voleva scaricare quel pericoloso carico il più velocemente
possibile, ma quando la nave raggiunse Bari il 26 novembre, le sue
speranze vennero frustrate.
Il porto e la rada
erano ingombri di navi e già un altro precedente convoglio attendeva
ormai con ritardo di essere a sua volta ammesso alle operazioni di
scarico.
Dozzine di
imbarcazioni stazionavano lungo i moli e le banchine, ognuna di essa
attendeva il proprio turno per serre scaricata. Poiché il gas iprite non
appariva ufficialmente registrato come carico a bordo, la “SS John
Harvey” non era ovviamente autorizzata ad ottenere nessuna
particolare priorità.
Per cinque lunghi
giorni la nave rimase inoperosa, ancorata al molo 29, mentre il capitano
Knowles tentava inutilmente di ottenere dagli ufficiali britannici del
porto un’accelerazione delle operazioni di sbarco.
Questo era
inevitabilmente difficile, visto che la segretezza che aveva circondato
la questione del carico, aveva di fatto impedito che la nave potesse
essere trattata con una qualche priorità.
Il bombardamento
Mentre Knowles
fremeva d’impazienza, Werner Hahn, il pilota del ricognitore tedesco era
di ritorno alla sua base.
Le sue positive
informazioni sulle condizioni di bari, avviarono subito l’attuazione del
raid che era stato discusso e pianificato appena qualche tempo prima.
La pianificazione
dell’attacco a Bari era il prodotto di una serie di incontri tra il
Feldmaresciallo della Luftwaffe, Albert Kesselring ed i suoi
subordinati.
L’aeroporto alleato
di Foggia era stato al centro di una discussione che lo aveva designato
come un possibile bersaglio, ma le risorse della Luftwaffe erano ridotte
al minimo per permettere un bombardamento efficace su di un largo
complesso di obiettivi.
Era stato quindi il
Feldmaresciallo della Luftwaffe, Wolfram Von Richthofen, comandante
della 2° Luftflotte, che aveva suggerito Bari come una valida
alternativa.
Cugino dell’asso
della prima guerra Mondiale, Manfred Von Richthofen il famoso Barone
Rosso, il Feldmaresciallo era un esperto ufficiale che aveva servito
durante la Campagna di Polonia, la Battaglia d’Inghilterra e sul fronte
russo.
Kesselring sapeva
che ogni suo consiglio doveva essere ascoltato.
Richthofen riteneva
strategica Bari e pensava che se il porto fosse stato messo fuori uso,
l’avanzata dell’8° Armata britannica avrebbe potuto essere rallentata e
anche l’offensiva della neocostituita 15th Air Force sarebbe stata
inevitabilmente ritardata.
Richthofen riferì a
Kesselring, che gli unici aerei che poteva utilizzare per comporre le
squadre di attacco, rimanevano a suo avviso, i bombardieri Junkers Ju-88
A-4.
Con molta fortuna,
pensava di poter raccogliere almeno 150 aerei in ordine di servizio per
effettuare l’incursione.
Quando la forza di
attacco venne però costituita, all’appello mancavano almeno un terzo
degli aerei previsti, così solo 105 velivoli risultarono disponibili per
la missione.
Ma l’elemento
sorpresa, accoppiato con un attacco al tramonto, avrebbe potuto
rovesciare il risultato a favore dei tedeschi.
Molti aerei
sarebbero giunti dai vari aeroporti dislocati nel Nord Italia, ma
Richthofen propose di utilizzare anche un’aliquota di velivoli facendoli
arrivare dagli aeroporti basati sul territorio jugoslavo.
Pensò anche a come
cercare di confondere le idee agli Alleati, che avrebbero potuto
prevedere di subire un attacco proveniente dal nord. Ai piloti degli
Ju-88 venne così ordinato di condurre i loro bimotori lungo la costa est
dell’Adriatico puntando verso sud e poi, giunti all’altezza di bari,
virare verso ovest.
La contraerea
britannica che avrebbe potuto attendersi un attacco sarebbe stata
comunque sorpresa dalla sua direzione di provenienza.
Gli Ju-88 sarebbero
comunque stati aiutati da una nuova arma: il Duppel.
Questa era un
complesso di sottili strisce di carta stagnola, tagliate a diverse
lunghezze.
Quando le strisce
venivano scaricate nell’aria, i video dei radar alleati rilavavano la
stagnola come la traccia che normalmente lascia un aereo, producendo
però un enorme eco di bersagli fantasma.
Il compito dei
piloti era di arrivare intorno alle 19,30 della sera.
