PAGLIACCI LUGUBRI E SANGUINARI
Dal 1991, dal crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono rimasti l’unica superpotenza esistente su questo pianeta, non solo, ma è evidente che gli Stati Uniti da allora stanno cercando di espandere il loro dominio a livello mondiale, imponendo dappertutto una democrazia che non è in realtà altro che una forma mascherata di colonialismo.
Io
 credo sia essenziale capire in che mani sia questo sfortunato pianeta e
 l’altrettanto sfortunata umanità che lo popola, chi sono questi yankee 
prossimi a essere i padroni di questo mondo , e che in ogni caso si 
comportano come se lo fossero, mentre l’Italia e l’Europa sconfitte 
nella seconda guerra mondiale si trovano da settant’anni a vivere in 
quello che di fatto è un regime di soggezione coloniale.
Al
 riguardo, devo essere onesto, i contatti che ho avuto con persone 
statunitensi sono stati sporadici, anche se di loro mi hanno sempre 
colpito il cattivo gusto e l’invadenza (chissà se la tendenza che 
dimostra la loro politica estera a invadere le altre nazioni non sia 
collegata più di quanto non sembrerebbe a prima vista alla loro 
invadenza caratteriale), ma indipendentemente da ciò, una via per 
comprendere chi sono veramente costoro ci viene proprio dal fatto che 
noi oggi subiamo un’invasione mediatica di film e di serial televisivi 
di produzione americana che a un esame appena un po’ attento si rivelano
 estremamente istruttivi nel farci capire quale sia la loro mentalità.
Al
 riguardo occorre rilevare innanzi tutto che i media hanno una funzione 
sia speculare sia normativa nel senso che da un lato riflettono e 
rivelano quale sia la mentalità che soggiace alla loro creazione, 
dall’altro rappresentano dei modelli che influenzano il comportamento 
delle persone, tanto più che, in presenza di una scuola sempre meno 
capace di trasmettere conoscenze e di famiglie sempre più evanescenti, 
labili, disintegrate, provvisorie, essi sono diventati e diventano 
sempre più di fatto l’unica “agenzia educativa” (o diseducativa). Stiamo
 attenti che questa è storia americana ma finisce per valere sempre più 
anche per noi che siamo sottoposti alla loro massiccia influenza 
mediatica, e soprattutto i più giovani, che hanno personalità meno 
strutturate, sono sensibili (ma sarebbe meglio dire vulnerabili) a 
questa influenza, e si consideri anche il fatto che pure da noi sia 
l’istituzione scolastica sia le famiglie mostrano tutti i segni di un 
inarrestabile declino, un declino di cui ritengo, la deleteria influenza
 che ci arriva d’oltre Atlantico ha non poche responsabilità. 
Basandomi
 su di un esame del comportamento dei personaggi mediatici dei serial 
televisivi, qualche tempo fa avevo redatto un articolo, “Lugubri 
pagliacci”, che è stato pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa. 
“Pagliacci” perché da questi esempi si rileva un comportamento 
clownesco: grottesco, infantile, esagerato, spesso e volentieri sopra le
 righe. L’uomo americano, a giudicare dalla sua auto-presentazione 
mediatica si rivela fatuo e irresponsabile, incapace di concepire il 
fatto che il mondo continuerà a esistere anche la settimana prossima, 
tendente a delegare tutte le responsabilità alla donna che è la figura 
dominante e la vera capofamiglia. “Lugubri”, perché l’idea che a questi 
fanciulloni mai cresciuti altro che negli appetiti sessuali sia, per un 
seguito di circostanze storiche davvero sfortunate, sostanzialmente 
capitato in mano il destino del mondo, è una cosa che non si può 
considerare senza preoccupazione. Il paragone che viene istintivo è con 
“It”, il mostruoso alieno inventato da Stephen King che dietro una 
maschera da clown cela il suo vero aspetto di raccapricciante entità 
simile a un ragno.
