giovedì 7 luglio 2022

I CRIMINI DEGLI ANGLO-AMERICANI IN SICILIA E A NAPOLI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – IL RUOLO DELLA MAFIA E QUELLO DELLA MASSONERIA

 

I CRIMINI DEGLI ANGLO-AMERICANI IN SICILIA E A NAPOLI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – IL RUOLO DELLA MAFIA E QUELLO DELLA MASSONERIA

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Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo integralmente, a mo’ di dossier completo, l’intervista che Federico Dal Cortivo per Europeanphoenix ha realizzato con lo storico siciliano Giovanni Bartolone, in cui lo studioso fa il punto su lunghi anni di studi relativi a pagine amare, a torto dimenticate, perché devono anche esse far parte della memoria nazionale condivisa, come quelle che Giampaolo Pansa ha scritto negli ultimi anni sulle atrocità commesse nella guerra civile contro “i vinti”.

D: Prof. Bartolone, oggi assistiamo alla sistematica violazione delle più elementari norme di comportamento in caso di guerra da parte degli Stati Uniti e dei suoi Alleati della Nato. A farne le spese le popolazioni afghane e libiche e prime ancora quelle irachene, serbe, somale, vietnamite ecc. Tutto cade nell’oblio mediatico embedded, non se ne parla e al massimo è giustificato come “danni collaterali”. Eppure questo è già accaduto in Europa e nel nostro caso in Italia, dopo che le forze d’invasione Alleate sbarcarono in Sicilia con l’Operazione denominata Husky (Colosso) nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943…

 

Dopo la perdita del Nord Africa, nel maggio del 1943, era quasi sicuro che presto o tardi gli Alleati avrebbero aperto, come chiedeva Stalin, un secondo fronte in Europa. Non si sapeva però il luogo: Sicilia, Sardegna, Grecia, o altro? Il peso del conflitto fino a quel momento in gran parte gravava sulla Russia, che si lamentava. Durante la Conferenza di Casablanca, Marocco, gli Alleati dopo lunghe discussioni, decisero che l’assalto alla Fortezza Europa sarebbe iniziato con lo sbarco in Sicilia, la cui conquista avrebbe provocato il crollo del Fascismo e l’uscita dalla guerra dell’Italia.

La Conferenza di Casablanca (nome in codice Symbol) si tenne dal 14 al 24 gennaio 1943, per pianificare la strategia europea degli Alleati per il resto della guerra. Furono presenti il presidente Americano Franklin D. Roosevelt, il premier britannico Winston Churchill e il generale Charles de Gaulle, capo della Francia Libera.

Durante la Conferenza, svoltasi all’Hotel Anfa, fu deciso che, dopo la fine delle operazioni militari in Africa Settentrionale, si sarebbe attaccata l’Italia, considerata un obiettivo facile (Churchill la definì “il ventre molle dell’Asse” – the soft underbelly of the Axis), sia per la vicinanza alle basi aeronavali alleate in Tunisia, sia per il suo stato di crisi politico-militare interna. Inoltre, si stabilì un piano congiunto anglo-americano di bombardamento sistematico della Germania, oltre che dell’Italia, per distruggere il potenziale bellico dell’industria tedesca e abbattere il morale della popolazione in vista di un futuro sbarco oltre il Vallo Atlantico, rinviato, nonostante i piani studiati nell’estate 1942 (operazione Round-Up), al 1944. I due leader anglosassoni si accordarono anche sul principio della resa incondizionata da imporre alle Potenze nemiche: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria finale, senza trattative con la Germania, con l’Italia o con i loro alleati. Era già, infatti, chiaro ai comandi alleati che la resistenza nemica in Africa sarebbe presto finita, presa ormai nella morsa da ovest e da est rispettivamente dagli americani e dai britannici.

Churchill e Roosevelt dovevano stabilire una strategia che portasse alla definitiva sconfitta dell’Asse in Europa e che nello stesso tempo fosse avallata anche dal dittatore sovietico Stalin, loro alleato. La Russia premeva ormai da qualche tempo affinché fosse aperto dagli Alleati il secondo fronte in Nord Europa, per diminuire la resistenza tedesca su quello orientale. Le mire di Stalin di dominare l’Europa centrale e orientale erano chiare. Chiedeva che l’impegno angloamericano si tramutasse in uno sbarco nel nord della Francia. Avrebbe evitato eventuali diversioni degli ANGLOAMERICANI nella sua sfera d’influenza. Churchill era consapevole delle mire espansionistiche sovietiche e sebbene le considerasse una minaccia futura, era disposto al momento a dimostrarsi compiacente. Tuttavia non voleva piegarsi interamente ai voleri russi tanto che la sua linea strategica militare andava a scontrarsi con quella russa. Per Churchill la priorità era di colpire duro l’Italia. Per Londra l’Italia dal punto di vista militare, economico e politico era in pessime condizioni. Gli italiani, pensava, sottoposti a continui bombardamenti, con i viveri razionati, erano stanchi della guerra e avevano perso fiducia nel Duce e nel Fascismo. L’esercito, valoroso ma mal equipaggiato e mal guidato, pieno negli alti gradi di traditori, aveva subito dure sconfitte in Africa e premeva affinché si uscisse subito dalla guerra. Tutto questo rendeva possibile un crollo del regime e l’uscita dell’Italia dal conflitto, la quale però poteva anche essere raggiunta tramite uno sbarco nella Penisola.

 

Churchill voleva occupare la Sardegna: avrebbe permesso uno sbarco nell’Italia centrale e da lì un’offensiva nei Balcani. Questa strategia era fortemente osteggiata dal capo di stato maggiore statunitense Marshall, il quale, già contrario alle operazioni in Nord Africa, pressava per sbarcare nella Francia settentrionale, sconfiggere la Germania e poi il Giappone. Ma la sua tesi non convinse Roosevelt, il quale soprattutto per ragioni logistiche considerava lo sbarco in Francia un azzardo: poteva tramutarsi in un disastro tipo Dieppe 1942. Questo sbarco fu rimandato al 1944, prima era necessario eliminare la presenza dell’Asse nel Mediterraneo, che minacciava le rotte verso l’Egitto.

 

Le tesi di sir Alan Brooke, capo di stato maggiore britannico, sull’impossibilità di uno sbarco in Francia, anche per il forte numero dei sommergibili tedeschi e la scarsità di navi trasporto truppe, persuasero gli americani ad attaccare l’Italia, se non si voleva stare a guardare combattere i soli sovietici. La strategia di Churchill, di sbarcare in Sardegna, fu subito osteggiata dagli americani, che capirono dove lo statista inglese si sarebbe voluto spingere. La sua strategia era avvertita dagli americani come la risultante del mai sopito spirito colonialista britannico che tanto era detestato e avversato a Washington. Inoltre Roosevelt, in ottimi rapporti con Stalin, non voleva provocare nuove tensioni all’interno di un’alleanza che era ancora sentita come precaria e contingente. Si decise così di conquistare la Sicilia allo scopo di alleggerire la pressione germanica sul fronte russo, rendere più sicure le linee di comunicazione nel Mediterraneo e aumentare la pressione sull’Italia.

Churchill accettò la decisione di sbarcare in Sicilia perché se l’Italia si fosse arresa subito, vi sarebbe stata la ragionevole speranza che anche la neutrale Turchia entrasse in guerra contro la Germania, il che avrebbe portato ad avere un piede nei Balcani e frenarvi l’avanzata sovietica.  Churchill nella successiva conferenza di Washington, paventava che l’operazione Husky, il nome in codice dello sbarco in Sicilia, fosse interpretata in maniera limitativa, tant’è che caldeggiò ripetutamente, con Eisenhower, comandante in capo delle forze armate alleate nel Mediterraneo, il completo sfruttamento delle opportunità che l’occupazione comportava, ricordando l’importanza dei campi d’aviazione di Foggia e del porto di Napoli. Gli americani non capivano però tanta preoccupazione e diffidavano delle insistenze britanniche nell’occupazione della Penisola.

 

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio iniziava lo sbarco nella cuspide meridionale dell’Isola. Vide impegnate la 7ª Armata del generale americano George Patton e l’8ª Armata del generale britannico Bernard Montgomery contro il 6° Corpo d’armata italiano, comandato dal generale Alfredo Guzzoni, coadiuvato da 3 Divisioni tedesche – la 15ª Panzergrenadier Sizilien, comandata dal generale Eberhard Rodt, la Panzer Hermann Goering, agli ordini del generale Paul Conrath e la 29ª Divisione Granatieri corazzati, la celebre Falco (dal 19 luglio), annientata a Stalingrado e da qualche mese ricostituita, comandata dal generale Walter Fries – e dal 3° e 4° Reggimento paracadutisti, agli ordini dei tenenti colonnelli Ludwing Heilmann ed Erich Walter e dal gruppo Neapel, formato da un Battaglione del gruppo Fullriede e dalla 215ª Compagnia corazzata, comandato dal colonnello Geisler. Nonostante la dura resistenza, le numerose perdite, gli innumerevoli atti d’eroismo e l’ottima tattica di sganciamento e ripiegamento attuata dai reparti dell’Asse, specie dai tedeschi, gli Alleati, entrando il 17 agosto a Messina finirono la campagna. Avevano speso più tempo del previsto e ben di più di quanto avevano impiegato i tedeschi a conquistare la Francia, la Polonia e la Iugoslavia.

L’enunciazione del nuovo principio della resa incondizionata provocò l’incattivirsi della guerra, della volontà di resistenza dei nemici e una decina di milioni di morti in più. Prima di Casablanca le Potenze durante una guerra cercavano di giungere a un compromesso che chiudesse in anticipo un conflitto in corso. Dopo Casablanca la pace significava la sconfitta totale del nemico.

Nella campagna di Sicilia, le perdite nelle truppe dell’Asse furono consistenti. Le forze militari presenti in Sicilia toccarono la cifra di 320.000 uomini. Di questi, quasi 192.000 erano italiani e 62.500 germanici. Gli addetti ai servizi erano 60.000 italiani e 5.000 tedeschi. I militari italiani uccisi furono 4.678. Quelli tedeschi furono 4.325. I prigionieri italiani furono 116.681, mentre quelli tedeschi 5.523.

Alla fine della campagna, si registrarono tra le file italiane 36.072 dispersi, mentre tra quelle tedesche 4.583. Gli Alleati lasciarono sui campi di battaglia 2.237 soldati statunitensi e 2.062 britannici.

I feriti americani furono 5.946 mentre quelli britannici 7.137. I prigionieri americani furono 598, quelli britannici 2.644 (tra cui molti dispersi). In Sicilia si ammalarono di malaria 9.892 americani e 11.590 britannici. La Marina USA ebbe 546 caduti e 484 feriti; in quella britannica vi furono 314 morti e 411.

D: Che cosa avvenne dopo che le truppe d’invasione sbarcarono, quale fu il comportamento tenuto sul campo nei confronti dei soldati italo-germanici? I britannici distribuirono un manuale a uso delle loro truppe, dove gli italiani e la loro terra erano dipinti come arretrati e semibarbari, senza contare i proclami di Patton del tipo “Uccidete, uccidete senza pietà, massacrate con determinazione”, anche i prigionieri.

Nei primi giorni dopo lo sbarco i comportamenti degli invasori furono molto duri verso i prigionieri e verso i civili. Compirono numerose stragi, completamente ignorate dalla storiografia ufficiale. Solo da qualche anno sono state portate alla luce da alcuni studiosi indipendenti. Dopo l’atteggiamento nei confronti degli italiani cambiò: non potevano a sangue freddo assassinare migliaia di prigionieri di guerra. Le rappresaglie potevano colpire anche i loro uomini. E le voci di stragi contro i civili o militari dell’Asse già cominciavano a circolare. Meglio smettere.

Ai militari ANGLOAMERICANI furono consegnati due manuali nei quali i siciliani erano dipinti come semibarbari e arretrati. Mi riferisco al Soldier’s Guide to Sicily, destinato ai soldati, e il Sicily Zone Handbook 1943, riservato agli ufficiali.

 

Gli  INVASORI temevano di più tedeschi, di meno gli italiani. Li avevano visti all’opera sui vari fronti e ne avevano apprezzato il coraggio. Ma sapevano delle deficienze di comando e di armamento del Regio Esercito. Dopo alcuni vergognosi episodi – ad esempio la caduta della piazzaforte di Augusta e le diserzioni di massa di alcuni reparti delle unità costiere, costituiti principalmente da militari anziani, i difensori nell’Isola ebbero una triste sorte: se si arrendevano senza combattere, li disprezzavano inglesi e tedeschi; ma se si facevano ammazzare in battaglia, allora quel sacrificio appariva inutile! C’è da dire che la storiografia più recente sta ristabilendo la verità. E i numeri degli italiani caduti in Sicilia dimostrano il sacrificio e il valore del soldato italiano in Sicilia. Per motivi vari molti avevano l’interesse parlare male delle truppe italiane impiegate in Sicilia. Una parte del Fascismo repubblicano, ad esempio Farinacci, vide in certi vergognosi episodi accaduti in Sicilia il tarlo che avrebbe portato poi alla crisi dell’esercito dell’8 settembre. L’antifascismo vincitore non poteva esaltare i caduti di una guerra fascista, e furono date disposizioni per limitare il numero delle onorificenze per la Campagna di Sicilia. La pubblicistica anglosassone spesso e volentieri ignora la presenza di truppe italiane durante i combattimenti, e anche quando furono impiegati solo reparti italiani parla di tedeschi. Sicuramente la preponderanza delle forze nemiche spinse numerosi militari siciliani, specie quelli dei reparti costieri e delle classi anziane, a sbandarsi e tornare a casa, ma tanti altri impugnarono le armi contro i nemici. Numerosi furono i civili che parteciparono ai combattimenti.  E numerosi furono quegli che poi aderirono ai gruppi del Fascismo clandestino, costituitisi già l’indomani dell’occupazione dell’Isola.     Indubbiamente il discorso di Patton agli ufficiali in Algeria alla vigilia dello sbarco contribuì al compimento di alcune stragi. Del resto gli angloamericani venivano per occupare una terra nemica: la Sicilia, l’Italia. La loro parola d’ordine al momento dello sbarco era: “Uccidi gli italiani”.

