giovedì 25 novembre 2021

LA DIFESA DEI CONFINI ORIENTALI


 

LA DIFESA DEI CONFINI ORIENTALI                    


IL COSIDDETTO PIANO "DE COURTEN" E LA DIFESA DEI CONFINI ORIENTALI
Sergio Nesi
 
 
    Chi era l'ammiraglio di Squadra Raffaele De Courten è inutile spiegarlo. Per questa vicenda interessa solo il De Courten Ministro della Marina nel governo Bonomi del Regno d’Italia, al Sud, nel periodo 1944-45.
    Cosa era "il Piano De Courten" è invece alquanto difficile da spiegare tutto perché fu così chiamato da personaggi del Nord (e più precisamente della Marina della RSI) un progetto nato al Sud.
    In breve, si trattava di studiare un piano di sbarco in Venezia Giulia ed in Istria di reparti del Sud in accordo con la Marina della RSI e con la X Flottiglia MAS in particolare.
    Come al Nord si sia venuti a conoscenza di questo piano e chi ne abbia portato i contenuti attraverso le linee del fronte è ancora tutto da scoprire. Di certo è che a quel piano di sbarco fu immediatamente abbinato il nome di De Courten e che i messaggi inviati alla Marina della RSI erano indubbiamente di De Courten.
    Da qui è nato un equivoco che chiarirò in seguito, ritenendo necessario procedere per argomenti omogenei.
 
a) Lo "sbarco" visto dal Nord
 
    Il comandante M.O.V.M. Junio Valerio Borghese, nel riferire sui rapporti con le Autorità del Sud, ha elencato le persone che avevano preso contatto con lui durante i 20 mesi di vita della RSI e della X Flottiglia MAS: il prof. Baccarini - il maggiore medico della R. Marina Potzolu - il tenente medico R. Esercito Cino Boccazzi - il t.v.r.m. Marino Zanardi - il Capitano g.n.r.m. R. Marina M.O.V.M. Antonio Marceglia - l' ing. Giorgis. Per ognuno di essi ha narrato gli scopi della loro missione, nessuno dei quali, però, era relativo ad uno sbarco da proteggere. De Courten raccomandava solo che la X Flottiglia MAS e la Marina della R.S.I. si opponessero alle armate comuniste di Tito in difesa dei confini orientali, raccomandazione inutile, in quanto quello che era possibile fare era già stato fatto in maniera autonoma dall'amm. Sparzani e dal com.te Borghese.
    "I presidi possibili erano stati installati in pieno territorio controllato dall'amministrazione tedesca (ma in realtà austriaca) dell'"Adriatische Kustenland" come ho già scritto a suo tempo (v. "Decima flottiglia nostra..." Ed. Mursia 1986).
    I reparti della X erano stanziati:
-A Trieste il Btg. "San Giusto" al comando del c.c. Ezio Chicca, con comandante in 2a il T.V. Aldo Congedo proveniente da Bordeaux. Era un battaglione su tre compagnie più la compagnia comando. Ricevette le insegne di combattimento, dono delle donne di Trieste, nella chiesa di San Giusto nel corso di una solenne cerimonia, Madrina Ida De Vecchi, valorosa patriota triestina. Fra i presenti, il figlio di Nazario Sauro.
-A Cherso, isola del Quarnaro vicino a Fiume, la compagnia "Adriatica", al comando del t.v. Giannelli con 150 marò.
A Fiume la compagnia "D'Annunzio" al comando del s.t.v. Francesco Vigiak. Distaccamenti erano a Laurana, Lussingrande e Lussinpiccolo. Era composta da 130 marò.
-A Pola la compagnia "Nazario Sauro", al comando del c.c. Baccarini e del t.v. Aldo Scopigno. Era composta dai marò del "San Marco" rimasto a Pola dopo che il deposito del reggimento era confluito nella 3a Divisione fanteria "San Marco". Era composto da circa 300 marò.
-A Pola la base dei sommergibili C.B. e C.M. al comando del t.v. Giangrossi e (verso la fine) del t.v. De Siervo.
-A Brioni 80 marò della base Est dei Mezzi d'assalto, al comando del t.v. Nesi.
-A Portorose la scuola Sommozzatori del "gamma" al comando del ten. medico Moscatelli.
-A Trieste il com.te Lenzi, che avrebbe dovuto coordinare i movimenti di sbarco del Sud del "San Marco", proveniente da sole navi italiane, sbarco progettato da De Courten, proteggendolo con il Gruppo d'artiglieria "Colleoni" della Divisione "Decima" e con altri reparti della medesima Divisione".
    Così scrivevo nel 1986 sulla base di ricordi personali.
    A quel tempo, io ero a conoscenza soltanto del fatto che un bel giorno avrei forse visto spuntare all'orizzonte "Un fil di fumo" e che avrei dovuto cooperare a tenere sgombra la costa da eventuali resistenze slave. E mi chiedevo: "perché non anche tedesche ?" - E mi chiedevo ancora: "perché il com.te Borghese mi ha personalmente ordinato, nel caso che me lo avessero chiesto, di offrire qualsiasi aiuto anche agli alpini della Brigata partigiana "Osoppo"'? - Avevo la netta sensazione di essere una pedina di un gioco più grande di quanto potessi supporre, in cui tante altre pedine - all’insaputa per ora l'una delle altre - avrebbero potuto e dovuto riunirsi ad un ordine preciso ed in un preciso momento
    Così ho continuato a scrivere nel 1986:
    "Borghese, per potere realizzare il "piano" di De Courten, aveva mandato Lenzi a Trieste (era il capitano di corvetta Aldo Lenzi dei Mezzi d'assalto di superficie n.d.r.). Ma, per andare a Trieste in territorio occupato e controllato dai tedeschi, bisognava avere un piano operativo di copertura credibile. Fu quindi istituito ufficialmente il Comando dei Mezzi d'assalto dell'Alto Adriatico, da cui dipendevano il Gruppo dei C.B. di Pola, il Gruppo dei "barchini" di Brioni e la Scuola sommozzatori di Portorose. Ma si trattava di pochissimi uomini. Il Comando era in un appartamento di via S. Caterina in Trieste. Serviva di copertura. Serviva soprattutto per dare a Lenzi la possibilità di sondare con molta attenzione l'ambiente; di prendere contatto con le personalità di Trieste, con i gruppi di patrioti istriani ed italiani, con altri gruppi anche slavi di chiara tendenza antititina (tra cui un forte raggruppamento serbo guidato da un pope); per sapere quale sarebbe stata la loro reazione al momento del ritiro delle truppe tedesche, qualora fosse avvenuto uno sbarco di forze italiane del Sud appoggiato da unità della R. Marina, al fine di impedire che il vuoto creato dai tedeschi fosse riempito dai partigiani di Tito.
    "Tutto questo comportò un lavoro delicatissimo, senza risultati apparenti. Nessuno voleva scoprirsi e soprattutto nessuno voleva impegnarsi in qualcosa di positivo o negativo. Ed era un grosso guaio. Lenzi si appoggiò molto al segretario federale Sambo, triestino, di sentimenti italiani, già irredentista ed anche al capo della Provincia dott. Bruno Coceani. In certi momenti sembrava che si potesse arrivare ad una soluzione ed in certi altri, invece, Lenzi si trovò nella nebbia più completa. Tutti volevano restare in attesa alla finestra, in una passività di azione deprimente".
    "Il Com.te Lenzi continuò per molto tempo la sua opera. Per potere penetrare meglio in certi territori ed in certi ambienti, assunse generalità diverse con falsi documenti, abiti civili, auto civili, sempre con targhe diverse. Come un autentico agente segreto. Si spostò così mimetizzato in varie zone dell'Istria, avendo i più disparati contatti, anche con il pope serbo".
    A seguito delle pressioni, talora violente, di Sambo, il Gauleiter Reiner, nel tardo inverno 1944, acconsentì alle richieste di Lenzi, che quindi informò il com.te Borghese a Lonato che era ormai possibile il trasferimento dei due Gruppi di artiglieria della Decima sulle alture dominanti le strade di accesso a Trieste, per proteggere lo sbarco e l'avanzata del "San Marco" del Sud.
    "Borghese - concludevo - aveva rispettato il "piano" di De Courten. Aveva posto i suoi presidi, che avrebbero dovuto resistere sul posto il più a lungo possibile, per dare modo ad un gruppo di combattimento del Sud di sbarcare a Trieste, Portorose, Pola, Fiume, di farli prigionieri e contemporaneamente di rilevarli, in difesa di quel lembo di Patria.
    I presidi resistettero il più a lungo possibile e, ad eccezione del "San Giusto" a Trieste, furono massacrati sul posto, con perdita del 95% degli effettivi. I marò prigionieri furono quasi tutti assassinati nell'isola di Kurzola o nelle foibe e di essi non si seppe più nulla. Sono tra i "desaparecidos" italiani.
    Fino all'ultimo, il com.te Lenzi credette nello sbarco, invocandone la realizzazione. Il messaggio racchiuso nella bottiglia avvolta con un nastro tricolore, che Lenzi mi affidò sulla banchina di Brioni al momento di partire con i due SMA, per essere lanciato nelle acque d'Ancona il 13 aprile 1945, era un ultimo messaggio disperato, scritto a nome delle genti giulie ed istriane, che invocavano lo sbarco (questa volta delle FF.AA. anglo-americane vista la grande delusione del "piano" De Courten) a tutela della loro esistenza, contro le orde di Tito.
    Questo è quanto sapevo fino alla fine dell'aprile 1986. Nel successivo maggio, si sono affacciati improvvisamente su questa storia nuovi protagonisti, sì che necessita un completamento.
 
b) Lo sbarco visto dal Sud
 
    Un giorno di maggio 1986 ho ricevuto una telefonata nella mia casa di Bologna.
"Sono il generale Mastragostino. Ho letto il suo libro appena uscito. Ho bisogno di parlarle: può venire domani alle 17 al Circolo della Caccia? - Ero io che dovevo sbarcare".
    Il gen. Angelo Mastragostino è un notissimo personaggio di Bologna.
    All'indomani, al Circolo della Caccia, il generale mi raccontò una storia sorprendente e mi diede un altrettanto sorprendente documento, redatto in carta da bollo da L. 16 in data 6 settembre 1945 ed autenticato in pari data dal notaio Nicola Domenico Di Mauro a Bari, con firma legalizzata il 5 novembre 1945 dal Tribunale civile e penale di Bari.
    Ecco il testo del documento:
Ed ecco il racconto di Mastragostino.
 
