MARIA UVA, LA DONNA CHE SVENTOLAVA
IL TRICOLORE
Franz Maria D'AsaroTrascritto dalla cyberamanuense
Aurora Sacco Fiandro
Una bella notizia per coloro che, dopo la nostra
rievocazione, ci hanno chiesto notizie sulla sorte di Maria Uva, la patriota
italiana d'Egitto che nel 1935 aspettava in auto lungo le sponde del Canale
di Suez il passaggio delle navi che trasportavano in Africa Orientale i
legionari, sbandierando un grande tricolore. E li seguiva per 90 chilometri
per poi tornare indietro. L'abbiamo ritrovata: ha 95 anni, ed è
ospite di una casa di riposo in Romagna. Scrivetele, ne sarà felice.
Questo è il suo indirizzo: Istituzione servizi sociali "Davide
Drudi", strada Meldola - S. Colombano, n.47044 - Meldola (Forlì).
L'abbiamo ritrovata anche e soprattutto grazie al
regista della Rai Sergio Tau, autore di coraggiose trasmissioni radio-televisive,
come "La voce dei vinti", testimonianze di protagonisti e combattenti
della Repubblica Sociale, e della recente storia degli italiani d'Egitto
durante la seconda guerra mondiale. Nel contesto delle appassionanti puntate
dedicate alle vicende belliche del '900, ha avuto occasione di incontrare
e intervistare anche Maria Uva. E cortesemente ce ne ha dato conto.
Intanto una rivelazione inimmaginabile: la patriota italiana Maria
Uva non era italiana, ma francese. Nata nei pressi di Lourdes, si chiamava
De Luc. Rimasta orfana quando era bambina, raggiunse la sorella emigrata
in Egitto, a Porto Said. E lì incontrò Pasquale Uva, un tassista
pugliese nativo di Bisceglie che portava in giro i turisti. E diventò
spiritualmente, appassionatamente, italiana.
C'era un arabetto che correva ad informarla ogni
volta che appariva una nave italiana all'ingresso del Canale. E lei, 32
anni, sempre pronta a preparare l'automobile, con il marito alla guida,
per percorrerne le sponde e accompagnare i legionari, confortandoli con
lo sventolìo della bandiera e canzoni italiane che diffondeva attraverso
un potente megafono. Cantava soprattutto una sua composizione, e i legionari
le gridavano: " Ricomincia, vogliamo impararla". E Maria ricominciava,
due, tre, cinque volte. Tanto il tempo c'era: 90 km. non passavano presto.
L'aveva battezzata: "La canzone di Maria". Questo il ritornello:
"Passano di Suez il Canal / le navi volte all'Africa Oriental, quand'ecco
di laggiù / si leva un canto / allor / è un canto che saluta
il tricolor / Canta Maria Uva / i canti della sua terra / a chi parte per
la guerra / il bacio di una sorella".
Ci voleva tanto fiato: "Prima di partire masticavo qualche acciuga
per farmi venire la voce più forte".
Una notte, al ritorno, rimasero in panne nel deserto; il marito percorse
17 km. a piedi per raggiungere Ismailia e chiedere soccorso. E lei, sola,
al buio, assediata dalle iene che ululavano intorno alla vettura.
Poche ore dopo, risolto il problema, eccoli correre incontro a un'altra
nave appena attraccata a Porto Said, il "Gange", con a bordo
5.000 legionari.
Ebbe un incontro con il poeta Auro d'Alba che le
disse parole bellissime mai dimenticate: "Maria Uva, sei bella perchè
sei l'Italia, sei tutte le donne d'Italia".
Con i soldi racimolati fra i generosi connazionali
d'Egitto, Maria, insieme con altri italiani che ne seguivano l'esempio,
distribuiva sigarette ai legionari in transito.
Quando nel Canale transitò la nave inglese
che portava in esilio il Negus, si vide ad aspettarla una barca carica
di suore e di tante bambine che sventolavano bandierine tricolori. Gli
inglesi rispondevano da bordo con insulti e gesti osceni.
Il patriottismo di Maria Uva, che accendeva di entusiasmo i cuori degli
italiani d'Egitto, le costò molto caro. Il marito non lavorò
più, gli inglesi smisero di affidargli i turisti che sbarcavano
a Porto Said per accompagnarli al Cairo, portarli in giro dalle piramidi
al bazar, per poi depositarli a Suez, dove si inbarcavano. Gli tolsero
il lavoro. Resistettero un po', ma ben presto non ebbero alternative: furono
costretti a rimpatriare, a lasciare ogni cosa. Ma furono ricompensati dall'affettuosa
accoglienza ricevuta in Italia. Mussolini li ricevette, decorò Maria
con la medaglia della campagna d'Africa, e provvide a far sistemare i debiti
che i coniugi Uva avevano contratto in Egitto dopo essere rimasti senza
risorse: 50.000 lire dell'epoca.