Bengala illuminanti
avrebbero subito dovuto essere paracadutati per illuminare la via ai
velivoli destinati all’attacco, gli Ju-88 sarebbero allora dovuti
arrivare bassi dal mare e giungendo nel raggio d’azione dei radar
alleati avrebbero dovuto rilasciare il Duppel creando l’inevitabile
confusione.
I piloti tedeschi
arrivarono, con la consueta precisione teutonica, sul bersaglio all’ora
stabilita.
Il primo tenente
pilota Gustav Teuber, che comandava la prima ondata di attacco fece
difficoltà a credere a quanto i suoi occhi stavano vedendo.
I docks di Bari,
con tutte le luci accese, splendevano illuminati a giorno!
Teuber poteva
vedere distintamente le sagome delle gru del porto stagliarsi nette
contro il cielo nelle luci della sera mentre scaricavano i cargo. Il
comandante tedesco riusciva a distinguere addirittura le navi con le
stive aperte e durante il sorvolo, si puntò mentalmente le banchine a
est del porto, che apparivano letteralmente ingombre di navi.
Come uccelli da
preda, gli stormi degli Ju-88 scesero in ondate successive su Bari, il
loro attacco venne illuminato dai bengala che gli aerei tedeschi del
primo gruppo avevano lanciato, ma anche dalle luci della città che non
rispettava nessuna misura particolare di oscuramento.
Le prime bombe
colpirono in particolare i quartieri della Bari vecchia, enormi geyser
di fumo e fiamme si innalzarono ad ogni esplosione, ma fu presto il
turno del porto ad essere colpito.
In quel momento
circa 30 imbarcazioni erano all’ancora, ogni equipaggio a bordo dovette
dare il meglio delle loro possibilità, nel tentativo di fronteggiare
l’improvvisa emergenza.
La sorpresa fu
totale e qualche nave non poté disporre di tutti gli uomini dei propri
equipaggiamenti in quanto molti avevano avuto il permesso di sbarcare a
terra.
Le luci dei bengala
tedeschi furono il primo ostacolo che i marinai incontrarono nel
contrastare l’attacco aereo rimanendo abbagliati.
A bordo della
“SS John Bascom”, il secondo ufficiale, William Rudolf spense
immediatamente tutte le luci della nave ed allertò il Capitano Heitmann.
La squadra addetta al servizio antiaereo si precipitò ai pezzi, unendosi
al fuoco di sbarramento che qualche batteria contraerea del porto
cominciava adesso ad aprire verso gli aggressori.
Il cielo si rigò
della luce dei traccianti e si riempì degli scoppi dei colpi sparati dai
cannoncini antiaerei inglesi.
Il fuoco di
sbarramento si dimostrò pur tuttavia largamente inefficace.
Non c’era più tempo
per tagliare i cavi di ormeggio e tentare di defilarsi mettendo le
macchine indietro; gli equipaggi delle navi ormeggiate lungo le banchine
est, attendevano invano che giungesse un aiuto da qualcuno, quando un
terrificante uragano di fuoco cominciò a cadere tutto intorno alle navi
da carico, ferme ed indifese.
La “SS Joseph
Wheeler” ricevette un colpo in pieno ed esplose in fiamme, la “SS
John Motley” fu colpita da una bomba all’altezza della quinta stiva.
La “SS John Bascom” che era ancorata subito a fianco delle due
navi colpite, fu la vittima successiva.
La nave tremò sotto
una pioggia di bombe che la colpirono letteralmente da poppa a prua.
Una di queste
esplosioni scaraventò a terra il Capitano Heitmann e la successiva onda
d’urto lo mandò a sbattere contro la porta della sala timoni.
Momentaneamente
stordito e con le mani ed il viso coperto di sangue, Heitmann cercò di
rialzarsi e nel farlo, dovette ricomporre il corpo di uno dei suoi
uomini, Nicholas Elgin, che giaceva scomposto vicino a lui, la dove
l’esplosione lo aveva gettato; il sangue gli zampillava da una profonda
ferita alla testa ed il corpo del marinaio era stato letteralmente
spogliato dei suoi abiti dalla forza dell’onda d’urto.
La plancia della
nave era parzialmente distrutta ed i ponti erano stati perforati in
molti punti; rottami e detriti erano ovunque.
Non c’era
null’altro da fare che abbandonare la nave.
Ignorando il dolore
per le proprie ferite, Heitmann ordinò all’equipaggio di ammainare le
scialuppe di salvataggio che risultavano ancora in ordine, quindi
lasciarono il relitto che intanto stava imbarcando acqua dalle falle
aperte.
L’intero porto
aveva assunto un aspetto da girone dantesco, enormi lingue di fuoco
giallo arancio si alzavano nel cielo, producendo dense colonne di fumo
acre.