D: Ci può citare gli episodi più famosi, ma al tempo stesso i più sottaciuti per tanti anni, in cui le truppe dei “liberatori” si macchiarono di crimini di guerra? Quali furono le misure prese dai comandi Alleati una volta che si vennero a sapere degli eccidi commessi? Vi fu qualcuno che pagò davanti alla Corte Marziale o alla fine si preferì zittire tutto e mandare assolti o condannati solo a pene lievi gli imputati?Il paragone con la strage del Monte Cermis del 1998, dove alla fine nessuno degli ufficiali dell’Us Air Force ha pagato, è d’obbligo; mai nessuna Norimberga fu istituita per gli Alleati, che invece ancor oggi pretendono di giudicare gli sconfitti e processare anche i loro capi, Saddam e Milosevic sono gli esempi a noi più vicini.

 

Durante l’invasione della Sicilia gli Alleati si resero responsabili di alcune stragi. Di tre furono vittime i civili, di altre i militari italiani.

 

Penso che ci siano stati anche altri massacri di militari tedeschi, oltre a quelli dei quali parlo, visto l’odio che avevano gli alleati contro i soldati del Reich, considerati il male assoluto. Salvo alcune accuse del generale Rodt per alcune fucilazioni di alcuni soldati arresisi ai canadesi nella Sicilia centrale, non ho al momento altre prove in merito. E’ solo una mia supposizione.

 

Anche i tedeschi durante la Campagna di Sicilia compirono due stragi di civili – una a Canicattì e l’altra a Castiglione – e vicino Messina massacrarono alcuni carabinieri sbandati, presi per disertori. Questi crimini sono stati volutamente dimenticati dalla cultura dominante. Anche se la strage di Castiglione è un po’ nota, soprattutto, ma erroneamente, per essere stata indicata da molti studiosi come la prima strage tedesca in Italia. E’, generalmente, però sconosciuta a livello di massa. Ed è celebrata sotto tono, durante le annuali celebrazioni resistenziali. Ricordare questa strage avrebbe portato, presto o tardi, a parlare delle altre compiute dagli Alleati in Sicilia.

 

Quelle avvenute in Sicilia nel 1943 sono tra le pagine più nere della storia militare americane. Pagine sulle quali gli storici negli Stati Uniti di­scutono da molti anni, mentre in Italia queste vicende sono pressoché sconosciute. Nelle università nordamericane ci sono corsi dedicati a queste stragi, come quello te­nuto a Montreal sul tema “Dal massacro di Biscari a Guantanamo”. Negli USA anni fa gli esperti di diritto militare hanno valutato le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla ba­se delle precedenti decisioni emesse delle corti marziali che giu­dicarono i “fucilatori d’italia­ni”. Perché – com’è a­gli atti di quei processi – i militari america­ni si difesero sostenendo di avere soltanto ubbidito agli ordini del generale Patton. “Ci era stato detto – dissero – che il ge­nerale non voleva prigionieri”. Per fortuna però da alcuni anni il velo di oblio e di omertà incomincia a squarciarsi, grazie al lavoro oscuro ma prezioso di alcuni solitari studiosi, specie siciliani.

L’Isola patì a causa della guerra più di qualsiasi altra regione d’Italia: bombardamenti a tappeto, disoccupazione, carestia, banditismo, stragi, ecc. Solo il terribile flagello della guerra civile le fu risparmiato. Del resto la Sicilia nei piani Alleati era indicata col nome in codice di Horrified (atterrita, sconvolta). Con fine senso dell’umorismo volevano indicare quali dovevano essere le condizioni dell’Isola e dei siciliani al momento dello sbarco. La Sicilia fu la prima e la sola regione italiana a essere “occupata” e i siciliani furono gli unici italiani a essere definiti e trattati da “nemici”. Il resto dell’Italia, fu, come dicevano gli antifascisti, “liberato” e dall’autunno del 1943, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, gli italiani cominciarono a essere considerati “cobelligeranti” dagli Alleati. I siciliani pagarono sulla loro pelle, tutti i risentimenti, i rancori, gli odi che guerra aveva istillato nell’animo degli Alleati. Sicuramente l’odio, accumulato contro gli italiani durante la guerra, anche se di molto inferiore a quello accumulato contro i tedeschi, considerati il “nemico principale”, quasi il “male assoluto” da debellare, contribuì a creare la mentalità propizia al compimento delle stragi.

Le stragi in Sicilia iniziarono il 10 luglio 1943. Lo stesso giorno dello sbarco. Nelle ore successive all’invasione una moltitudine di civili evacuò Acate, dirigendosi verso la vicina Vittoria. Tra i profughi, in macchina, Giuseppe Mangano, la moglie, Carmela Albani, il figlio Salvatore Valerio, detto Alberto, il fratello, Ernesto, capitano medico del Regio Esercito, e la donna di servizio. Dopo il casello ferroviario, un gruppo di militari fermò l’auto, dove viaggiava la famiglia Mangano. Il podestà, dopo aver mostrato i documenti, chiese il rispetto della Convenzione di Ginevra concernente l’esodo dei civili in zona d’operazioni militari. La richiesta esasperò ancora di più quei militari “avvinazzati e inferociti”, che cominciarono a colpire gli uomini e a maltrattare le donne. Tentò di difenderli. Si qualificò. Dopo un attimo d’esitazione, i soldati, notando che l’uomo indossava la camicia nera e portava all’occhiello della giacca la “cimice” del Partito Nazionale Fascista, puntarono i fucili, intimando alle donne di entrare in una casa vicina e agli uomini di alzare le mani. Oltre ai Mangano, i militari presero altri uomini prigionieri. In dodici, tutti civili, furono condotti vicino al caseggiato rurale Iacona e fatti allineare. Alle 19 circa, alcune scariche di mitra posero fine alla loro esistenza. Secondo alcuni testimoni, Valerio, cercò di difendere il padre, si liberò dal soldato che lo teneva prigioniero, prese un sasso e cercò di colpire un soldato, ma fu ucciso da un impressionante colpo di baionetta alla guancia sinistra.  Aveva 14 anni, era figlio unico e frequentava il Ginnasio. I corpi restarono insepolti per alcuni giorni. Del capitano non si è saputo più nulla. Non si conoscono i nomi degli altri fucilati. Non mi sorprenderei se i responsabili della strage fossero individuati in alcuni paracadutisti del 2° Battaglione del 505° P.I.R. USA: essi erano “ubriachi” o “avvinazzati “, paracadutisti e hanno occupato Vittoria. A causa del lancio errato erano andati a finire per sbaglio a Vittoria. Secondo altre voci i Mangano furono ammazzati perché gli americani vollero rapinarli dell’auto e dei preziosi che i civili portavano con loro. Quest’unità era aggregata al momento dello sbarco all’82ª Divisione aviotrasportata USA.

 

LA STRAGE DI PIANO STELLA DI CALTAGIRONE

 

Alle 17 circa del 13 luglio un’altra strage di civili avvenne a Piano Stella, a un paio di chilometri dall’aeroporto di Biscari. A Piano Stella vivevano circa 40 famiglie d’agricoltori, assegnatari di lotti e case coloniche. Furono assassinati a colpi di fucile mitragliatore il profugo di Vittoria Giovanni Curciullo, il figlio tredicenne Sebastiano, i calatini Giuseppe Alba, Salvatore Sentina e il reduce della I guerra mondiale Giuseppe Ciriacono. Solo il figlio dodicenne del Ciriacono, Giuseppe, fu risparmiato. Tutti erano stati in precedenza prelevati da un vicino rifugio, costruito artigianalmente dal Ciriacono come ricovero familiare dai bombardamenti che avevano per obiettivo il vicino aeroporto. Nessuno di loro aveva compiuto atti ostili contro gli invasori o possedeva armi. Anzi, qualche ora prima avevano curato un soldato americano ferito. Per lo storico Nunzio Vicino la strage sarebbe una conseguenza dell’intervento in aiuto dei soldati italiani e tedeschi, impegnati contro paracadutisti americani nel vicino bosco Terrana, del perito agronomo Fiore, detto “l’ingegnere”, ex squadrista, romano, assegnato come consulente e dirigente tecnico al Borgo. Fiore, avrebbe ucciso un paracadutista nemico, sceso davanti casa sua, provocando la rappresaglia degli americani, avvisati da un altro militare, non notato dall’“ingegnere”. Fiore riuscì a scappare aiutato da alcuni abitanti della zona. Per lo storico Gianfranco Ciriacono, Fiore sarebbe andato via un paio d’ore prima della strage. Seguirono un tentativo americano di occultare i corpi e una denuncia ai Carabinieri. I quali informarono i superiori. Ritengo che i probabili responsabili della strage siano da ricercare tra i soldati dell’82ª Divisione aviotrasportata.

 

LA STRAGE DI CANICATTI’

 

Un altro eccidio di civili avvenne a Canicattì, Agrigento. Nel registro dei morti risultano i nomi di: Diana Antonio, 50 anni, bracciante; Messina Vincenzo, 40, contadino; Salerno Giuseppe, 31, nato a Villalba, bracciante; Corbo Vincenzo, 22, contadino; La Morella Alfonso, 43, contadino; Todaro Vincenza 11, “scolara”. La strage avvenne il 14 luglio, alle 18, nella Saponeria Narbone-Garilli di viale Carlo Alberto. Ne sarebbe autore il tenente colonnello che si era insediato al Comune come responsabile dell’AMGOT, un ente alleato, formato in gran parte da ufficiali della riserva, il cui compito era di ristabilire le funzioni di governo nelle zone italiane occupate. L’ufficiale quel giorno si trovava al Municipio in compagnia d’alcuni interpreti del servizio di spionaggio americano. Tra questi militari c’era il padre d’origine siciliana di un docente della New York University e del Brooklyn College, il professor Joseph S. Salemi. Il professore, a distanza di molti anni ha raccolto la testimonianza del padre, Salvatore, presentata poi in una relazione. Poco prima delle 18 un civile italiano entra nel Municipio di Canicattì. Lamenta che la popolazione sta saccheggiando il deposito di viveri e la fabbrica di sapone. Chiede l’aiuto degli americani. Sulla strage ci sono due versioni. Per Salemi quando il responsabile dell’AMGOT capì la natura delle lamentele del “proprietario o un suo agente” chiamò un gruppo di P.M. e un sottotenente. Ordinò d’accompagnarlo alla fabbrica e d’arrestare i saccheggiatori. Decise poi di recarsi sul posto di persona. E ordinò a tre appartenenti al G-2 di accompagnarlo. Per Salvatore J. Salemi, che l’accompagnò, “andava alla saponeria direttamente per sparare … Volle ammazzare qualcuno: la faccia rivelava i pensieri”.

 

La P.M. aveva già arrestato dalle 30 alle 40 persone, molte donne e bambini. Dopo il suo arrivo, il colonnello ordinò al sottotenente di sparare sui civili. Il giovane restò pietrificato e non si mosse. Il colonnello ripeté inutilmente l’ordine ai P.M. Si rivolse allora al personale del G-2 che l’aveva accompagnato. Ordinò a ognuno di loro di sparare. Nessuno di loro voleva però uccidere dei civili inermi. Vedendo che il suo ordine non era stato eseguito, il colonnello tolse dalla fondina una Colt automatica calibro 45. Fece fuoco ad alzo zero, da una distanza di tre metri circa sui civili inermi. Svuotò tre caricatori. I borghesi cercarono di scappare, e alcuni forse ci riuscirono. Egli però uccise o ferì la maggioranza dei civili. Erano imprigionati tra il muro della fabbrica e i militari che li bloccavano. Un bambino, di circa 12 o 13 anni, ricevette un colpo nello stomaco. Morì poco dopo. Il suo stomaco era scoppiato. Per la versione ufficiale, nascosta nei “National Archives”, accadde:

 

“La mancanza di cibo sfociò in disordini che furono domati solo con gran difficoltà dai 14 M. P. … Avevano per prima cosa sparato sopra le teste della teppaglia turbolenta. Quando cessarono gli spari, la folla scese nelle strade e continuò a urlare.

 

Il tenente colonnello McCaffrey allora fece un rapporto sulla situazione al Capo di stato maggiore della 3ª Divisione che diede ordine di fucilare i saccheggiatori catturati in azione, se necessario, per ristabilire l’ordine, e di chiamare il colonnello Johnson, comandante del 15° reggimento fanteria, per aiuto. Un plotone di fanteria e un buon interprete furono mandati dal colonnello Johnson. Al plotone fu assegnato il compito di requisire tutte le armi e le munizioni della città… 50 fucili e munizioni furono trovati alla stazione ferroviaria e un quantitativo maggiore d’armi fu rinvenuto in altre parti della città.

 

In un altro punto della città, il tenente colonnello McCaffrey, stava assistendo all’individuazione dei possessori d’armi e munizioni, catturò un certo numero di saccheggiatori nell’atto di portar via del sapone. Li arrestò. Vide altri che su carretti trasportavano sapone per le vie. Ordinò loro di fermarsi e quando i conducenti continuarono, egli fece fuoco sulle loro teste. I conducenti scapparono. Inseguendo i carretti in fuga, giunse a una fabbrica di sapone, fuori della quale c’era una gran folla, che evidentemente stava saccheggiando il posto. Il tenente colonnello McCaffrey e il plotone di fanteria cercarono di fermare il saccheggio e di arrestare i saccheggiatori. Non ubbidirono ai loro ordini. Il tenente colonnello McCaffrey allora sparò ad alcuni uomini nella folla e i fanti arrestarono gli altri. Sei uomini furono uccisi. Qualcuno dei fuggiaschi potrebbe essere stato ucciso”.

 

Salemi Jr accusa il colonnello George Herbert McCaffrey. Il colonnello fece carriera. Divenne prima responsabile per la provincia d’Agrigento, poi capo della Regione Militare d’Occupazione 2, Calabria e Basilicata. Chiuderà la carriera militare partecipando con un alto incarico governativo alla guerra di Corea.

 

Fatto il danno, bisognava mettere la sordina, non far sapere nulla in giro. Le ripercussioni potevano essere enormi, le carriere potevano essere compromesse, qualcuno poteva essere accusato di crimini di guerra. Meglio la censura. Tanto pesante che solo oggi, dopo quasi 70 anni, comincia a squarciarsi il velo che copre quelle stragi.