Dagli
 amici di “Ereticamente” ho avuto un invito ad approfondire questa 
tematica (e intanto vi segnalo che l’articolo, che pare abbia 
riscontrato un notevole interesse è stato anche ripubblicato sul sito 
della FNCRSI). Un invito al quale era difficile sottrarsi, visto che di 
aspetti da approfondire ve ne sarebbero parecchi.
Un
 aspetto al quale sarebbe importante almeno accennare, è quello 
dell’attacco alla concezione tradizionale (ma sarebbe meglio dire 
NATURALE, perché è inutile girarci attorno con una “political 
correctness” bugiarda) della famiglia e l’esaltazione dell’anormalità 
sessuale a tutti i livelli. 
Che
 nei serial di cui sopra gli omosessuali siano praticamente le uniche 
figure di maschi presentate come positive, è una cosa quasi scontata, 
tra l’altro con un’enorme dose di falsificazione rispetto alla realtà, 
perché le coppie gay sono sempre presentate come molto affettuose e 
stabili, mentre sappiamo che è tipico di queste persone cambiare partner
 con estrema disinvoltura, e proprio questo è stato all’origine, grosso 
modo nel periodo fra il 1990 e il 2000 della grossa diffusione 
dell’epidemia di AIDS fra gli omosessuali americani.
Non
 c’è di mezzo solo l’omosessualità: che dire di un programma come 
“Little Miss America” che presenta bambine impuberi vestite e truccate 
come donne adulte in pose più o meno seduttive; cos’è se non uno 
scoperto invito alla pedofilia? E quale lezione di vita si impartisce a 
queste bambine e alle loro coetanee se non che solo l’aspetto esteriore è
 importante per farsi strada nella vita, che è importante trasformarsi 
precocemente in un ingranaggio della macchina consumistica?
Non
 parliamo di quell’altra esaltazione dell’anormalità sessuale che è 
“American Next Drag Queen”, dove sono giovanotti discinti in tanga e 
paillettes a esibire seni e natiche frutto di sapienti interventi 
chirurgici e trattamenti ormonali in contrasto con quelli che sarebbero 
dovuti essere i loro naturali attributi.
Tuttavia,
 questi casi che ho citato nell’articolo precedente non sono ancora il 
peggio. Ultimamente, una mia corrispondente mi ha citato una pratica che
 negli ultimi tempi sembra sia diventata alquanto diffusa negli Stati 
Uniti, di donne bisessuali che dopo aver divorziato dal marito e 
ottenuto l’affidamento dei figli, nonché essere andate a vivere con una 
compagna ed essersi scoperte del tutto lesbiche, hanno fatto operare i 
loro figli maschi per fargli cambiare sesso. Vi rendete conto di quale 
violenza questo significa su quelle povere creature che ne avranno 
verosimilmente la vita rovinata?
Rendetevi
 conto di una cosa: i modi di fare statunitensi condizionano sempre più 
anche noi, e ponetevi l’interrogativo in tutta sincerità: E’ QUESTO il 
mondo nel quale volete vivere?
Questo
 articolo, nella forma in cui l’avevo pensato inizialmente, doveva 
intitolarsi “Americanate”. Per americanata s’intende (o s’intendeva) 
qualcosa di pagliaccesco e smargiasso, tipicamente frutto del cattivo 
gusto e della sicumera di coloro che si ritengono i padroni del pianeta e
 sono convinti che tutti gli altri non desiderino altro che imitare il 
loro modo di vita. Ora, fateci caso: oggi il temine è praticamente 
caduto in desuetudine; perché americanate non se ne fanno più, o al 
contrario perché anche noi ci stiamo sempre più americanizzando e non 
riusciamo più a cogliere la perversità di certi comportamenti che 
finiscono per apparirci naturali?
Tuttavia,
 dopo la strage di Newtown, ennesima esplosione di violenza tragica e 
futile, è appunto sulla violenza che ho deciso di spostare “il taglio” 
dell’articolo. Questi yankee non sono solo “Lugubri pagliacci”, sono 
appunto “Pagliacci lugubri e sanguinari”.
