Identificate Civiltà e Democrazia, quella del 1939 fu presentata come la guerra per la Civiltà
di Francesco Lamendola
Si
suol dire che la seconda guerra mondiale, molto più della prima, è
stata una guerra totale, perché “ideologica”; e si dice una cosa
sostanzialmente giusta.
Come in tutte le guerre totali, le due parti
in lotta non si sarebbero accontentate di nulla di meno della resa senza
condizioni dell’avversario; e ciò si vide, fra l’altro, alla conferenza
di Casablanca del gennaio 1943, premessa della tragedia italiana
culminata con la disintegrazione dell’8 settembre (cfr. il nostro
articolo: «Fu la pretesa della resa incondizionata che spinse la
Germania a una resistenza insensata», sul sito di Arianna Editrice in
data 18/02/2010).
In genere, però, gli storici della Vulgata
democratica si guardano bene dal dire che, a partire dal 1936, potenti
forze ideologiche - la triplice Internazionale massonica, comunista ed
ebraica, più i consiglieri di Roosevelt, in gran parte ebrei - avevano
lavorato con il massimo impegno per persuadere l’opinione pubblica
americana, britannica e francese che Democrazia e Civiltà erano sinonimi
e che, quindi, era necessario intraprendere una crociata contro i
fascismi per salvare la Civiltà sul nostro pianeta.
Alle origini
della seconda guerra mondiale, pertanto, vi è - oltre a quelle già note e
ampiamente studiate dagli storici - una componente, se non proprio
occulta, quanto meno sottaciuta: una componente squisitamente
ideologica, che deriva dalla ferma volontà delle forze “progressiste”,
in realtà manovrate da centrali semi-sommerse (la Grande Loggia di
Londra, il Comintern, la Borsa di Wall Street) di scatenare una guerra
all’ultimo sangue contro l’Asse Roma-Berlino, per debellare dalla faccia
della Terra tanto la risorgente potenza tedesca, quanto quella
italiana; e, più ancora, l’esempio sgradito di una terza via fra
capitalismo e comunismo.
Con ciò non si vuol dire che Hitler fosse un
agnellino che coltivava un candido sogno di pace (quanto a Mussolini,
tutti gli storici onesti sono giunti ormai da tempo alla conclusione che
egli non voleva la guerra, e tanto meno il trionfo unilaterale della
Germania).
Il mestiere di storico, tuttavia, non guarda in faccia a
nessuno e non consente di fare sconti a nessuno: per cui, se è vero che
non si può seriamente sostenere che Hitler non si proponesse di
scatenare una guerra europea per realizzare le sue aspirazioni
egemoniche, è altrettanto doveroso aggiungere che dall’altra parte,
ossia dalla parte delle democrazie e da quella dell’Unione Sovietica, si
perseguiva la guerra con altrettanta determinazione.
Anzi, forse
bisognerebbe dire: con maggiore determinazione; perché, se le ambizioni
di Hitler erano compatibili con la sopravvivenza dell’avversario (in
particolare dell’Impero britannico), e sia pure dopo averlo fortemente
ridimensionato, i progetti delle forze massoniche, comuniste ed ebraiche
le quali volevano la guerra ad ogni costo contro Hitler, non
prevedevano niente di meno che la totale distruzione sia del nazismo (e
del fascismo), sia della Germania (e dell’Italia).
Per tali forze, la
guerra contro il nazifascismo non era una guerra qualsiasi, ma una
guerra per la Civiltà, con la “c” maiuscola: vale a dire, né più né meno
che una guerra di religione, sullo stile delle Crociate medievali. In
una guerra di Civiltà, la parte che risulta soccombente non viene
soltanto ridimensionata: viene spazzata via dalla faccia della Terra.
Tale fu la sorte dei Sassoni sotto la spada di Carlo Magno, tale quella
dei Lituani sotto la spada dell’Ordine Teutonico; tale, infine, quella
di Aztechi ed Incas sotto la spada dei “conquistadores”.
Bisogna
essere onesti: fin dal 1936, a Washington e a Londra, era stata decisa
la guerra all’ultimo sangue contro il Terzo Reich ed il suo maggiore
alleato, l’Italia di Mussolini (vale a dire molto prima dell’"Olocausto"
e perfino due anni prima della “notte dei cristalli”); così come fin
dal 1990 fu decisa, sempre a Washington e Londra, la guerra all’ultimo
sangue contro l’Iraq di Saddam Hussein - anche se bisognerà aspettare
fino al 2003 per vederla realizzata.
Ma, puntualmente, intorno al
presidente repubblicano Bush junior troveremo - come già intorno al
democratico Roosevelt - uno staff di consiglieri ebrei: primo fra tutti
quel Paul Wolfowitz che, oltre ad essere stato il vero regista della
Seconda guerra del Golfo, ha sempre conservato la doppia cittadinanza,
statunitense ed israeliana. A quale altro ministro di quale mai Stato al
mondo, si sarebbe concessa una cosa del genere?