    In data imprecisata del 1944, l'allora t. colonnello fu avvicinato in Bari dal Presidente della "Lega degli Adriatici" prof. Di Demetrio e da ufficiali dell'esercito inglese e americano.
    Con molta cautela gli parlarono dell'idea di uno sbarco fra Trieste e Pola di truppe italiane, trasportate da navi italiane. "La scusa della liberazione della Venezia Giulia dal nazifascismo fu messa nel documento a fine guerra per evidenti motivi di opportunità politica" - disse Mastragostino - "Il fatto vero è che si voleva bloccare l'avanzata delle truppe di Tito".
    L'approccio sorprese non poco l'ufficiale, che chiese il perché si fossero rivolti proprio a lui, esperto solo in velivoli da caccia e la risposta degli ufficiali alleati lo sorprese ancora di più. Poiché per concretizzare l'idea di questa azione di sbarco era necessario creare una organizzazione militare clandestina, composta di soli volontari e di sicura fede, non solo italiana, ma anche anticomunista, fatta una cernita fra una rosa di ufficiali attraverso informazioni su di essi fornite dal Servizio di Sicurezza OSS, la scelta era caduta su Mastragostino "perché Marcia su Roma Volontario Fiumano con D'Annunzio - Volontario di Spagna...".
    Avrebbe dovuto andare in giro per i vari aeroporti e scegliere uno ad uno, tra gli avieri (tutti disoccupati), circa milletrecento/millecinquecento uomini disposti ad una "azione di sorpresa non meglio definita e segreta".
    "Ma perché un’organizzazione così clandestina e segreta?" - volle sapere Mastragostino.
    "Il Governo italiano non deve sapere assolutamente niente. Non ci fidiamo di loro. Troppi comunisti, amici di Stalin ed in particolare di Tito. Anche elementi dei governi americano ed inglese non debbono sapere nulla. Il Comando Alleato, invece, sa ed appoggerà l'azione, ma non vuole, perché non può, apparire in prima persona. Perciò, in caso di fallimento, ignorerà tutto e vi lascerà in balia di voi stessi ".
    Gli ufficiali alleati ed il prof. Di Demetrio spiegarono poi a Mastragostino alcuni particolari dell'organizzazione clandestina. Lui, come detto, avrebbe dovuto "rastrellare" quei milletrecento/millecinquecento volontari tra i militari dell'Aeronautica.
Un altro ufficiale avrebbe dovuto fare altrettanto tra i militari dell'Esercito. Un terzo ufficiale avrebbe dovuto fare altrettanto, ma con più facilità, tra il personale della R. Marina; "con più facilità - dissero - perché il "San Marco" poteva essere utilizzato entro breve tempo, con una forza di millecinquecento uomini". Il comando di questo Gruppo era già stato affidato, con le medesime caratteristiche di segretezza e di clandestinità, al capitano di corvetta M.O.V.M. Cigala-Fulgosi. "Il più affidabile, perché aveva rifiutato di arrendersi l'8 settembre, portando il suo C.T. Impetuoso alle Baleari".
Al momento opportuno, i tre Gruppi, creati all'insaputa l'uno dell'altro, sarebbero stati riuniti sotto il comando di Mastragostino.
    " Un giorno mi dissero che il piano era annullato. Probabilmente perché la notizia era filtrata dove non doveva filtrare. Non so altro". - Così terminò Mastragostino.
    Il c.c. Cigala-Fulgosi, naturalmente, aveva messo al corrente di tutto, con la massima segretezza, il Ministro della Marina amm. De Courten, perché ottenesse dagli Alleati la disponibilità delle navi italiane da utilizzare per il trasporto dei circa cinquemila uomini previsti dal "piano".
    Sempre nel mio libro citato (2a edizione, pubblicata "dopo Mastragostino") scrivevo:
    "Questo "piano" (Piano De Courten n.d.a.) era stato portato a conoscenza di Borghese. Chi portò a Borghese il "piano De Courten""?
    "Questo fa parte di quei rapporti Sud-Nord che rimarranno segreti fino a quando la Marina non aprirà i propri archivi riservati, ammesso sempre che di questi rapporti esista ancora traccia".
Come ipotesi, facevo i nomi del t.v. Rodolfo Ceccacci e del serg. a.u. Aldo Bertucci, appartenenti al Btg. Vega - N.P. della X Flottiglia MAS, che avevano varcato le linee per recarsi a Taranto, ricevendo visite da parte di alcuni prestigiosi esponenti dell'antica X Flottiglia MAS e forse, del c.c. Cigala-Fulgosi, probabilmente il trait-d'union tra De Courten e Borghese, proprio l'ufficiale indicato da Mastragostino.
    Così scrivevo nel 1986. E così chiarivo, sull'onda del racconto di Mastragostino e di un libro contemporaneamente apparso nelle librerie internazionali e recensito in Italia sui maggiori quotidiani.
    "Possiamo però aprire uno squarcio su questo involucro tuttora impenetrabile, nella speranza che un De Felice od un altro autentico storico della sua forza possa penetrare negli archivi e fare parlare i muti.
    Il "piano De Courten" era un piano riservatissimo e "top secret". Di esso non ne era informato alcun membro del Governo, né alcun comando militare italiano.
    In verità, esso era stato elaborato dal Comando in Capo della 8a Armata britannica, che aveva in animo di effettuare uno sbarco in grande stile nell'Alto Adriatico, per tentare di sfruttare i valichi verso l'Austria e la Cecoslovacchia, probabilmente in esecuzione di un piano di più ampio respiro del maresciallo Montgomery, che, come Patton e Bradley, ma in aperto contrasto con Eisenhower, voleva arrivare a Berlino ed a Praga prima dei russi (di questo parla ampiamente lo storico inglese Nigel Hamilton nella sua biografia del maresciallo Montgomery)".
    Le ipotesi di alta strategia e politica (rafforzate purtuttavia dall'ultrasegretissimo convegno di Montecolino sul lago d'Iseo del novembre 1944) esulano però dal tema proposto, che vuole solo far luce sul "piano De Courten".
 
    Fino al 1986 ero quindi a conoscenza dei fatti sopra elencati:
1) L'esistenza di un piano per sbarcare in Istria od in Venezia Giulia reparti italiani del Sud su navi italiane; e questo per conoscenza diretta; piano da Borghese e Lenzi chiamato "piano De Courten";
2) L'esistenza (appreso solo nel 1986) di una organizzazione militare clandestina nella Puglia, denominata "Battaglione Azzurro", facente capo ad una organizzazione civile non clandestina denominata "Lega degli adriatici", supportata segretamente dalle FF.AA. Alleate; e questo in base al racconto del comandante il "Battaglione Azzurro", generale Mastragostino; di questa organizzazione faceva parte anche la M.O.V.M. Antonio Marceglia, affondatore della nave da battaglia "Queen Elizabeth" ad Alessandria;
3) l'esistenza, in questo "Battaglione Azzurro", del com.te M.O.V.M. Cigala-Fulgosi, incaricato del reclutamento dei marinai e dell'organizzazione delle navi necessarie.
    Il collegamento, seppure ignoto a Mastragostino, con l'amm. De Courten da parte di Cigala-Fulgosi era inevitabile e consequenziale.
    A completare il mosaico mancavano però due testimonianze dirette, tasselli fondamentali: la testimonianza di De Courten e la testimonianza degli archivi alleati.
    Mentre questi ultimi probabilmente rimarranno ermeticamente chiusi, in quanto i fatti coinvolgerebbero politici e militari ad alto livello; o, forse sono stati già da tempo svuotati su questi fatti (ricordiamo le parole degli ufficiali Alleati a Mastragostino: "il Comando Alleato ignorerà tutto in caso di fallimento dell'operazione"), sono apparse nel 1993 le "Memorie" di De Courten ad opera dell'Ufficio Storico della Marina Militare. E la sorpresa non è stata piccola.
 
