Sicilia 1943, coraggio italiano e massacri USA

Sbarco delle forze del nemico americano a Gela.
I CRIMINI DI GUERRA DEL NEMICO INVASORE ANGLO-AMERICANO!
I CRIMINI DI GUERRA DEL NEMICO INVASORE ANGLO-AMERICANO!
Se
i generali italiani si fossero prodigati per vincere la guerra con la
stessa determinazione che impiegarono per perderla, la Seconda guerra
mondiale probabilmente si sarebbe conclusa con una rapida vittoria
dell’Asse. Questa amara considerazione, che svolse lo stesso Mussolini
all’indomani dell’8 settembre, non è un refrain revisionista,
ma una realtà di fatto da lungo tempo acquisita dalla storiografia. Ma
tenuta ben nascosta dalla casta degli storici antifascisti e
“democratici”. Quanto scrisse Antonino Trizzino negli anni Sessanta in
due libri esplosivi come Navi e poltrone e Settembre nero
appartiene a una delle pagine più vergognose della nostra storia. In
questi due decisivi documenti si esponevano fatti, non chiacchiere. E si
dimostrò che gli alti comandi della Marina Militare vollero la
sconfitta. Collaboravano segretamente con gli inglesi, passavano
direttamente a Londra informazioni militari riservate e boicottavano le
iniziative italiane. Molti ammiragli avevano mogli americane e inglesi e
lavoravano alacremente per i nostri nemici.
Disastri decisivi come l’attacco inglese
al porto di Taranto nel novembre 1940 – che mise fuori combattimento
metà della nostra flotta, senza che venisse sparato un colpo a difesa –
oppure come la battaglia di Capo Matapan del marzo del 1941 – che costò
tre incrociatori e la morte di tremila marinai – sono stati ricondotti
al comportamento degli alti gradi della Marina italiana, che avevano
semplicemente passato tutte le informazioni al nemico. Personaggi come
l’ammiraglio Bragadin, che non mosse un dito per contrastare gli inglesi
a Taranto (che conoscevano esattamente la dislocazione di tutte le
navi, dalle corazzate alle corvette), fino all’ammiraglio Lais, che
consegnò pari pari a una spia inglese tutti i cifrari della nostra
Marina, dando il via libera agli inglesi a Matapan: di questa sostanza
era il nocciolo dirigente di una forza militare – la flotta italiana –
ai tempi molto potente e temutissima, e che poteva vantare la squadra di
sommergibili più forte del mondo. Ma che fu strozzata dalla stessa
Supermarina: inerzia, codardia e tradimento furono i segni distintivi di
quei comandi.
Trizzino riportava, tra l’altro, il caso
del famoso agente americano Elis Zacharias che, infiltrato dal 1942 nei
nostri servizi segreti, poteva contare su larghissime complicità
nell’Alto Comando Navale italiano. Le sue testimonianze avevano
dell’incredibile: «gli era persino possibile influire perchè la flotta
italiana non intervenisse in un’azione, se così conveniva agli Alleati».
Lo stesso Zacharias spiegò nel dopoguerra che questo andazzo durava fin
dall’inizio delle ostilità. I servizi segreti britannici, in verità già
da molto prima del 10 giugno 1940, potevano contare sull’accesso
diretto ai nostri codici e alle nostre disposizioni direttamente da
Roma.
Con un simile stato di cose, non
meraviglia che una flotta come quella italiana – che non faceva dormire
sonni tranquilli a Churchill e a Cunningham – se ne sia rimasta
inutilizzata e sulla difensiva per tutto il corso della guerra, anche
quando il rapporto di forze nei confronti degli inglesi – come
nell’estate 1940 – era nettamente a nostro favore. Quando poi venivano
impegnati per forza e controvoglia in battaglia, i comandi della nostra
Marina dimostrarono regolarmente una spiccata tendenza alla
vigliaccheria o alla fuga pura e semplice davanti al nemico.
Sono più che noti i casi criminali di
Pantelleria e della piazzaforte di Augusta. Due basi inespugnabili. Che
preoccupavano non poco Eisenhower. L’11 giugno 1943 Pantelleria si
arrese agli angloamericani senza sparare un colpo. Si trattava di una
base munitissima, con artiglierie appostate entro grotte al riparo dagli
attacchi aerei. I fortissimi bombardamenti alleati praticamente neppure
la scalfirono: su una guarnigione di 7400 uomini ben armati, ci furono
trentasei – diconsi trentasei – soldati caduti. Tanto bastò per alzare
bandiera bianca e per consegnare intatto tutto l’armanento, ivi compreso
l’hangar corazzato rimasto illeso.
Il valoroso ammiraglio Pavesi ne ordinò
la resa incondizionata, facendo credere a Mussolini che la base era
andata completamente distrutta. Ad Augusta invece, dove c’erano le
batterie costiere più potenti del Mediterraneo, si fecero saltare le
difese prima ancora che gli Alleati apparissero all’orizzonte, il 10
luglio seguente. Bisogna ammettere che nessun popolo al mondo avrebbe
potuto sostenere il peso di comandi militari di così pronunciata
codardia e di così convinta dedizione al tradimento.