 

I civili assassinati a Piano Stella forse furono uccisi anche per le parole pronunciate da Patton in uno dei discorsi tenuti a Mostagem, in Algeria, davanti agli ufficiali suoi subordinati. Queste parole furono poi ripetute dagli ufficiali ai soldati in procinto di sbarcare nella cuspide meridionale dell’Isola. Durante il processo Compton al capitano Jean Reed chiesero se Patton avesse detto qualcosa sui civili. La risposta fu: “Disse che se le persone nelle città persistevano nel rimanere nelle vicinanze della battaglia ed essi erano nemici, noi dovevamo spietatamente ucciderli, spazzarli via”. Anche se Ciriacono e gli altri civili erano rimasti nei pressi delle zone di combattimento, questo non ne giustifica l’assassinio. E’ sempre un crimine contro l’umanità. Meno giustificata ancora è la strage alleata di Vittoria. Il podestà d’Acate e gli altri stavano sfollando dalle zone di combattimento e furono uccisi a freddo a un posto di blocco. Giuseppe Mangano avrebbe pagato perché ancora indossava il distintivo del Partito Nazionale Fascista o perché rispondeva in malo modo a dei soldati italoamericani, ma gli altri perché furono uccisi? Qual è la loro colpa? Ma indossare il 10 luglio 1943 un distintivo del P.N.F. poteva essere considerato un crimine da pagare con la vita? Il P.N.F. era un legittimo organo dello Stato italiano, già riconosciuto dagli Alleati.

 

 

 

LE STRAGI DI MILITARI

 

LA STRAGE DEI CARABINIERI DI GELA

 

Le stragi di prigionieri italiani iniziarono con l’invasione. La prima, fino a questo momento conosciuta, fu compiuta a Gela verso le sette del mattino del 10 luglio 1943. L’eccidio si consumò a 8 chilometri da Gela, sulla Statale 115 per Ragusa. In località chiamata Passo di Piazza, i Reali Carabinieri avevano costituito un “posto fisso”. I militari, al comando  del vicebrigadiere Carmelo Pancucci di Agrigento, dovevano vigilare la linea ferrata che correva parallela al mare, poco distante. Erano una quindicina. Per fortuna però al momento della strage due erano di pattuglia, come da ordini, nonostante fosse in corso lo sbarco. Dopo la resa della “stazione”, secondo alcuni documenti ufficiali, i carabinieri furono prima disarmati, perquisiti e derubati di tutto quello che avevano di prezioso; poi furono messi allineati al muro vicino al pozzo con le mani sulla testa e fucilati alla schiena. Otto rimasero sul terreno. Tra questi, certamente morì, Michele Ambrosiano, richiamato e padre di cinque figli. Un carabiniere della provincia di Avellino, Nicola Villani, fu ferito gravemente. Tre si salvarono con certezza: il vicebrigadiere Pancucci e i carabinieri Francesco Caniglia di Oria, Brindisi, e Antonio Cianci di Stornara, in provincia di Foggia.

 

La figlia maggiore di Ambrosiano, Anna Maria, nel 2010 nutriva ancora rancore contro il Pancucci, il cui ordine di sparare contro i nemici aveva determinato, a dire della signora, la morte del genitore. Aveva ancora un astio violento anche nei confronti dello Stato che aveva lasciato la madre vedova di 35 anni con cinque figli piccoli senza assistenza e con una pensione di 500 lire. La famiglia aveva patito la fame e aveva tirato avanti anche grazie all’aiuto del nonno materno, emigrato in America prima della guerra e che inviava dollari e vestiti.

 

La figlia del defunto vicebrigadiere Pancacci, di Agrigento, ricorda che il papà, dopo la guerra le raccontava, che il posto fisso affidatogli era stato attaccato, dopo il sorgere del sole luglio, da un soverchiante gruppo di americani. Dopo una resistenza iniziale che era costata la vita di quattro carabinieri, il sottufficiale, anziano ed esperto anche per avere combattuto in Africa Orientale come Camicia Nera, per pietà dei sopravvissuti, uno dei quali padre di cinque figli, aveva preso la tovaglia bianca del tavolo su cui mangiavano e l’aveva platealmente sventolata per arrendersi. Questo gesto non aveva però fermato il fuoco nemico. Pancucci e i suoi camerati furono poi portati in Algeria. Un elemento oggettivo che in parte conferma la tesi di Caniglia è offerto dal Diario storico della legione territoriale dei Carabinieri Reali di Palermo, relativo al periodo dal 10 luglio a1 31 dicembre 1943. Nel brogliaccio erano riportati come deceduti tre carabinieri per “eventi bellici” presso la stazione di Passo di Piazza (Donato Vecce, Antonio Di Vetta, Michele Ambrosiano), mentre 13 dei militari erano citati come caduti in mani nemiche: Vicebrigadiere Carmelo Pancucci e i carabinieri Francesco Caniglia, Antonio Cianci, Giuseppe Di Giovanni, Nicolò Gambino, Aldo Gianni, Alessandro Giannini, Mario Imbratta, Raffaele Matera, Annibale Musilli, Giuseppe Rodio, Nicola Villano e Gaetano Vitellaro. Mentre Caniglia parla di 12 uomini in organico al posto fisso, il Diario storico della legione di Palermo lascia credere che fossero 16 e Cianci racconta di 16-18.

 

C’è da rilevare che la redazione del documento fu scritta dal colonnello comandante Lauro Andreoli, a Palermo, il 29 febbraio 1944. La Sicilia era stata restituita all’amministrazione del governo del Sud del maresciallo Badoglio solo da pochi giorni: l’11. Penso che non sia stato facile accusare ai propri superiori gli occupanti americani di aver fatto pochi mesi prima una strage in Sicilia. Forse il colonnello però pensò che la cosa potesse essere utile all’Italia nel dopoguerra.

LE STRAGI DI BISCARI

 

Altri massacri avvennero nella zona di Biscari, l’odierna Acate. All’attacco dell’aeroporto di Biscari andò la 45ª Divisione, detta Thunderbird, dal totem sulle mostrine. Era formata da indiani cherokee, seminole e apache, prelevati dalla Guardia nazionale, provenienti dall’Arizona, dall’Oklahoma e dal New Mexico e cow boy. C’erano anche numerosi italoamericani. Anche se privi d’esperienza, gli uomini della 45ª erano tra i più addestrati, sia sul piano tecnico sia su quello psicologico, dell’intero esercito statunitense ed erano affidati a un ottimo comandante, Troy Middleton. Inoltre, il generale George Patton, comandante della VII armata americana li aveva arringati in modo fin troppo esplicito: “Uccideteli, uccideteli, uccideteli”. Addestrarsi agli ordini di Patton non era mai stato uno scherzo ma ora l’addestramento diventava particolarmente duro comprendendo anche 36 ore consecutive in azione, senza alcuna pausa. Quello sulle coste isolane fu il loro battesimo del fuoco. Aveva­no l’ordine di conquistare entro 24 ore gli aeroporti di Ponte Olivo (Gela), Comiso e Biscari o Santo Pietro: erano necessari per trasferirvi dall’Africa gli aerei Alleati. Gli americani volevano difendere dal cielo le teste di ponte già costituite, mantenere e accrescere la supremazia aerea nella zona. Gli italiani, oltre a proteggere l’aeroporto, dovevano garantire il lento ripiegamento delle loro truppe e della Divisione H. Goering verso le pendici dell’Etna. Gli americani pensavano di conquistare in breve tempo gli obiettivi. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità te­desche li fermò per quattro giorni. Questo fatto li fece andare in bestia, causando diverse stragi nella zona.

 

Il 27 giugno, Patton aveva parlato agli ufficiali dell’Armata avvisandoli su quanto poteva capitare in Sicilia. Il generale Albert C. Wedemeyer, che assistette all’evento, scrisse: «Li ammonì di fare molta attenzione nel caso in cui i tedeschi o gli italiani avessero alzato le mani mostrando l’intenzione di arrendersi. Affermò che qualche volta il nemico si comportava in quel modo per far abbassare la guardia ai soldati. I nemici in parecchie occasioni avevano sparato sui nostri uomini ignari e avevano gettato granate. Patton avvertì i militari della 45ª di stare attenti e di “uccidere quei figli di puttana, a meno che non fossero stati certi della loro reale intenzione di arrendersi”».

 

Gli scontri erano stati molto duri vicino a quello che gli americani avevano chiamato “il Viale di Adolph”, la Strada Provinciale 115.  Molti persero il controllo dei nervi. Moltissimi erano persuasi che Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. De­cine di soldati, graduati e ufficiali testi-moniarono al processo: “C’era stato det­to che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti c’è stato letto il discor­so del generale. “Se si arrendono, quando tu sei a due-trecento metri da loro, non ba­dare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano. Nes­sun prigioniero! E’ finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una di­visione di killer, perché i killer sono immor­tali!”

 

Di una strage, avvenuta quel maledetto 14 luglio a Santo Pietro, abbiamo due testimoni. Furono massacrati 33 uomini, 29 soldati italiani e 4 tedeschi. Si erano arresi agli americani. Ma li fucilarono lo stesso. Virginio De Roit, classe 1912, vicentino, di Santa Maria di Camisano, apparteneva alla 3ª compagnia, CLIII battaglione mitraglieri. I soldati avevano il compito di difendere l’aeroporto di Santo Pietro. Per difendere l’aeroporto i nostri avevano 200 uomini e sette mitragliatrici Breda; i tedeschi della Goering avevano aggiunto un cannoncino con quattro artiglieri. A mezzanotte circa del 13 luglio, alla compagnia di De Roit, folta di veneti e di bresciani, arriva l’ordine di salire sugli autocarri tedeschi e di ripiegare su Santo Pietro, lasciando la posizione. Mentre i soldati si accingevano a ritirarsi, scoppiò l’inferno attorno ad un bunker presidiato da quattro tedeschi e da quattro italiani del 122° reggimento. Erano arrivati i nemici.

 

De Roit e i suoi camerati investiti da un pesante fuoco nemico furono costretti ad arrendersi. I nemici prima li derubarono d’ogni oggetto di valore. Poi ordinarono di spogliarsi e di togliersi le scarpe. In mutande, camminando scalzi su sassi e rovi, furono condotti fino a uno spiazzo accanto al sughereto. Qualcuno ordinò di scavare una buca e di mettersi in fila per due. Poi… “Un negro dalla faccia brutta, ricorda a 61 anni dai fatti De Roit, impugnò il parabellum e cominciò a sparare al petto dei primi due, che erano tedeschi. Poi ancora due tedeschi. De Roit, il suo compaesano Silvio Quaiotto e l’anconetano Elio Bergamo si buttano nel vicino fiume Ficuzza. Intanto le mitragliette americane compiono l’eccidio. Sotto i loro colpi cade Battista Piardi di Pezzaze: aveva 25 anni, si era sposato l’anno prima. Cade Leone Pontara di Concesio, 23 anni. Cade Mario Zani, contadino d’Iseo. Cade Attilio Bonariva di Lozio. Cadono anche Gottardo Toninelli e Pietro Vaccari di Brescia e altri loro giovani commilitoni. Muoiono il caporale Luigi Giraldi di Brescia, Aldo Capitanio, compaesano di De Roit. Cade Angelo Fasolo di Camin, Padova. Cadono Salvatore Campailla – siciliano, postino a Nervi – e Sante Zogno di Lodi. Bergamo non lo vedemmo più. So soltanto che a casa sua non è mai arrivato”. Altri sette figurano fra i dispersi o i “morti presunti”: sono Luigi Ghiroldi di Darfo, Attilio Bonariva di Lozio, Leone Pontara di Concesio, Battista Piardi di Pezzaze, Gottardo Toninelli e Pietro Vaccari di Brescia, Mario Zani d’Iseo.

 

Nel dopoguerra De Roit parlò della strage anche al suo distretto militare: “Lascia stare – gli dicevano – adesso ci sono i partigiani, comandano gli americani”. Così il massacro è stato affidato solo al lutto privato delle famiglie. Incerta la sorte dei corpi dei soldati. Secondo De Roit le salme furono bruciate, poi deposte nel cimitero di Caltagirone. Secondo altre voci furono bruciate con un lanciafiamme, seppellite nel Cimitero di guerra americano di Gela e poi portate in America. Qualche anno fa su quest’eccidio la Procura di Padova ha aperto un fascicolo. Sconosco i risultati.

 

Dopo la conquista dell’aeroporto di Biscari, avvenuto nelle prime ore del 14 luglio, il sergente West, della compagnia “A” del 180° Fanteria, fu chiamato dal maggiore Roger Denman, dal quale ricevette in consegna 46 uomini, tedeschi e italiani. West doveva trasferirli nelle retrovie, lontano dall’aeroporto, in un luogo dove non avrebbero potuto osservare i movimenti delle truppe. Il sottoufficiale designò il caporale Michael Silecchia e i soldati Amerigo Bosso, William Pastore, Herman Redda, Jerry Browne ed Ewald Wilhelm. Dopo aver allineato i prigionieri in due colonne, ordinò di marciare lungo la strada provinciale che collegava l’aeroporto con Acate. Ai prigionieri, per evitare che potessero scappare, fu ordinato di spogliarsi e di togliersi le scarpe. Dopo circa 400 metri, il sergente li fece fermare e separò nove o dieci prigionieri.

 

Dalle testimonianze, raccolte, è evidente che la condotta dei prigionieri era buona. Non ci furono tentativi ribellione. Nessuno cercò di fuggire. West manifestò, dopo aver fatto fermare i prigionieri, l’intenzione di ucciderli, dicendo: “Sto uccidendo questi figli di puttana”. West chiese e ottenne dal sergente Brown un mitra, una Tommy gun e un caricatore di 30 cartucce. Erano circa le 12 del 14 luglio. Nessuno, da parte degli altri soldati presenti, sollevò obiezioni o tentò di bloccare il sergente West. Nemmeno i militari italo-americani ebbero pietà dei loro connazionali. Dopo aver fatto disporre i prigionieri in due colonne con la faccia rivolta verso di lui, iniziò a sparare, puntando la mitragliatrice ad altezza d’uomo. Un testimone dichiarò che “i prigionieri iniziarono a urlare e a implorarlo”. Dicevano: “No, no, in italiano”. Tutto inutile. West continuava a uccidere, senza pietà. Tre dei prigionieri cercarono invano di fuggire. Uno dei soldati ebbe l’ordine di ucciderli. Mirò e ammazzò. Uno dei fuggiaschi cadde cinque o sei passi più avanti. West ricaricò l’arma. Se qualcuno respirava ancora, sparava il colpo di grazia.