    Quello che interessa il nostro argomento è contenuto essenzialmente nel Cap. XXVI "Trieste e la Venezia Giulia" e la sorpresa sta nell'apprendere che l'Amm. De Courten era solo una pedina in quella organizzazione, di cui "sembra" che ne conoscesse appena l'esistenza, come "sembra" che non conoscesse affatto la presenza e l'iniziativa determinanti del Comando delle FF.AA. Alleate nella vicenda.
    Una sua tranquilla confessione può anche indurre a sospettare che l'annullamento del "piano" sia dovuto "anche" a lui. Il "piano" era della massima segretezza ed il Comando Alleato doveva fingere di non saperne nulla. Invece, De Courten ne parlò all'amm. Morgan. Naturalmente nella massima segretezza. La frittata era fatta.
    Leggiamo cosa scrive l'amm. De Courten, con riserva di fare alcuni commenti.
    "Nel luglio del 1944, poco dopo la liberazione di Roma, il Reparto Informazioni (c.v. Calosi - n.d.a.) mi comunicò alcune notizie raccolte presso profughi giuliani, residenti nelle Puglie, i quali erano instancabili nel mantenere contatti con le loro genti, dovunque esse si trovassero, e nel raccogliere informazioni relative alla Venezia Giulia.
    Secondo queste segnalazioni, gli Alleati, in vista della sempre più evidente tendenza degli iugoslavi a creare alle frontiere orientali una situazione di fatto suscettibile di giustificare, al termine del conflitto, le loro pretese all'attribuzione del territorio nazionale fino all'Isonzo non avrebbero visto di malocchio un'azione militare italiana che, al momento del crollo tedesco, precedesse quella iugoslava nell'occupazione della Venezia Giulia".
    "In considerazione del grande interesse di questi presunti orientamenti, incaricai il comandante Calosi di approfondirne la fondatezza.
    "Egli si mise in contatto, non solo con i profughi, ma anche con gli ufficiali posti alla direzione dei servizi informativi britannici presso le diverse autorità militari e navali, con le quali avevamo rapporti di collaborazione. Si constatò così che effettivamente esisteva una simile tendenza alleata, per lo meno nella sfera degli ambienti interpellati. In seguito fu possibile abbozzare il progetto schematico di un tempestivo sbarco di reparti della Marina e dell'Aeronautica (Reggimento "San Marco" e Battaglione "Azzurro" A.A.) nelle vicinanze di Trieste, dove queste truppe avrebbero dovuto essere trasportate da mezzi navali italiani: l'operazione sarebbe stata effettuata sotto l'esclusiva responsabilità del Comando Italiano, mentre gli Alleati avrebbero dovuto fingere di ignorarla" .
    E’ una totale conferma di quanto il com.te Borghese, il com.te Lenzi, io e qualcun altro sapevamo, quasi "in contemporanea", al Nord, di quanto scrissi nel 1986; di quanto mi rivelò e documentò Mastragostino.
    Anche De Courten ignorava l'esistenza di un reparto dell'esercito, probabilmente perché mai costituito per la sua inaffidabilità dopo la "prova" offerta all'8 settembre.
    Dopo avere così annunciato lo schema del "piano De Courten", in base al quale ci muovemmo al Nord e si mossero il "S. Marco" ed il Battaglione Azzurro di Mastragostino al Sud, ecco De Courten avanzare i primi dubbi ed iniziare la ritirata, ancora una volta senza avvertire i diretti interessati: Borghese e la "Lega degli Adriatici", di cui pare addirittura ignorare l'esistenza.
    Prosegue infatti così.
    "Pur rendendomi conto dei movimenti di queste modalità, intese a non compromettere gli Alleati agli occhi delle formazioni iugoslave, che nei Balcani stavano contribuendo alla guerra contro la Germania, rimasi perplesso sulla reale consistenza di questi approcci e sulle forme nelle quali l'operazione era concepita.
    Ai primi di settembre del 1944, in occasione di colloqui più impegnativi con rappresentanti qualificati Intelligence Service, il comandante Cigala-Fulgosi M.O. ebbe l'incarico di mettere in rilievo i seguenti punti di vista della Marina:
1) la questione della Venezia Giulia, che sta tanto a cuore a tutti gli italiani, è particolarmente sentita dalla Marina, che è disposta a fare qualunque sforzo e sacrificio per un suo favorevole sviluppo.
2) La Marina, al pari delle altre Forze Armate italiane, da molti mesi non chiede agli Alleati che di agire, in qualunque settore: anche per questa ragione un'operazione nella Venezia Giulia, affidata alla Marina, sarebbe oltremodo desiderata.
3) La Marina ha sempre lealmente e scrupolosamente adempiuto gli obblighi armistiziali, né intende allontanarsi da questa direttiva: in conseguenza, pur essendo disposta a lasciare apparire che essa agisca di propria iniziativa, non vuole fare nulla che possa essere considerato violazione dell'armistizio e desidera quindi ricevere formale autorizzazione all 'operazione, sia pure sotto il vincolo della segretezza.
4) D'altra parte mezzi e truppe italiani sono impiegati ed a disposizione dei Comandi Alleati, navali e terrestri, i quali dovrebbero ovviamente lasciare libere le forze destinate all'operazione per il trasferimento nei punti di addestramento, concentramento e partenza; questo a prescindere dalla necessaria cooperazione per la scorta aerea ai convogli e dalla non meno indispensabile sincronizzazione dello sbarco con le azioni svolte all'occupazione via terra della Venezia Giulia".
Le osservazioni affidate a Cigala-Fulgosi appaiono ineccepibili, ma sono equivalenti al dire agli ufficiali dell'OSS e dell’Intelligence Service: "non ci stiamo".
    Pretendere dagli Alleati un ordine scritto, seppure segreto, su di un'operazione definita "clandestina" è un modo elegante per sganciarsi da qualsiasi responsabilità e rischio, dato anche che in Italia la segretezza non è mai stata di moda.
"Il 7 settembre 1944 conferii a Taranto su questo argomento con l'ammiraglio Morgan, esponendogli quanto era a mia conoscenza e chiedendo la sua collaborazione per ottenere che mezzi da sbarco moderni fossero posti a nostra disposizione.
Gli manifestai il mio desiderio che egli ricevesse il comandante Cigala-Fulgosi, dal quale egli ebbe infatti dettagliate delucidazioni sulla consistenza e sull'organizzazione del Reggimento "San Marco", nonché sull'entità dei mezzi navali disponibili e di quelli occorrenti".
    De Courten continua ad ignorare Mastragostino ed il Battaglione Azzurro. Evidentemente li ignora, proprio perché Cigala-Fulgosi mantiene con lui quell'autentico rapporto di segretezza di cui ha parlato Mastragostino.
De Courten deve essere utilizzato solo per procurare i mezzi navali di trasporto e sbarco e Cigala-Fulgosi, davanti a De Courten, illustra a Morgan solo il "San Marco", di cui dovrebbe assumere il comando secondo i piani dell'OSS.
Dal racconto, non sembra che Morgan sia rimasto molto entusiasta, probabilmente perché già al corrente dell'operazione "clandestina", di cui lui non avrebbe dovuto sapere niente e invece se la vede spiegare in lungo ed in largo dal Ministro della Marina in persona, minacciando di comprometterlo. Ed infatti...
    "L'ammiraglio Morgan, da me ripetutamente interpellato per conoscere gli ulteriori sviluppi della questione, mi diede risposte sempre più vaghe ed evasive, dalle quali dedussi che il problema, portato nelle sfere più elevate ed aventi autorità determinante, aveva incontrato, se non aperta ripulsa perlomeno accoglienza riservata e dilatoria, il che non era promettente".
Insomma, De Courten non aveva capito (o non aveva voluto capire?) che un'operazione "clandestina" doveva essere "clandestina" in tutti i sensi e non un altro sbarco di Normandia e che i Comandi Alleati ufficialmente non ne dovevano sapere niente, mentre lui "ripetutamente" li interpella, "fino nelle sfere più elevate".
    Ma un'altra ipotesi può affacciarsi. Ho avuto De Courten come ammiraglio comandante la VII Divisione quando ero imbarcato nell'Incrociatore "R. Montecuccoli". L'ho conosciuto e di lui ho sentito parlare in diverse occasioni. Era un uomo di grande intelligenza, un comandante estremamente preparato e di grande prestigio, con un carattere deciso, quasi teutonico (nelle sue vene scorreva sangue tedesco), ma anche dotato di notevole diplomazia. Esaminando attentamente i quattro punti affidati a Cigala-Fulgosi, può essere affermato che, in essi, è più il diplomatico a parlare che l’ammiraglio.
    Infatti:
1) Dal Reparto Informazioni ha appreso che "gli Alleati... non avrebbero visto di malocchio un'azione militare italiana..."; quindi, l'idea dello sbarco di truppe italiane con navi italiane, da eseguire clandestinamente e, ufficialmente, all'insaputa del Comando Alleato, era degli Alleati.
2) Quello sbarco rientrava quindi negli interessi degli Alleati, che, però, non volevano lasciare le dita nella marmellata e chiedevano che le lasciassero i soliti italiani con le solite capriole.
Ed allora De Courten manda a dire, in sintesi, all'Intelligence Service:
a) che la questione della Venezia Giulia (ma perché non anche dell'Istria?) gli sta tanto a cuore;
b) che è da tanto tempo che la R. Marina pungola gli Alleati a muoversi e che la stessa R. Marina desidererebbe partecipare all'operazione per la Venezia Giulia;
c) che però non può parteciparvi, in quanto obbligata dalle clausole dell'armistizio, per cui "non vuole far nulla che possa essere considerato violazione dell'armistizio";
d) che però, se proprio lo vogliono, gli Alleati debbono fornire a lui "formale autorizzazione all'operazione".
E’ una risposta da maestro della diplomazia, equivalente ad un "arrangiatevi" più consono alla personalità dell'ammiraglio. Occorre infine mettere l'accento sul fatto che De Courten, pure con l’ltalia da tempo in stato di "cobelligeranza", agli Inglesi rammenta solo le durissime clausole dell'armistizio. Un autentico irrigidimento nei loro confronti.
Comunque, qualsiasi interpretazione si possa dare, è da quel momento che inizia la fine del "piano De Courten", la fine dell'organizzazione clandestina, dei Battaglione Azzurro, la fine delle speranze degli esuli istriani.
    Prosegue De Courten.
    "D'altro canto nel frattempo il Reggimento "San Marco", incorporato nella Divisione "Folgore", aveva preso posizione sui fronti di combattimento in forma tale da non rendere agevole un suo ritiro per altri scopi".
    L'ammiraglio continua ad ignorare l'esistenza del Battaglione Azzurro, del ten. col. Mastragostino, della Lega degli Adriatici, ma soprattutto punta tutto il suo ragionamento in merito all'abbandono del "piano" sulla mancata disponibilità del "San Marco". Non una parola sugli "N.P." che pure, sebbene solo per via terra, arrivarono per primi a Venezia per puntare subito su Trieste, dopo il frenetico abbraccio con gli "N.P." della X Flottiglia MAS. (Se erano arrivati per primi via terra, non sarebbero arrivati ancor prima via mare?)
    "L'incontro avvenuto il 27 febbraio 1945 a Belgrado tra il generale Alexander e Tito, a seguito di quello precedente di Bolsena del luglio 1944, diede ben presto la sensazione che fossero stati stabiliti accordi militari ben definiti sulla prosecuzione delle operazioni contro la Germania e sulle relative contropartite. In realtà quel periodo segnò la fine di ogni speranza che gli Alleati intendessero fiancheggiare e facilitare un'azione autonoma italiana di sbarco a Trieste, la quale sarebbe stata della massima importanza per il futuro della Venezia Giulia".
    Insomma, De Courten gioca in difesa ed incolpa gli Alleati in generale (ed Alexander unitamente a Tito in particolare) del fallimento del "piano" che, per noi del Nord, portava il suo nome, continuando a sorvolare sul fatto fondamentale che Tito non avrebbe dovuto sapere niente ed avrebbe dovuto trovarsi di fronte al fatto compiuto, con il territorio cui aspirava (fino all'Isonzo e al Tagliamento) ben presidiato dai 5.000 uomini venuti dal Sud, mentre Alexander avrebbe dovuto semplicemente cadere dalle nuvole, (rinforzando nel contempo quella testa di sbarco).
    A questo punto potrei scrivere la parola fine sull'argomento del "piano De Courten", ma De Courten non me lo permette, perché torna sulla Venezia Giulia, ma in modo inaspettato, anche se ben conosciuto e pubblicizzato sia da Borghese, che da Ricciotti Lazzero (X Flottiglia MAS - Ed. Rizzoli) e da me nel citato libro.
    "Nel frattempo, peraltro, si stava delineando un’altra possibilità, suscettibile di arrivare a concrete realizzazioni ai fini sempre presenti nella mia mente".
    Quale era questa possibilità'? L'invio "nell'ltalia del Nord" di missioni con l'intento di prendere contatto con l'Ammiraglio Sparzani, Sottosegretario di Stato della Marina Repubblicana della R.S.I. e con il com.te Borghese, Capo di Stato Maggiore Operativo, nonché comandante la X Flottiglia MAS. Scopi? Difesa delle industrie del Nord. Difesa dell'italianità di Trieste.
De Courten riporta brani delle relazioni del t.v. Zanardi, parla delle M.O.V.M. Marceglia e dell'lng.Giorgis e dei loro appunti. Ma si tratta sempre della difesa dell'italianità dell'Istria, del Friuli e della Venezia Giulia. Nulla che interessi uno sbarco di truppe italiane del Sud.
    "L'azione di difesa della Venezia Giulia fu praticamente nulla" conclude De Courten.
    Ha ragione. A nulla è valsa la morte di centinaia, di migliaia di ragazzi, alpini del "Tagliamento", bersaglieri del "Mussolini" e del "Mameli", marinai della "X Flottiglia MAS", "CC.NN." di Libero Sauro, caduti sui monti del Friuli, sul San Gabriele, sul San Michele, nell'Ortigara, nella Selva di Tarnova, scomparsi nelle foibe istriane, a Lussinpiccolo, Cherso, a Kurzola, a Pola, Lanzana, Fiume, nelle profondità dell'Adriatico.
    Erano più importanti le "contropartite" freddamente e cinicamente trattate come merce di scambio tra Alexander e Tito.
Che poteva fare De Courten, povero ammiraglio di una Italia sconfitta? - Cosa poteva ottenere il "piano De Courten"?.
"L'azione di difesa della Venezia Giulia fu praticamente nulla".
    Ma da parte di chi?
 
 
                                                                                                                                

giovedì 18 novembre 2021

ORRORE GIUDAICO LUNGO I SECOLI

 

ORRORE GIUDAICO LUNGO I SECOLI


La pagina più raccapricciante ed orribile della storia umana che la cultura totalitaria del " politically correct" e la dittatura del Pensiero Unico vogliono cancellare dalla memoria storica : i riti criminali del Giudaismo, mai del tutto dismessi anche in epoca moderna, con i quali vengono uccise e dissanguate vittime innocenti come ragazzini e bimbi. Il prof. Toaff, docente universitario israeliano, che ha pubblicato sul tema il libro " pasque di sangue", è stato oggetto di un linciaggio mediatico atroce e ha dovuto ritirare il libro e addomesticarlo al Pensiero Unico. Questo libro non ha effettuato tagli alla Storia : si tratta della ristampa integrale di un impressionante e lungo calvario degli omicidi rituali rabbinici perpetrati nei secoli e di cui è rimasta traccia. Scritto in ambito cattolico, molto documentato ( oltre 120 fonti informative citate), racconta vicende di puro orrore che hanno rabbini come carnefici di innocenti. Il libro si fonda su cronache rimaste lungo i secoli, su tracce e documenti dei processi per omicidio rituale celebrati conto i rabbini carnefici , sulle testimonianze oculari del tempo e sulle dichiarazioni dei parenti delle vittime rapite e assassinate, sugli infiniti registri delle  cronache parrocchiali di chiese  e monasteri sparsi in tutta Europa. Una testimonianza millenaria, raccolta attraverso  centinaia  e centinaia di documenti e scritti rimasti nei secoli, a fronte di altrettanti che sono stati invece smarriti o distrutti ad opera di guerre ed incendi.   

Un libro  che ha avuto molto eco nel secolo scorso, ha avuto diverse edizioni, anche da parte di editori famosi del tempo ,  ma che dal dopoguerra  è stato fatto scomparire. Letteralmente : scomparso dalle biblioteche, dai cataloghi librari, anche dalle librerie antiquarie. Come non fosse mai esistito. Nella speranza, tutta ebraica e censoria, che venisse dimenticata anche la orrenda sequela dei crimini rabbinici contro vittime innocenti e spesso bambini, di cui questo libro è implacabile testimone. 

Ci è ben nota la giustificazione di parte ebraica di fronte a questo orrore che si trascina da secoli e secoli : sostengono che si tratterebbe di una montatura e che non vi sia prova della responsabilità ebraica in questi crimini, che sarebbero addebitati agli ebrei per odio antisemita….. Troppo comoda la giustificazione dell’ “ odio” e anche francamente inverosimile se non folle… Potrebbe reggere se i casi in questione fossero un paio o poco più : errori giudiziari ce ne sono sempre stati e ce ne saranno sempre a tutte le latitudini, ma ….. non è logica , né credibile di fronte al fenomeno che questo libretto ci documenta : come è pensabile che in un ‘area che corrisponde all’ intiera Europa oltre al lato africano e medio orientale del Mediterraneo, in pratica in ogni luogo ove si annida una comunità ebraica e lungo un periodo di oltre duemila anni, TUTTI i casi documentati ( senza parlare di quelli, altrettanto numerosi , di cui non è rimasta documentazione storica) di omicidi rituali – in cui sempre compaiono sula scena del crimine figure di rabbini e di loschi ebrei -  siano responsabilità di “ altri” ( chi?) e MAI di ebrei ? E le accuse agli ebrei sempre frutto di imbrogli antisemiti per accusare gli ebrei ? Senza poi parlare delle numerosissime confessioni di rabbini e loro adepti. Tutte false ? E tutto ciò in aree geografiche fra loro diversissime anche culturalmente, cattoliche, ortodosse, protestanti, islamiche ? Tutto ciò frutto di una “ congiura antisemita” ? Una “ congiura antisemita” che si sarebbe protratta per oltre duemila anni, in tutto il mondo conosciuto in cui vi siano comunità ebraiche ? E’ questa la tesi delirante e folle :  quella “ negazionista” di parte ebraica ! Gli ebrei, sempre pronti ad accusare gli altri di “ complottismo”, sono in realtà i più deliranti complottisti, perché vorrebbero darci da bere, per oscurare le loro orrende responsabilità di questa catena bimillenaria di sangue ed orrore, l’ esistenza di un “ complotto antisemita” dai connotati obiettivamente impossibili ed assolutamente inverosimili. qualche caso di errore giudiziario ci può stare, ma non  ( almeno) un migliaio di errori giudiziari in duemila anni e in due continenti ! Guarda caso, sempre nelle prossimità di qualche comunità ebraica... Chi sarebbero i persecutori ?



Fanno veramente ribrezzo, questi cultori della “ memoria” a senso unico : tanto sono logorroici per quanto riguarda la loro “ memoria”, quanto sono solerti e certosini nel cancellare la “ memoria” dei loro crimini perpetrati  lungo la catena implacabile dei secoli…. Ma come un convitato di pietra, ritorna questo documento , ad opera delle Edizioni della Lanterna. Ancora oggi è un atto di accusa che chiede giustizia.