Penarono qualche tempo prima di trovare lavoro, ma poi, per interessamento
dell'aiutante di campo del Duca di Bergamo, che aveva casualmente riconosciuto
Maria per le vie di Milano, lui fu assunto dall'azienda tranviaria cittadina.
Il segretario particolare di Mussolini sistemò lei alla Maternità
e Infanzia.
Nel '45 Maria Uva rischiò di essere condannata
a morte per i suoi "trascorsi fascisti". Si salvò perchè...era
francese.
I sentimenti di Maria Uva erano comuni alla maggioranza degli italiani
d'Egitto; 50.000 all'inizio della seconda guerra mondiale. Gli inglesi
li incriminarono in massa con l'accusa di essere "very dangerous persons",
persone molto pericolose. Quindi furono licenziati dai posti di lavoro,
diffidati dal frequentare locali pubblici e di riunirsi, intimati a non
esercitare attività economiche e commerciali, costretti a consegnare
gli apparecchi radio, praticamente trattati da delinquenti e come tali
oggetto di sequestri dei loro beni mobili ed immobili. E come se non bastasse,
l'internamento in campi di concentramento del deserto degli uomini dai
15 ai 65 anni e delle donne ritenute "pericolose".
Da una impressionante documentazione raccolta dall'Associazione
Nazionale Profughi Italiani dall'Egitto, per iniziativa del suo animatore
che la presiede con esemplare impegno, il Dr. Franco Greco, risulta che
ben ottomila furono i nostri connazionali rinchiusi nei campi di concentramento.
Il più duro fu quello di Fayed. Niente baracche, soltanto tende
militari inglesi, pagliericci sulla nuda terra, pochissima acqua, assistenza
sanitaria inesistente, nessuna possibilità di contatti esterni.
In questo campo erano rinchiusi 5.500 italiani. Gli inglesi lo avevano
suddiviso in 21 sottocampi che graziosamente chiamavano "cages",
gabbie, separati l'uno dall'altro da reticolati di filo spinato. Si estendevano
su un perimetro di oltre 5 chilometri. Oltre quattro anni di questa vita
infernale in una landa desolata e torrida.
Le donne erano state deportate nel campo di Mansurah,
gli anziani e gli ammalati in quelli di Suez, Embabeh e Tantah.
Nei campi ci furono incidenti, tentativi di fuga, proteste, scioperi
della fame. In più occasioni le guardie armate spararono contro
i prigionieri: 4 uccisi e 13 feriti. Per le privazioni e mancanze di cure
perirono 38 internati; senza contare i molti che non sopravvissero negli
anni successivi a quel lungo periodo di sofferenze.
Unico sollievo la soccorrevole e rischiosa benevolenza degli egiziani,
che attenuavano per quanto possibile il rigore delle leggi inglesi di guerra
contro gli italiani.
E a guerra finita, difficilissimo fu il reinserimento
dei nostri connazionali. Gli inglesi, di fatto ancora padroni dell'Egitto,
continuarono ad essere vendicativi, a frapporre mille ostacoli alla ripresa
della nostra collettività, oltretutto praticamente abbandonata dai
governi di Roma che si disinteressavano sistematicamente delle comunità
italiane all'estero, in sospetto di rimpianti e nostaglie incompatibili
con i nuovi orientamenti.
Quando erano ancora rinchiusi nei campi di concentramento
nella zona del Lago Amaro, al centro del Canale di Suez, un giorno i nostri
connazionali videro arrivare due maestose corazzate: la "Vittorio
Veneto" e l'"Italia", orgoglio e vanto della nostra Marina.
Sembrò un evento gioioso, ci furono alcune ore di euforia, e invece...
Le due navi erano arrivate laggiù in seguito all'armistizio dell'8
settembre '43, dopo aver ricevuto lo sconvolgente ordine di consegnarsi
agli inglesi. Una decisione ritenuta indegna e vile da molti; fra gli altri,
il leggendario comandante commergibilista Fecia di Cossato (1 medaglia
d'oro, 3 d'argento e 3 di bronzo), che non riuscì a sopravvivere
all'onta e si sparò un colpo di pistola. Aveva 35 anni.