 

Sempre quel 14 luglio, verso le 15, sulla stessa maledetta collina che porta all’aeroporto di Biscari, accade un’altra strage. Il capitano John Compton, della compagnia “A” del 170° fanteria, ordina al suo combat team l’assassinio d’altri 36 prigionieri di guerra. Il combat team del capitano Compton aveva avuto solo quel giorno ben 12 morti su 34 uomini. Il combat team cerca di snidare i nemici che bloccano la sua avanzata. C’e una postazione nascosta su una collina che continua a bersagliare la pista. Un italiano si presentò ai nemici con uno straccio bianco. Da quel fortino uscirono in 40: cinque, secondo l’imputato, avevano giacche e maglie civili, ma i pantaloni e gli stivali erano militari. Gli altri erano in divisa. Dire che alcuni prigionieri indossassero abiti civili potrebbe essere una bugia per alleggerire di molto la posizione processuale dell’imputato. Dopo aver visto i prigionieri, il capitano ordina al sergente Hair di formare un plotone d’esecuzione per giustiziare quei “figli di puttana” che per tutto il pomeriggio hanno bersagliato il suo combat team. Li fa mettere in riga e, sotto il suo comando, ordina la loro esecuzione. In 24 si offrono volontari. In 10 sparano centinaia di pal­lottole sul mucchio degli italiani. L’in­chiesta termina con l’incriminazione del solo ufficiale per l’omicidio di 36 uomini. I loro corpi non furono seppelliti. Giacciono forse ancora là, nella zona del torrente Ficuzza, ad Acate.

 

Il giorno dopo, il cappellano militare della 45ª, William E. King, mentre percorreva in jeep la S.P. Biscari – aeroporto di Biscari, intravide un gruppo di corpi. Contò i resti esanimi di 34 italiani e di 2 tedeschi. Erano allineati, invece del casuale cadere in combattimento, senza scarpe e senza camicie. Tutti erano stati colpiti all’altezza del cuore. Alcuni avevano il cranio aperto, come se fossero stati colpiti da un’ascia o da un badile. Passò circa due ore a discutere con molti soldati che avevano lasciato i loro posti per manifestargli la loro forte insoddisfazione per il trattamento riservato ai prigionieri. Non volevano più andare a combattere: si doveva smettere di ammazzare i prigionieri che “avevano alzato le mani, o che avevano cercato di arrendersi, e l’uccisione di prigionieri alle spalle”. Fu proprio grazie alla ferrea volontà del cappellano King se i massacri di Biscari non furono insabbiati. King raccontò tutto al tenente colonnello Willerm O. Perry, Ispettore generale di Divisione, figura si­mile ai nostri pubblici ministeri. Perry riferì al generale Omar Bradley, che probabilmente voleva togliersi qualche sassolino dalle scarpe contro Patton. Secondo alcuni storici militari quando Bradley seppe di questi incidenti, inorridì e rife­rì subito tutto a Patton. Il quale, secondo Bradley, liquidò bruscamen­te l’argomento. Lo definì “una probabile esagerazione”. Patton chiese all’altro “di dire all’ufficiale responsabile delle fucilazioni di riferire che gli uomini uccisi erano cecchini o che avevano tentato di fug­gire o qualcos’altro, altrimenti la stampa farà il diavolo a quattro e anche i civili s’infurieranno. D’altra parte, ormai sono morti, e non c’è più niente da fare”. Secondo altri, Patton decise di far processare “quei bastardi”. Bradley però ordinò che i due uomini fossero deferiti alla Corte marziale. I due erano imputati di avere “fucilato con premeditata cattiveria, volontariamente, illegalmente e con crudeltà 73 prigionieri di guerra”.

 

Il maggiore Roger Denman testimoniò che il 12 giugno ‘43, a Camberwell, Patton avrebbe detto agli ufficiali: “L’organizzazione che era in azione non doveva fare troppi prigionieri, di cercare di non fraternizzare con loro” e che “durante i combattimenti non dovevamo prendere prigionieri, specialmente se erano stati cecchini e avevano combattuto le nostre linee avanzate”. Insomma, “l’ordine era di non fare prigionieri nei casi appena citati”. La notte stessa dello sbarco, su una delle navi che trasportavano le truppe, il colonnello Willam W. Schaffer lo ricordò ai soldati, attraverso gli altoparlanti. Secondo il sergente Brown, Patton avrebbe detto che “non voleva prigionieri”. Il leitmotiv, prima di partire dal Nord Africa, era: “Uccidi, uccidi, uccidi; e ancora uccidi”. Altre testimonianze dello stesso tenore arrivano soprattutto dai sottufficiali. Gli ufficiali, invece, riportano versioni diverse del discorso di Patton. Per il colonnello Federech E. Cookson, le parole di Patton bisogna interpretarle nel giusto significato: “Vero è che desiderava una divisione d’assassini, ma solo quando un nemico avesse continuato a sparare fino a una distanza di 200 metri circa, e poi si fosse avvicinato con le mani in alto in segno di resa, questi non doveva essere fatto prigioniero. Conoscendo bene il generale Patton, posso affermare che lui sicuramente voleva dire che non bisognava prendere prigionieri durante uno scontro a fuoco”.

 

La sentenza fu emessa il 3 settembre, lo stesso giorno in cui a Cassibile il generale Castellano firmava l’armistizio. La condanna all’ergastolo però fu scontata solo in piccola parte. Qualcuno era terrorizzato dalle possibili riper­cussioni di quei massacri. Temeva il dan­no d’immagine in Italia – era stato appena stipulato l’armistizio – e il rischio di ritorsioni sui prigionieri americani. Si decise di tenere lontano West dagli USA: agli arresti in una base in Africa settentrionale. Quando la sorella di West però iniziò a scrivere al Mini­stero della Guerra, a sollecitare l’intervento del parla­mentare della sua contea, qualcuno a Washington incominciò preoccuparsi per un altro motivo: la scottante vicenda poteva finire sui giornali, e, quindi, conosciuta in tutto il mondo, paesi dell’Asse compresi.

 

Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del Ministero della Guerra sollecita al Comando Alleato di Ca­serta un “atto di clemenza” per West. Così dopo solo sei mesi, West è rilasciato e mandato al fronte. Morirà nel suo letto, in America, dopo molti anni.

 

Al processo contro Compton, tutti si difesero dicendo che non avevano riposato per tre giorni, che la compagnia aveva avuto numerose vittime e, soprattutto, richiamando il discorso di Patton. Tut­ti i testimoni – tra cui diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile “se si arrendono solo quando gli sei addosso; ammazzali”. Al­cuni riferirono anche che Pat­ton aveva detto: “Più ne prendiamo, più ci­bo ci serve. Meglio farne a meno”. Compton fu assolto.

 

Si sviluppò una complessa manovra per nascondere stragi. Rimaste, infatti, so­stanzialmente ignorate fino al 2005. Proprio in quei giorni, Patton è in pratica silura­to. Nei film e nelle biografie più vecchie, la caduta in disgrazia di Patton è collegata agli schiaffi dati a due soldati americani, ri­coverati per “choc da bombardamen­to” in un ospedale da campo a Troina. Ora però alcuni storici sospettano che la vicenda degli schiaffi fu usata per coprire le stragi di prigio­nieri: potevano avere effetti pesantissimi sull’opi­nione pubblica mondiale, sui rapporti con il governo Badoglio e sui prigionieri americani in mano dei tedeschi.

 

Il 18 agosto 1943 cessò ogni resistenza italo-tedesca in Sicilia. Patton rimase a Palermo, nell’attesa di nuovi incarichi. La maggior parte delle Divisioni della VII Armata fu trasferita alla V Armata, assegnata alla Campagna d’Italia. Anche se “disoccupato” era in ogni caso utile. Nei mesi successivi Patton non fu mai ufficialmente interpellato sui piani operativi degli Alleati. Ma, riservatamente, spesso qualcuno degli alti gradi statunitensi lo consultava sulle strategie da seguire e dei progetti operativi. Era forse il miglior stratega alleato sul fronte europeo.

 

L’inchiesta si chiude con un fascicolo top secret che evidenzia il peso delle frasi di Patton. Il documento però non sollecita ini­ziative contro Patton. Mancano pochi giorni al D-Day e la dura espe­rienza dello sbarco di Anzio sta convincendo Ei­senhower a riutilizzare il focoso generale, molto popolare tra i soldati e in America. Soprattutto però si vuole impedire lo scandalo. Inoltre, la sua incriminazione avreb­be reso più difficile la tutela del segre­to sulle atrocità.

 

Il capitano Compton cadde in battaglia in Italia nel novembre 1943. Stava andando a prendere alcuni tedeschi che sventolavano una bandiera bianca.  La sua assoluzione è, però, diventata un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra gli addetti ai lavori della giustizia militare americana dopo la fine del conflitto. Un precedente “riservato”. Si voleva evitare anche ogni influenza sui processi ai criminali di guerra tedeschi. Oggi alcuni storici statunitensi, ­assolutamente non sospettabili di revisionismo, ritengono che, sulla base della sentenza Compton, dovessero essere assolte le S.S. fucilate per gli omicidi di prigionieri americani.

 

A Biscari gli americani si resero protagonisti di almeno un’altra strage. Su questo caso, fino a oggi non si sono celebrati processi. Solo adesso la magistratura ha aperto un fascicolo, a Palermo. La strage ha un testimone: Giuseppe Giannola, classe 1917, palermitano, miracolosamente sfuggito tre volte alla morte. Le vittime: una cinquantina di prigionieri. Erano avieri e artiglieri, posti a difesa dell’aeroporto di Biscari. Ecco com’è andata, nel racconto dell’aviere Giannola:

 

“Il 10 luglio il maggiore ci ha detto: “E’ ora di fare il nostro dovere”. Sono stati distribuiti i moschetti: i vecchi fucili ‘91’ della Grande Guerra. … Il 13 ci siamo schierati nelle trincee intorno alla pista. Il primo attacco è cominciato nel pomeriggio: abbiamo sparato per più di un’ora, un caricatore dietro l’altro … Li abbiamo respinti, ma non potevamo fare di più.. Prima dell’alba i nemici hanno circondato il rifugio. Due bombe sono esplose davanti alle uscite. Ci hanno urlato di venire fuori con le mani alzate e abbiamo obbedito. Siamo stati perquisiti, ci hanno tolto tutto, lasciandoci in mutande o con i pantaloni corti. Hanno buttato via le scarpe per impedirci di correre. Poi ci hanno fatto marciare verso la costa. Dopo poco, una trentina di artiglieri sono stati uniti al nostro gruppo. I sorveglianti? Erano in otto. Non rammento i loro volti, mi sembra che qualcuno parlasse un poco d’italiano… Io pensavo che fosse tutto finito. Pensavo a Palermo, la mia città, dove quella sera ci sarebbero stati i botti: sì, era l’alba del 14 luglio 1943, la festa di Santa Rosalia. Da noi, nelle trincee dell’aeroporto di Biscari, non si sentiva più sparare… Mentre gli americani ci spogliavano, io pensavo alla festa, pensavo a casa. Poi abbiamo camminato sotto il sole: saremmo stati in cinquanta, tutti senza scarpe, a torso nudo, in mutande o con i pantaloni corti. Dopo qualche ora ci hanno fatto fare una sosta, stavamo seduti in un campo all’ombra degli ulivi. Quelli che ci sorvegliavano si sono appartati, fumavano e parlavano. Tempo un quarto d’ora e ci siamo alzati di nuovo: ci hanno fatto mettere su tre file. Io ero in mezzo a quella centrale, accanto avevo due commilitoni, palermitani come me che conoscevo sin da quando eravamo bambini. A quel punto gli americani hanno cominciato a sparare… Sono stato colpito subito: un proiettile mi ha spezzato il polso e mi sono buttato a terra. Ho fatto solo in tempo a fissare l’immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia… Io stavo fermo, con il braccio infuocato e la faccia che si copriva del sangue dei miei amici. Sono rimasto immobile per un paio d’ore, finché il silenzio non è diventato totale. “Se ne sono andati”, ho pensato. Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, ho spostato i corpi e mi sono alzato. Ho fatto solo in tempo a guardarmi attorno ed è arrivata la fucilata. Ricordo il botto e il calore che mi bruciava la testa. Sono caduto, sorpreso d’essere ancora vivo. Il proiettile mi ha preso di striscio, scavando un solco tra i capelli: sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla … Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: Non muoverti. Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino ad una strada sterrata… Non si sentiva più la battaglia. E’ passata un’ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: “Verranno a prenderti”. “Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. E’ arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la jeep, lo ha mandato via. E’ rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina. Ha mirato al cuore e ha sparato”.

 

Giannola, forse grazie ad un miracolo di S. Rosalia, sopravvisse. Fu poi curato e fatto prigioniero dagli inglesi. Nel 1947 ricostruì due volte la strage, facendo un resoconto dettagliato agli ufficiali dell’Aeronautica incaricati di determinare l’origine delle sue ferite. Non fu creduto. Smise fino al 2004 di raccontare la sua storia. Fu addirittura dichiarato disertore. Poi ricevette due medaglie. Quel giorno a Biscari non ebbero la stessa fortuna gli avieri Argento, Del Pozzo, Giacalone, Macaluso, Raimondi, commilitoni di Giannola, e tutti gli altri italiani arresisi agli americani.

 

Era ancora in vita il 10 luglio 2012 quando a Santo Pietro fu inaugurato da alte autorità istituzionali un monumento che ricorda i caduti italiani e tedeschi uccisi nella zona dagli americani.

 

Una seconda lapide è stata apposta a Piano Stella per ricordare l’eccidio dei civili italiani massacrati.

 

Fino all’ottobre del 1943 non risulta che gli ordini di non fare prigionieri siano stati revocati. Mi chiedo: a) quando sono stati revocati gli ordini di non fare prigionieri i tedeschi o i fascisti arresisi? b) quante stragi sono ancora sconosciute? c) con quanti morti?

LE STRAGI DI COMISO

 

Su due eccidi, avvenuti nell’aeroporto di Comiso, è tuttora in corso la ricerca storica. Sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista inglese Alexander Clifford. Nel 2004 il giornalista Gianluca di Feo scrisse sui morti dimenticati di Comiso: “All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, furono fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre prigionieri respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale”. In quel periodo, era come parlar male di Garibaldi. Clifford, i cui articoli erano pubblicati da alcuni importanti giornali americani, descrisse ciò che vide all’analista britannico Basil H. Liddel Hart, il quale lasciò uno scritto sulle loro conversazioni, dall’espressivo titolo: I comandanti americani (e l’omicidio di massa americano). Il terzo giorno dopo lo sbarco, Clifford visitò l’aeroporto con un corrispondente di guerra americano, rimasto sconosciuto. I due andarono da Patton e protestarono. Il generale ordinò di fermare questi omicidi. Dopo la fine della guerra e la morte di Patton, Liddell Hart chiese il permesso di pubblicare i particolari degli omicidi di Comiso. Opponendosi al processo di Gert Von Rundstedt e d’altri due feldmarescialli tedeschi per crimini di guerra, scrisse a Clifford. Al giornalista non piacevano i processi per crimini di guerra, ma rifiutò la richiesta.