Nell’ ultima parte l’ Autore, rimasto sconosciuto, tocca la orrenda pagina del traffico del sangue cristiano effettuato  da occultisti ebraici per i loro riti orrendi : carnefici e mercanti del sangue del loro vittime. Un libro raggelante, ma unico, che ripercorre l’ orrore che attraversa la Storia e che non si può dimenticare. Non si deve dimenticare.


LINK UFFICIALE DEL LIBRO :

https://www.amazo

sabato 13 novembre 2021

DELENDA CARTAGO..!!

 

DELENDA CARTAGO..!!

 

Mentre il senato discute, Sagunto brucia!

Tito Livio narra che quando, circa duemila e duecento anni fa Roma correva il più grave dei pericoli della sua storia millenaria, premuta dalla potenza degli eserciti Cartaginesi di Annibale che, terminata la conquista della Spagna al di qua dell’Ebro, sfidavano l’Urbe assediando appunto la città di Sagunto, alleata dei Romani, al senato di Roma si discuteva se intervenire o no in aiuto dell’alleata cinta d’assedio.

La discussione si stava protraendo all’infinito sui pro e sui contro, tra decisionisti e prudenti, quando intervenne un senatore (Publio Cornelio Scipione..?) che disse appunto: “..mentre il senato discute, Sagunto brucia!..” riuscendo così a spostare l’attenzione del senato, dalla discussione teorica alla pragmaticità delle decisioni operative.

Iniziava così la seconda guerra Punica che vide alla fine la sconfitta e l’esilio di Annibale e fu il preambolo della distruzione della stessa Cartagine nella terza guerra Punica da cui iniziò il definitivo decollo di Roma, ormai senza più nemici importanti, come potenza imperiale e padrona del mondo al quale portò le sue Leggi, le sue tradizioni, la sua Civiltà.

Mutando le situazioni, stiamo vivendo oggi, in Europa e nel mondo, una condizione analoga perché la nostra civiltà, le nostre tradizioni, i nostri millenari valori spirituali sono alla mercé del liberalcapitalismo e della socialdemocrazia ed a nessuno dei due interessa né promuoverli, né salvarli perché la loro unità di misura è solo il denaro e quanto ne discende, in un contesto generale di materialismo becero ed abbrutente.

Noi dell’area Nazionalpopolare, o meglio i nostri ideali ed il nostro progetto politico, siamo l’antitossina per guarire questa mortale malattia della nostra civiltà, per riportare i nostri popoli a “volare alto”, per ripristinare la priorità dell’Uomo sul denaro e ristabilire il controllo della politica sull’economia.

Il materialismo dei nani di Zurigo e di Wall Street e quello dei discendenti del marxismo internazionale sono la nostra Cartagine che deve essere distrutta e sulle cui ceneri si dovrà spargere il sale per renderla eternamente sterile!

Appunto: “Delenda Cartago”.

E’ vero, siamo in pochi, ma siamo coscienti sia della realtà che ci circonda che della potenzialità innovativa della nostra proposta politica che può contare sulla conquista di quei vasti strati di opinione pubblica che formano, per ora, il partito dello scontento, della sfiducia e del non voto e che raggiungono ormai in Italia più di un terzo della popolazione totale..!

Occorre però fare un primo indispensabile passo, senza il quale tutto sarà inutile e destinato al fallimento, occorre operare per la riunificazione dell’area nazionalpopolare!

Senza passare per questa fase, non saremo credibili né all’interno, né all’esterno del nostro movimento e pertanto qualsiasi azione politica risulterà inutile ed inefficace.

Per questo dobbiamo piantarla di discutere in eterne assemblee, comitati, tavole rotonde e collegi, ma dobbiamo, è imperativo, passare all’azione costruendo dalla base un’unità, che potrà essere federativa, consociativa o comunque si voglia, purché sia UNITA’ di persone, di idee e di azione politica.

Anche per noi è venuta l’ora di dire, come nel senato dell’antica Roma, : ”..mentre il senato discute, Sagunto brucia!..”

E’ giunto il momento di vedere il “bluff” di quei camerati (ma lo sono veramente??) che antepongono i loro protagonismi e le loro misere ambizioni di pennacchi e medaglie agli interessi dell’ideale!

E’ giunto il momento di avere il coraggio di giocarci il nostro futuro e la nostra stessa esistenza politica cercando così di forzare la mano agli eterni indecisi, ai “sor tentenna” in camicia nera, ai pantofolai ed ai rivoluzionari da salotto e da “bar dello sport”!

Se non ci riusciremo, vorrà dire che come realtà politica, credevamo solamente di esistere, ma in pratica siamo morti e sepolti senza saperlo…..ed allora.. De profundis..!!

Alessandro Mezzano

 

NOI SIAMO UOMINI D’OGGI.

NOI SIAMO SOLI.

NON ABBIAMO PIU’ DEI,

NON ABBIAMO PIU’ IDEE,

NON CREDIAMO NE’ A GESU’ CRISTO, NE’ A MARX!

BISOGNA CHE IMMEDIATAMENTE,

SUBITO,

IN QUESTO STESSO ATTIMO,

COSTRUIAMO LA TORRE

DELLA NOSTRA DISPERAZIONE E DEL NOSTRO ORGOGLIO.

CON IL SUDORE ED IL SANGUE DI TUTTE LE CLASSI,

DOBBIAMO COSTRUIRE UNA PATRIA

COME NON SI E’ MAI VISTA.

COMPATTA COME UN BLOCCO D’ACCIAIO,

COME UNA CALAMITA.

TUTTA LA LIMATURA D’EUROPA VI SI AGGREGHERA’

PER AMORE O PER FORZA

ED ALLORA,

DAVANTI AL BLOCCO DELLA NOSTRA EUROPA,

L’AMERICA, L’ASIA E L’AFRICA,

DIVENTERANNO POLVERE!

Henry Drieu La Rochelle


 

 

 

 


venerdì 5 novembre 2021

LA PRIMA REPUBBLICA SOCIALE DELLA STORIA

 
I COMBATTENTI DELLA RSI CONSIDERATI BELLIGERANTI DA UNA SENTENZA DEL TRIBUNALE SUPREMO MILITARE
Gli appartenenti alle formazioni partigiane, secondo la Suprema Corte Militare, non hanno diritto a tale qualifica, perchè non portavano distintivi riconoscibili a distanza né erano assoggettati alla legge penale militare.
 
 
Egregio Direttore,
mi permetto di sottoporre alla Sua attenzione l’unico documento con il quale la Repubblica Italiana ha reso giustizia alla R.S.I., ai suoi Caduti e Combattenti: la sentenza n. 747 del Tribunale Supremo Militare in data 26.4.1954.
Pubblicato a suo tempo dall’Ispettorato Alta Italia di questa Federazione, tale documento risulta tuttavia pressoché sconosciuto nell’ambito dei combattenti della RSI; successivamente, per carenza di mezzi, non è stato possibile ristamparlo ed assicurargli la dovuta divulgazione.
Spero voglia farlo Lei, Dott. La Vizzera, con la Sua rivista, alla quale si cercherà di fornire il maggior sostegno possibile in sede di diffusione e di collaborazione.
Come può notare, il commento di carattere prettamente storico-giuridico dell’Avv. Piero Pisenti, guardasigilli della RSI, è preceduto da una premessa a carattere etico-politico intesa a mantenere salda la consapevolezza dei Combattenti della RSI di essere stati protagonisti dell’ultima battaglia per l’indipendenza dell’Italia e dell’Europa.
 
(per Il Comitato Direttivo) F.G. Fantauzzi
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 Marzo 1999. C.D.L. Edizioni srl (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
 
 
[NdR di www.italia-rsi. Il testo che segue è solo la presentazione , da parte della FNCRSI, del testo della sentenza.  Lo riportiamo per completezza della pubblicazione comparsa su STORIA DEL XX SECOLO e per documentazione del pensiero della FNCRSI < http://members.xoom.it/aurora/FNCRSI.htm>]
 
 