Si potevano vedere
le navi colpite mentre bruciavano o lentamente affondavano.
Quando il fuoco
raggiungeva le stive cariche di munizioni, queste esplodevano con colpi
tremendi.
La superficie
dell’acqua cominciò a coprirsi di una pellicola nera e viscosa di olio e
nafta, che accecava e soffocava quei naufraghi che avevano la sfortuna
di doverci nuotare dentro.
In quel mentre,
l’equipaggio della “SS John Harvey” stava combattendo un’eroica
battaglia per salvare la loro nave.
Il cargo era
rimasto sostanzialmente intatto e non aveva subito colpi diretti o danni
da bomba, pur tuttavia era stato avvolto dalle fiamme e la situazione
era doppiamente pericolosa visto il carico delle bombe a gas che
ospitava nella stiva.
Il Capitano Knowles
ed il tenente Beckstrom insieme ad altri che si trovavano a bordo, si
rifiutarono di abbandonare il loro posto, ma il loro eroismo fu speso
invano.
Senza segnali che
facessero presagire qualcosa, la “SS John Harvey” esplose
letteralmente per aria in una enorme palla di fuoco.
Un’enorme colonna
di fumo si alzò per diverse centinaia di metri, mentre pezzi della nave
vennero scagliati tutto intorno nell’aria. Tutti coloro che si trovavano
a bordo rimasero uccisi all’istante, mentre chiunque ebbe a trovarsi nel
raggio d’azione dello spostamento d’aria, venne gettato a terra.
Gli uomini a bordo
della “USS Pumper”, una nave cisterna che trasportava carburante
avio, furono i testimoni degli ultimi minuti di vita della “SS John
Harvey”.
Essi raccontarono
che l’esplosione venne accompagnata da altissime scie multicolori che
ricordavano a molti i fuochi d’artificio del 4 luglio e di come
l’immensa colonna di fumo che si alzò dalla “SS John Harvey”
assumesse la classica forma a fungo.
L’intera area del
porto venne illuminata a giorno dal bagliore dell’esplosione.
La “USS Pumper”,
venne letteralmente spostata dal vortice di aria bollente che si creò,
facendola sbandare di quasi trentacinque gradi!
Il dramma
Intanto Heitmann e
i sopravvissuti del suo equipaggiamento tentavano di raggiungere la
punta della banchina est, girando intorno ad un fanale che era stato
posto come riferimento ai natanti in avvicinamento.
Dell’originale
equipaggio, non rimanevano che una cinquantina di sopravvissuti.
Molti erano feriti
seriamente, altri avevano ustioni in ogni parte del corpo, tanto che
ogni tentativo di soccorrerli o persino di sostenerli causava loro
enormi sofferenze.
Quando raggiunsero
il fanale pensarono di essere in salvo, ma presto capirono di non poter
più proseguire mentre l’area intorno sembrava trasformarsi in una
trappola mortale, visto che un mare di fiamme tagliava fuori Heitmann ed
i suoi uomini, dalla lunga spina che collegava la banchina est alla
città.
Decisero comunque
di rimanere nell’area ed attendere di essere soccorsi, quando il
Guardiamarina K.K. Vesole, comandante del distaccamento armato di
guardia sulla “SS John Bascom”, cominciò ad avere qualche
problema di respirazione. Molti altri uomini cominciarono ad avere un
respiro affannoso, ma fu lo stesso Vesole che cominciò a notare qualcosa
di strano circa il fumo che li circondava.
“Sento odore di
aglio” disse, senza
realizzare a pieno le implicazioni legate a quanto stava dicendo.
L’odore dell’aglio
era il caratteristico indizio rivelatore dell’iprite nell’aria.
Il gas aveva
iniziato a liberarsi, miscelato con il carburante che galleggiava nel
porto e andava mescolandosi anche con il fumo che permeava l’intera
area.
L’iprite, insieme
al carburante poi, rivestiva interamente i corpi degli sfortunati
marinai alleati che lottavano nell’acqua finirono per inalare l’iprite
gassosa.
Cominciarono a
verificarsi le prime vittime: “Generalmente il superstite era
ricoverato con ustioni seguite alla vescicazione della superficie
corporea. Veniva sottoposto alle terapie del caso a cui seguiva un
sostanziale miglioramento delle condizioni generali. Poi improvvisamente
cominciava ad accusare disturbi nella respirazione, perdeva la voce,
espettorava muco fetido e giallastro misto a sangue scolorito ed il
polso si indeboliva. Infine, nonostante tutte le misure di emergenza che
il caso richiedeva, il paziente cessava di vivere”.
In questo modo
morirono, secondo stime prudenziali di fonte americana, circa un
migliaio di civili.