Gli equipaggi avevano creduto alla promessa che
sarebbero stati considerati amici e cobelligeranti degli alleati; si trovarono
invece in una condizione di estrema mortificazione, considerati inaffidabili.
Praticamente prigionieri. E non potevano immaginare quale triste destino
fosse stato già deciso per le due unità. Al momento inerti,
con i motori malinconicamente spenti, isolate in mezzo al Lago Amaro, tra
Asia e Africa, lungo le coste desertiche, aride e solitarie. Che farsene
della facoltà di scendere a terra? Meglio restarsene a bordo, coltivando
speranze sempre più fievoli, a lustrare bronzi e ottoni, a tenere
in ordine le uniformi, a pulire ogni angolo dell'unità, in attesa
che quell'assurdo esilio finisse. Tutte le ritualità continuarono
ad essere rispettate: dall'alzabandiera al cambio di uniforme quando i
marinai dismettevano la divisa di fatica, dalla minuziosa rassegna sul
ponte agli onori prescritti per gli ufficiali che salivano o scendevano
la scaletta, alla rigorosa osservanza del taglio dei capelli e della pulizia
personale.
Potevano scendere a terra: ma per andare dove? Intorno
c'era il deserto, con una sola sgangherata baracca dove una vecchia greca
serviva orribili caffè e birre di pessima qualità. Un po'
più avanti uno squallido e maleodorante villaggetto, regno incontrastato
di mosche, zanzare e immondizie. Assolutamente infrequentabile.
Così, per mesi e mesi, in attesa che si realizzassero le menzogne
promesse con le quali erano stati indotti a consegnarsi all'ex amico, sfidando
la vendicativa rabbia dell'ex alleato germanico.
Poi cominciò a farsi strada l'angosciosa idea che gli inglesi
avrebbero finito per impossessarsi delle due corazzate, le più belle
ed eleganti che si fossero mai viste nel canale di Suez. Un marinaio, Enrico
Decembrino, di Bari, interpretando l'inquieto stato d'animo degli equipaggi,
consegnò al comandante Spigai un biblietto nel quale c'erano scritte
pochissime ma perentorie parole: "Il nostro dovere di marinai è
uno solo: o a Taranto o a fondo".
Gli inglesi, informati, capirono che quegli italiani non scherzavano.
Partirono allarmati dispacci per Londra. La risposta fu una decisione che
definire ipocrita sarebbe una gentilezza: restituire le due belle navi
all'Italia, alla fine del conflitto...ma con l'obbligo di demolirle.
Una infinita tristezza, ma anche una malinconica
consolazione: meglio quella fine che vedere le due unità con nuove
bandiere straniere senza poter far sapere che una volta erano appartenute,
con un passato di eroiche vicende, alla Marina Italiana.
E quando venne il momento di riaccendere le caldaie per attraversare
di nuovo il Canale ed entrare nel Mediterraneo con le prore verso l'Italia
per tornare in patria, condannate alla demolizione, la "Vittorio Veneto"
e l'"Italia furono lustre come mai lo erano state.
Andavano a morire in tenuta di gala.
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del 29 Dicembre 2000
L'EROINA DEL CANALE DI SUEZ
Incontro con Maria Uva
Daniele Gaudenzi
Trascritto dalla cyberamanuense
Aurora Sacco Fiandro
Quando nel 1935, le navi che trasportavano i nostri
soldati verso l'Africa Orientale percorsero il canale di Suez (realizzato
fra il 1859 e il 1869 su progetto dell'italiano Luigi Negrelli) furono
salutate da entusiastiche dimostrazioni dei connazionali residenti in Egitto.
Una suggestiva copertina dell'indimenticabile "Domenica
del Corriere", illustrata da Achille Beltrame, ci mostra appunto le
navi dei legionari circondate da imbarcazioni colme di italiani festanti
con bandiere tricolori. Annunciando alla radio l'inizio dell'impresa africana,
Benito Mussolini aveva esaltato la mobilitazione di milioni di italiani,
"un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola".
In quei giorni, una giovane italiana, nata in Francia
e residente in Egitto, divenne famosa in tutto il mondo per le manifestazioni
di fervido patriottismo di cui si rese protagonista all'indirizzo dei nostri
legionari, sfidando l'ostilità inglese. Il suo nome: Maria Uva.
Un nome caro a generazioni di italiani autentici,
come quelli di Norma Cossetto, la martire istriana, di Maria Pasquinelli,
che colpì l'oppressore inglese, di Alfa Giubelli, che vendicò
il sacrificio materno.