Le democrazie, data
la strapotenza delle loro finanze, non hanno fretta; ma, una volta che
abbiano segnato un regime politico ed uno Stato sulla loro lista nera,
prima o dopo si può essere certi che colpiranno a morte, dopo aver
predisposto una immensa campagna mediatica per convincere l’opinione
pubblica mondiale della assoluta giustizia e ineluttabilità
dell’operazione - beninteso, in nome della Civiltà contro la Barbarie.
Un’altra cosa.
Nel
1936 (come nel 1990) l’opinione pubblica mondiale non avrebbe accettato
l’idea di una guerra che non fosse “progressista”: bisognava, quindi,
persuaderla che la posta in gioco non erano gli interessi di Wall Street
e della City londinese, ma il bene inestimabile della democrazia e,
quindi, della Civiltà. Bisognava fare in modo che l’opinione pubblica
politicizzata, che era essenzialmente di sinistra, vedesse nelle forze
dell’Asse l’ultimo bastione del mostro agonizzante, ma ancora
pericoloso: il capitalismo reazionario.
Non era così, anzi è vero il
contrario: fascismo e nazismo (il primo specialmente) erano alternative
mondiali sia al capitalismo che al comunismo (discutibili fin che si
vuole, ma questo è un giudizio di valore); eppure, ancora oggi, gli
storici della scuola marxista presentano il fascismo e il nazismo come
la punta estrema del capitalismo imperialista nel suo assalto al potere
mondiale, secondo il modello teorico tracciato da Lenin per la prima
guerra mondiale con «Imperialismo, fase suprema del capitalismo».
Eppure, nessuna legislazione “democratica” si è mai spinta tanto avanti,
sulla via della socializzazione, come il Manifesto di Verona della
Repubblica Sociale Italiana del novembre 1943. E anche quest’ultimo è un
fatto che può piacere o non piacere; ma che resta pur sempre un fatto,
non una speculazione.
Di nuovo: nessuna semplificazione arbitraria,
nessuna forzatura per leggere i fatti della storia a senso unico.
Sarebbe estremamente ingenuo pensare, come lo pensava Drieu La Rochelle,
che le SS hitleriane rappresentassero il “vero” comunismo; pure, vi è
qualche fondamento nel leggere il fenomeno fascista anche - e
sottolineiamo anche - come la ricerca di una terza via fra capitalismo e
marxismo, tra individualismo borghese e collettivismo bolscevico. E nel
ritenere che le tre Internazionali di cui si è detto fossero più che
mai desiderose di annientare una simile terza via, per poi giocarsi la
partita mondiale tra di loro, come infatti è accaduto.
Ha scritto, in
proposito, Jacques Ploncard d’Assac in «Apologia della reazione»
(titolo originale: «La Réaction», traduzione italiana di Antonio De
Silva, Milano, Le Edizioni del Borghese, 1970, pp. 115-119):
«Quando
oggi si parla del fascismo, e intendo con questa parola la grande
corrente d’idee che, dalla prima metà del XX secolo, rimise in
discussione i principi della Rivoluzione francese, sembra comunemente
ammesso che il mondo indignato insorse spontaneamente e che la Crociata
delle Democrazie fu un grande movimento popolare.
Nulla di tutto
questo. La guerra fu il risultato di ciò che Jean Montigny chiama “Il
complotto contro la pace” (Paris, 1966; traduzione italiana “La congiura
contro la pace”, Milano, Le Edizioni del Borghese, 1967).
Il 14
luglio 1935, in una grande manifestazione in piazza della Bastiglia, i
dirigenti del Fronte Popolare facevano acclamare “la grande pace umana”.
Quattro anni dopo, gli stessi trascineranno la Francia nella guerra.
“Come
spiegare il repentino mutamento?” si chiede Montigny, e risponde: “Con
le pressioni convergenti”, quella degli ebrei, dei socialisti, dei
frammassoni e del brain-trust di Roosevelt, “composto soprattutto di
israeliti antinazisti”. Tutti questi elementi passionali “finiscono per
creare a Washington e nel Partito Laburista britannico, nei partiti
della sinistra francese, la volontà di predicare una nuova crociata
delle democrazie per far trionfare i suoi ideai anche a costo di una
grande guerra europea”.
L’Europa era allora sulla via di un
mutamento. Settori sempre più vasti dell’opinione pubblica guardavano
la democrazia come il regno del Denaro. Un antisemitismo diffuso
esprimeva in maniera semplicistica questa presa di coscienza
dell’esistenza di presenze occulte che deviavano a loro profitto le
istituzioni politiche. L’Europa, lentamente dopo il 1926, rapidamente
dopo il 1936, scivolava verso il fascismo.