Ma le stime esatte
non poterono mai essere stabilite, in quanto dopo una prima fuga dei
civili verso le aree del porto, per sottrarsi alla soffocante nube
tossica, essi diedero vita ad un vero e proprio precipitoso esodo verso
le campagne circostanti.
Se e quante furono
le vittime ulteriori nei giorni seguenti tra i profughi eventualmente
intossicati, nessuno fu mai in grado di stabilirlo con certezza.
Intanto una lancia,
inviata dal “USS Pumper” che ancora galleggiava, andò in soccorso
del Capitano Heitmann e degli altri sopravvissuti della “SS John
Bascom”, rimasti sulla banchina est.
Ma i loro maggiori
problemi iniziarono soltanto allora.
Il raid tedesco era
iniziato alle 19,30 della sera e terminò 20 minuti più tardi.
Le perdite da parte
germanica furono irrisorie e di gran lunga inferiori a quelle che erano
state le loro migliori previsioni. I tedeschi infatti, si sarebbero
attesi che gli equipaggi dei bombardieri delle prime ondate di assalto,
versassero un pesante tributo di sangue. Ma non fu così.
Diciassette navi
alleate erano nel frattempo affondate ed altre otto pesantemente
danneggiate, legando indissolubilmente Bari alla definizione americana
di una “seconda Pearl Harbor”.
Gli americani
sostennero le perdite più elevate perché vennero affondate le cinque
navi liberty: “SSJohn Bascom”, “SS John L. Motley”, “SS Joseph
Wheeler”, “SS Samuel J. Tilden”, “SS John Hervey”, gli inglesi
persero quattro cargo, i norvegesi tre, i polacchi fedeli al Governo di
Londra due e la Marina Mercantile italiana, che aveva optato per servire
in favore degli Alleati, altre tre navi.
Il mattino
successivo, ai sopravvissuti, si presentò uno spettacolo di assoluta
devastazione.
Una parte di bari
era stata ridotta in un ammasso di rovine, particolarmente colpita
sembrava l’area medievale della città vecchia.
Parti del centro
abitato e del porto stavano ancora bruciando e lunghe volute di fumo
nero salivano in cielo. Le perdite tra il personale militare e quello
della marina mercantile furono oltre un migliaio, tra morti e feriti.
Circa 800 uomini
dovettero essere ricoverati negli ospedali della zona.
Fortunatamente Bari
era la località dove gli Alleati avevano deciso di concentrare un
discreto numero di ospedali da campo con le relative attrezzature.
Il Policlinico, che
a Bari era stato edificato dal fascismo, era la sede del 98th British
General Hospital e del 3rd New Zealand Hospital. Queste due strutture
sanitarie militari, furono i principali ospedali che accolsero il
maggior numero delle persone contaminate dall’iprite.
Le vittime
dell’incursione cominciarono ad affluire, all’inizio lentamente poi in
vere e proprie ondate, fino a saturare tutte le strutture di prima
accoglienza.
Quasi
immediatamente qualcuno dei feriti iniziò a manifestare la sensazione di
qualcosa di granuloso negli occhi, seguita da bruciori e dolori.
Le loro condizioni
cominciarono subito a peggiorare nonostante tutte le misure di emergenza
adottate. I loro occhi si gonfiarono e la loro pelle cominciò a
ricoprirsi di vesciche
Sin dal 1942 gli
Alleati avevano messo a punto un kit di pronto soccorso da utilizzarsi
in caso di contaminazione.
Ma nel caso di bari
non si fece in tempo ad utilizzarli, anzi siccome il carico era coperto
da assoluta segretezza, non fu diramato nessun allarme ed il personale
medico curò le vittime per le ustioni e le conseguenze delle esplosioni.
I sanitari e gli
infermieri che avrebbero dovuto prestare la prima assistenza ai feriti,
senza nessun tipo di informazione su quanto fosse accaduto, non fecero
levare gli abiti contaminati di dosso a quei marinai che erano caduti in
acqua e che erano stati avvolti dalla letale pellicola oleosa composta
da nafta ed iprite.
Le vittime colpite
dal gas erano scosse da colpi di tosse violenti ed accusavano difficoltà
respiratorie, temporaneamente accecati, con un polso sempre più debole,
l’agonia delle bruciature veniva spesso accompagnata dai danni prodotti
dall’iprite gassosa con tremende ustioni alle ascelle, all’inguine fino
a causare la tumefazione dei genitali.
Gli uomini
iniziarono a morire e qualche medico iniziò a sospettare che un agente
chimico potesse essere una causa dei decessi sempre più numerosi.