Maria Uva si sentiva, come mi ha detto nei giorni
scorsi, "mamma, sorella, sposa di tutti i legionari". Oggi la
"ragazza del canale di Suez" è una dolce signora di 94
anni che trascorre le sue giornate, leggendo e conversando, in un pensionato
di Meldola, la cittadina romagnola nei pressi di Forlì, che la ospita
da anni. E' piccola, esile, fragile. Solo rievocando le vicende drammatiche
e sanguinose delle persecuzioni che dovette subire nel 1945, ad un certo
punto, s'è commossa abbandonandosi ad un lungo singhiozzo.
Eppure si sente che questa donnina è dotata
tuttora d'una grande energia interiore ed è ancora capace d'entusiasmi
giovanili, soprattutto quando ricorda e rievoca i tempi e gli episodi della
sua "avventura africana".
Maria nacque in Francia a Villeneuve, presso Lourdes,
nella famiglia De Luca, d'origine piemontese. Suo marito, Pasquale Uva,
era nato invece in Egitto da genitori pugliesi. Quando gli italiani, sfidando
le minacce della "Home Fleet" albionica, attraversarono il Canale
di Suez (l'Egitto era controllato dagli inglesi) dirigendosi verso i porti
dell'Eritrea e della Somalia, Maria si trovava nella terra dei Faraoni
da 9 anni, avendo raggiunto la sorella che viveva al Cairo. Si era sposata
nel 1933 ed abitava a Porto Said. Infiammata d'italianità, con l'amico
Nino Scotto, si distinse ben presto nelle manifestazioni di saluto e solidarietà
verso i nostri soldati colonizzatori che andavano a conquistare "il
posto al sole" ed a spezzare le catene degli schiavi. Un piccolo arabo
correva ad avvertirla: "Il piroscafo!" e allora Maria, ammantata
in un tricolore, volava verso le sponde del Canale, gridava (senza microfono!)
tutto il suo amore e cantava le canzoni della Patria.
Correva felice e rispondeva al saluto entusiasta
dei soldati, aggrappati alle sartie. "Fin dove ci accompagni, Maria?",
le chiedevano sorridenti. "Fino ad Addis Abeba!" gridava Maria.
In effetti, li accompagnava ogni volta per novanta chilometri, talvolta
correndo a piedi o pilotando l'auto. Ed era davvero uno spettacolo straordinario
- e divenne come un "mito" in tutto il mondo - quella "giovane
in tricolore" che esprimeva gioia e fervore, salutata da tutti quei
soldati e marinai che esplodevano festosamente alla sua apparizione.
Gli inglesi, naturalmente, masticavano amaro e non
nascondevano il loro disappunto.
Maria se ne infischiava dell'ambiente ostile che
la circondava, non aveva paura.
Intanto la sua popolarità cresceva fra le
comunità italiane nel mondo, anche a Brooklyn, dove la sua immagine
era esposta nei negozi e sulle copertine dei nostri periodici. Maria Uva
era divenuta il dolce simbolo del patriottismo italiano, l'espressione
di una femminilità che s'imponeva fra tante difficoltà, rivendicando
un suo ruolo attivo nell'ora del più esaltante impegno nazionale.
Ma la reazione inglese non si fece attendere: il marito di Maria Uva si
ritrovò senza lavoro e le angherie nei confronti della giovane coppia
si moltiplicarono al punto che i due coniugi dovettero far ritorno in Italia
nel 1937. Maria si ritrovò all'altare della Patria con gloriosi
reduci della conquista dell'impero e fu poi ricevuta a Palazzo Venezia
da Colui che ancora chiama affettuosamente "il mio Duce".
Mussolini l'accolse con grande simpatia ripetendo:
"Siete tre volte italiana!". Alludeva al suo fervore dell'italianità,
intatto malgrado la lunga permanenza all'estero, in Francia, in Egitto.
Onorata dal Duca D'Aosta e da Piero Parini, Segretario
dei Fasci degli Italiani all'Estero, Maria fu invece delusa dall'incontro
con Bottati, vago ed elusivo di fronte alle richieste di un posto di lavoro.
Eppure le era stato consegnato un distintivo, fregiato del gladio romano,
col quale il Duce le manifestava la riconoscenza del popolo italiano per
il suo esemplare patriottismo!
Fra l'altro la decorazione era stata indirizzata
"Alla Signorina Maria Uva", con evidente (logico) disappunto
del legittimo consorte.