Quello
 che colpisce in questo episodio che è solo l’ennesimo di una lunga 
serie, non è che l’autore materiale dell’assurda strage sia stato un 
ragazzo autistico con gravi turbe mentali, ma il fatto che la madre che 
il ragazzo ha ucciso prima di recarsi alla scuola dove questa lavorava e
 perpetrare il massacro, sebbene fosse un’insegnante, quindi si suppone 
una persona non del tutto sprovveduta nei rapporti con i più giovani, 
non si fosse minimamente preoccupata di lasciar circolare per casa come 
se niente fosse due armi da guerra, pur sapendo di avere un figlio 
mentalmente disturbato che con ogni probabilità aveva già manifestato 
comportamenti aggressivi. E gli M 16, viene da chiedersi, facevano per 
caso parte della sua didattica?
Cosa
 dire poi del fatto che è bastato l’annuncio della Casa Bianca di 
imporre restrizioni legislative alla circolazione di armi negli Stati 
Uniti per far scattare una corsa all’accaparramento prima che le nuove 
normative possano entrare in vigore (e non è detto che succederà, perché
 la lobby dei produttori di armi è pronta a dare battaglia – è il caso 
di dirlo – armata fino ai denti). Come dire, non importa se il frigo è 
vuoto, l’importante è che l’armeria sia ben fornita, e se si ha fame, ci
 si può sempre consolare sparando ai vicini.  
Io
 credo che non sia possibile, tenendosi alle dimensioni di un articolo, 
fare un’analisi della violenza che è il tratto fondamentale della 
società americana – basta pensare che essa è basata su uno dei più 
spaventosi genocidi della storia, il massacro di qualcosa come da cinque
 a sette milioni di nativi americani (i cosiddetti pellirosse)  –
 un genocidio che ha avuto un’amplissima partecipazione popolare e 
ancora oggi viene sentito come un’epopea invece dell’orrore che 
obiettivamente è, si potrebbe ricordare il comportamento davvero infame 
tenuto dai militari americani durante la seconda guerra mondiale, le 
fucilazioni di prigionieri dopo che si erano arresi, i massacri dei 
civili, lo stupro delle donne dei vinti. Certo, l’Armata Rossa ad 
esempio ha fatto le stesse cose su scala maggiore, ma i Russi erano 
aizzati dai commissari politici, gli yankee no, “di suo” il russo è 
molto meno violento dell’americano, fino ad arrivare alle sevizie ai 
prigionieri nei carceri di Abu Ghraib e Guantanamo, che è storia 
recente, di oggi, ma per tutto ciò occorrerebbero quanto meno le 
dimensioni di un libro se non di un’enciclopedia.
Un
 tratto caratteristico della mentalità americana è la capacità di 
travestire la violenza da moralismo, l’aveva fatto rilevare bene Massimo
 Cacciari in quella famosa intervista rilasciata a Maurizio Blondet che 
ho citato più volte:
“I
 Pellerossa erano radicati nel loro ethos, e l’americano vedeva nel loro
 ethos un sistema di non-libertà. Lo sterminio delle società sacrali, 
degli ethoi tradizionali, è prescritto dal liberalismo per il “bene” 
stesso dell’uomo”… Per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, 
non ci volle nulla di meno che l’olocausto nucleare. Migliaia di 
tonnellate di bombe furono [sganciate sulle città europee durante la 
seconda guerra mondiale]. E il Vietnam, la guerra del Golfo, 
l’intervento “umanitario” in Somalia nel e in Jugoslavia nel 1999” (1). 