 

 

Nella zona di Comiso combattevano nuclei di paracadutisti americani. Il paese fu occupato dal 157° gruppo tattico reggimentale della 45ª Divisione fanteria americana. L’aeroporto cadde il pomeriggio del 12 luglio.

 

Dopo 62 anni, non si conoscono i nomi delle vittime della strage, né il luogo della sepoltura.

D: Anche nei confronti delle popolazioni civili vi furono episodi di violenza gratuita. Non va dimenticato poi che al seguito delle truppe Usa e Britanniche vi erano anche i Tabor marocchini inquadrati nelle truppe francesi di De Gaulle, le cui gesta resteranno tristemente famose in Italia. A mano a mano che le divisioni degli invasori risalivano la penisola, le cose non migliorarono di certo per gli italiani del Sud Italia, costretti a subire ogni sorta di crimine e violenza da parte della soldataglia ubriaca e senza controllo. La sorte peggiore toccò alle nostre donne, considerate un vero e proprio bottino di guerra da parte dei “campioni della democrazia occidentale”, che in questo vollero emulare le nefandezze compite dai sovietici nelle regioni della Germania Orientale. Il generale francese Juin consentì al Cef – Corpo di Spedizione Francese, a maggioranza formato da magrebini, di sfogare le proprie pulsioni sulle donne, le bambine, gli uomini per cinquanta ore se avessero vinto la battaglia per sfondare il fronte di Cassino. A Esperia e Ausonia furono violentate centinaia di donne. Prof Bartolone che dati ci può fornire lei al riguardo e perché ancor oggi si tace su quanto accaduto? Un’usanza quella dello stupro che non era certo estraneo anche alla cultura statunitense, gli episodi accaduti in Iraq nelle carceri e sui civili è più che eloquenti, senza dimenticare le innumerevoli violenze commesse in Gran Bretagna, Francia e Germania dai soldati Usa, ben documentate nel libro “Stupri di Guerra” di J. Robert Lilly.

 

Gli stupri di donne italiane cominciarono al momento dello sbarco in Sicilia e continuarono per tutta la Campagna d’Italia. Alcune donne furono violentate a Licata da alcuni militari americani nei giorni successivi allo sbarco. Poi altri episodi di violenza che videro coinvolti militari alleati accaddero in diverse zone della Sicilia.

 

Secondo il dottor Giovanni Saito, ex sindaco di Licata, all’epoca undicenne:

 

“In massima parte l’avanzata degli Alleati americani fu salutata con gioia. Dal canto loro gli Americani riuscirono ad accattivarsi il favore della popolazione regalando ogni ben di Dio… Alcuni giorni dopo, ci fu il passaggio delle truppe di colore, i cosiddetti Marocchini, che fecero della violenza la loro arma primaria, seminando terrore e paura. Non era pensabile che gli uomini assistessero passivamente allo spettacolo di mogli, madri o sorelle violentate senza opporre alcuna resistenza. Perciò in massima parte si armarono. E’ questa volta sì, scesero in campo contro quegli stessi Americani che solo pochi giorni prima avevano accolto come liberatori. Ricordo che sul terrazzo di casa fu istallata la mitragliatrice. Per il resto la città non ebbe problemi”.

 

Numerose ruberie e stupri avvennero anche nella zona di Capizzi e Cerami, a causa dei famigerati goumier. Anche qui le prepotenze delle truppe coloniali francesi causarono la reazione dei siciliani: la caccia all’africano. Molti “marocchini” furono giustiziati dagli abitanti, in varie scaramucce nei boschi, nell’indifferenza del comando francese. Dopo gli incidenti i goumier furono allontanati dalla zona, anche per l’avanzata degli Alleati.

 

La ricerca di donne con cui divertirsi per qualche ora, fatta dai paracadutisti a Xitta, frazione di Trapani, scatenò nella Pasqua del 1944 il cosiddetto “Vespro cittaro”. Anche a Xitta numerosi francesi, di colore o meno, pagarono con la vita l’offesa all’onore delle donne locali. Ci fu una rivolta armata contro i paracadutisti francesi. I quali furono costretti a lasciare il Paese.

 

I furti compiuti dagli appartenenti agli eserciti alleati, sia durante sia dopo la Campagna di Sicilia, accompagnarono la vita dei siciliani per molto, troppo, tempo.

 

I fascicoli dell’AMGOT sono pieni di denunce di malversazioni compiute ai danni della popolazione. Idem i libri degli storici locali che si sono occupati di questo periodo. Ma questa è, direbbe Kipling, un’altra storia. Di un corposo capitolo di un altro libro. Di prossima pubblicazione, se Dio vorrà. Le caramelle e le scatolette distribuite dagli occupanti nei primi giorni furono ripagate con gli interessi, a caro prezzo. I siciliani direbbero a “sangue di Papa”. Fu una ben riuscita operazione di pubbliche relazioni, funzionale alla miglior riuscita delle operazioni belliche. In una guerra totale, come lo fu la II guerra mondiale, ogni mezzo era buono pur di vincere: la vittoria avrebbe segnato i destini dei popoli e del mondo per almeno 50 anni.

 

Le successive elargizioni originarono da scambi con la popolazione – vino, cimeli o sesso -, bontà individuale, rapporti familiari o d’amicizia, specialmente con i soldati americani d’origine siciliana.

 

Nella realtà i vincitori consideravano i beni dei siciliani, sconfitti e occupati, res nullius, esposti al loro libero desiderio. Potevano prendersi qualsiasi cosa, sia per uso individuale sia bellico.

 

Dopo la “ricchezza” dei primi giorni, si passò alla fame più nera. E nell’isola si ebbero moltissimi morti per fame.

 

Queste cose sono successe, succedono e succederanno in tutte le guerre. I “marocchini” sarebbero stati probabilmente lasciati liberi di scatenarsi in tutta l’isola con furti e stupri se in Sicilia si fossero verificati episodi di resistenza agli invasori. Gli anglo-americani, nonostante gli accordi fatti con la mafia, in “formidabile ripresa”, non si sentivano del tutto sicuri di poter controllare l’isola. Erano tenuti di riserva nel Parco della Favorita di Palermo, pronti per la rappresaglia, se la popolazione avesse improvvisato una reazione contro gli occupanti. Poi furono trasferiti. E fecero danni.

Il cammino delle truppe francesi in Italia fu segnato da stupri di massa. Colpirono a Esperia, Ausonia, Pico, Pontecorvo, S. Oliva, Castro de Volsci, Frosinone di, Grottaferrata, Giuliano di Roma, Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strofe, Poggibonsi, Elba, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa, Isola d’Elba… lasciando ovunque un’indicibile scia di violenze, lutti e malattie.

 

Nel maggio del 1944 nella zona del Liri i francesi, impegnati nella conquista di Montecassino, si abbandonarono a ogni sorta di violenza contro la popolazione, senza riguardo per il sesso o per l’età. Nel dopo guerra furono presentate al Ministero della Difesa circa 25 mila richieste di risarcimento per i danni subiti: un fenomeno di proporzioni gigantesche, ma sicuramente sottostimato, se si pensa che molti per pudore avranno sicuramente rinunciato alla denuncia, celando a tutti quanto accaduto.

 

I francesi organizzarono una sorta di stupro di massa, tollerato dai Comandi Alleati e (ciò che è più grave) dimenticato dal governo Badoglio. Lo stesso fecero i russi in Pomerania e Prussia Orientale nel 1945. Per dare un’idea del fenomeno basti fare alcuni esempi: a Pio, un ufficiale americano del 351° reggimento dovette assistere senza poter fare nulla a scene d’inaudita violenza a danno d’anziani, donne e bambini, sulla piazza del paese.

 

Oltre 800 uomini furono selvaggiamente violentati. Molti erano sacerdoti. Bambini anche di tenerissima età furono uccisi nei modi più efferati di fronte alle madri. Mentre le donne erano violentate dal branco, gli uomini che avevano cercato di difendere le proprie famiglie furono impalati. Per finire, fu trasmessa a molti sopravvissuti la sifilide e la blenorragia, con tutte le conseguenze sociali che si possono facilmente immaginare. I militari alleati erano d’altronde alla ricerca spasmodica di compagnia e spesso non distinguevano tra segnorine e no.

 

Numerosi furono gli stupri avvenuti in Campania. Interi quartieri di Napoli erano pericolosi, specie la sera, per donne e minori. Moltissimi militari alleati, brilli e no, lasciarono un vergognoso segno del loro passaggio. A Napoli si diceva: “Attenzione ai liberatori”.

 

Altri numerosi stupri accaddero all’Isola dell’Elba, dopo l’arrivo delle truppe francesi. I soldati furono poi per fortuna impiegati nelle operazioni di sbarco nella Francia meridionale.

 

Nella seduta del 7 aprile 1952 il sottosegretario alle Pensioni dichiarò alla Camera che dalla zona di Cassino erano state presentate ai competenti uffici 17.368 domande d’indennizzo e 7.639 di pensione. Per l’opposizione nel Cassinate furono stuprate sessantamila donne, per il Governo esse furono ventimila.

 

Forse i numeri delle donne violentate non li conosceremo mai. Per una semplice ragione: nell’Italia del secondo dopoguerra molte donne hanno preferito non denunciare violenza subita, rinunciando a un aleatorio misero risarcimento, pur di potersi sposare e rifarsi una vita. Molti uomini dell’Italia di quel tempo non avrebbero sposato una donna non vergine, seppure avesse subito una violenza.

 

Per quanto riguarda il proclama Juin, molti storici ne contestano l’esistenza. Forse l’autorizzazione sarà stata data a voce.

 

In un rapporto del Ministero della Difesa del 18 ottobre 1947 sul Comportamento delle truppe alleate in Italia, si vede come l’occupazione fu critica per molte regioni della Penisola. I dati – sottorappresentati se confrontati con i minuziosi e rapporti mensili che le autorità periferiche inviavano ai superiori comandi – testimoniano che nel periodo compreso tra l’Armistizio e il 30 giugno del 1947 i reati commessi dai militari alleati in Italia furono 23.265. Erano così suddivisi:

 

Omicidi:                                      589

 

Ferimenti                                   1956

 

Aggressioni, risse, violenze        2390

 

Furti e rapine                             7699

 

Incidenti automobilistici, morti   1159

 

feriti                                            6138

 

Violenze carnali consumate         1159

 

tentate                                             291

 

 

 

Le regioni più colpite furono: Campania, Toscana e Lazio.

 

I francesi di colore si resero responsabili del 21,22 % degli omicidi, del 51,07 % dei furti e delle rapine, dell’89,45 % delle violenze carnali consumate e del 28,28 % di quelle tentate. Gli americani conquistarono il primo posto col 21.46 % dei casi in aggressioni, risse e violenze.

 

In Campania la maggior parte degli stupratori apparteneva alle truppe coloniali del Corpo di spedizione francese, seguivano gli afro-americani, gli americani, i canadesi, gli indiani e gli inglesi. Gli stupri collettivi furono consumati da uomini appartenenti a tutti gli eserciti alleati.

 

Oltre ai furti e alle razzie, anche le diffuse violenze sessuali dimostrano quanto i militari stranieri fossero non solo “liberatori” ma conquistatori pronti a profanare il corpo delle donne italiane vinte, una maniera come un’altra per dimostrare l’impotenza virile dei loro uomini, deboli, impotenti, incapaci di difenderle. La guerra, oltre alla conquista di un Paese vinto, significa anche la violenza sulle donne sconfitte e la riduzione allo stato di res nullius dei beni di proprietà degli sconfitti.

 

D: Assieme all’arrivo degli invasori, aumentava il degrado e la criminalità nelle città italiane. Prostituzione, traffici illeciti, furti e saccheggi erano all’ordine del giorno, assieme alla fame e alla miseria. Napoli può secondo lei rappresentare la massima espressione di questa involuzione, dove lo Stato un tempo presente e attento era praticamente scomparso per lasciare il posto al male affare?

L’arrivo degli angloamericani provocò nelle città italiane un’ondata di criminalità e degrado. La fame e la miseria, la pratica scomparsa dello Stato in molte parti del Regno del Sud, la voglia di sopravvivere alla bufera della guerra e di arricchirsi, l’allentamento dei freni morali, furono tutti fattori che provocarono il crollo di un mondo e dei suoi valori. A Napoli si toccò il fondo della crisi.

Napoli fu una delle città italiane che più subì offese nella II guerra mondiale. E’ stata, inoltre, la città più condizionata dall’esperienza dell’occu­pazione. Sotto certi aspetti lo è ancora. Dipese da diversi fattori: 1) il lungo periodo in cui la città fu sottoposta al governo militare d’occupazione (dall’ottobre 1943 al gennaio 1946); 2) la forte presenza delle truppe straniere; 3) le conseguenze sulla sua econo­mia dell’enorme quantità di beni in transito; 4) la notevole domanda di manodopera da parte del governo d’occupazione; 6) le consistenti commesse anglo-americane all’industria locale; 7) il rilevante contributo dato dai gangster americani alla rinascita della camorra.

Napoli durante la guerra era il capolinea delle rotte marittime verso la Libia, il punto di partenza della “Battaglia dei convogli”. La presenza, inoltre, di numerosi obiettivi d’interesse militare – ad esempio le officine aeronautiche dell’Alfa Romeo di Pomigliano, il silurificio di Baia, gli Scali Napoletani, l’ILVA di Bagnoli ecc., mise la città ai primi posti nelle priorità dei pianificatori delle incursioni aree anglo-americane. Officine, porto, fabbriche, tutte le cose che potevano contribuire allo sforzo bellico, furono colpite più volte e pesantemente dagli aerei nemici. La città partenopea rispose alle incursioni nemiche in maniera dignitosa e disciplinata e il consenso alla guerra fino allo sbarco in Sicilia, non mancò.