Pasquale Uva, morto nel 1969 a Meldola dove abitava
con la moglie da 33 anni, trovò impiego a Milano nell'Azienda ferrotranviaria,
mentre Maria s'impiegò dapprima all'O.N.M.I. presieduta dal famoso
Marinotti della Snia Viscosa e qui si deve rilevare la grande capacità
della giovane profuga nell'inserirsi negli ambienti altolocati, senza che
la frequentazione dei personaggi della nobiltà e della finanza (dai
Matarazzo alle Trivulzio) venisse a scalfire in alcun modo la sua spontanea
freschezza ed il suo assoluto disinteresse.
Anzi Maria, che nel frattempo diede alle stampe
il suo "Libro di Maria" (rievocazione appassionata della vicenda
di cui era stata protagonista), approfittò della rete di conoscenze
per dare vita ad iniziative di alto valore morale e di rilievo sociale
(oggi si direbbe di volontariato) come "L'ora della lana", facendo
fare le calzette alle signore dei salotti milanesi e impiegando le detenute
di san Vittore nella preparazione degli abiti per i bimbi.
Sia le nobildonne e le signore che le carcerate
erano così impegnate nelle iniziative di Maria Uva, grazie alle
quali furono vestiti ben 2.200 bambini.
Ma con la seconda Guerra Mondiale, l'infaticabile
donna s'occupò anche dei nostri soldati operanti nel freddo e nel
gelo delle terre balcaniche, tant'è che organizzò il rifornimento
d'indumenti adeguati, prodotti dalle sue volontarie, da Tirana al Montenegro.
Nel contempo prese contatto con un celebre scenografo russo della "Scala"
per dar vita ad un suggestivo spettacolo nel corso del quale, al Lirico,
si esibì come cantante (il "pezzo forte", naturalmente,
furono le "Canzoni del Canale", vale a dire quelle che, con la
sua voce vibrante e gentile, aveva dedicato ai legionari dell'Impero).
Furono tre serate indimenticabili. Con il 25 luglio 1943, suo marito si
ritrovò nuovamente senza lavoro, ma il peggio accadde dopo il 25
aprile del 1945 quando, sfollata per i bombardamenti a Giussano (mentre
la sua casa di Anzio s'era trovata nella "testa di ponte), si vide
prelevata, assieme al marito, da un nugolo di energumeni partigiani che
scaricatala poi da un camion, la presero a calci e la trascinarono, con
insulti osceni, fino ad un luogo dove la terra era vistosamente chiazzata
da macchie di sangue.
Lì era stata uccisa un'altra donna, un'Ausiliaria, ed i partigiani
le dissero chiaramente che quella sarebbe stata anche la sua fine. Suo
marito, disperato si gettò davanti a lei gridando: "Uccidete
me! Lei ha fatto solo del bene!"
I "giudici" partigiani erano tre e qui
accadde l'incredibile. Il più anziano dei tre riconobbe Maria Uva
e disse: "E' vero ha fatto del bene a mio figlio. Se le facessi del
male, lui non me lo perdonerebbe".
Non soltanto la lasciò andare, ma le regalò
un pezzo di formaggio perchè si sfamasse.
Quando ritornò a Giussano, la popolazione era in fermento poichè
intendeva liberarla dalle grinfie dei partigiani. L'accolsero perciò
con grande calore.
Ma le peripezie di Maria Uva non cessarono per questo.
Il cognato Francesco era morto sotto le bombe americane, un altro familiare
era finito in Russia.
Lei si trasferì col marito a Bisceglie, dove
poi conobbe un buon amico, Vito Canainello, il realizzatore del grattacielo
di Bari. Poi da Roma andò a Nettuno dove, con Pasquale, visse in
una trattoria, mentre il produttore israelita Morris Ergas, già
legato alla Pampanini e poi alla Sandra Milo, aveva acquistato da lei casa
e mobili. I coniugi Uva decisero infine di trasferirsi al nord, precisamente
nella tranquilla Meldola, dove ebbero occasione di stringere amicizia con
Plinio Pesaresi, già comandante di Giorgio Albertazzi nella RSI,
nonchè col noto prof. Sartini, di chiari sentimenti fascisti.
Maria Uva, naturalmente, non hai mai rinnegato i
sentimenti e le convinzioni della sua giovinezza. E' stata "madrina"
in numerose manifestazioni missine e combattentistiche. Io stesso la conobbi,
negli anni Cinquanta, nella Federazione forlivese del MSI. Negli anni Sessanta,
nel corso di una manifestazione alla presenza del leggendario Generale
Bergonzoli ("Barba Elettrica"), Maria ricevette l'omaggio di
ben otto Medaglie d'Oro. Particolarmente intensi ed affettuosi i suoi rapporti
con Donna Rachele ("era mia sorella", dice).