Qualcuno puntò
subito il dito verso i tedeschi, immaginando che questi ultimi avessero
in qualche modo riesumato lo spettro della guerra chimica.
Un messaggio venne
subito spedito al Quartier Generale Alleato in Algeri, informando il
Responsabile Aggiunto della Sanità Militare, Generale Fred Blesse, che
decine di pazienti stavano morendo a Bari a causa di una misteriosa
malattia.
Per risolvere il
mistero, Blesse inviò il Lt. Col. Stewart Francis Alexander, un medico
militare inglese esperto di guerra chimica, a Bari.
Alexander esaminò i
pazienti ed intervistò quelli che riuscivano a parlare.
Iniziò subito a
pensare ad una contaminazione da iprite gassosa, ma il medico non poteva
esserne completamente certo.
I suoi sospetti
furono confermati quando un frammento di un contenitore per bomba
d’aereo venne ritrovato alle spalle del porto. Il frammento venne
identificato come una bomba americana del tipo M47A1, un modello che
poteva essere caricato a gas iprite.
I tedeschi vennero
così subito eliminati dalla lista dei sospetti ed i britannici
espressero il loro biasimo per l’accaduto, con i loro alleati americani.
Il Tenente
Colonnello Alexander, pur tuttavia, non riusciva ancora a comprendere
come e dove si fosse potuto originare l’incidente delle bombe
all’iprite.
Il medico iniziò a
conteggiare il numero dei deceduti, suddividendoli secondo gli equipaggi
originari di appartenenza.
Quindi ricostruì in
un grafico, attraverso le scarne testimonianze, la posizione della navi
nel porto al momento dell’attacco.
La maggioranza
delle vittime risultava in larga parte, proveniente dagli equipaggi
delle navi ancorate vicino alla “SS John Harvey”.
Solo allora,
davanti all’evidenza, gli americani consegnarono alle autorità
britanniche del porto, la documentazione che rivelava loro, la vera
natura del carico della “SS John Harvey”.
Alexander stilò un
rapporto dettagliato che indirizzò direttamente al Comando Supremo
Alleato, quest’ultimo venne approvato dallo stesso Generale Dwigt D.
Eisenhower.
Il segreto militare
venne posto sull’intera faccenda; si decise che nei rapporti formali con
la stampa, sia i britannici che gli americani, avrebbero potuto parlare
dei risultati devastanti del raid germanico; ma del ruolo che il gas
iprite aveva giocato nell’immane tragedia, non si sarebbe dovuta fare
menzione alcuna.
Il Primo Ministro
britannico, Winston S. Churchill, fu particolarmente scrupoloso
nell’adoperarsi affinché ogni particolare dettaglio della tragedia
rimanesse segreto.
Il suo imbarazzo
derivava innanzitutto dal fatto che l’incursione aerea tedesca era stata
condotta su di un porto sotto la giurisdizione britannica.
Churchill credeva
che la pubblicizzazione del fiasco alleato potesse rappresentare un
formidabile colpo per la propaganda tedesca.
Inoltre Churchill
prodigò i suoi sforzi perché i medici militari britannici eliminassero
dalle liste delle vittime ogni possibile riferimento che potesse legare
le cause del decesso ai danni derivanti dal gas chimico.
Al Quartier
Generale alleato, si suggerì di indicare nelle cartelle cliniche, le
ustioni chimiche con la generica denominazione “cause non ancora
diagnosticate” e di indicare per le vittime decedute la dicitura
“bruciate ins seguito ad azione nemica”.
Delle perdite
alleate, sofferte durante il bombardamento di Bari, 628 furono causate
dall’iprite.
La maggioranza
delle vittime fu rappresentata naturalmente dagli uomini della Marina
Mercantile.
Di queste, 69
morirono nelle due settimane successive all’incursione.
Molti dei colpiti
poi, come nel caso del capitano Heitmann della “SS John Bascom”,
pur sopravvivendo, dovettero essere ricoverati in strutture
specializzate, alcuni sino oltre la fine del conflitto.
Nella triste
contabilità dei morti, come abbiamo già detto, non poterono mai figurare
i civili italiani che furono contaminati dalla nube letale. Le stime
prudenziali di fonte americana, che furono all’epoca formulate, parlano
di circa un migliaio di vittime tra i civili.
L’esodo che seguì
al raid verso le campagne circostanti, impedì pur tuttavia di assommare
tutti coloro i quali morirono lontano dalle strutture sanitarie alleate.
Ancora oggi non è
possibile stimare quanti furono i morti causati anche dalle cure
inadeguate se non addirittura inappropriate.
A causa dell’enorme
numero dei colpiti, non fu nemmeno possibile stendere la sola
contabilità dei feriti temporanei.