LA PRIMA REPUBBLICA SOCIALE DELLA STORIA
 
 
    Nel quadro dei suoi compiti statutari, la FNCRSI ripropone alla riflessione degli aderenti e simpatizzanti la sentenza n.747 emessa dal Tribunale Supremo Militare in data 26 aprile 1954, unitamente al competente commento del guardasigilli della RSI. In tal modo, questa Federazione intende contribuire ad una più profonda comprensione dell’essere oggi, alle soglie del XXI secolo, Combattenti della RSI, nel senso che nel presente si condensa e rivive il loro passato e germoglia il futuro dei loro Ideali. Nel buio del pensiero politico contemporaneo, i Combattenti della RSI hanno il compito di continuare nella difesa e nell’affermazione del fascismo repubblicano e sociale, onde esso possa liberamente venir apprezzato, condiviso e convissuto domani, nonché nell’opporsi alla "svolta antropologica" che la cieca avidità plutocratica va attuando per soffocare la dignità dell’uomo, esaltandone soltanto gli istinti animaleschi. Questo e non altro è il nostro orizzonte d’azione. Questa è la consegna affidataci dai nostri Caduti. Ricordiamoli!
    Ricordiamo i loro volti ora gravi e pensosi, ora scanzonati e sorridenti e la loro spontanea dedizione per una patria più civile e più giusta per tutti, avversari compresi, e non quella di umiliarci nella sterile ricerca di voti in favore di uomini e partiti comunque aggiogati ad interessi opposti a quelli del popolo italiano.
    Detto ciò, coloro i quali, pur essendo stati valenti combattenti della RSI, assumano oggi atteggiamenti che li pongono fuori e contro quell’orizzonte, non ci appartengono più, perché non rispettano la memoria dei Caduti, negano la dignità dei vivi e non lasciano un retaggio di serietà e di fierezza alle generazioni a venire.
    Pertanto, l’autoproclamarsi vinti nei confronti di soggetti non belligeranti, i quali hanno ridotto la Nazione così come la vediamo e viviamo, è semplicemente blasfemo. L’aderire (ma anche il solo non levarsi contro) una pacificazione che pretende avvilirci nel ruolo di sostenitori volontari della parte sbagliata e persino quali scortatori di convogli di ebrei diretti ai lager (L. Violante), costituisce atto di mera perversione masochistica. Ove siffatti comportamenti, assunti ora soltanto da pochi sprovveduti, si estendessero ai più, si configurerebbe l’ultima nostra mortificazione, poiché, se si considera che l’età media dei Combattenti della RSI si aggira sui tre quarti di secolo, quell’ultimo mortem facere non è precisamente un eufemismo. Taluni, peraltro, hanno smarrito la consapevolezza del fatto che il comunismo non è crollato nel 1989, bensì nell’atto stesso dell’alleanza di Stalin con il capitalismo internazionale. Infatti, mentre noi difendevamo la prima repubblica sociale della Storia, Togliatti adempiva l’incarico di guardasigilli dei Savoia e, tutt’ora, i suoi continuatori perseverano nella squallida opera di subalterni fiancheggiatori degli oppressori e affamatori di popoli inermi.
    Noi dunque rappresentiamo la Rivoluzione, mentre l’antifascismo incarna la conservazione di anacronistici privilegi e l’egoismo dei ricchi e dei potenti; conservazione che, in quanto portatori di un Nuovo Ordine spirituale e umano, ci è istintivamente estranea, ideologicamente nemica e repellente sotto il profilo politico-sociale.
    La storia, i cui verdetti non sono inappellabili, ha registrato la nostra sconfitta. Ciò nulla toglie al fatto incontestabile che noi innalzammo al cospetto del mondo il vessillo di una più umana giustizia internazionale e quello della partecipazione di tutti i popoli ai beni della Terra, e che lo difendemmo con estrema determinazione.
    È opportuno riflettere, altresì, sulle seguenti circostanze. 
    Fermamente affermando di fronte a nemici e alleati le proprie intenzionalità volte alla radicale trasformazione dell’assetto sociale ed economico nazionale e internazionale, la RSI realizzò uno Stato legittimo e riconosciuto da una pluralità di Nazioni; Stato che non si è arreso perché, pur avendone la possibilità e il diritto, non ha mai chiesto la resa. Questo importantissimo fatto può avere anche oggi significative conseguenze etiche e giuridiche.
    Preso atto del tradimento dei tedeschi, Mussolini - in quanto Capo della RSI - non chiese la resa perché, fino alla sua soppressione fisica, sperò sempre di consegnare la RSI con la sua legislazione sociale e con il suo tesoro ai socialisti italiani.
Se gli esponenti del socialismo, asserviti al capitalismo anglo-americano, rifiutarono l’offerta a lungo preparata, anche attraverso la protezione diretta e indiretta attuata da Mussolini stesso su molti di loro per tutta la durata del conflitto, non fu accolta, non è certamente colpa nostra. Per contro, quasi l’intero governo della RSI fu massacrato sulle rive del lago di Como.
    Il Maresciallo Graziani, già prigioniero, il primo maggio ‘45, proclamò la resa limitatamente all’Armata Liguria (3 divisioni italiane e 3 tedesche). Altri reparti deposero le armi nelle mani delle nuove autorità, ma, nell’attesa di essere consegnati agli alleati, vennero massacrati dai partigiani, scesi dai monti a cose fatte. Ai primi di maggio 1945, v’erano ancora molte nostre formazioni in armi che, in atteggiamento difensivo, attendevano l’ordine di resa; arresesi successivamente, pochi dei loro componenti si salvarono dagli eccidi. È doveroso ricordare che l’Ispettorato Alta Italia della FNCRSI, sotto la guida del Comandante R. Barbesino provvide, tra mille difficoltà, al recupero di numerosissime salme di nostri Caduti, un gran numero delle quali tuttavia fu fatto passare dalle autorità locali come appartenenti a partigiani.
    Nè gli scampati si comportarono mai come sconvolti e resi imbelli dai colpi ricevuti. All’opposto, solo dopo qualche anno, arditamente e con notevole successo nelle piazze e nelle università, contestarono ai preti e ai comunisti il diritto di governare l’Italia. Non a caso fu subito varata la legge Scelba e celebrati i primi processi per apologia del fascismo e per la ricostituzione del partito fascista.
    Lo sciagurato passaggio del MSI nell’area della destra atlantica, confindustriale e golpista, che riduceva il fascismo a puro e semplice anticomunismo, segnò la frattura fra quel partito e i Combattenti della RSI. Più volte la FNCRSI ha pubblicato l’ultima dichiarazione del P.F.R. del 5 aprile 1945, che reca orientamenti essenziali e avverte, fra l’altro, che: "Sono da avversare decisamente tanto gli sbandamenti verso il collettivismo bolscevico quanto i tentativi plutocratici di sopravvivenza attraverso il compromesso". Ma già il Duce aveva inequivocabilmente definito i nuovi provvedimenti assunti dalla RSI in campo sociale come "la realizzazione italiana, umana, nostra, effettiva del socialismo nostro". Essa, inoltre, ha dimostrato che il nostro nemico reale (ben altra cosa è il principio barbarico di nemico assoluto da criminalizzare e annientare assunto dalle nazioni demobolsceviche il quale, risospingendo l’umanità alle sue origini belluine, è estraneo alla nostra spirituale e religiosa visione del mondo e dell’uomo), era ed è l’antifascismo nella sua funzione di coacervo di forze conservatrici sottomesse ai detentori delle ricchezze del mondo.
    Fermo restando che, per noi, l’8 settembre 1943 rappresenta anche lo spartiacque fra i discendenti degli antichi schiavi e la progenie dei legionari romani, dobbiamo domandarci qual è l’importanza storica e morale di questi fatti in relazione alla sentenza del TSM, e quali sono le implicazioni che sorgono dalla circostanza che la RSI non si arrese. Le conseguenze giuridico-politiche che possono trarsi dalla sentenza sono molteplici. Le più importanti per noi sono quelle di conservare un legame ideale con quello Stato repubblicano-sociale che, pur travolto nei suoi Istituti e nei suoi uomini, è ancora vivo nell’animo di quanti contribuirono a fondarlo e a difenderlo, e nel non poter e non voler essere equiparati ai partigiani del nemico invasore. Poiché la nostra sconfitta fu dovuta alle armate anglo-americane e non ai loro cooperatori italiani non belligeranti (cf. F. di O. N.2/98, promemoria di accordo fra il comando alleato e il CLNAI).
    In realtà, la sentenza non ci fa alcun regalo; tuttavia, con esemplare coerenza giuridica, riconosce la nostra specifica qualità di belligeranti, in quanto appartenenti alle Forze armate di uno Stato che "emanava le sue leggi e suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco", e disconosce tale qualità ai partigiani, perché operarono al di fuori delle leggi militari internazionali di guerra. Riconosce altresì che il governo monarchico del sud esercitava il suo potere sub conditione del comando alleato. Condizione di sovranità limitata che perdura per la supina acquiscenza dell’attuale Stato italiano, malauguratamente deciso a restare in aeternum nella servile posizione di ex nemico vinto, sebbene assurdamente alleato dell’ex nemico vincitore.
    Manca attualmente un terreno di reciproca intesa fra i Combattenti della RSI. Ad avviso di questa Federazione, un nuovo e più saldo accordo potrà concretizzarsi soltanto nella serena coscienza di essere stati - nella stragrande maggioranza - non soltanto dei militari in servizio di uno Stato qualsiasi, bensì dei Combattenti perfettamente consapevoli di battersi per una ben definita visione del mondo, e non dei rivoltosi faziosi e vendicativi tesi ad una rivincita per mezzo di complotti e di colpi di stato.
    Infine, la FNCRSI esorta tutti i Combattenti della RSI (a qualsivoglia organizzazione o associazione d’arma essi appartengano) a soppesare la saggia proposta - ancorché formulata in un contesto analogo - offerta da un democratico sincero: "I sospetti di mutua usurpazione devono cedere il posto ad invocazione di reciproca complementarietà. Ognuno deve operare in presenza degli altri; ciascuno per ricevere e per dare correzione, verifica, promozione a tutti gli altri" (cf. Sartori L. Le scienze delle religioni oggi Ed. EDB, Bologna 1983).
    Nella libera e responsabile espressione delle idee (nostre e altrui) e nel comune sentire il portato politico, etico e sociale della Dottrina - ma senza sincretismi che ne svilirebbero l’originaria unicità - risiede il nostro destino politico e la nostra dignità di uomini e di Combattenti per una causa nobile e giusta.
 
F.N.C.R.S.I.
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 Marzo 1999. C.D.L. Edizioni srl (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
    Nel processo contro alcuni ufficiali della "Legione Tagliamento" ricorrenti contro la sentenza del Tribunale Militare di Milano che aveva, tra l'altro negato che la RSI avesse costituito un governo di fatto e che, pertanto, i suoi ordini potessero ritenersi legittimi, il Tribunale Supremo Militare ha pronunziato una sentenza di eccezionale importanza (26 aprile 1954, Presidente Buoncompagni, Rel. Ciardi) che ha affrontato e risolto, con alto senso giuridico e storico, le più dibattute ed ardenti questioni in tema di collaborazionismo. Diamo qui di seguito, fedelmente riprodotto, il testo della sentenza dal quale abbiamo tolto, per amore di brevità, soltanto qualche brano senza intaccare la sostanza delle motivazioni dell'Alta Magistratura Militare. Ecco il testo della sentenza:
COMMENTO DI PIERO PISENTI ALLA SENTENZA DEL TRIBUNALE SUPREMO MILITARE (N. 747 del 26.4.1954)
 
 
    La larga diffusione che viene data a questa sentenza, all’inizio del secondo decennio dalla fine della guerra, non dovrà rimanere un fatto isolato se si vorrà imprimere più rapido cammino alla revisione che la Giustizia italiana è andata compiendo, attraverso una lunga serie di processi, tra le innumerevoli difficoltà di una legislazione eccezionale rimasta in vita a servizio di pregiudiziali d’ordine politico, che la giurisprudenza ha lentamente ma tenacemente corrose.
    In un recente volume dedicato al decennale della "resistenza" ("Dieci anni dopo" di Valiani, Lussu, Calamandrei e altri, Ed. Laterza), abbiamo letto un ampio capitolo nel quale, in sostanza si afferma, lamentando una pretesa inapplicazione o, comunque, una deformante interpretazione delle leggi cielleniste, che " quando uno Stato emana leggi che rimangono inattuate o sono applicate alla rovescia, sarebbe ingiusto accusare il Giudice di incomprensione": "la verità è - scrive il Battaglia - che la Repubblica non ha conquistato quella forza politica che le supposero i costituenti".
    È molto apprezzabile questa autocritica che proviene da uomini di primo piano nell’oggi dominante mondo politico, ma noi riteniamo che questa confessata debolezza derivi da tutt’altre ragioni, delle quali non si vuol discutere in questa sede, ma non mai dal fatto che la Giustizia dimostri la sua indipendenza e abbia raddrizzato tante storture legislative e riparato tante ingiustizie.
    Questa sentenza del T.S.M. ha sollevato le vive proteste di questo scrittore, al punto che questi le ha dedicato un capitolo intitolato: "Il rovesciamento delle posizioni", ma mentre ne vediamo riportate, testualmente, le principali proposizioni, non una parola abbiamo letto a sostegno della critica contenuta in quel titolo.
Perché "rovesciamento"?
    Quando la sentenza afferma che, dopo l’8 settembre ‘43, il potere legale nel Sud venne esercitato dagli occupanti anglo-americani, cioè dal "nemico" poiché si era ancora in regime di armistizio, quando si dice che il governo del re era un governo che esercitava il suo potere "sub conditione", cioè nei limiti assegnatigli dal comando dell’esercito anglo-americano, quando si aggiunge che a questo governo legittimo era preclusa, "de jure", ogni indipendenza, mentre tale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale Italiana "che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco", è legittimo chiedersi in che consista questo lamentato "rovesciamento", mentre si tratta di una realtà di fatto e di situazioni giuridiche inoppugnabili.
    Il raffronto tra il governo del Sud e quello del Nord, dal punto di vista della indipendenza dallo straniero, darà sempre risultati per noi favorevoli; vogliamo dire noi, italiani, e non per noi, uomini di parte, perché la indipendenza nazionale, da qualunque parte e sotto qualsiasi insegna difesa, è patrimonio di tutti.
    Il T.S.M. ha, dunque, solamente affermato: 1) I combattenti della RSI hanno diritto di essere riconosciuti belligeranti; 2) gli appartenenti alle formazioni partigiane non hanno diritto a tale qualifica, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza né erano assoggettati alla legge penale militare; 3) la Repubblica Sociale Italiana era soltanto un governo di fatto, ma poteva essere considerata, per errore, un governo legittimo, e pertanto questo errore ha valore discriminante; 4) i combattenti della RSI, quali appartenenti a formazioni belligeranti, dovevano obbedienza ai loro legittimi superiori e perciò hanno diritto alla discriminante dell’adempimento del dovere.
    Queste massime (le quali - diciamo subito - non hanno alcun movente politico) sono in stretta aderenza alle convenzioni internazionali e alla legge italiana sulla condotta della guerra.
Perché dunque, "rovesciamento di posizioni"?
    Certo, quando si dichiara dalla più alta Magistratura militare, che i soldati della RSI erano belligeranti, tanto è vero che da parte anglo-americana fu ad essi riservato il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra, ne consegue che essi non potevano essere passati per le armi senza un regolare giudizio. E pertanto tutti coloro che furono fatti prigionieri o si arresero dopo il 25 aprile 1945, in obbedienza ai bandi, e poi furono sommariamente soppressi, sono da considerarsi vittime di estrema ingiustizia.
    Che la sentenza abbia attuato un "rovesciamento", ma in tutt’altro senso, è fuori di questione. Essa ha rovesciato alcune posizioni di faziosità, ha distrutto definizioni arbitrarie e ingiuriose, ha reso giustizia a tanti italiani, i quali vollero soltanto - sia pure in istato di ribellione ad un governo che la sentenza dimostra svuotato di autorità - combattere "per il solo bene dell’Italia, quale essi lo ritennero".
    Se inoppugnabili sono le motivazioni giuridiche della sentenza, elevatissime e tutte intese alla vera pacificazione, sono le considerazioni di carattere etico e storico che essa contiene.
    Guerra civile? - "...la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta; tutti gli italiani, salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando... Non si può certo affermare che le centinaia di migliaia di soldati che rimasero al Nord e combatterono contro gli Alleati e le truppe regie, fossero una accozzaglia di traditori.      
    Accettare e consacrare alla storia una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza, annullare il retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano".
Naturalmente, il magistrato doveva - dopo queste premesse d’ordine generale - affermare il suo compito, quello che consiste - dopo ricostruita la verità storica degli avvenimenti - nel colpire le singole azioni delittuose; ma questo compito punitivo è illuminato dal monito solenne che non si possa inesorabilmente colpire quando colpire non è giusto, né si debbano "perpetuare i rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la auspicata pacificazione, la quale non può essere attuata se non nel clima di una tranquillante giustizia".
La sentenza ha dunque scritto un capitolo di storia, prefazione e premessa a quella completa ricostruzione obiettiva di un drammatico periodo della vita italiana che, se fu tumulto di lotte e di sangue, è tuttavia illuminato dalla luce del sacrificio e della fedeltà a ideali che non tramontano.
Può dirsi che fin qui la necessaria polemica, materiata di affermazioni e negazioni, di accuse e di rivalse, non abbia offerto da parte nostra quella organica documentaria dimostrazione di cui la pubblica opinione è stata sempre in attesa. Da ciò l’importanza e la necessità di far conoscere il responso della Giustizia sulle più ardenti questioni di fatto e di diritto scaturite dal tempo della RSI.
Soltanto a questo modo sarà preparato il terreno per edificare, attraverso la uguaglianza dei diritti, la nuova solidarietà nazionale con la indispensabile partecipazione di tutti quanti consapevolmente fecero parte della Repubblica Sociale Italiana.
 