Anche a Napoli la guerra fu “sentita” dalla maggioranza dei cittadini. Si era convinti che la vittoria avrebbe comportato un eccezionale periodo di prosperità per l’Italia, risolvendo molti problemi che da secoli affliggevano il nostro popolo. L’intervento dei volontari, nel solco della tradizione risorgimentale, si sublimò in un corale patriottismo che avrebbe meritato d’essere coronato dalla vittoria, fu massiccio.

 

Anche Napoli pagò caro l’arrivo degli americani sullo scacchiere mediterraneo. La loro “selvaggia” tesi del “bombardamento a tappeto” s’impose agli inglesi. Le città italiane dovevano essere “arate” meticolosamente dalle “fortezze volanti”. Quartiere dopo quartiere. Fino alla primavera del 1943, i bombardamenti erano stati mirati agli obiettivi d’interesse militare e industriale, cercando di risparmiare, per quanto possibile, il resto. Ora i raid erano diretti a colpire, oltre ai primi, indiscriminatamente, le case, le chiese e finanche gli ospedali (quello dei Pellegrini fu distrutto il 6 settembre 1943, solo due giorni prima della comunicazione dell’Armistizio). Si voleva esasperare e terrorizzare la popolazione, indebolirne il morale, disgregare le basi di massa del Fascismo, provocare la caduta del Regime e facilitare gli sbarchi in preparazione.

 

Naturalmente i 100 bombardamenti, le 25 mila vittime, le immense distruzioni, la delusione seguita alla perdita dell’Impero e della Quarta Sponda, dalla fine della Campagna di Sicilia e l’abile propaganda nemica, minarono le basi del Regime e la voglia di resistenza e di vittoria della stragrande maggioranza dei napoletani. Per molti divenne meglio chiudere subito “l’avventura” cominciata il 10 giugno 1940 e “salvare il salvabile”. La guerra “fascista”, considerata sinonimo di guerra italiana, la “nostra guerra”, diventò per molti “la guerra di Mussolini”. In caso di successo bellico, per molti, i veri vincitori sarebbero stati Hitler e la Germania, non l’Italia e gli italiani. La città sopportò, in ogni modo, eroicamente e con dignità le più gravi offese per amore della Patria in guerra. Solo quando fu imminente l’arrivo degli invasori, si creò una situazione di caos provocata da pochi antifascisti che volevano avvantaggiarsi dal disordine, derivato dal vuoto di potere tra i tedeschi in partenza, il governo della R.S.I. in embrione e gli anglo-americani in arrivo. Naturalmente, come sempre avviene in ogni cambio di regime, ai disordini parteciparono, oltre agli idealisti, i teppisti, la delinquenza spicciola, ma, nel nostro caso, almeno una squadra di mafiosi, tra cui il famoso Tommaso Buscetta.

La storia di Napoli dalle cosiddette “quattro giornate” alla fine della guerra fu per colpa di una minoranza un calvario umiliante. La città, utilizzata come retrovia dello sforzo bellico anglo-americano, divenne nota nel mondo come la “Shanghai del Mediterraneo”. Durante questo vergognoso periodo la delinquenza, giunta con le salmerie delle truppe angloamericane, spadroneggiò. Furono create le condizioni per la rinascita della Camorra, duramente colpita ai tempi del processo Cuocolo, nel 1908, tenutosi per le indagini del capitano dei Reali Carabinieri Carlo Fabroni, dichiarata sciolta il 25 maggio del 1915 dagli stessi camorristi, e infine debellata grazie all’opera del maggiore dell’Arma Vincenzo Anceschi al tempo del prefetto Mori, e che portò all’arresto di circa 10 mila camorristi o presunti tali.

 

Le province del “Regno del Sud” erano inoltre flagellate dall’inflazione galoppante provocata dalle Am-lire, stampate senza alcun limite dagli “Alleati”. Ufficiali e soldati alleati, in combutta con camorristi, mafiosi e profittatori nostrani, partecipavano alla big robbery. Vendevano tutto, tutto si avviava al mercato nero, tutto si poteva comprare, ma a caro prezzo. Eroismi, idealismi, moralismi che avevano guidato il comportamento delle persone negli anni precedenti, furono seppelliti da un mare di fango e di moneta d’occupazione. Per sopravvivere in quel duro periodo bisognava rinunziare a dettami etici ormai “antiquati”, superati dalla “nuova civiltà” democratica. Era una quotidiana, contaminante lezione di vita. Una lezione in negativo che fece smarrire la via a molti. Chi non volle o non seppe scendere a patti con la propria coscienza, per sopravvivere dovette sacrificare quel che aveva ereditato o conquistato in una vita d’onesto lavoro e di pesanti sacrifici. Ci furono moltissime famiglie costrette a vendere tutto, fino all’ultimo anello, all’ultimo lenzuolo, all’ultima coperta. I bambini erano gracili e avevano il ventre gonfio, causato dalla denutrizione. Molti vecchi erano seduti davanti alla porta del “basso”, silenziosi, indifferenti, ad attendere la morte, godendosi l’ultimo sole.

Per Maurizio Valenzi, nel secondo dopoguerra sindaco di Napoli, la metropoli campana era una “grande zattera abbandonata alla deriva”. Per il regista John Huston: “Napoli era come una puttana malmenata da un bruto: denti spez­zati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito… Gli uo­mini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L’anima della gente era stata stuprata. Era veramente una città senza Dio”. Una città dove: “Le sigarette erano la merce di scambio comu­nemente impiegata e per un pacchetto si poteva fare qualsiasi cosa. I bambini offrivano sorelle e madri in vendita…”. Con un pacchetto di sigarette si potevano comprare tre chili di pane. Chi non poteva permettersi le Victory, le Lucky Strike, le Raleig, le Camel o le Chester Field si rivolgeva al mercato delle cicche che si teneva in Piazza Garibaldi. Sui marciapiedi stavano quintali di tabacco sfuso, ricavato dai mozziconi, che gli scugnizzi o insospettabili signori muniti di un bastone terminante con uno spillo, raccoglievano nelle vie.

Nell’agosto del 1944 un militare alleato poteva portare a letto una ragazzina di 12 anni regalandole una coperta: equivaleva alla paga settimanale di un operaio.

 

Mortificato da quanto vedeva, Alan Moorehead, australiano, scriveva: “Stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. La lotta per l’esistenza dominava tutto. Il cibo. Nient’altro contava…”.

Il piacere intenso della vittoria, l’ebbrezza che portava i soldati vincitori a lasciarsi andare, anche perché la morte poteva giungere poco dopo, e la fame dei napoletani, che induceva taluni a far qualsiasi cosa pur di guadagnare una scatoletta di cor­ned beef o di razioni k, faceva a molti dimenticare ogni tabù, infrangere ogni legge, lacerare principi e sentimenti tradizionali. Gli occupanti apparivano sempre allegri, puliti, profumati, ben nutriti e orgogliosi; percorrevano le vie di Napoli, fendendo la terribile folla, malinconica, sporca, affamata, vestita di stracci. I vincitori, appartenenti a tutte le razze del mondo, urtavano e ingiuriavano, in tutte le lingue e in tutti i dialetti del pianeta, i napoletani.

Protagonisti delle strade di Napoli erano tanti bambini e tante giovani donne, diventati ora sciuscià e segnorine. Bande di ragazzini con i vestiti sbrindellati, inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, ricoperte di scaglie di madreperla, di conchiglie marine, di pezzi di specchio, battevano le loro spazzole sul coperchio delle cassette, urlando: “sciuscià! sciuscià! shoe-shine! Shoe-shine!” e intanto, con la scheletrica, avida mano, afferravano al volo i pantaloni dei soldati che passavano. Una schiera infinita di bambini cenciosi riempiva la città dall’alba a notte fonda. Compravano e vendevano con astuzia da adulti, servili e superbi, seducenti o maligni, secondo il caso. Giravano con la cassetta delle mercanzie a tracolla. Offrivano di tutto. Tutto era in vendita. Tutto si poteva trovare. Bastava chiedere e poi pagare. A qualcuno di questi scugnizzi d’otto nove anni finirà bene: imbrogliando, commerciando, rubando; affittando stanze, offrendo zie e sorelle, faranno un sacco di soldi senza nemmeno saperli contare. Qualcuno si presentò in banca, chiedendo: “Scusate, signò, quanto fanno mille vote mille lire?” Molti soldati alleati salvarono la vita grazie ad un dollaro speso acquistando un coppo di pidocchi da uno scugnizzo: invece dell’inferno di Cassino andarono in ospedale.

 

Non tutte le segnorine erano prostitute professioniste. Centinaia di donne si mischiavano alla folla di Via Toledo, in bilico sui tacchi, masticando chewing gum, per portare da mangiare ai figli. Passeggiavano a coppie; abbordavano i militari alleati con il lurido frasario dei bassifondi americani appreso frequentandoli. Segno­rina era la merce offerta da un compiacente marito vicino al basso dove la moglie attendeva riscaldandosi davanti ad un braciere di carbonella: non era la regola, ma faceva colpo. Segnorina era la vedova di guerra costretta dal bisogno a prostituirsi al soldato che indossava la stessa divisa di chi aveva ucciso il marito. Segnorina era la poveretta caduta nelle grinfie dei soldati coloniali francesi. Segnorina era la verginella chiassosamente dipinta pronta a prestazioni stravaganti. Una Patpong del Mediterraneo. Segnorina era l’ex venditrice di “sigarette con lo sfizio”, passata a più lucrosi affari. Segnorine, naturalmente, erano le migliaia di professioniste del ramo, arruolate in ogni parte dell’Italia meridionale. Per migliaia di soldati alleati di stampo puritano le segnorine erano trasgressioni sconosciute, irrinunciabili. La vittoria si accompagnava a una sorta di facile libertinaggio mai goduto. La vittoria si completava solo con la conquista delle donne del popolo vinto. Dato che i casini non bastavano per tutti, e che quel commercio era il più redditizio, molti vi si dedicavano. Fiorivano i tè pomeridiani di molte signore della media e piccola borghesia. Erano organizzati da alcune signore intraprendenti. S’invitavano alcuni ufficiali alleati e alcune e belle e disponibili “amiche”. Poi prendevano una percentuale. Certi mariti chiudevano un occhio sulla professione intrapresa dalla moglie, bastava fingere di non vedere e di non sapere, bastava non tornare prima di una certa ora, per non sentirsi coinvolti. Fregandosene delle allusioni e del disprezzo dei benpensanti consentiva non solo di mantenere il livello di vita, ma addirittura di accrescerlo. Alcune vie di Chiaia, del Duomo, della Ferrovia, di Toledo, divennero infrequentabili per certe “mostre” di segnorine in attesa di clienti. Per poco non si arrivò alle esibizioni “corali” di cui parlò Malaparte. La tentazione di guadagnare “chili” di Amlire era forte.

Le migliaia di soldati alleati che occupavano la città sembravano ai napoletani ricchi clienti da spolpare. Facevano campare moltissime persone. Tra questi soldati, c’era chi ci guadagnava. “Pagavamo cinque lire un pacchetto di sigarette per un privilegio elargito dal popolo degli Stati Uniti. Ai napoletani potevamo venderle a 300 lire al pacchetto. Proprio un buon affare”.

 

Nella King’s Italy dall’Armistizio alla fine del 1944, e oltre, ci furono numerosissimi assassini, rapine, furti. Nell’Italia meridionale, i Reali Carabinieri contarono – quando ne furono informati, e molto spesso non lo furono – migliaia d’atti delinquenziali: 1547 omicidi volontari in 15 mesi, 140 preterintenzionali, 1.522 colposi, 14.800 lesioni personali, 5.603 rapine, 597 estorsioni, 134.937 furti aggravati. Reati commessi da italiani e da soldati alleati, da singoli e da bande, nelle città e nelle campagne. Al 1° aprile del 1944 le Allied Military Courts avevano già celebrato a Napoli 4.908 processi: di essi, 3.111 riguardavano furti di beni militari, soltanto 189 il mercato nero. Nella zona della Region 3, che comprendeva Napoli e la Campania, c’erano solo 6.240 carabinieri, 3.913 agenti di pubblica sicurezza, 2.650 guardie di finanza, impotenti ad arginare il dilagare della criminalità. Al 20 novembre 1944 a Napoli, agli ordini nel neo questore, dottor Michele Broccoli, c’erano 835 sottufficiali e 2.931 guardie, per un totale di 3.766 uomini. I carabinieri, agli ordini del tenente colonnello Attilio Baldinetti erano un’ottantina. Per ristabilire l’ordine a Napoli ci sarebbero voluti “trecentomila poliziotti”, ricordava anni dopo il dottor Broccoli, forse inutili, viste le complicità godute, dai fuorilegge, tra gli alleati e l’illegalità di massa.

 

Non c’erano confini tra malavitosi e faccendieri. Per tutti la speranza di far soldi cominciava con l’acquiescenza o la collusione di un paisano. Scriverà Leo Longanesi in Parliamo dell’Elefante: “Spostati, bari, camerieri di transatlantici, parassiti, conducenti di camion, ruffiani e lestofanti, riescono, in questo quotidiano disordine che a poco a poco diventa stabile e prende forma, a costruirsi una posizione. Basta loro incontrare qualche conoscente italo-americano per aprirsi una strada… S’intruppano cosi nei comandi, dove ottengono una carica e indossano perfino la divisa cachi… Si gettano le basi dei futuri grandi af­fari, delle future concessioni, dei permessi dell’AMGOT. Su questo primo nucleo si va costruendo la nuova classe dirigente italiana”.

 

Si rubava di tutto e in mille modi dai depositi alleati. Sigarette, sale, zucchero, scarpe, filo del telefono, vestiti, automobili, animali ecc. I ladri si spacciavano per carabinieri, M.P., funzionari pubblici, reduci, epuratori, sindacalisti, vedove di guerra, deportati. Scriveranno S. Lambiase e G. B. Nazzaro in Napoli 1940-1945 “Con i proventi del furto… la camorra torna in auge, dividendosi in zone la città, e, insieme, lucrosi profitti. Intorno ai mercati clandestini, essa organizza un’efficiente cintura di sicurezza, fatta di spie, di posti d’avvistamento, e di una serie di corrieri a voce che segnalano ogni movimento sospetto, compreso l’arrivo degli agenti… ”.

 

Il 60% delle merci scaricate finiva nei traffici clandestini. Il mercato nero della roba americana nasceva nei depositi del porto, dai quali sottufficiali traffichini facevano uscire casse di liquori, stecche di sigarette, razioni K, scatole di carne e fagioli, sacchi di polvere d’uovo, di zucchero o di farina, coperte.