Oggi questa donna straordinaria, alla quale stanno
dedicando una tesi di laurea presso l'Università di Bologna (il
che è tutto dire), vive in precarie condizioni economiche. Vive
in solitudine il tramonto della sua vita così intensa e coraggiosa,
poichè l'Italia sembra proprio aver dimenticato colei che fu il
simbolo di una giovinezza piena di ideali e di entusiasmi.
Sarebbe doveroso testimoniarle una concreta solidarietà. Lo
merita per il suo splendido passato e per la sua attuale esistenza, fatta
di dignitosa povertà e di silenziose incancellabili memorie.
LINEA Quotidiano del 3 Dicembre 1999
C'ERA UNA VOLTA L'AFRICA
ITALIANA - La centenaria «sorella di Suez»
Franz Maria d'Asaro
Giunti all'80^ puntata della nostra rievocazione
di quella che è stata l'Africa Italiana, siamo molto lieti di dover
tornare indietro. Per la fortunata circostanza che aver reso nota il 20
dicembre 2000 su questa pagina la storia avvincente e straordinaria di
Maria Uva, "la pasionaria di Suez", ormai alle soglie dei 100
anni, ha dato luogo a una serie di iniziative di cui è giusto che
i lettori siano informati. Da quel giorno di lei si sono occupati in molti,
vecchi reduci d'Africa felici di averla ritrovata, giornali e televisioni,
specialmente Paolo Limiti nel suo programma e il regista della Rai Sergio
Tau, autore di coraggiose trasmissioni come "La voce dei vinti",
testimonianze dei combattenti della Repubblica Sociale.
Anche il capo dello Stato, Ciampi, ha voluto inviare,
all'istituto geriatrico dove trascorre le sue giornate "la ragazza
di Suez", "uno speciale, affettuoso pensiero per la gentile signora
Maria Uva".
La storia di questa donna è stata anche oggetto
di una tesi di laurea al corso di Storia Contemporanea dell'Università
di Bologna.
Per chi lo avesse dimenticato o per chi non avesse
letto quanto,di lei abbiamo già raccontato, ricordiamo che questa
patriota così fervente e appassionata è in realtà
nata francese, nei pressi di Lourdes, di cognome De Luc, animata da un
grande amore per l'Italia dopo aver sposato un pugliese, Pasquale Uva,
di Bisceglie, che gestiva un'autorimessa a Port Said, dove Maria, rimasta
orfana da bambina, si era recata in visita dalla sorella emigrata in Egitto.
Quindi il colpo di fulmine, una stupenda storia d'amore con Pasquale e
una nuova vita sulle rive del Nilo con il marito italiano.
Maria diventò un mito per i nostri legionari
a bordo delle navi che li trasportavano in Africa Orientale al tempo della
campagna etiopica nel 1935-36. Insieme con il marito ed altre donne delle
comunità italiane di Port Said, Ismailia e Suez, aspettava i piroscafi
all'ingresso del Canale e in automobile li accompagnava sin dove era possibile
(90 chilometri) sventolando un immenso tricolore, lanciando messaggi e
saluti, cantando attraverso un megafono motivi popolari e inni patriottici.
Il Canale di Suez è così stretto che si può colloquiare
senza troppa fatica dalle navi alle rive e viceversa. I soldati, commossi
e sorpresi di trovare l'imprevista accoglienza a tanta distanza dall'Italia,
rispondevano alla voce agitando fazzoletti e copricapi coloniali: Avevano
cominciato a chiamare Maria con epiteti gentili; "l'usignolo del Canale",
"la Signora di Suez", "Angelo protettore",
"Sorella canora", "La madonna del legionario", "Fiore
italiano" e tanti altri appellativi poetici.
Spulciando fra le migliaia e migliaia di lettere
di quei volontari, che conserva con geloso orgoglio, si leggono espressioni
di commossa riconoscenza, non soltanto da parte di umili soldati, contadini
ed operai, cui costava grande impegno scrivere poche righe, ma anche firmate
da personaggi importanti. Fra quelle dei generali, una, in data agosto
1936, è di Alberto Savoia-Genova, duca di Bergamo, comandante della
Divisione "Gran Sasso", il quale elogia Maria Uva "per aver
profuso tutto il sorriso e il fervore del suo italianissimo cuore; si è
attiratala persecuzione straniera, ma si è conquistata la riconoscenza
di centinaia di migliaia di soldati che non la dimenticheranno mai e porteranno
caro il ricordo dell'esempio di amor Patrio che Ella ha loro offerto".