Sarà
 meglio perciò restringere l’argomento attenendoci al rapporto tra 
violenza e mass-media, sapendo però che anche in questo caso non ci 
muoviamo su di un terreno vergine. I media, ci sono svariati studi 
psicologici e sociologici in merito, abituano a un rapporto fittizio con
 la realtà, ma prima ancora concorrono alla de-strutturazione della 
personalità, soprattutto dei più giovani. Innanzi tutto abituano a 
percepire le cose in modo epidermico, un susseguirsi di immagini, di 
rappresentazioni che si susseguono incessantemente disabituando alla 
riflessione, sostituita da una fruizione momentanea per passare subito a
 qualcosa d’altro: ragazzi che hanno assorbito la droga mediatica in 
dosi massicce non sono più neppure capaci di concentrarsi, di svolgere 
attività che richiedano un minimo di impegno intellettivo come lo studio
 scolastico o la lettura di un libro, si perde la capacità di 
considerare criticamente quanto viene proposto: ciò che “si vede” è 
“vero” per definizione. 
La
 rappresentazione mediatica si sostituisce alla percezione del reale. 
Consumatori di “prodotti” televisivi a forti dosi tendono ad esempio a 
sovrastimare il numero di appartenenti alla classe alta che esistono in 
un qualsiasi contesto sociale, e sopravvalutano la minaccia di 
aggressioni fisiche, in chiara connessione sia con le ambientazioni 
“high class” delle soap opera, sia con la violenza che abbonda nei film e
 serial “d’azione”. Questo però è ancora il minimo.
In
 un bell’articolo dedicato al rapporto tra violenza e media, “Manipolare
 l’esistenza senza farsene accorgere”, la psicologa Antonella Randazzo 
riporta questa citazione del “Saggio sulla violenza” del sociologo 
Wolfgang Sofsky:
“La
 violenza dello schermo attrae e al contempo è assai dannosa: Nonostante
 il disgusto e l’avversione, lo spettatore viene catturato dalle 
passioni suscitate dalla violenza, che conquistano i sensi, l’udito, la 
vista, l’anima… Basta un solo attimo e le sue resistenze interiori 
crollano. La vista del sangue scatena eccitazione, estasi, entusiasmo, 
il desiderio di altro sangue. Lo spettatore diventa schiavo della 
crudeltà…è la violenza stessa che lo spettatore. Essa agisce come un 
veleno”. (2-3).
Serial
 televisivi e anche i videogiochi, questi ultimi specificamente 
destinati a un pubblico di minori, insegnano comportamenti violenti come
 l’unico modo di relazionarsi, disegnano un mondo in cui tutto è risolto
 con la forza bruta, non esistono mediazioni e compromessi. In più, LE 
CONSEGUENZE DELLA VIOLENZA NON SI VEDONO. Quello che la rappresentazione
 mediatica nasconde, è il sangue, il dolore, la sofferenza che l’atto 
violento infligge a coloro che ne sono vittime.
Per fare un esempio, riferendosi a quella mecca della droga mediatica che è Hollywood,  il
 kolossal bellico di Steven Spielberg “Salvate il soldato Ryan” è stato 
oggetto di dure critiche non per il suo messaggio buonista e falsamente 
umanitario nel classico stile hollywoodiano, ma per il fatto di aver 
presentato le ferite, le mutilazioni, i cadaveri dilaniati in 
conseguenza dei combattimenti in maniera realistica invece che nella 
solita maniera stilizzata e anestetizzata: LA GENTE NON DEVE ESSERE 
TROPPO CONSAPEVOLE CHE FERIRE E UCCIDERE FA MALE. Per il sistema 
mediatico occorre che si rimanga al livello del videogioco, dove 
l’avversario sconfitto cessa semplicemente di esistere o è pronto a 
ricomparire al livello successivo. Dobbiamo forse stupirci che mentalità
 infantili in cui è stata inculcata una visione distorta della realtà 
imbraccino una carabina mettendosi a sparare sui passanti per attirare 
l’attenzione quando si è fatto di tutto per impedire loro la percezione 
della gravità di un atto simile?