L’equipaggio
italiano della nave da carico “Bistera”, ad esempio, scampò al
fuoco nemico e la nave rimase nelle vicinanze del porto tutta la notte
tentando di prestare soccorso alle navi vicine.
Il giorno seguente,
la nave salpò verso Taranto, ma durante la navigazione il personale
iniziò a lamentare fortissimi bruciori agli occhi e poco mancò che
l’intero equipaggio diventasse cieco, senza possibilità di arrivare
all’ormeggio in porto a Taranto.
I danni e le
vittime rappresentarono una immane tragedia, ma Bari rappresentò anche
un disastro strategico.
Il porto, dopo il
terribile avvenimento, rimase completamente chiuso per tre settimane.
Il 12 gennaio 1944,
la 5° Armata del Generale Mark Clark, lanciò un’offensiva dal fronte sud
nel contesto di un più vasto piano offensivo della Campagna d’Italia,
che prevedeva tra l’altro lo sbarco alleato ad Anzio qualche giorno più
tardi.
Elementi della 5°
Armata attraversarono il fiume Rapido e stabilirono inizialmente una
testa di ponte, l’offensiva presto si arenò e dovette essere interrotta
a causa dei mancati rifornimenti.
Ufficialmente la
causa fu sempre ricondotta alle cattive condizioni climatiche che ebbero
a verificarsi in quel periodo e che crearono dei problemi nei
rifornimenti, ma la chiusura di Bari fu probabilmente uno dei maggiori
fattori di quel fallimento.
Anche la 15th Air
Force americana ebbe a soffrire degli ostacoli creati dal successo
tedesco a Bari.
Era già stata
pianificata infatti, un’azione offensiva verso gli obiettivi della
Germania, combinata con l’8th Air Force di stanza in Inghilterra.
L’azione si sarebbe
dovuta svolgere solo due giorni dopo quello che poi risultò essere il
giorno dell’incursione aerea germanica!
Il bombardamento di
bari compromise la partecipazione della 15th Air Force in
quell’offensiva specifica e quest’ultima non poté contribuire
all’andamento del conflitto fino a dopo il febbraio 1944.
Oltre a
rappresentare un disastro strategico, Bari fu uno dei più notevoli
exploits della Luftwaffe tedesca (che per inciso non si rese mai
completamente conto del brillante risultato ottenuto).
Della tragedia
umana invece poco o nulla emerse, la stampa alleata dell’epoca
(debitamente ammaestrata) dette pochissimo risalto alla notizia
dell’incursione, dell’iprite non parlò affatto.
Le esigenze di
segretezza imposte durante il conflitto prima e le vicende del
dopoguerra legate al clima di guerra fredda poi, insieme all’ossequio
verso l’America imposto dall’Alleanza Atlantica hanno impedito agli
italiani di riappropriarsi di un pezzetto della loro storia minore.
Eppure ormai a
quasi sessant’anni esatti dalla fine del conflitto, sappiamo che in
America, Bari rappresenta oggi un esempio da studiare, da tramandare
almeno, alle generazioni dei futuri ufficiali della Marina Militare
americana.
A noi italiani
invece, preoccupati di nascondere tutti quei fatti che possono incrinare
la memoria dei nostri liberatori dispensatori di democrazia, sigarette e
cioccolato, non è rimasto nemmeno il ricordo della tragedia.
(1)
Durante le fasi della guerra aerea nel 1943, l’8th Air Force americana
che operava sull’Europa nord occidentale ( ed era di stanza in
Inghilterra), subì alcune batoste durissime nel tentativo di applicare
la recente strategia dei bombardamenti diurni “di precisione”. Il 4
ottobre, la forza aerea perse circa 60 bombardieri B-17, altri 138
furono gravemente danneggiati durante la tragica incursione sulle
fabbriche di cuscinetti a sfera Schweinfurt. La superiorità aerea nei
confronti della caccia tedesca parve perduta; diventò così impellente la
necessità di attaccare la Germania anche da sud e quindi dall’Italia.