L’abilità della sinistra
fu di travestire questo movimento agli occhi delle masse come l’ultimo
sforzo del Capitalismo per salvare i suoi privilegi. Poi, rapidamente,
attraverso una deformazione sistematica delle informazioni, il fascismo
fu trasformato in un mostro sotto la dittatura del quale la vita non
valeva la pena di essere vissuta. La pace stava per essere denunciata
come complice del fascismo e lo scrittore ebreo Julien Benda scriverà:
“La civiltà potrebbe perire nella pace se la pace si stabilisse con
l’egemonia nel mondo di concetti che sono esattamente la negazione
della civiltà. Forse perirebbe anche più sicuramente. Infatti, nella
guerra, almeno la civiltà si difenderebbe forse vittoriosamente.”
Così,
identificata Civiltà e Democrazia, la lotta per la democrazia stava per
essere presentata come la lotta per la Civiltà. Uno scrittore ebreo,
come Jean-Richard Bloch, ha colto meglio di ogni altro il carattere
profondo della Seconda Guerra Mondiale. “L’èra delle guerre religiose è
aperta “, scrive, “razza contro razza, continente contro continente,
filosofia contro filosofia. Saranno molto più crudeli delle antiche
guerre di popoli e di nazioni. Saranno di misura mondiale, una immensa
guerra civile…”
È drammatico, quando si esaminano i quattro anni che
vanno al 1935 al 1939, accorgersi che in almeno dieci occasioni la
guerra avrebbe potuto essere evitata. Prima nel 1936, quando Hitler
rioccupa la Renania, in risposta all’alleanza militare che la III
Repubblica aveva allora firmata con Stalin. La politica antitedesca che
implicava l’accordo con Mosca implicava anche che il governo di Parigi
non tollerasse la rioccupazione della Renania. Ma, mentre la sua azione
diplomatica è tutta intera diretta contro la Germania
nazional-socialista, non intraprende nulla sul piano operativo, assiste
alla rioccupazione della Renania e dà lo spettacolo di una vana
verbosità. Hitler ne deduce che potrà spingere più lontano la revisione
del Trattato di Versailles, con limitati atti di forza. Mussolini ha
coscienza del pericolo che un tale stato di cose non tarderà a
presentare. Il 4 giugno 1936, fa sapere a Léon Blum, allora capo del
governo del Fronte Popolare, di essere pronto a esaminare una comune
politica con Parigi. Incarica Bertrand de Jouvenel di un messaggio per
Blum.
“Ditegli che v’è una forte spinta per il rimaneggiamento della
carta d’Europa, che questa spinta viene da Berlino, non si può negare un
dinamismo come quello, bisogna incanalarlo, inquadrarlo, moderarlo…
Bisogna impedire alla Germania di sconvolgere l’Europa; non rifiutandole
tutto, il che è assurdo, ma vietandole di eccitarsi. Se Blum vuole
riprendere questa politica, io sono pronto… Avete lasciato per iattanza
e debolezza rioccupare la Renania; i tedeschi la fortificheranno. Non
potrete più intervenire nell’Europa centrale. Io con la mia
cooperazione promessa alla Francia vi do il solo mezzo che abbiate ormai
per intervenire. Passando per il Piemonte, col concorso dell’esercito
italiano, potete andare a difendere la Cecoslovacchia; con me,
difenderete l’Austria! Non v’è altro mezzo per arrestare la Germania
nella conquista dell’Europa centrale. Ditelo al signor Blum. Firmo un
trattato domani, se vuole.”
Blum rifiuta e dirà a Malvy: può darsi
che l’interesse DELLA FRANCIA sia nell’intendersi con Mussolini per
evitare il peggio, ma è una politica che io non posso fare; io sono il
capo del Fronte Popolare… non posso fare proposte a Mussolini, né
accettare le sue. Il meccanismo psicologico che condurrà alla seconda
guerra mondiale è messo in moto. I problemi non sono esaminati da un
punto di vista razionale, ma in una luce IDEOLOGICA. Da allora, ogni
incidente tenderà alla costituzione di due blocchi irriducibili , e
tutte le azioni di ognuno mireranno alla distruzione del blocco avverso.
La guerra è già cominciata.
La seconda guerra mondiale è stata
voluta da Stalin? È al Kremlino che sono stati predisposti tutti i
tranelli nei quali Hitler, come le democrazie cadranno successivamente?