I mezzi cinematografico  e
 televisivo sono basati su una fondamentale asimmetria fra emittente e 
riceventi: “messaggi” elaborati da un numero ristretto di persone 
possono raggiungere una dimensione planetaria; internet è diversa: il 
numero degli emittenti è anch’esso tendenzialmente infinito. Di per sé, 
questo sarebbe un fenomeno positivo, ma quando, grazie alla connessione 
internet-cellulari (i-pad, smartphone e chi più ne ha più ne metta), la 
comunicazione diventa una rete planetaria che si sovrappone punto per 
punto e in tempo reale al mondo concreto, il rischio è quello che SE NON
 SEI NELLA RETE; NON ESISTI. Da qui tutta una serie di atteggiamenti 
assurdi come quello di persone che si filmano mentre compiono un reato e
 mettono il filmato in rete. Il quarto d’ora o il minuto di notorietà 
mediatico serve a giustificare e certificare retrospettivamente l’intera
 esistenza dell’individuo, e quale modo migliore di ottenere 
l’attenzione dei media se non quello di scendere in strada armato e 
mettersi a sparare sui disgraziati che capitano a tiro. Alla base di 
tanti episodi di violenza brutale come quello di Newtown, non si trovano
 motivazioni meno futili di quelle di attirare l’attenzione dei media, 
da parte di personalità infantili, s’intende, che non hanno mai 
acquisito il concetto che la vita umana possa avere un valore qualsiasi.
 
A
 tutto ciò va aggiunto ancora un altro elemento, l’arroganza di coloro 
che si considerano i padroni del mondo per investitura divina, e si 
ritengono dei superuomini al di sopra della restante volgare umanità.
Che
 la NATO, la SEATO, l’Organizzazione degli Stati Americani si presentino
 formalmente come alleanze fra pari, mentre sono puramente e 
semplicemente strumenti del dominio americano, non dovrebbe ingannare, e
 credo che in effetti non inganni nessuno.
Se
 volessimo avere una riprova del fatto che il rapporto che abbiamo con 
gli USA non è affatto quello di un’alleanza ma un rapporto di 
vassallaggio e di dominio, sarebbe fin troppo facile trovarla vedendo le
 vicende giudiziarie che in tempi più o meno recenti hanno coinvolto 
cittadini italiani e statunitensi. Sebbene esistano trattati di 
estradizione e riconoscimenti di giurisdizione che sono – ovviamente – 
pezzi di carta, non è stato possibile per la giustizia italiana avere i 
due piloti che – ubriachi fradici mentre erano intenti a fare pazzesche 
evoluzioni – tranciarono con il loro aereo i cavi della teleferica del 
Cermis uccidendo decine di persone, né il G-man dal grilletto facile che
 ha ucciso il funzionario Nicola Calipari, ma forse la vicenda più 
grottesca è stata quella di Amanda Knox, la giovane assassina yankee che
 a Perugia si è resa responsabile della morte della compagna di stanza 
inglese Meredith Kercher. Dopo un processo di primo grado in cui lei e 
il suo amichetto Raffaele Sollecito furono condannati, così come è stato
 condannato con sentenza definitiva l’altro bell’amico, l’ivoriano Rudy 
Guede che ha fatto l’errore di ricorrere al rito abbreviato, negli USA 
si è scatenata un’enorme pressione mediatica, si è mobilitato il 
Segretario di Stato Hilary Clinton (Segretario di Stato per diritto 
dinastico in quanto moglie di un ex presidente, ma ora tralasciamo) per 
arrivare a un appello-farsa dove la corte ha dovuto assolvere la giovane
 killer, perché i reperti di prova a carico erano – ma guarda un po’ – 
deteriorati e inservibili. Scarcerata, la giovane delinquente è stata 
accolta negli USA come un’eroina, una Giovanna D’Arco miracolosamente 
sfuggita al rogo.
La
 verità pura e semplice, che si cerca inutilmente di nascondere col 
dito, è che A SERVI QUALI CI CONSIDERANO; QUALI DI FATTO SIAMO, non è 
concesso processare i padroni. Siete filo-americani? Allora, procuratevi
 il collare e il guinzaglio, perché ai cani piace avere padroni, agli 
uomini no.
Questa
 supponenza, questa convinzione di essere dei superuomini che devono 
agire come protagonisti dei film con John Wayne, ha effetti anche sul 
piano interno, e alquanto grotteschi.   