Durante l’inverno, le forze aeree alleate vennero potenziate. Entro la
fine dell’anno fra Italia continentale, Sardegna e Corsica vennero
costruiti più di quarantacinque aeroporti, molti dei quali con piste
asfaltate o in grelle di acciaio, alcune lunghe più di un chilometro e
mezzo. Una speciale base per i rifornimenti fu aperta allora nel porto
di bari, che doveva così provvedere alle necessità di quasi 100.000
membri delle forze aeree americane. Furono costruiti oleodotti, tra cui
quello fra Manfredonia e Foggia in grado di fornire ogni settimana oltre
400.000 litri di carburante avio. Il 1 novembre il maggiore generale
James H. “Jimmy” Doolittle assunse il comando della 15th Air Force
americana, appena creata. Essa era destinata principalmente
all’offensiva congiunta contro la Germania, denominata in codice
“Operazione Pointblank”. La 15th Air Force comprendeva gruppi di
bombardieri pesanti e medi, nonché di caccia a lungo raggio con compiti
di scorta. In fase di prima costruzione essa contava inizialmente circa
500 velivoli di ogni tipo, ma già alla metà del 1944 arrivò ad includere
oltre 1.200 bombardieri pesanti! Per sostenere il solo traffico
logistico e di rifornimento di questa enorme forza furono così assegnate
alle forze aeree alleate, naviglio per oltre 300.000 tonnellate.
(2)
L’iprite è un gas vescicante, si presenta puro in forma liquida
incolore, mescolandosi con l’aria assume un colore giallo-verdastro e
presenta un caratteristico odore di aglio. E’ persistente per 1 o 2
giorni in condizioni climatiche moderate. La dose letale per
assorbimento cutaneo è di 100 milligrammi per ogni chilo di peso della
persona mentre l’indice letale per inalazione dei vapori è di 1.500
milligrammi per metro cubo di aria. Provoca danni agli occhi (miosi,
lacrimazione, ulcerazione della cornea), alla cute (vesciche e bruciore
diffuso), all’apparato respiratorio (tosse, raucedine). Il tempo di
azione è ritardato (da diverse ore a giorni). La terapia d’urgenza
prevista è quella di rimuovere la contaminazione dal soggetto. Prende il
suo nome dalla località in Belgio, Ypres appunto, dove il 22 aprile 1915
durante la prima guerra mondiale venne impiegata dai tedeschi per la
prima volta.
(3)
Era
noto che Adolf Hitler non fosse un fautore della guerra chimica, egli
infatti con i gas aveva un conto sospeso che risaliva alla notte del 13
ottobre 1918 quando come egli stesso racconta nel suo libro
autobiografico “Mein Kampf”: “un attacco di gas inglesi partì dal
fronte meridionale di Ypres. Fu usato in quell’occasione un tipo “croce
gialla” i cui effetti ci erano sconosciuti, nel senso che non li avevamo
ancora provati sul nostro corpo. Io dovetti sperimentarli quella notte
stessa. La sera del 13 ottobre noi eravamo capitati, sull’alto della
collina di Wervik, in un fuoco tambureggiante di granate a gas che durò
molte ore e continuò per tutta la notte. Verso mezzanotte parecchi
compagni ci abbandonarono, molti per sempre. Verso la mattina un dolore
acuto si impossessò di me, di quarto d’ora in quarto d’ora più atroce; e
verso le sette, barcollando, con gli occhi bruciati come carboni ardenti
da non vedere più nulla, dovetti tornarmene indietro portando con me
l’ultimo marchio della guerra…”. Questa esperienza, di cui mantenne
sempre vivo il ricordo, non impedì comunque a Hitler, appena giunto al
potere,di avviare una massiccia produzione delle cosiddette armi
chimiche. I tedeschi accumularono ingenti quantitativi di una
particolare famiglia di gas altamente micidiali, i “gas nervini”che
i loro scienziati scoprirono e a cui diedero nomi come “Soman”, “Sarin”
ed il micidiale agente chimico “Tabun”. Si trattava di gas derivati
dall’ossido di fosfina che non davano senso di bruciore, non irritavano,
erano inodore ed incolore cosicché l’individuo colpito si accorgeva di
averli assorbiti solo quando era troppo tardi. I “Gas nervini”, come
dice il loro nome, agiscono sui centri nervosi; hanno effetto immediato
o tutt’al più agiscono entro un quarto d’ora. Il soggetto colpito mostra
subito segni evidenti di inibizione dei muscoli da parte dei nervi,
perdita di muco nasale, difficoltà respiratoria, oppressione toracica,
restringimento della pupilla e oscuramento della vista, emissione di
bava, sudorazione, nausea, vomito e crampi. Convulsioni e contrazioni
muscolari sempre più violente accompagnano la vittima che cessa di
vivere dopo spasmi agonici con la cessazione delr espiro entro un paio
d’ore dalla contaminazione. Nonostante l’arsenale chimico tedesco, alla
fine del conflitto, ammontasse ad oltre 250.000 tonnellate, non venne
mai presa da Hitler o dai suoi generali, nessuna seria risoluzione di
impiego dello stesso.