 
Piero Pisenti (Guardasigilli della RSI)
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 Marzo 1999. C.D.L. Edizioni srl (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

 

LEGITTIMITA' DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA                       


 
 
ALCUNE CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA NATURA GIURIDICA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Dott. Daniele Trabucco, Studioso del Diritto Costituzionale, collaboratore universitario. 
 
In questi ultimi tempi, soprattutto in seguito all'insabbiamento del disegno di legge che voleva estendere a coloro che militarono nella Repubblica Sociale Italiana la qualifica di combattenti, è tornata in auge la tematica della qualificazione giuridica del governo di Salò. 
Personalmente non condivido, poiché non ancorata ad alcun dato positivo, la tesi sostenuta da alcuni costituzionalisti (Balladore Pallieri,Gueli) secondo la quale la R.S.I. altro non fu se non uno Stato-fantoccio, presupposto indispensabile per l'occupazione militare tedesca nell'Italia centro-settentrionale. Su questa linea, si è posizionata la maggior parte degli storici contemporanei che vede nell'ordinamento di Salò un vero e proprio regime collaborazionista dei nazisti, incapace di attuare quel programma socialisteggiante propugnato durante il Congresso di Verona del novembre 1943. Ma, in realtà, ci troviamo innanzi ad un' impostazione di parte, coniata dalla ideologia della resistenza, e non aderente alla realtà dei fatti. 
Sul piano storico, ha osservato un insigne costituzionalista quale il prof.Livio Paladin, "sono esistiti ed esistono tutt'oggi i più vari regimi fondati sull'appoggio di altri Stati, che tuttavia mantenevano e mantengono una loro originarietà ed indipendenza". 
In primo luogo, le norme promanate dalle fonti di produzione del diritto della Repubblica di Salò, durante il biennio 1943-1945, hanno sempre ottenuto media obbedienza da parte di coloro che operavano negli ambiti spazio-territoriali del governo repubblicano a riprova, come confermato dalla teoria generale del diritto, della effettività dell'ordinamento giuridico in questione o meglio, in altri termini, della validità giuridica delle sue disposizioni normative; aspetto difficilmente realizzabile in seno ad uno Stato a sovranità puramente teorica.
In secondo luogo, è significativo come il III Reich tedesco abbia riconosciuto diplomaticamente, e non solo sul piano formale, la Repubblica Sociale di Benito Mussolini attuando uno reale scambio di ambasciatori (a Berlino, andò Filippo Anfuso dopo essere stato richiamato dalla sede diplomatica di Budapest; per il governo di Salò, si insediò Rudolph Rahn già ambasciatore tedesco a Roma) segno evidente e tangibile della non volontà di considerare la R.S.I. una semplice "longa manus" dello Stato tedesco. 
A questo punto, dopo aver demolito, con argomentazioni chiare e precise, la tradizionale ed errata visione dello Stato Fascista Repubblicano, risulta necessario chiarire la qualificazione di suddetta realtà alla luce degli elementi giuspubblicistici di cui oggi disponiamo.
 La definizione più corretta è sicuramente quella che vede nella restaurazione mussoliniana a Salò, un governo locale di fatto (Giannini). Infatti, se è vero che non si può parlare di Stato nell'accezzione moderna del termine in quanto il nuovo ordinamento fascista si caratterizzava per una sovranità limitata e circoscritta ad una porzione del territorio italiano (la parte rimanente era soggetta alla pseudo-sovranità del Regno del Sud), è anche vero come, dati alla mano, non si può negare la presenza di un apparato esecutivo-amministrativo-legislativo, munito di Dicasteri abilmente distribuiti nell'ambito del proprio territorio per un maggior controllo dello stesso (la Presidenza del Consiglio a Bogliaco, il Ministero dell'Interno a Maderno, il Ministero della Difesa a Cremona, il Ministero delle Corporazioni e dell'Economia a Verona, il Ministero dell'Agricoltura a Treviso ecc….) ed in grado, anche se in maniera non sempre piena, di coordinare la propria azione politica con le iniziative militari della Wehrmacht.
A sostegno di quanto ora affermato, si può portare, a titolo esemplificativo, il tentativo di avvio, da parte della Repubblica Sociale, di un grande programma di socializzazione, non completamente attuato a causa degli interessi bellico-militari delle autorità germaniche, ma volto a ridefinire prepotentemente ed in maniera radicale i rapporti tra capitale e lavoro e tra economia e Stato: la ripartizione degli utili dell'impresa tra fondo di riserva (a favore dei lavoratori) e capitale azionario, la partecipazione dei lavoratori stessi ai consigli di gestione delle fabbriche ecc. 
Inoltre, esiste anche un dato giuridico-amministrativo inoppugnabile che confermerebbe il carattere realmente governativo e sovrano della Repubblica di Salò: il D.lgs.lgt (ossia Decreto legislativo luogoteneziale) 5 ottobre 1944 n.249 sull'assetto della legislazione nei territori liberati, ha salvato la validità e l'efficacia degli atti di ordinaria amministrazione della R.S.I., perché privi di motivazioni ed implicazioni politiche, differenziando, de facto, gli atti del governo repubblicano mussoliniano in ragione del loro grado di politicità. Dunque non è propriamente corretto sostenere che il solo continuatore dello Stato italiano fu il Regno del Sud dal momento che il riconoscimento dell'attività amministrativa della Repubblica Sociale Italiana risulterebbe sintomatico della presenza di una realtà governativa pienamente sovrana nel proprio territorio ed espressione di coloro i quali non vollero riconoscersi nella compagine governativa del generale Pietro Badoglio. 
L'attività dell'Assemblea Costituente, chiamata a redigere la Carta Costituzionale del nuovo ordinamento istituzionale repubblicano, non ha saputo tener conto di questa dicotomia istituzionale comportante una netta ed evidente divisione di sovranità tra due realtà governative opposte ma operanti, entrambe, all'interno del territorio nazionale italiano nell'arco di tempo compreso tra il mese di settembre 1943 ed il mese di aprile 1945. Sono state le forze politiche che si riconoscevano nei Comitati di Liberazione Nazionale a rovesciare il dato storico, facendo prevalere non la verità dei fatti ma unicamente la forza dell'ideologia antifascista. La stessa Costituzione nel sancire, all'art.3 primo comma, il principio di eguaglianza formale implicante il divieto di discriminazioni  "di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali" impedisce alle azioni positive ed ai provvedimenti legislativi di divenire, a loro volta, fonte di ingiustizia, dando luogo a casi di "discriminazione all'incontrario" (la c.d. reverse discrimination secondo la famosa espressione coniata dalla giurisprudenza costituzionale americana della Corte Suprema) proprio come nella fattispecie in esame, dal momento che il legislatore nazionale ha optato per la non estensione ai combattenti di Salò, decisi a riscattare l'infamia del tradimento del 25 luglio 1943, lo status giuridico di combattenti a cui giustamente e doverosamente riconoscere i benefici già riservati a coloro che militarono all'interno del fenomeno resistenziale. 
 
BIBLIOGRAFIA
BIN R. e PITRUZZELLA G., Diritto Costituzionale. Torino. Giappichelli. 2004. 
CARLASSARE L., Conversazioni sulla Costituzione. Padova. Cedam. 1996. 
OLIVA G., La Repubblica di Salò. Firenze. Giunti. 1997.
PALLA M., Mussolini ed il Fascismo. Firenze. Giunti. 1996.
PALADIN L., Diritto Costituzionale. Padova. Cedam. 1998.

I COMBATTENTI DELLA RSI CONSIDERATI BELLIGERANTI DA UNA SENTENZA DEL TRIBUNALE SUPREMO MILITARE (N. 747 del 26.4.1954) Ecco la parte conclusiva della sentenza che legittima le Forze Armate della RSI e, nel contempo, non attribuisce agli appartenenti alle formazioni partigiane la qualifica di belligeranti, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza né erano assoggettati alla legge penale militare.
 
 
 
«In questa sede non può trovare asilo passione politica alcuna. Nell'immediato dopoguerra le divergenze politiche e ideali, i risentimenti delle famiglie e degli individui, il sangue sparso e la visione della Patria umiliata, dilaniata e infranta, ebbero indubbiamente influenza sul corso normale della Giustizia, che, attraverso l'Alta Corte e le Sezioni Speciali di Corte d'Assise, pronunciò talvolta severissime ed estreme condanne. Ma oggi che il Paese può dirsi risorto, mercè l'opera costruttiva dei suoi Governi e il sacrificio, l'energia e la forza d'animo di tutto il popolo italiano, la Giustizia deve adempiere con la maggiore serenità ed obiettività possibile la sua missione, sceverando la colpa dall'errore, il delitto dall'azione ritenuta di giovamento nel divenire della Patria, e soprattutto rimanendo nei binari della legge».
«Questo Tribunale Supremo Militare ricorda l'anelito di pacificazione che pervade tutto il popolo italiano e tutti i partiti, nessuno escluso, anelito tradotto dai singoli Governi che si sono susseguiti, dal 1946 ad oggi, in decreti di Sovrana clemenza, intesi a porre sempre più sullo stesso piano morale tutti gli italiani in buona fede, per modo che tutti si sentano figli della stessa Patria, e non vi siano più dei tollerati, degli umiliati e dei reietti, cui si possa, ad ogni istante, rinfacciare un passato che fu piuttosto opera del fato, che degli individui, salvo la legittima repressione dell'azione delittuosa, da chiunque commessa, secondo i canoni immutabili del puro diritto».
«Le leggi che continuamente si susseguono in pro della pacificazione (da ultimo la pensione concessa agli appartenenti alla milizia), dimostrano a chiare note, l'indirizzo non solo giuridico, ma altresì etico del Governo e del Parlamento.
«La cronaca sta diventando storia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e nei primi anni del dopoguerra, "quelli del Nord" additavano come traditori "quelli del Sud" e viceversa. Gli appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana si ritenevano unici depositari dell'onore militare e dell'amor di Patria, e lo stesso ritenevano coloro che avevano seguito il Governo del Re».
«Un popolo di antica civiltà romana e cristiana, un popolo che ha sempre insegnato al mondo il giusto cammino, era, dunque, diventato un popolo di traditori. Le leggi del vincitore avevano dettato severissime norme contro il collaborazionismo; ma al giudice spettava e spetta di esaminare e vagliare se tradimento ci fu, o se solo vi fu incomprensione o errore».
«Questo Tribunale Supremo Militare, giudice esclusivo del diritto, sente l'altezza del suo compito, nell'ora in cui è doveroso esprimere una valutazione e un esame approfondito, sereno e obiettivo delle questioni proposte, nel rispetto delle convenzioni internazionali e del diritto intorno, e nello spirito cui oggi si informano Governo e Parlamento».
«Pertanto appare necessario prendere anzitutto in esame talune questioni fondamentali trattate dalla gravata sentenza e specialmente quelle che concernono il carattere della Repubblica Sociale Italiana, la qualità di belligeranti dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana, la posizione giuridica dei partigiani, e, infine, le discriminanti concernenti l'adempimento del dovere e lo stato di necessità».
 