Dopo averle dato atto di essere riuscita a donare
ai legionari in transito "il saluto augurale della Patria ormai lontana";
il generale così conclude: "Con gli ufficiali, i fanti, gli
artiglieri, i genieri e le truppe dei servizi della "Gran Sasso",
io pure, loro comandante, ringrazio Maria Uva di quanto ha fatto per l'Italia
e per tutti noi, e le invio il nostro riconoscente saluto".
La storia di Maria Uva fu ben presto conosciuta
anche all'estero grazie alle lettere che inviavano a casa i volontari venuti
dalle nostre comunità sparse nel mondo, dagli Stati Uniti all'Argentina,
dalla Francia al Belgio, dalla Germania alla Tunisia. E il caso di ricordare
che i volontari, provenienti dall'estero erano stati organizzati in una
apposita Divisione al Comando di Piero Parini, direttore dell'Ufficio Italiani
all'Estero, poi ambasciatore al Cairo e infine prefetto di Milano. Anche
lui commosso "nel ringraziare ancora una volta a nome dei Legionari
dell'Estero questa italiana dell'Estero che ha scaldato con la sua fede
e con il suo canto coloro che muovevano sulla via del Sud, italiani al
cento per cento".
Da queste lettere si apprende che oltre alle tante
italiane di Port Said, Ismailia e Suez, che seguivano Maria Uva sulle sponde
del Canale per accompagnare con canti e sventolio di bandiere le navi in
transito, c'era anche un sacerdote, padre Agostino Romoli, il quale, anche
di notte, a bordo di un motoscafo, si recava sotto bordo a portare saluti
e benedizioni. Sul suo esempio le signore cominciarono a servirsi di imbarcazioni
per avvicinarsi il più possibile ai piroscafi e far sentire ai legionari
ancora più calorosa quella partecipazione.
Uno spettacolo che indispettiva i marinai inglesi,
i quali assistevano impassibili e gelidi a quel gran vociare di italico
patriottismo. Erano gli equipaggi dell'incrociatore "Barham",
dei cacciatorpediniere "Active" e "Antilope", dei sommergibili
"E-27" e " H-32", della nave appoggio "Shillier".
Scrisse un testimone dell'epoca, il colonnello Varo Varanini: "Guardavano
muti, forse ammirati, e anch'essi, in cuor loro, pensavano alla Patria
lontana".
Poi, da quel gruppo di donne si levavano alte le
note delle canzoni, e a bordo delle navi il silenzio diventava assoluto.
Ma appena il canto finiva scoppiava l'entusiasmo. Racconta Varanini: "Maria
Uva, invocata da prora, chiamata da poppa, cantava, cantava, cantava. Ad
ogni strofa un applauso fragoroso, mentre un grido formidabile si alzava
dalla coperta, dai ponti, dalle cabine, dalle stive del vapore, diventato
loggione, palchi e platea. Un teatro semovente, gremito di migliaia e migliaia
di spettatori".
Ad un certo punto Maria avvertiva attraverso il
megafono che fra poco la strada si sarebbe discostata per alcuni chilometri
dal Canale: "Staremo un'ora senza vederci, il percorso stradale tornerà
al Canale poco prima di Ismailia, ci rivedremo lì, arrivederci".
E i volontari aspettavano (se era già sera
nessuno andava a dormire), aspettavano appoggiati ai parapetti delle navi
di riprendere a colloquiare con quella "sorella italiana". Di
notte i fari delle automobili degli italiani illuminavano i tricolori issati
sui cofani.
Infine l'ultimo saluto in vista di Suez. Quindi
il Mar Rosso. E un gran silenzio. A bordo tutti tacevano, tutti pensavano.
Nessuno riuscì mai a dimenticare Maria Uva e le sue amiche. Migliaia
e migliaia di lettere, cartoline, biglietti, fotografie con dedica, ne
sono la riprova.
In alcune missive si leggono anche ingenue proposte
di matrimonio. Lei rispose a molti, impossibile rispondere a tutti.
Il rito patriottico di salutare e accompagnare le navi dei legionari
in transito era cominciato per caso, al passaggio del piroscafo "Argentina".
Sulla riva del Canale erano andati alcuni amici, Maria Uva con il marito,
Antonio Galliano - che poi sarebbe partito volontario con la Divisione
"Tevere" - Antonio Scotto e Stella Della Ricci. Fu tale l'entusiasmo
dei soldati per gli inattesi festosi saluti di quegli italiani che Maria
Uva decise di ripeterli e continuarli per tutto il periodo della campagna
d'Etiopia. Si alzava all'alba, tornava a casa la sera senza più
un filo di voce ma al mattino successivo l'aveva già miracolosamente
recuperati, con l'aiuto di un po' di acciughe, come ben sanno i cantanti.