Tuttavia, ci fu anche l’altra faccia
della medaglia. Descrivendo la battaglia che si ingaggiò a Gela dal 10
luglio ‘43, in cui sparute forze italiane e tedesche dovettero
fronteggiare la flotta d’invasione più gigantesca che fino ad allora si
fosse mai vista, Augello afferma che «i battaglioni costieri hanno fatto
molto più del loro dovere», riportando perdite gravissime, che
testimoniano di una resistenza inizialmente molto tenace. In due giorni
di lotta, a Gela rimasero sul campo più di duemila soldati e oltre
duecento ufficiali italiani. Tanto che «i fatti dimostreranno come
pochissimi alti ufficiali, demotivati e imbelli, basteranno a gettare
un’ombra, soprattutto ad Augusta e a Palermo, sul valore,
complessivamente buono e a volte straordinario, dei difensori
dell’isola». Lo stesso fenomeno delle diserzioni, nei primi giorni, fu
contenuto nei limiti fisiologici di ogni esercito. Ma fu soltanto col
tracollo psicologico del 25 luglio che, sull’esempio dei comandi che si
dettero alla fuga in zona di operazioni, si ebbe uno squagliamento
generale delle truppe: per dire, nell’agosto, la sola divisione
“Assietta” denunciò la diserzione di oltre novemila elementi. Tali
sintomi preannunciarono il disfacimento completo dell’8 settembre.
Eppure, prima dello sfacelo, per qualche
giorno la battaglia di Gela, e con essa l’intero scacchiere siciliano,
rimasero in bilico su chi fosse il vincitore. Augello riporta che,
nonostante lo strapotere aereo, la potenza di fuoco della flotta che
batteva le linee costiere e la grande superiorità di mezzi degli
americani, la serie dei nostri contrattacchi locali arrivò a un soffio
dal riportare una clamorosa vittoria. Modesti reparti corazzati leggeri
italiani riuscirono a rientrare a sorpresa nel centro di Gela, mentre
alcune colonne della divisione Hermann Goering si riportarono in vista
della spiaggia. Tanto che nella mattinata del giorno 11 luglio, come
risulta da un controverso radiomessaggio americano intercettato dagli
italiani, il generale Patton in persona avrebbe addirittura ordinato il
reimbarco. Vero o falso, è un fatto che in quelle ore «c’era molta
confusione tra le file americane e molti reparti ripiegavano con un
certo disordine verso le spiagge». La mancanza di riserve adeguate e
soprattutto il mancato coordinamento tattico tra italiani e tedeschi
(vecchia piaga di tutta la guerra) permise agli americani di cavarsela. E
questo nonostante il fatto che fossero afflitti da una storica
inefficienza: anche in Sicilia, come più tardi accadrà in Normandia e ad
Arnhem, si ebbe ad esempio il caso di lanci massicci quanto dissennati
di paracadutisti: nella sola zona di Scicli, come documenta Augello, gli
italiani ne catturarono o eliminarono oltre duecento.
La battaglia di Gela fu molto più
importante di quanto di solito la storiografia riporti. Il suo
svolgimento, qualora il coraggio e l’iniziativa italiana (i tedeschi in
zona erano presenti solo con pochi e inesperti reparti della Hermann
Goering) non fossero stati il frutto di isolati ufficiali, ma di una
strategia globale, dimostra che anche con pochi mezzi gli americani
potevano essere battuti. Del resto, è storia del Novecento ed anche
odierna: quando l’esercito USA – abituato ad affidare all’arma aerea il
lavoro grosso e non aduso a battaglie campali – viene affrontato da
piccole, ma tenaci unità fortemente motivate, soffre e va in confusione,
e non di rado non viene a capo della situazione e alle volte perde
anche qualche guerra importante.
A lato dei fatti d’arme, abbiamo poi il
capitolo legato ai massacri portati a termine dai “liberatori”. Sulla
scorta di una dichiarazione di Patton ai suoi ufficiali nei giorni
precedenti lo sbarco, intesa a raccomandare di non fare prigionieri tra
gli italiani, i soldati USA si comportarono di conseguenza. Caso
emblematico è il noto crimine di guerra consumato dagli americani a
Biscari, quando una settantina di prigionieri italiani vennero
massacrati e finiti con un colpo alla nuca. Ci furono violenze sui
militari e sui civili, che si sommarono agli inutili bombardamenti di
intere zone prive di interesse militare e ai mitragliamenti a bassa
quota di contadini, carretti, biciclette, secondo una prassi
“democratica” che avrà il suo apogeo nel prosieguo della guerra, in
tutta Europa. Augello commenta: «La strage dei prigionieri italiani è
quindi solo l’estrema conseguenza di una catena di violenze che non
risparmia le donne e che vede nell’annientamento dei prigionieri la
spietata vendetta per le perdite subite».
Registriamo, nel concludere, alcune
considerazioni di Augello relativamente al comportamento dei civili
siciliani nei confronti dei “liberatori”. Egli in qualche maniera
corregge l’immagine che tutti abbiamo in ricordo dei filmati visti tante
volte: masse di popolani che accolgono gli angloamericani, anziché a
fucilate, a braccia aperte, con gesti e atteggiamenti servili. L’autore
afferma che in larga parte questi comportamenti furono un lavoro della
mafia, che procurò picciotti in quantità per le necessarie
manifestazioni di giubilo. Può essere. E aggiunge che, d’altra parte, la
Sicilia nel 1944-45 «fu l’unica regione italiana in cui si verificarono
manifestazioni e persino violenti episodi insurrezionali contro il
governo Badoglio, che culminarono in sanguinosi atti di repressione».
Anche la guerra in Sicilia, insomma, ha bisogno di un bel bagno
revisionista.
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