Carattere della Repubblica Sociale Italiana
 
«...Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 la sovranità di fatto o meglio l'autorità del potere legale, fu nella parte dell'Italia, ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle Potenze alleate occupanti. Non poteva altrimenti essere, dal momento che, durante il regime di armistizio, permaneva lo stato di guerra e l'occupante era sempre giuridicamente "il nemico"».
«Basti considerare che tutte le leggi e tutti i decreti, compresa la legge sulle sanzioni contro il fascismo (ordinanza n.2 della commissione alleata in data 27 aprile 1945), ricevevano piena forza ed effetto di legge a seguito di ordini degli Alleati). Pertanto, il governo del re era un governo che esercitava il suo potere "sub condicione", nei limiti assegnati dal Comando degli eserciti nemici».
«Le situazioni contingenti che ebbero a verificarsi per la dichiarazione di guerra alla Germania, per la cobelligeranza e per i comuni interessi esistenti tra lo Stato italiano e gli Stati alleati, non possono mutare e trasformare la situazione giuridica che si era creata secondo quelle che erano le regole del diritto internazionale».
«Se questi erano gli aspetti giuridici della Sovranità nell'Italia del Sud, non poteva per certo il legittimo Governo italiano, che aveva solo quella limitata potestà che le potenze occupanti gli concedevano, interferire nell'Italia del Nord e del Centro, dove gli alleati non erano ancora pervenuti. La autorità del potere legale era colà in altre mani; una nuova organizzazione politica si era creata, con un proprio Governo, e, cioè, la Repubblica Sociale Italiana, riconosciuta come Stato soltanto dalla Germania e dai suoi alleati».
«Indubbiamente tale nuovo Stato non poteva essere considerato soggetto di diritto internazionale, con gli attributi della piena sovranità dagli Stati che non lo avevano riconosciuto; esso assumeva, almeno formalmente, la piena personalità giuridica solo di fronte agli Stati che gli avevano conferito detto riconoscimento. Tuttavia non poteva, nel campo del diritto delle genti, negarsi che comunque, un'organizzazione statuale, sia pure di fatto, esisteva, avente capacità giuridica propria e una propria sfera, se pur limitata, di autonomia, la quale ultima, si rilevi, non è sinonimo di indipendenza e di sovranità che altrimenti dovrebbe parlarsi di Stato di diritto».
«È comunemente accettato nella dottrina internazionalistica che, nel caso si verifichi un movimento insurrezionale, sussiste un governo di fatto in quella parte di territorio assoggettato al controllo degli insorti e sottratta al controllo del Governo legittimo».
«Quest'ultimo perde, "de facto", le attribuzioni e le competenze di diritto internazionale, condizionate all'esercizio della potestà territoriale, essendo ad esso succeduto, in quella parte di territorio, il governo degli insorti».
«Indubbiamente pressoché immutato era rimasto l'ordinamento giuridico esistente nella Repubblica Sociale Italiana: gli stessi codici, le stesse leggi venivano applicati dagli organi del potere esecutivo e dalla Magistratura. L'organizzazione statuale si manteneva in piedi a mezzo delle autorità preposte (dei Prefetti, delle Corti e dei Tribunali, degli uffici esecutivi, delle Forze Armate e di Polizia)».
«Evidentemente l'Autorità tedesca ebbe allora ad inserirsi nella vita italiana del centro-nord, con i suoi princìpi e i suoi durissimi metodi di lotta; indubbiamente le autorità della Repubblica Sociale Italiana subirono talvolta la pressione e le direttive del loro alleato, pur opponendosi spesso con energia alle sue iniziative; ma tutto ciò non può mutare la posizione giuridica della Repubblica Sociale Italiana, di essere un governo di fatto, sia pure a titolo provvisorio, che manteneva relazioni diplomatiche con alcuni Stati e intrecciava rapporti internazionali, quanto meno ufficiosi, con molti altri che pur non l'avevano riconosciuta».
«La storia di tutte le guerre insegna che molto spesso, anche quando trattasi di alleati, che insieme combattono sul territorio appartenente ad uno di essi, lo Stato più forte e più potente finisce col prendere le maggiori iniziative, interferendo nella vita e nella potestà dello Stato meno forte, imponendo le sue direttive e, talvolta, la sua forza e i suoi tribunali (esempio: corpi di spedizione alleati nella guerra 1915-1918 in territorio greco). Tuttavia la situazione di fatto che viene a crearsi tra l'alleato più potente e quello meno forte non incide sul carattere formale e giuridico dell'alleanza. Da ciò consegue che, nella specie, non basta rifarsi ai metodi tedeschi, per dedurne che essi erano gli occupanti e per negare alla Repubblica Sociale Italiana il carattere di un Governo di fatto; né la situazione fluida, durata pochi giorni, tra l'8 e il 23 settembre 1943, giorno in cui Mussolini ebbe a proclamarsi capo dello Stato fascista repubblicano e capo del governo, autorizza a ritenere che solo un regime di occupazione si sia costituito nel centro-nord dell'Italia ad opera delle Forze Armate tedesche. Si dimentica in tal modo che anche le Forze Armate alle dipendenze di Mussolini e di Rodolfo Graziani occupavano il territorio suddetto, che l'ordinanza Kesselring, in data 11 settembre 1943, che assoggettava il territorio italiano alle leggi tedesche, cessò di avere efficacia proprio con il 23 settembre 1943, quando, se pur non ancora proclamata la Repubblica Sociale Italiana (che nacque il 25 novembre 1943), esisteva già il cosiddetto Stato fascista repubblicano».
«Certo è che in quei giorni, la sovranità dello Stato italiano si ridusse solo ad una consistenza formale e giuridica: il re aveva lasciato la capitale e con il suo Governo aveva, a seguito dell'armistizio, preso contatto con gli alleati, nel nobile intento di salvare l'unità e l'indipendenza d'Italia. Il Governo legittimo potè così incominciare a consolidarsi, secondo le direttive degli alleati, e a lanciare i suoi ordini e i suoi proclami».
«Dal parallelo che scaturisce tra il regime del centro-nord e quello del sud appare, adunque, che "de facto", il Governo legittimo e quello di Mussolini avevano una libertà limitata: "de jure", era peraltro, preclusa al governo legittimo, ogni indipendenza, mentre, invece, tale formale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l'autorizzazione dell'alleato tedesco».
«Quando vuol darsi una definizione giuridica di una organizzazione insurrezionale è, pertanto, necessario non solo prendere in esame il suo ordinamento giuridico e la sua sfera di autonomia nel territorio ad essa soggetto, ma guardare altresì detta organizzazione al cospetto degli altri Stati, con particolare riferimento al governo legittimo. Se lo Stato nazionale domina, nonostante l'insurrezione, la situazione che si è creata, e ha la possibilità e la capacità di esaurirla in breve termine, allora può discutersi e forse anche negarsi l'esistenza di un governo di fatto insurrezionale; ma quando tale capacità non esiste, quando il governo legittimo è addirittura alla mercè del nemico, e l'autorità del governo insurrezionale si consolida nei suoi ordinamenti, e la sua vita è di non breve durata, allora non è più possibile negare a quest'ultimo il carattere di un governo di fatto, secondo i princìpi comunemente accolti nella dottrina internazionalistica».
«Pertanto, deve concludersi che la Repubblica Sociale Italiana era retta da un governo di fatto, dalla quale nozione scaturiscono le conseguenze giuridiche che tra breve saranno esaminate».
«Per esaminare a fondo il problema occorre rifarsi all'origine della belligeranza. Quando fu pubblicato l'armistizio dell'8 settembre 1943, una parte delle Forze Armate italiane non lo accettò e proseguì nelle ostilità contro il nemico, e, cioè, contro gli alleati che avevano messo piede in Italia».
«Indubbiamente i comandanti dei reparti che non obbedirono agli ordini del governo legittimo violarono la norma di cui all'articolo 168 codice penale militare di guerra, con cui si punisce l'arbitrario prolungamento delle ostilità».
«Questo fatto non sopprimeva, di fronte agli alleati, la qualità di belligeranti che spettava a tutti i combattenti; di fronte agli anglo-americani e loro alleati, tuttora nemici, anche in clima di armistizio non potevano i combattenti italiani - sia pure ribelli agli ordini del Supremo Comando italiano - perdere il loro carattere di belligeranti, così come è stabilito nelle convenzioni internazionali e come è comunemente accettato».
«Mai è avvenuto nella storia di tutte le guerre, di negare tale caratteristica alle truppe che non accettano la resa. Colpevoli i combattenti che non obbedirono agli ordini del re, di fronte allo Stato italiano, ma sempre soldati e belligeranti di fronte al nemico».
«I combattenti che non si arresero ritennero di dover mantenere fede all'alleato tedesco, e fronteggiarono a viso aperto l'avversario, venendo dal medesimo fino all'ultimo trattati come combattenti e come belligeranti».
«L'articolo 40 del citato regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja dichiara che ogni grave infrazione dell'armistizio, commessa da una delle parti, dà diritto all'altra di rinunciare e, in caso d'urgenza, anche di riprendere immediatamente le ostilità. Nella specie che ci occupa non ci fu infrazione da parte dello Stato italiano, ma solo da parte di considerevoli unità, di terra, di mare, e dell'aria. Ed allora il conflitto non ebbe a cessare: gli alleati fronteggiarono egualmente truppe tedesche e italiane, e solo più tardi, molto stentatamente, si attuò la cobelligeranza coi reparti regolari italiani, fiancheggiati dalle formazioni partigiane».
«Ciò appartiene alla Storia! Non può, pertanto, negarsi, alla stregua dell'articolo 40 suddetto, che gli appartenenti alle Forze Armate della R.S.I. abbiano conservato la qualità di belligeranti, né è possibile concepire che tali Forze avessero detta caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetto dei cobelligeranti italiani».
«Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati - d'accordo col Governo legittimo italiano - ai militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo».
«Belligeranti, adunque, erano i combattenti del Centro-Nord, anche se ribelli o insorti e, quindi, punibili secondo il diritto interno in base allo svolgimento di regolari giudizi».
«Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi suesposta. Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti. Anche a voler considerare, per dannata ipotesi come fa la sentenza impugnata, i reparti della RSI quali milizie alle dipendenze del tedesco invasore, egualmente dovrebbe ad essi riconoscersi la qualifica di belligeranti, perché, comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti dell'avversario belligerante, alle leggi e agli usi di guerra (i partigiani non erano belligeranti, come si vedrà in seguito); né può far velo a tale soluzione giuridica la caratteristica insurrezionale di detti reparti, poiché l'articolo 1 della Convenzione dell'Aja non fa distinzioni di sorta. D'altronde l'interpretazione pressoché autentica di questi princìpi è fornita dall'articolo 4 della Convenzione di Ginevra, 8 dicembre 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, convenzione che ha reso normativo quello che era già accettato nell'attuazione pratica del diritto internazionale bellico».
«Infatti il n. 2 del detto articolo 4, prendendo evidentemente le mosse dall'articolo 3 del Regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja il quale dichiara che gli appartenenti alle forze armate delle parti belligeranti hanno diritto, in caso di cattura, al trattamento dei prigionieri di guerra, precisa che "sono prigionieri di guerra i membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agente fuori e all'interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano le condizioni seguenti: a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b) avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare apertamente le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra".
«Questi princìpi erano stati già applicati durante la guerra, tant'è che gli alleati ottennero dalla Germania il trattamento di legittimi combattenti alle formazioni della "Francia Libera" del generale De Gaulle, nonostante la resa dello Stato francese».
«L'impugnata sentenza tratta in un modo troppo semplicistico il problema della belligeranza, considerando l'organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana come "rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, e quindi non aventi alcun valore le norme, gli ordini, i vincoli di subordinazione e i poteri gerarchici da essa emanati".
«Pertanto, rifacendosi solo al diritto interno, negando la caratteristica di governo di fatto alla Repubblica Sociale Italiana, che perfino il Pubblico Ministero aveva riconosciuto con serena obiettività e profondità di argomentazioni - pur non traendone le necessarie conseguenze - ha finito col non ritenere la belligeranza degli avversari, per potere, in prosieguo di motivazione, trattare soltanto da ribelli i combattenti della Repubblica suddetta, ed escludere, quindi, le fondamentali discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità di cui si dirà in seguito».
«In tal modo, disavvenendo a tutte le norme in materia, si perpetua una particolare valutazione dei fatti che, se era spiegabile nei primi dolorosi anni del dopoguerra, oggi non può essere consentita, nel clima dell'auspicata pacificazione e delle sopite passioni politiche, e nell'austera applicazione del puro diritto».
 