A convincere Maria a perseverare c'era stato un
telegramma trasmesso dal piroscafo "Toscana": erano i legionari
che la ringraziavano con affettuose espressioni. Quel telegramma fece il
giro di tutte le case degli italiani di Port Said, dove le navi in transito
dovevano sostare per il pagamento degli esosi pedaggi che ci infliggevano
gli inglesi e per il disbrigo delle altre formalità. E si apri un
nuovo capitolo di solidarietà: i legionari cominciarono a ricevere
non soltanto canti e saluti ma anche generi di conforto; dolciumi, sigarette,
datteri, oggettini vari. Le signore si davano gran da fare per raccogliere
fondi, acquistare doni e confezionare pacchi, un impegno non da poco: ne
furono distribuiti circa tremila.
C'erano poi anche le spese per il noleggio dei motoscafi.
La tariffa era di 25 piastre per ogni ora, ma da quelle signore se ne pretendevano
60, prendere o lasciare.
Alle quattro del mattino dell'11 ottobre 1935 i
legionari che riposavano a bordo della nave "Gange" furono svegliati
da un gran trambusto. Anche il generale Bertini, comandante della Divisione
"Sila", anche Bottai, anche il console generale D'Alba. Dal ponte
di comando avevano avvistato, all'imboccatura del Canale, a quell'ora impossibile,
ancora e sempre lei, Maria Uva, con il marito e un amico, Antonio Scotto,
lì, infreddoliti, in attesa dei legionari per salutarli alla voce
e con lo sventolio del tricolore. Per poi accompagnare la nave lungo la
strada che costeggia il Canale. Alla sosta successiva i legionari le consegnarono
tre bandierine e un messaggio di gratitudine firmato da migliaia di volontari.
Le ostilità degli inglesi e dei loro reparti
indigeni procurò a Maria anche momenti ad alto rischio. Per esempio,
quando un poliziotto sudanese tentò di sequestrare il messaggio
di un legionario a lei diretto che era stato lanciato da una nave. Maria
andò su tutte le furie, riuscì ad impossessarsi del foglio
ma per impedire che l'agente lo leggesse fece in tempo a strapparlo a pezzetti
e a gettarlo in mare. Il poliziotto, imbestialito, imbracciò il
fucile puntandolo contro di lei. Dal piroscafo si levarono urla così
potenti, con la minaccia di fermare le macchine e di scendere, che il sudanese
preferì desistere e allontanarsi.
Dalle navi in transito anche personaggi importanti impugnavano il megafono
per salutare e ringraziare Maria Uva: fra gli altri, i generali Badoglio,
Teruzzi, Parini, il Presidente del Senato Giacomo Suardo
E venne il triste giorno della resa dei conti, quando
Maria e il marito dovettero abbandonare Port Said. Gli inglesi non avevano
perdonato la loro "sfida". Ritirata la licenza a Pasquale, i
coniugi Uva erano rimasti privi di risorse vitali. Non solo, ma erano stati
definiti "very dangerous persons", persone molto pericolose.
Dovevano andarsene.
In Italia trovarono affettuosa solidarietà. Furono aiutati dal
governo a saldare i debiti che erano stati costretti a contrarre in Egitto
per sopravvivere, e ottennero entrambi un impiego dignitoso.
Ma le tribolazioni non erano finite. Negli anni
terribili seguiti alla primavera del 1945, Maria Uva rischiò addirittura
di essere condannata a morte per i suoi "trascorsi fascisti".
Si salvò quando dimostrò, anche grazie al provvidenziale
intervento dell'ambasciatore di Parigi, che era francese. Ne sarebbe derivata
una seria complicazione diplomatica.
In Egitto aveva lasciato tutto. Si era portata però
il patrimonio più prezioso della sua vita: tutte le lettere dei
legionari, migliaia e migliaia.
Ha un solo desiderio: non essere dimenticata. E
per questo chiede, tramite il nostro giornale, che le continuino ad arrivare
lettere e cartoline di conforto e di solidarietà. Questo l'indirizzo:
Maria Uva, Istituto "Davide Drudi", Mendola (Forlì) 47014.
Le lettere più recenti sono di figli e nipoti di legionari che
le testimoniano quanto lei fu di sostegno morale a tanti soldati che, tornati
in Italia, portarono nelle famiglie l'indimenticabile ricordo della "Sorella
di Suez".
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del Venerdì 22 Marzo 2002
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