V’è più di un principio di risposta nel libro di Montigny, vi sono le
prove. Prima di tutto un rapporto del genere Sschweissguth, di ritorno
dalla Unione Sovietica, del quale ecco la conclusione: “Il governo
sovietico, considerando due ipotesi di un conflitto, vuole trovarsi in
ciascuna di esse nella posizione più favorevole. Nel caso in cui fosse
attaccata dalla Germania, l’URSS vorrebbe avere al suo fianco una
Francia forte e fedele. MA PREFERIREBBE MOLTO CHE LA BUFERA SCOPPIASSE
SOPRA LA FRANCIA. Sembra da qualche tempo che giuochi questa carta. Una
guerra tra Francia E Germania avrebbe il vantaggio di lasciare, PER
MANCANZA DI FRONTIERE COMUNI, QUASI TUTTE LE FORZE SOVIETICHE FUORI DEL
CONFLITTO e di fare dell’Urss come degli Stati Uniti nel 1918,
l’arbitro della situazione di fronte a una Germania sfinita da una lotta
che Voroscilov prevede spietata. Per attuare questo progetto bisogna
tentare a un tempo la Germania e la Francia…»
Il vero storico,
dicevamo, non fa sconti a nessuno e non si sforza di sostenere alcuna
tesi precostituita, ma esamina imparzialmente le ombre e le luci di ogni
vicenda, da entrambi i lati della barricata. Il fatto che l’ebreo Léon
Blum rifiutasse un patto di collaborazione con Mussolini per frenare,
nel 1936, la sua spinta verso l’Austria e la Cecoslovacchia; e che lo
facesse non già in base a considerazioni di interesse nazionale, ma a
considerazioni di politica interna inerenti alla stabilità del proprio
governo, la dice lunga su quel fronte europeo antifascista che la
maggior parte degli storici ci hanno sempre presentato come spontaneo e
disinteressato, unicamente preoccupato di arrestare la pericolosa marcia
di Hitler verso il dominio dell’Europa.
La realtà è molto diversa.
Il
Fronte Popolare francese, come pure il Partito laburista inglese e la
centrale moscovita del Comintern, nonché l’entourage politico-militare
del presidente Roosevelt, tutte queste forze avevano deciso fin dal
1936 “Germania delenda”: non erano affatto preoccupate per la pace, ma
anzi desiderose di scatenare la guerra per distruggere Hitler e il suo
socio Mussolini (che fino al 24 ottobre 1936 non era ancora tale, e lo
divenne per l’insipienza di Parigi e soprattutto di Londra, la quale già
nel 1935, con l’accordo navale anglo-tedesco, aveva provocato la
dissoluzione del “fronte di Stresa”).
Questa chiave interpretativa
potrebbe indurre a rivedere alcuni momenti-chiave del quadriennio che
precedette la seconda guerra mondiale (dichiarata, non lo si dimentichi
mai, da Gran Bretagna e Francia per onorare una dubbia “cambiale in
bianco” al governo semifascista polacco, e mentre Stalin si accingeva a
fare la parte dell’avvoltoio); in particolare, i retroscena della
Conferenza di Monaco del settembre 1938.
Si è sempre detto e
sostenuto che Chamberlain e Daladier si lasciarono prendere per il naso
da Hitler, con la mediazione di Mussolini, e che subirono la “vergogna”
di quella resa in un ingenuo, ma generoso ed estremo tentativo di
salvare la pace: e ciò perché avevano acconsentito che ben tre milioni e
mezzo di Tedeschi dei Sudeti si staccassero dalla Cecoslovacchia per
rientrare in seno alla loro naturale madrepatria.
Ma è proprio vero?
Forse
la realtà è più semplice e più prosaica: forse, semplicemente, i tempi
del riarmo della Francia e della Gran Bretagna ed il prevalere, negli
Stati Uniti d’America, di uno stato d’animo isolazionista fra la maggior
parte dell’opinione pubblica, consigliavano di rinviare ancora un poco
quell’assalto alla “fortezza Europa” che, di fatto, gli Alleati
avrebbero scatenato vittoriosamente solo il 6 giugno 1944, con lo sbarco
in Normandia.
A quell’epoca, però, l’Armata Rossa di Stalin,
inesauribilmente rifornita di armi e materiali strategici dai banchieri
di Wall Street, stava già marciando verso il cuore dell’Europa da
oriente, e si accingeva a sottomettere una buona metà del continente:
più di quanto non fosse mai riuscito alle armate russe del passato,
perfino agli eserciti dello zar Alessandro I dopo la sconfitta di
Napoleone nella battaglia di Lipsia.
Quel che ha sofferto poi
l’Europa, in termini morali e materiali, a causa di quella duplice
“liberazione” - dalla Manica e dal fronte russo - comincia solo adesso a
venir messo a bilancio, perché una storiografia ideologica e partigiana
si è limitata, per tutti questi decenni, a battere solo la grancassa
dell’attivo, tacendo deliberatamente i durissimi costi e le amare
perdite.