Note dell’autore:
per poter meglio comprendere come le cause di questa immane tragedia
continui a costituire un concreto pericolo, accludiamo per
l’approfondimento del lettore, una parte degli atti stenografici dei
lavori alla Camera del 22 marzo 2002 relativi ad una interrogazione
parlamentare in cui si fa specifico riferimento alle continue cause di
intossicazione (e persino di morte), patite ancora oggi dai pescatori
pugliesi. Riferimento internet
www.camera.it/dati/leg14/lavori/stenografici/sed 121)
Allegato B
Seduta n. 121 del 22/03/2002
INTERROGAZIONI PER
LE QUALI E’ PERVENUTA RISPOSTA SCRITTA ALLA PRESIDENZA
DELMASTRO DELLE
VEDOVE e GIANNI MANCUSO – Al Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio. –
Per sapere –
premesso che: il 2 dicembre 1943 la Luftwaffe scatenò un terribile
bombardamento del porto di ari, che, quel giorno, ospitava un gran
numero di navi alleate; i danni inflitti alla marina da guerra alleata
furono ingenti; in particolare venne colpita ed esplose la nave John
Harvey; pare che la John Harvey avesse un carico di iprite,
che, benché vietato dalle convenzioni di Ginevra, doveva essere usata
contro le forze dell’Asse; si manifestarono subito ustioni, lesioni
della pelle e morti improvvise; dal 1946 ad oggi si sono verificate solo
tra i pescatori di Molfetta, 236 casi di intossicazione, di cui cinque
mortali, dovendosi precisare che il dato è riferito ai soli
marittimi iscritti alla cassa malattie dei marinai; alcuni casi si sono
registrati ancora lo scorso anno; nessuno ha mai appurato la verità - :
se non ritenga necessario accertare se effettivamente la nave alleata
John Harvey, affondata nel porto di bari il 2 dicembre 1943, avesse
un carico di iprite, sostanza abbandonata in mare; per sapere inoltre se
i casi di intossicazione lamentati nel corso dei decenni siano
sintomatologicamente riferibili all’iprite e se, comunque, non debba
essere valutata la necessità di un intervento di bonifica (4-00618)
Risposta. – In
riferimento all’interrogazione in oggetto, si deve preliminarmente
confermare che fonti dell’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e
Tecnologica Applicata al Mare (ICRAM) confermano le circostanze asserite
dagli interroganti relativamente all’affondamento, nel dicembre 1943,
della nave John Harvey; stanziata nel porto di Bari, il cui carico era
costituito, tra l’altro, da bombe d’aereo caricate con iprite. Ciò
premesso, è doveroso segnalare che recenti indagini, programma di
ricerca ACAB (Armi Chimiche Affondate e Benthos), hanno consentito la
mappatura di quattro aree del Basso Adriatico, vaste decine di miglia
quadrate e ubicate, con significativa certezza, fuori dalle acque
territoriali, interessate dalla presenza di almeno ventimila residuati
bellici a natura chimica, cui far risalire, sulla base di alcuni
campioni prelevati in prossimità di ordigni corrosi, danni e rischi per
gli ecosistemi marini e per le attività legate alla pesca e alla
successiva commercializzazione.
--------------------------------------------------------------------------------------------
In tali già
compromesse condizioni, un’eventuale soluzione di bonifica dei
vastissimi habitat marini coinvolti, ancorché auspicabile in linea di
principio, si deve accompagnare alla ponderazione dei rischi ambientali
connessi alla rimozione degli ordigni a causa, principalmente, della
possibile rottura degli involucri metallici con la conseguente
fuoriuscita di sostanze inquinanti in quantità nettamente superiori alle
perdite attuali, valutando oltremodo gli aspetti legati all’operatività
al di fuori delle acque territoriali. A ciò si unisce una valutazione di
ordine più strettamente giuridico, considerato che un mandato operativo
dell’ampiezza che si prospetta necessita, di un’espressa previsione
normativa cui associare uno specifico stanziamento, certamente rilevante
ma la cui entità rimane da determinare. A tale fine, per una valutazione
orientativa, si aggiunge che nella passata legislatura è stato elaborato
un piano dall’ICRAM, articolato in due distinte fasi: bonifica “pilota”
integrale dell’area già attentamente monitorata (un rettangolo di mare
di circa 10 miglia quadrate di estensione); e l’avvio di una campagna di
monitoraggio di dettaglio delle ulteriori aree limitrofe, già
individuate come luoghi di discarica di bombe, al fine di successive
bonifiche. Tale piano prevedeva una apposita scorta finanziaria
complessivamente ammontante ad oltre 11 mld di lire. Comunque sarà
necessario un coinvolgimento di tutte le Amministrazioni centrali
interessate (Difesa, Affari Esteri, Politiche Agricole e Forestali).
Il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio: Altero Matteoli.