 

A volte erano gli ufficiali a vendere un autotreno carico di vettovagliamenti. Prezzo richiesto: 6 milioni.  Un usciere intraprendente dopo una colletta tra “amici” in poche ore riuscì a guadagnare 4 milioni. Seguirono le dimissioni dal lavoro. Qualcuno fece addirittura scomparire 7 camion, autisti e soldati di scorta compresi. Gli americani vendevano molto: dalla cioccolata ai copertoni d’automobile, dalle maglie di lana ai cappotti. A poco a poco, non ci fu napoletano che non usasse magliette color oliva, camicie color oliva, asciugamani color oliva, tutta roba in dotazione all’U.S. Army. Insieme al chewing gum, alla penicillina, alla coca cola e alla famosa polvere di piselli, arrivarono i film e i nuovi ritmi americani. La polvere di piselli, vantata come “nutrientissima”, vitaminizzata, capace di sopperire a ogni mancanza di cibo, però permetteva solo di preparare una pappa schifosa. Lasciò Na­poli tra perplessa e sghignazzante. Gli scugnizzi la sbattevano ridendo contro i muri, o dopo aver fatto delle palle, se la tiravano addosso per gioco. Poletti era scoraggiato e deluso. Questi napoletani erano degli ingrati. Perché sbeffeggiavano quella polvere che tante mamme americane, anche nelle migliori famiglie, usavano per nutrire quei giovanottoni che poi, con i capelli tagliati all’umberto, finiranno nei marines?

 

Ma questi fenomeni accaddero anche in altri Paesi. La fame e la miseria spinsero moltissime donne tedesche a “fraternizzare” con i ricchi militari alleati. Alla violenza seguì la prostituzione. Moltissimi per sopravvivere o per arricchirsi si diedero a ogni traffico con le forze d’occupazione. A ogni livello. Garmisch negli anni seguiti all’occupazione della Germania fu il centro di quel torbido mondo.

 

 

 

D: Prof. Bartolone diamo ora uno sguardo oltre, e propriamente alle strane alleanze che si formarono in occasione dell’invasione del territorio nazionale, le cui conseguenze si fanno ancora sentire oggi perdurando lo stato di sottomissione dell’Italia agli Stati Uniti. Si è parlato spesso di Mafia durante l’Operazione Husky. Quale fu il ruolo svolto dall’OSS (Office off Strategic Services) e dalla Mafia, leggasi Lucky Luciano, nella pianificazione dello sbarco? E’ vero che anche la chiesa ai suoi vertici era collusa in questa “alleanza” anti italiana, smaniosa solo di conservare i suoi bene e privilegi? Un intreccio che vedeva anche la Massoneria in prima fila al fianco degli Alleati.

 

E’ una domanda che richiederebbe una lunga risposta. Che per questioni di spazio sintetizzo. Mafia e Massoneria avevano avuto grossi problemi dopo l’avvento del Fascismo, la Chiesa col Concordato ebbe dei vantaggi dall’accordo con lo Stato. Decine di migliaia di mafiosi o camorristi furono arrestate, inviati al confine nelle isole, furono costretti a scappare in Tunisia, in America, o a mettersi a lavorare per vivere. Le Logge furono sciolte e la loro influenza nella politica italiana fortemente ridotta. Idem per i mafiosi. Con la dittatura Cosa Nostra non poteva più condizionare le elezioni in molte zone della Sicilia.

Parlando di mafia mi sembra opportuno, prima di proseguire nell’analisi dei fatti, di fare una pregiudiziale di metodo.

“Come oggetto di ricerca storica – ben precisa Massimo Ganci – la mafia sfugge ai canoni ormai consacrati della ricerca. Vano è cercare “il documento“ nel senso pre­ciso che di esso gli storici danno. Costituti, programmi, testamenti della mafia non ne esistono. Eppure la mafia è esistita, esiste ed ha avuto anche una sua evoluzione. Atti della polizia e dell’autorità giudiziaria e memoriali di contemporanei esistono. Di questa fonte lo storico deve vagliare 1’attendibilità, alla luce del­l’esperienza della società in cui la mafia opera”.

 

Particolarmente per questo studio è ancora più difficile, per non dire impossibile, il rinvenimento di “pezze d’appoggio” o di altri mezzi conoscitivi sicuri sui contatti, gli accordi o sui legami tra i mafiosi di Sicilia o d’oltre oceano con le autorità statunitensi negli anni ‘40. Tutti gli interessati avevano l’interesse a far sparire le tracce dei loro inconfessabili contatti. Interpretando con la migliore intelligenza, e più fedelmente possibile, gli avvenimenti che Cosa Nostra ha determinato o concorso a determinare, penso che lo studioso con il suo giudizio e la sua asseverazione possa contribuire in maniera pro­bante a creare quelle prove e quei documenti impossi­bili da dare. Non c’e dubbio che Cosa Nostra raccolse anche i frutti della collaborazione, vera o presunta, con i servizi d’in­formazione USA e ciò prima, durante, e dopo lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia.

 

Il servizio segreto della Marina statunitense sapeva il ruolo che la mafia aveva in Sicilia ed era ben documentato sui rapporti intercorrenti tra essa e Cosa Nostra in America. I mafiosi dovevano agevolare lo sbarco e la successiva avanzata delle truppe, comunicando informazioni sulla zona di operazione e, specialmente, mediante “contatti“ con gli “amici influenti“ delle varie zone dell’Isola, collaborare per aprire la via all’armata americana. Il dipartimento della ricerca navale creò la sezione risorse umane che promosse una serie di studi concedendo cospicui fondi.

 

Nel 1957 Leonardo Sciascia si chiedeva:

 

“Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto 1’AMGOT subito trovarono ca­richi e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’e da chiedersi se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di “persone di fiducia“ che – guarda caso! – erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costante­mente mantenuta con la mafia siciliana“.

 

Ai desideri di Sciascia risponde un documento trovato da Roberto Ciuni negli archivi USA. Il 21 luglio 1943, Patton ricevette dal quartier generale di Alexander un rapporto dettagliatissimo. Il rapporto aveva come oggetto: Mafia Personalities. Si trattava di un elenco di persone “considerate membri della mafia”, scritto grazie ad informazioni fornite al 15° Gruppo d’Armate alleato da gruppi francesi che lo consideravano abbastanza attendibile. Nell’elenco si leggono i nomi di 18 palermitani, con la relativa zona d’influenza e in alcuni casi addirittura con l’indirizzo. Numerose erano le “personalità mafiose” abitanti nelle borgate palermitane o nei paesi della Sicilia che dovevano essere contattati. Come i servizi segreti della Francia Libera si fossero procurati la lista, non era detto. Ciuni formula l’ipotesi che l’elenco sia pervenuto “attraverso canali nord-africani in contatto con i mafiosi o siciliani emigrati in Algeria e Tunisia”. Se accettiamo per buona l’ipotesi di Sandro Attanasio sui contatti tra il Supersim italiano e i servizi segreti alleati intesi a favorire l’uscita dalla guerra dell’Italia possiamo formulare l’ipotesi che l’elenco sia stato fornito dai primi.

 

Per l’onorevole Angelo Nicosia, il contatto poté avvenire “con la complicità di elementi poco fidati del Ministero dell’Interno dell’epoca che solo poteva detenere l’elenco dei mafiosi confinati … “. Nicosia rappresentava il MSI nella Commissione Parlamentare Antimafia. Naturalmente “elementi poco fidati del ministero dell’Interno” potrebbero aver fornito l’elenco al Supersim, che poi l’avrebbe girato ai francesi, finendo, infine, nelle mani degli americani, i quali li avrebbero poi “raggiunti con una meticolosissima” attenzione.

 

E’ importante la lettera d’accompagnamento all’elenco, perché s’inseriva il problema mafia nell’oscura situazione politica. “Le persone indicate sono probabilmente antifasciste. Bisogna tenere però in considerazione che la mafia non ha ancora espresso una posizione politica a proposito dell’invasione e potrebbe essere contraria agli Alleati: nel qual caso sarebbe pericolosa in quanto è una società segreta organizzata. Sarà bene avvisare tutto il personale di sicurezza che gli elementi conosciuti come antifascisti non sono necessariamente anti italiani ovvero anti Alleati”. Per Ciuni il “Lavoro di renseignement che avrebbe resistito a qualsiasi pedante riscontro poliziesco locale, la mappa della mafia palermitana, particolarmente, era quanto di meglio si potesse fornire al governo d’occupazione: se non perfetta, certo frutto di ottime informazioni”.

 

I nomi di molti citati nella lista li incontreremo spesso nelle pagine di cronaca nera dei quotidiani fino agli anni ’80 e oltre. In molti – nonni, padri, nipoti – sarebbero entrati nei libri di storia della mafia.

 

Nel 1942, numerosi e utilissimi servigi erano stati resi al controspionaggio statunitense da Cosa Nostra che era stata assai attiva nel concorrere a stroncare l’attività spionistica dei nazisti nei porti ame­ricani allorquando sabotatori e spie germaniche fornivano informazioni, appoggi e anche rifornimenti ai sottomarini tedeschi appostati nell’Atlantico settentrionale. Dopo le “intese” tra Salvatore Lucania, noto come Lucky Luciano, condannato a una lunghissima pena detentiva, e il controspionaggio USA, Naval Intelligence Service in particolare, si cominciarono a vedere gli effetti di quel gentlemen’s agree­ment, come scrive Lorenzo Marinese:

 

“Nella zona del porto, nelle banchine militari, i despoti diventano – sostituendosi ai papaveri della Marina e dello spionaggio – i fratelli Camardos e Frank Costello. Il risultato è immediato: cessa il sabotaggio, cessa l’ostruzionismo, non un solo quintale di merce perduta; non un solo trabiccolo affondato. I tedeschi e i filo-nazisti vengono neutralizzati e, in seguito di­spersi. Ma c’è ancora altro da fare”.

 

Considerati i risultati, i servizi segreti americani, in previsione dello sbarco in Sicilia, tornarono a rivolgersi ai mafiosi dai quali potevano ottenere informazioni sulla loro terra d’origine, sui suoi porti, aeroporti, ferrovie, spiagge, punti strategici, disloca­zioni e consistenza delle truppe dell’Asse. Illuminanti a questo proposito sono le pagine di Ester Kefauver, presidente dell’omonima commissione sul crimine in America. Forse i servizi resi da Lucky Luciano e dai suoi “amici” agli agenti segreti americani non sono stati così preziosi sul terreno dell’informazione militare. La collaborazione però ci fu. Scrive Denis Mack Smith:

 

“E’ stata spesso formulata l’accusa e non è stato mai dimostrato il contrario che questo corrispondesse a un piano deliberato dagli Alleati per facilitare la con­quista della Sicilia. Certamente c’erano stretti rap­porti fra i gangsters d’America e di Sicilia e l’aiuto della mafia poteva esser molto utile se non altro per ottenere informazioni. Alcuni particolari della carriera di Lucky Luciano, di Nicky Gentile e altri famosi cri­minali italo-americani conferiscono qualche attendi­bilità a questa storia. Vito Genovese, ad esempio, ben­ché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l’omicidio e sebbe­ne avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzo la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a restaurare 1’autorità, disfacendo, cosi in parte, quel poco di bene che Mussolini aveva fatto”.

 

Questa collaborazione non era nata per caso. Per gli Alleati o per taluni agenti e funzionari dell’AMGOT si trattava, anche, di restituire alcune “cortesie” ricevute con l’ospitalità data dai mafiosi a vari agenti segreti americani e britannici prima dello sbarco, tra cui il tenente colonnello Charles Poletti, che molte voci vorrebbero a Monreale fin dal 1942, ospite di mafiosi del luogo o del locale Arcivescovo. Il presule fu accusato da molte male lingue di essere vicino a certi personaggi della zona. Anche gli inglesi si davano da fare. Sansone e Ingrascì scrivono:

“Nell’aprile 1943 un sottomarino britannico emerse a un miglio dalle coste meridionali della Sicilia. Una piccola imbarcazione, sotto la spinta dei remi, rag­giunse in breve tempo la costa, arenandosi dolcemente sulla spiaggia. Ne discese un uomo alto e sottile. Due persone che stavano ad attenderlo gli chiesero: “Chi siete?” “Sono il colonnello Hancock dell’esercito di S. Maestà britannica”.

L’ufficiale inglese, venuto per preparare il terreno all’invasione, a loro detta:

 

 “fu ospite dell’on. Arturo Verderame che gli mise a disposizione una casa di campagna nei pressi di Gela. Nello stesso mese giunse clandestinamente in Sicilia un altro personaggio con compiti analoghi ma per incarico del Dipartimento di Stato, il colonnello Charles Poletti dell’esercito degli Stati Uniti. L’agente americano riuscì a stabilire immediatamente contatti con alcuni baroni agrari, tra i quali don Lucio Tasca Bordonaro, uno dei più grossi latifondisti siciliani, la duchessa di Cesarò ed altri”.

 

Gli Alleati si servivano di queste e altre forze della conservazione dopo l’assicurazione che queste non avrebbero in alcun modo ostacolato i loro disegni di mantenere 1’ordine e che avrebbero contribuito a mantenerlo. Fu una stabilizzazione di un Paese conquistato.

 

“C’era indubbiamente nell’intervento alleato – come dice Franco Briatico – qualcosa che eccitava la mafia, rifacendosi ad un rapporto protettorato-autono­mia del tipo inglese dal quale nacque la Costituzione del 1812 e nel quale 1’ideologia baronale ravvisava la libertà perfetta. La scelta della mafia era dunque il separatismo, in parte per la naturale identificazione di quest’ultimo con 1’antico ordine, in parte per la espe­rienza di uno Stato centrale che 1’aveva duramente perseguitata, in parte per la necessità di una restaura­zione che in un momento di estremo disordine, appa­riva improbabile a livello statale. Come sempre la ma­fia temeva contemporaneamente 1’assenza di un ordine e la presenza di un ordine troppo forte; e la sua pro­spettiva rimaneva quella di ritornare ad essere me­diazione indispensabile tra un ordine ristabilito in apparenza e un disordine latente”.