Nel
 2011, in occasione del decennale dell’attentato dell’11 settembre, si è
 ovviamente riparlato di questo evento criminoso che presenta ancora 
oggi parecchi lati oscuri, al punto da rendere credibile che non si sia 
trattato di un atto terroristico ma di un’operazione di “false flag” per
 spingere l’opinione pubblica americana e mondiale in una certa 
direzione. Ora però non ci occuperemo di questo aspetto della questione.
 Una delle “icone”dell’11 settembre è rappresentata da “The falling 
Man”, “l’uomo che cade”, l’istantanea di una delle molte persone che si 
gettarono (o caddero, ma è meno verosimile) dalle torri del World Trade 
Center per non essere avvolte dalle fiamme. In concreto, è impossibile 
identificare di chi si tratti; ciò nonostante, le famiglie di almeno due
 persone sospettate sebbene con scarsissimo fondamento di essere  “The
 falling Man” sono state vittime di anni di persecuzioni, boicottaggi, 
tormenti di vario genere almeno fino a quando non sono riuscite a 
cambiare città, vita e cognome.
Per
 quale motivo? Teniamo presente che “l’uomo che cade” ha avuto la 
sfortuna di essere stato fotografato e di diventare un simbolo, ma molti
 altri hanno fatto la stessa cosa. Quali possono essere poi le 
responsabilità dei suoi familiari, e ancora di più delle famiglie degli 
uomini la cui identificazione con “The falling Man” è tutt’altro che 
certa? Quale è la colpa di quest’uomo? Quella di aver fatto ciò che 
probabilmente chiunque altro avrebbe fatto al suo posto: quello di aver 
preferito una fine rapida e relativamente indolore con un salto nel 
vuoto a una morte atroce, lunga, dolorosissima tra le fiamme, ma così 
facendo ha probabilmente abbreviato la sua vita di alcuni minuti, 
tecnicamente ha commesso un suicidio, gettando un’ombra sull’immagine 
mitica dell’americano come superuomo indistruttibile.
L’incredibile
 vicenda di “The falling Man” e soprattutto delle famiglie degli uomini 
sospettati di esserlo, non è la sola del medesimo genere. Penso che 
tutti noi ci ricordiamo di Rambo. Prima di diventare nelle successive 
pellicole della serie l’ennesima versione del classico supereroe 
americano tutto forza muscolare e patriottismo monolitico, nella prima 
pellicola, John Rambo è un reduce del Vietnam (profondamente frustrato, 
come si scopre alla fine della narrazione) che dopo essere stato 
maltrattato fino alla persecuzione dagli abitanti di una cittadina, 
decide di sfogare contro di loro le tecniche di guerriglia apprese nel 
conflitto indocinese.
La
 pellicola, e questa è la cosa importante, prendeva le mosse da un fatto
 assolutamente reale e da una serie di episodi concreti: l’ostilità e le
 persecuzioni di cui sono stati spesso oggetto i reduci del Vietnam una 
volta tornati in patria. Quale ne è il motivo? Che i reduci di una 
sconfitta non godano della stessa simpatia di coloro che ritornano da 
una guerra vittoriosa, questo è comprensibile, ma perché tanta ostilità?
La
 ragione è semplice: perché costoro sono stati e sono le testimonianze 
viventi del crollo del mito dell’invincibilità americana, così come la 
colpa di “The falling Man” è stata ,di essersi dimostrato alla prova dei
 fatti un uomo di carne e sangue e non un monolitico e algido eroe.
Vi
 sono altri fronti sui quali gli Stati Uniti sono costretti a mantenere 
una presenza costosa di mezzi e vite umane, oggi più discreta che 
nell’era Bush, ma da cui sanno che se si ritirassero in maniera 
sostanziale e reale, questi si trasformerebbero in nuovi Vietnam, perché
 gli islamici riprenderebbero il potere appena l’ultimo marine si fosse 
allontanato. L’Irak e l’Afghanistan.
I piedi d’argilla del colosso americano cominciano a mostrare le prime crepe.

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