Carattere di non belligeranza dei partigiani
 
«Il giudice di merito ha, invece attribuito ai partigiani le qualità belligeranti, con una peregrina interpretazione delle disposizioni vigenti».
«Sotto il profilo etico deve subito rilevarsi che tale qualifica non può togliere ai partigiani quell'aureola di eroismo di cui molti si circondarono, ben conoscendo che da belligeranti non potevano essere trattati, ed essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni d'esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta».
«L'impugnata sentenza, si è richiamata alla citata Convenzione di Ginevra, quando si è trattato di qualificare belligeranti i partigiani, dando un'interpretazione arbitraria alle norme surriferite».
«Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per quelle che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome».
«All'uopo si osserva: 1) i belligeranti devono avere a capo una persona responsabile per i propri subordinati. Non si comprende come il concetto di responsabilità possa conciliarsi con quello di clandestinità, per cui i capi del movimento partigiano, per non farsi riconoscere, per non essere identificati e traditi, e correre l'immediato rischio di morte, si nascondevano sotto pseudonimi, eliminando, per tal modo, quanto meno le responsabilità di ordine immediato».
«Non si può dalla pratica verificatasi in guerra, per cui talvolta i capi delle forze avversarie si incontravano per venire a patti, dedurre senz'altro una inesistente giuridica responsabilità dei capi partigiani, che, era invece, accuratamente evitata».
«2) I belligeranti devono avere un segno distintivo fisso, riconoscibile a distanza. Qui la sentenza è del tutto generica, poiché si limita a citare due montanari che furono denunciati perché avevano un fazzoletto verde; essa poi accenna, genericamente, a quanto ebbe a riferire il teste - on. Ezio Moscatelli - e infine dichiara, per scienza propria e contrariamente ad ogni norma processuale, constare al Collegio che la formazione del Veneto e del Mortarolo portavano i richiesti distintivi di belligeranza».
«Tali distintivi devono essere fissi e riconoscibili a distanza. Questo doveva dimostrare il giudice di merito e non l'ha fatto».
«La nostra legge di guerra, approvata con Regio Decreto 8 luglio 1938 n. 1415, dispone all'articolo 25, in armonia con le convenzioni internazionali, che i legittimi belligeranti debbono indossare un'uniforme od essere muniti di distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza».
«La sentenza non ha affatto dimostrato - e non lo poteva - che esistesse un distintivo fisso di tal genere, comune a tutti i partigiani e riconoscibile a distanza, sostitutivo, in altri termini, della uniforme».
«La lotta clandestina, condotta dai partigiani senza dar quartiere e senza riceverne, imponeva dei metodi e degli accorgimenti che contrastavano coi segni di riconoscimento richiesti. Essi, che pur costituirono il nerbo della resistenza e addussero un apporto fondamentale alla definitiva vittoria delle Forze Armate del legittimo Governo italiano, combatterono una guerra singolare e, per certi aspetti, eroica, sacrificandosi e immolandosi per il bene supremo della Patria. I loro atti di guerra non hanno bisogno di essere legittimati attraverso la qualifica della belligeranza; agirono come agirono, perché tra i reparti fascisti e i reparti partigiani regnavano, quanto più, quanto meno, sistemi di combattimento, di guerriglia, che avevano accantonato, come si vedrà in seguito, le fondamentali norme del Codice penale militare di guerra. La loro opera deve essere apprezzata e riconosciuta, per quanto essi fecero nell'interesse del Paese, salvo la punibilità delle azioni delittuose eventualmente compiute».
«3) I belligeranti devono portare apertamente le armi. La stessa sentenza riconosce che non sempre ciò era possibile, poiché tale requisito deve essere considerato alla luce della tecnica particolare della guerra partigiana».
«4) Infine, i belligeranti debbono attenersi alle leggi e agli usi di guerra, sul qual punto il giudice di merito non ha fornito che vaghe indicazioni; ma di questo si dirà meglio in seguito».
«Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale militare, per lo espresso disposto dell'articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n. 93, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono».
«Il magistrato ha un vasto campo di valutazione, quello concernente il dolo che, in tema di collaborazione propone il quesito seguente: il giudicabile ha inteso di collaborare all'invasione del tedesco, ha voluto effettivamente tale invasione, o ha ritenuto di agire per una sia pure errata visione del bene e del divenire della Patria? Tale quesito, in altri termini ne pone un altro: è possibile, nonostante la proclamata figura giuridica del "tedesco invasore", ammettere una volontà di collaborazione non rivolta all'evento invasione, ma volta invece al "divenire della Patria"? È possibile pensare che l'agente, lungi dal ritenere la sua opera collaboratrice intesa a favorire l'invasione, abbia, in buona fede, creduto che la Repubblica Sociale Italiana si avvalesse delle forze tedesche per fronteggiare lo stesso nemico (gli alleati), ma non certo per agevolare il tedesco nei suoi piani militari e politici ai danni dell'Italia».
"La storia dirà un giorno - e la cronaca già si sofferma su questo punto - se i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana si opposero, con i mezzi a loro disposizione, ai piani del tedesco, e se mirarono - sia pure ponendosi contro il Governo legittimo - al solo bene dell'Italia, quale essi lo ritennero".
«Certo è che, nella disamina delle responsabilità occorre avere presenti i proposti quesiti in tema di dolo, al fine di accertare quale fu il movente e quale lo scopo per cui si attuò, nei singoli casi, la collaborazione».
«La Suprema Corte di Cassazione, dopo una prima rigorosa giurisprudenza, che risentiva del clima in cui ebbe a formarsi, ha sin dal primo semestre del 1947, discusso e ammesso la possibilità, nella soggetta materia, delle discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità».
«Per lo contrario l'impugnata sentenza ha, con criterio unilaterale, come si è superiormente rilevato, ritenuto che la organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana, era rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, donde nessun valore poteva attribuirsi alle norme, agli ordini, ai vincoli di subordinazione e ai poteri gerarchici che da essa promanavano. All'uopo la sentenza ricorda che, secondo la legge sulle sanzioni contro il fascismo, deve parlarsi di "sedicente Repubblica Sociale Italiana" e che tale appellativo è sintomatico per la soluzione della questione».
«Deve, in proposito, rilevarsi che il termine "sedicente" intende contrapporre tale Repubblica dello Stato italiano legittimo; essa fu solo "sedicente", perché non ebbe il pieno riconoscimento internazionale, né si sostituì allo Stato legittimo».
«Queste locuzioni "Stato di diritto", "Stato legittimo", non rispondono pienamente alla terminologia del linguaggio tecnico-giuridico, ma sono utilmente adottate per significare che non si tratta di uno Stato di fatto (altra locuzione praticamente utile), ma dell'unico, vero, legittimo Stato. Con tali argomenti il giudice di merito ha posto il veto e ha risolto ogni premessa per la discussione e l'ammissibilità delle discriminanti parole. È mai possibile che, in tal modo, siano annullati i princìpi posti dal Codice penale e dai Codici penali militari, da ogni legislazione civile, dichiarando in blocco inapplicabili tali cause di esclusione?».
«In definitiva, quando la resistenza e l'insurrezione armata assume, in grande stile, forme di organismo militare vero e proprio, quando non si tratta di una ribellione di pochi, ma di imponenti masse, è ovvio che, nei limiti consentiti e in omaggio alle esigenze dell'umanità i governi di fatto non possono essere trattati senz'altro come governi aventi giurisdizione su un'accolita di ribelli e di fuori legge; ché altrimenti, accertata l'originaria e libera volontà di porsi agli ordini della Repubblica Sociale Italiana, risulterebbe imponente il numero dei colpevoli di collaborazionismo, sia pure beneficiati di amnistia; in questa ipotesi la delinquenza politica si sarebbe palesata come generalità di vita vissuta da centinaia di migliaia di uomini e non come eccezione; il che non può essere, perché è l'eccezione che delinque e non la generalità».
«D'altronde, come può oggi parlarsi più di una accozzaglia di ribelli, quando la Convenzione di Ginevra ha inteso proprio tutelare i movimenti di resistenza organizzata, come sopra è detto?».
«Più che dall'essere la Repubblica Sociale Italiana un Governo di fatto, le discriminanti in questione traggono origine dalla riconosciuta qualità di belligeranti ai combattenti della Repubblica suddetta. Si comprende che, negata loro tale qualità, ne deriva ch'essi fossero un'accozzaglia di ribelli, di traditori e di banditi, nonostante che imponente fosse il numero dei reparti, degli ufficiali, dei decorati che non vollero deporre le armi; ammessa, invece, tale qualifica nell'indiscutibile spirito delle Convenzioni internazionali dell'Aja e di Ginevra, il problema delle cause discriminanti può e deve senz'altro essere posto e risolto».
«Lo Stato italiano punisce i suoi sudditi, per l'opera collaborazionistica col tedesco invasore, ma nel contempo è innegabile, per le cose dette che occorre tenere presente l'inquadratura militare della Repubblica Sociale Italiana, delle gerarchie costituite, degli ordini emanati e della legge militare colà imperante (quella italiana); né può da un lato riconoscersi la belligeranza e da un altro negarsi l'esistenza di un ordinamento militare, fondato sull'obbedienza e sulla disciplina militare».
«...Ciò premesso, per la serena valutazione dei fatti occorre fissare il punto di partenza, che nella sfera dell'ordine psicologico, prende le mosse dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Si è rilevato che, inizialmente, una parte delle Forze Armate italiane non volle accettare l'armistizio e proseguì nelle ostilità contro il nemico della guerra sino allora combattuta, intendendo mantenere fede all'alleato tedesco; le armi italiane non furono inizialmente rivolte contro i propri fratelli, e se scontri inizialmente vi furono tra reparti italiani e reparti italiani, più che altro si verificarono per la fatalità delle circostanze».
«I reparti che avevano seguito l'ordine del Governo legittimo pensarono soprattutto a fronteggiare il tedesco invasore, e, purtroppo, avvenne l'inevitabile, per cui si trovarono di fronte figli della stessa grande Madre. In quei giorni nefasti il potere regio era pressoché annullato, e solo formalmente esisteva, come si è dianzi rilevato, la sovranità italiana. L'esercito era disperso e infranto, gli alleati apparivano vittoriosi, tutto cadeva in rovina e grande era il disorientamento delle coscienze. In tale confusione, nella carenza dei poteri costituzionali, il soldato, l'ufficiale italiano fu chiamato a risolvere il tragico quesito, se mantenere fede all'alleato o ubbidire al Governo del re».
«Quando si afferma la tesi della libera determinazione dei singoli nella scelta del fronte, si dimentica la tragica situazione cui si è fatto segno, si oblia che la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta, che, comunque, tutti gli italiani, salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando; che, se si può parlare di collaborazionismo e di tradimento nel senso giuridico, non si può certo affermare che le centinaia di migliaia di soldati, che rimasero al nord a combattere contro gli alleati e le truppe regie, fossero un'accozzaglia di traditori. Accettare e consacrare alla storia una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza, annullare il retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano».
«Ricostruita così la verità storica degli avvenimenti, non deve da tale ricostruzione trarsi la stolida illazione che non vi siano colpevoli, poiché non v'ha dubbio che debbono essere inesorabilmente colpiti coloro che agirono in mala fede, eccedettero in faziosità, compirono azioni delittuose, crudeltà efferate ed innominabili sevizie».
«Tutta l'antecedente esposizione deve servire solo ad obiettare e a serenamente apprezzare i fatti, a non porre senz'altro le premesse di una ribellione, libera nella determinazione e totalitaria nei delittuosi scopi, per cui si giunga inesorabilmente a colpire quanto non è giusto colpire, e si perpetuino i rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la auspicata pacificazione, che non può essere attuata se non nel clima di una tranquillante giustizia».
«L'impugnata sentenza ha ritenuto che l'errore di fatto in cui possono essere caduti taluni imputati, nel ritenere legittimi gli ordini provenienti dagli organi della Repubblica Sociale Italiana, sia inescusabile, in quanto l'illegittimità di tale organismo è elemento di norme penali che quella illegittimità sanciscono. Ciò non è esatto, perché il dolo domina tutti gli estremi del reato, e alla sua ricerca non si sottrae neppure l'estremo della illegittimità».
«Ma v'ha di più! La tesi del giudice di merito non può essere accolta. Una volta riconosciuto che la Repubblica Sociale Italiana costituiva un governo di fatto e che i suoi combattenti dovevano essere considerati belligeranti, ne consegue che gli ordini impartiti dai superiori ai loro subordinati dovevano essere eseguiti. Non può far velo alla soluzione del quesito, che è di ordine strettamente giuridico, il carattere insurrezionale del Governo suddetto, per trarne l'illazione generica della illegittimità di tali ordini».
«La legittimità o l'integrità non è in funzione della insurrezione, della ribellione al potere regio, ma va posta in relazione all'organizzazione politica e militare che si era costituita con il suo ordinamento giuridico, con le sue leggi, con le sue autorità».
Se lo sbandamento delle coscienze e la fatalità degli eventi portò molti combattenti nei quadri militari della Repubblica Sociale italiana, non è esatto parlare a priori, di illegittimità degli ordini, e tanto meno escludere le discriminanti putative, se per giustificabile errore, i soggetti ritennero di adempiere al loro dovere e di agire nello stato di necessità (Art. 59, Ultimo Comma, Codice Penale)».
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 e N. 47 del Marzo e Aprile 1999. C.D.L. Edizioni srl (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)