 

La tranquillità nelle retrovie era stata ed era una delle cose più importanti per gli Alleati e man mano che s’intensifica­vano le operazioni militari, il loro interesse (degli ame­ricani in particolare) alle forze che potevano contribuire aumentava. Scrive Denis Mack Smith:

 

“Perciò gli Alleati, che avevano interesse soprattutto a man­tenere la Sicilia tranquilla mentre la guerra procedeva sul continente, rimisero al potere una categoria di capi politici che derivavano dal passato prefascista; e, una volta fatto non ci fu modo di tornare indietro, perché essi fecero presto a trincerarsi efficacemente. Il quasi analfabeta Vizzini e i suoi soci, richiamarono in vita tutte le vecchie pratiche di clientelaggio, banditismo, terrorismo e omertà per crearsi un immenso potere e rimettere in auge i loro lucrativi labirinti di criminalità”.

Ci furono “piccoli“ ma si­gnificativi episodi. Ci permettono però d’intravedere già i segni della “scelta“ alleata che du­rerà fino alla prima metà del 1944. Churchill aveva un’estrema diffidenza verso una qualsiasi possibile iniziativa politica di “esuli o di av­versari del regime fascista” che non venisse dal Re e da Badoglio.

Sicuramente esagera il ruolo di della mafia Michele Pantaleone quando scrive:

“Comunque è storicamente provato che prima e du­rante le operazioni militari relative allo sbarco degli Alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsteri­smo americano, s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro, tanto che le truppe d’occupazione avanzarono nel centro dell’isola con un notevole mar­gine di sicurezza”.

 

Non ci furono battaglioni di mafiosi armati di lupara in marcia con le salmerie alleate. Gli occupanti grazie all’enorme divario di uomini e mezzi nei confronti dei nemici non ne avevano bisogno. Gli invasori sarebbero arrivati lo stesso allo Stretto, ma avrebbero pagato un prezzo maggiore. In molte località della Sicilia, però gli “uomini d’onore” contribuirono a minare il morale delle truppe dell’Asse e favorirono, con promesse e minacce, la resa dei reparti italiani e tedeschi che dovevano fronteggiare il nemico, oltre a guidare l’assalto ai municipi e alle sedi del Fascio. Come ad esempio a Bagheria.

 

Gli americani “subiscono” l’iniziativa politica dell’alleato nel Mediterraneo. I quali parevano essere più propensi a iniziative militari nei Balcani. Scrive N. Kogan, L’Italia e gli Alleati:

 

“l’atteggiamento americano non si esplicò in una poli­tica vera e propria per tutto il 1943 e la prima parte del 1944. Sottovalutando la forza dell’anti-fascismo e preoccupato della sicurezza militare, il governo ameri­cano seguì da principio la tattica di sopprimere qual­siasi attività politica in Italia, e questo fu il suo modo di rispondere a un problema che non era ancora preparato a trattare”.

 

I criteri generali dell’impostazione della politica alleata in Sicilia sono anche illu­minanti del pragmatismo e dei contrasti tra gli angloamericani. Gli americani sono meno interessati degli inglesi, a un disegno strategico più ampio. Perciò sono propensi, almeno sul piano più minuto, a servirsi di mezzi e stru­menti di governo diversi dai britannici. In questo quadro non devono però essere sottovalutati, i pre­valenti fattori di natura militare che ispiravano la con­dotta degli statunitensi e dei britannici e gli altri elementi dal più vasto disegno che non sembravano in quel tempo completamente chiari. Pareva impossibile, che si dovesse parlare, per i nordamericani, di tradizione politica e d’interessi storici nel Mediterraneo cui riallacciarsi in qualche modo. Non era tuttavia, però, da sottovalutare la loro recente esperienza nell’Africa settentrionale francese, vista al tempo dello sbarco come operazione primariamente logistica e condotta con la qua­si certezza di non incontrare resistenza anche di natura politica. Fu una vicenda tuttavia non priva di ombre, di am­bizioni, d’insegnamenti, per l’avvenire: 1’effetto di quest’ope­razione avrebbe modificato, infatti, la storia del­le tradizioni politiche e della situazione geografica degli USA. Chiaramente “l’imperialismo” del presente era in lotta con le idee passate e la politica statunitense rifletteva questo contrasto. E’ in concreto impossibile accer­tare se le direttive “aperturistiche” verso Cosa Nostra fu­rono stabilite e in quale misura dall’AMGOT prima dello sbarco. Non si tratta, certamente, di valutare alcuni fatti isolati senza un preciso contorno, ma di una volontà ed anche di un disegno piuttosto precisi che s’innestano in un quadro più ampio, in una scelta del tutto “utilitaristica” verso i mafiosi che avevano o rappresentavano comunque il potere effettivo e che non avevano alcun interesse a modificare lo “status quo” in materia di ordine socio-economico in Sicilia. I quadri della nuova mafia che si stavano riorga­nizzando e cambiando da quella di un tempo, ricomin­ciavano ad acquistare 1’antica e indiscussa potenza nelle campagne e più “peso”, man mano che acquisivano maggior potere politico. La cosa assunse un tono d’ufficialità agli occhi di molti siciliani quando don Calò Vizzini fu nominato sindaco di Villalba dal tenente americano Beehr, e alla cerimonia del suo insediamento partecipò 1’inviato del vescovo di Caltanissetta. Cioè del rappresentante dell’altra colonna che, insieme a Cosa Nostra, doveva ga­rantire 1’ordine agli occupanti: il clero. Nel caso partico­lare poi, don Calò aveva dei fratelli preti e po­teva vantare anche due zii vescovi. Oltre a questi incarichi ufficiali dati dagli alleati ai capi noti della mafia stavano quelli dati a non pochi mafiosi meno importanti, meno conosciuti o del tutto sconosciuti. Erano nomi che già iniziavano a circolare di bocca in bocca con timore e riverenza. Anche i semplici “soldati” non sono meno importanti sul piano pra­tico e operativo, perché spesso costoro erano al ser­vizio degli angloamericani, in molti casi, per la conoscenza dell’in­glese, come “interpreti”. In altri avevano vari incarichi, spesso anche come uomini di “fiducia”, per procacciare affari e sistemare altri “pro­blemi”. E’ indicativo il fatto che molti militari americani fossero di origine siciliana e furono volutamente scelti dall’esercito per questa ragione. Avevano appreso dai genitori emigrati nelle Little Italy a rispettare certi usi e certe leggi tradizionali avevano ben più efficacia di quelle statali. Anche questi rapporti giovarono a Cosa Nostra, che amministrò numerosi enti locali della Sicilia occidentale, specialmente in centri tradizionali dell’organizzazione ma­fiosa.

 

Quanto scrive Giuseppe Carlo Marino in Storia della Mafia sul governatore del Governo Militare USA, Charles Poletti, ci aiuta a capire grazie a quali alleanze fu possibile stabilizzare la Sicilia e tante cose che successero dopo nell’Isola:

 

“Sui rapporti tra l’AMGOT da una parte e il separatismo e la mafia dall’altra, la verità storica è tanto inoppugnabile quanto, per ben comprensibili motivi, controversa … è ovvio, data questa opinione, non sarebbe mai stato in grado di riconoscere e temere come mafiosi il suo fraterno amico Antonini e gli altri boss che negli USA controllavano il sindacato dei portuali (il “fronte del porto” del famoso film con Marlon Brando). E neppure il famigerato Lucky Luciano che – giurano parecchi testimoni – fu, ovviamente sotto falso nome, suo interprete di fiducia a Palermo nel quartiere generale dell’AMGOT. Né lo avrebbero minimamente scandalizzato i vari Joe Adonis, Albert Anastasia, Joseph Antoniori, Jim Balestrieri, Thomas Buffa, Leonard Calamia, Frank Costello, Joe De Luca, Peter e Joseph Di Giovanni, Nick Gentile, Vito Genovese, Tony Lo Piparo, Vincent Mangano, Joe Profaci, tutti esponenti dell”‘onorata società” ampiamente utilizzati dai servizi segreti e presenti con vari incarichi tra i “liberatori”. A maggiore ragione, ritenne di operare per la rinascita della democrazia in Italia insediando come sindaco a Palermo il noto Lucio Tasca e, alla guida delle altre amministrazioni comunali dell’isola, a parte il noto “campione di antifascismo” don Calò Vizzini a Villalba, altri innumerevoli personaggi di analoga cultura democratica come Antonino Affronti, Serafino Di Peri, Giuseppe Genco Russo, Giuseppe Giudice, Vincenzo Landolina, Peppino Scarlata, Alfredo Sorce. E consegnò al boss Vincenzo De Carlo il controllo degli ammassi del grano e al medico arcimafioso di Corleone Michele Navarra (il primo “datore di lavoro” di Luciano Liggio) l’organizzazione di una società di trasporti nell’entroterra del Palermitano destinata a presiedere alle attività del “mercato nero”. Ovviamente il vecchio Poletti ha negato, nella citata intervista, di avere avuto rapporti compromettenti con il separatismo. Ma è certo che il movimento di Finocchiaro Aprile – nel quale, dopo lo sbarco degli Alleati, confluì pressoché per intero la “borghesia mafiosa” con il personale del latifondo, dai grandi proprietari titolati, ai gabelloti, ai campieri – dovette molto del suo successo alla possibilità di presentarsi come il “partito degli americani” (alcuni separatisti, attratti da una specie di fondamentalismo americanista, e sarà don Calò, per qualche tempo, uno dei loro massimi esponenti, proporranno addirittura di fare della Sicilia la quarantanovesima stella degli Stati Uniti). Le reali o soltanto presunte credenziali americane furono, insieme alla capacità di fare crescere e di strumentalizzare nell’isola una vasta protesta contro il Nord colonialista, tra i fattori che resero possibile al trio Finocchiaro Aprile-Tasca-Vizzini di conquistare e strumentalizzare il consenso di una vasta forza plebea, dalla quale sarebbero emerse delle autentiche vocazioni popolari al riscatto e alla liberazione. Per esempio, le vocazioni del giovane professore Antonio Canepa, un idealista dell’Ateneo catanese che, sotto la spinta di originali suggestioni patriottico – rivoluzionarie, avrebbe costituito, con un pugno di studenti, il suo sedicente “Esercito volontario per l’indipendenza siciliana” (EVIS) e poi, il 17 giugno 1945, sarebbe caduto in un conflitto a fuoco con i carabinieri che lascia aperti i sospetti sulle responsabilità della mafia, interessata ad eliminarlo come sovversivo e “testa calda”.

 

Poletti avrebbe avuto come solo interprete personale al Comando Alleato di Nola, Napoli, il noto gangster Vito Genovese. Ricercato negli States per omicidio, Paese in cui fu estradato dopo una lunga procedura: godeva di alte complicità al comando alleato. “Don Vitone” gestiva il mercato nero nell’Italia meridionale. E “mangiava e faceva mangiare” gli “amici”.

Ai precedenti massoni aggiungerei, solo per rimanere in Italia, il maresciallo Pietro Badoglio, scelto per la carica di Capo del Governo anche per i suoi legami con le Logge, e il Re Vittorio Emanuele III, in gioventù sospetto di simpatie massoniche. Sarebbe stato un “gradito visitatore” delle Logge. Per Antonio Nicaso: “Fu il massone americano Frank Bruno Gigliotti, già agente della sezione italiana dell’Oss e quindi agente della Cia, a preparare lo sbarco degli americani in Sicilia attraverso i rapporti con la mafia e la massoneria”.

Nel gioco di “salvare il salvabile” nel “gioco” entrò anche la Chiesa, preoccupata, specie dopo gli scioperi del marzo 1943 dell’andamento che potevano prendere le “cose” in caso di sconfitta dell’Italia: la forte influenza nella Penisola di due Potenze protestanti e del PCI. Con i primi presto si giunse a un accomodamento, indicativi sono rapporti Alleati – Chiesa in Sicilia. Le angosce del Papa crebbero con l’aumentare della forza del PCI dopo il 25 luglio.

Pio XII era consapevole da tempo che l’unica via di salvezza per 1’Italia era quella della pace. Il Papa non condivi­deva l’orientamento del governo Badoglio, vale a dire un armistizio che ponesse 1’Italia alla merce dell’occupazione militare anglo­americana. Papa Pio XII percepiva che, in tal caso, la reazione di Hitler sarebbe stata certa e dura con il risultato di favorire i comunisti, che aspettavano solo una situazione del genere per mettersi a capo della lotta partigiana contro i tedeschi. La cosa avrebbe finito col favorire enormemente il PCI che sarebbe emerso dalle rovine della guerra, come 1’unico, autentico vincitore, con tutte le conseguenze che tale successo avrebbe comportato per 1’avvenire dell’Italia e della Chiesa. Il Pontefice aveva quindi deciso che la sola via possibile non fosse l’armistizio sperato da Badoglio, ma la “neutralizzazione” dell’Italia previo accordo con le Potenze in guerra: vale a dire, gli angloamericani avrebbero dovuto cessare le ostilità ma non occupare l’Italia; i tedeschi, a loro volta, avrebbero dovuto ritirare le loro Divisioni oltre il Bren­nero. I1 piano era molto meno utopistico di quanto oggi possa sembrare. E’ chiaro che il Papa sapeva di potere contare per la realizzazione del suo progetto sul consenso di Berlino. Il governo germanico in quel tempo, cercava qualsiasi occasione che gli permettesse, di entrare in contatto con gli angloamericani al fine di trattare una tregua che gli consentisse ma­no libera in Russia. Un accordo per 1’Italia poteva benissimo costituire un prezioso precedente per il raggiungimento di questo scopo. Contando quindi già a priori sul favo­revole atteggiamento del governo ger­manico, ai primi di agosto del 1943 il Papa aveva inviato negli USA, quale rappresentante personale, 1’architetto Enrico Piero Galeazzi. Doveva illustrare la volontà di Pio XII ai capi dell’episcopato americano e pre­mere quindi, loro tramite, sul Presidente Roosevelt. Mentre Galeazzi era in missione, ci fu 1’accostamento tra Badoglio e i comunisti. Pio XII, che vedeva la situazione deteriorarsi nel senso da lui temuto, tentò di premere ulteriormente su Washington e su Badoglio. Il suo piano fu però sconvolto dal precipitare degli eventi. I1 15 agosto, nel massimo se­greto, il generale Giuseppe Castellano, munito di credenziali rilasciategli da Badoglio, incontrò a Madrid sir Samuel Hoare, l’ambasciatore britannico, con 1’incarico di trattare il passaggio del1’Italia a fianco degli Angloamericani. Iniziò così la frenetica vicenda delle trattative che portarono all’Armistizio.

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