Taranto e l’Ilva l’industrializzazione barbarica che ha ucciso la città
Parla Salvatore Romeo, autore di “L’acciaio in fumo”, libro che
ricostruisce il tormentato rapporto tra la città e la fabbrica
siderurgica: “A Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali è
emersa già negli anni ’70, ma nulla è stato fatto per invertire la rotta
perché la politica non è stata in grado di anteporre l’interesse
pubblico a quello dell’azienda”.
intervista a Salvatore Romeo di Enzo Ferrara*
“Mi
interrogo sulla mia città, su quella che è stata la sua storia e il suo
rapporto con la fabbrica, l’elemento più importante e decisivo della
storia recente di Taranto”. La tormentata storia dell’Ilva, una parabola
che da più di 50 anni trascina assieme una fabbrica e una città
nell’evoluzione della siderurgia italiana. Ad analizzarla, in un recente
libro, è Salvatore Romeo - dottore di ricerca in Storia Economica a
attualmente insegnante - con il suo
L’acciaio in fumo
(Donzelli, 2019). In passato già autore di diversi articoli e saggi sul
tema e curatore di una raccolta di scritti di Alessandro Leogrande su
Taranto
Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (Feltrinelli, 2018), l'abbiamo incontrato per ricostruire i fatti.
La
prima considerazione che si può fare leggendo il tuo libro è che
fortunatamente, nonostante la crisi, sembra esserci una generazione
capace di reagire e di svolgere elaborazioni profonde. La stessa
generazione di Alessandro Leogrande, una delle menti più lucide dei
nostri tempi, che già aveva dedicato a Taranto un altro libro, “Fumo
sulla città” (Fandango 2013). Voci che esprimono anche frustrazione, ma
coscienti e con un’attenzione al proprio territorio che non è comune.
Io posso parlarti della mia esperienza e di questo libro su cui lavoro
da tempo. Tutto è nato dal contatto, dal rapporto quotidiano con una
realtà oggettivamente difficile, che non ha mai pienamente assimilato la
presenza incombente del siderurgico.
In realtà, alla
fine le comunità si rimpadroniscono della propria città, del territorio,
anche nelle condizioni più deteriorate. Taranto oggi è come Seveso
negli anni ‘70 e Napoli negli ’80, o come Cengio e la val Bormida negli
anni ‘90. Non esistono luoghi infernali o paradisiaci in assoluto, ma
quali sono stati i momenti fondamentali nello sviluppo di Taranto fino a
oggi? Individuerei quattro momenti. Il primo,
senz’altro, è l’insediamento dell’Arsenale militare, alla fine dell’800.
Quella che era un’anonima cittadina della provincia meridionale
partecipa così al “decollo” dell’industria italiana, trainato dal
“complesso militare industriale” e dalle ambizioni di grande potenza che
l’Italia continua a coltivare fino alla seconda guerra mondiale. Questo
modello entra in crisi con la sconfitta bellica; Taranto sprofonda così
in una crisi tremenda, che non è solo socio-economica: è una crisi di
identità.
Il secondo momento coincide con il dibattito che si
sviluppa negli anni ‘50 intorno alla realizzazione di un nuovo centro
siderurgico “a ciclo integrale”. Per la prima volta si afferma l’idea
che l’industria di stato dovesse servire al perseguimento di finalità
“sociali”; in particolare, allo sviluppo della parte più arretrata del
paese: il Mezzogiorno. La scelta cade su Taranto, che così viene
riconnessa alle dinamiche di fondo dell’economia nazionale.
Il
terzo momento si apre con il cosiddetto “raddoppio”, quando la potenza
produttiva del siderurgico viene portata da 5 a 10 milioni di tonnellate
di acciaio l’anno. Siamo agli inizi degli anni ’70, e buona parte di
quel decennio sarà attraversata da un’accesa conflittualità tra
l’azienda (Italsider) e la comunità locale. La contestazione riguarda
essenzialmente l’approccio strumentale di Italsider nei confronti del
territorio, la sua sostanziale indifferenza nei confronti degli impatti
problematici del siderurgico. Emerge una forte soggettività operaia che
cerca di condizionare le scelte aziendali e l’organizzazione del lavoro;
si sviluppa una grande vertenza – la “vertenza Taranto” – per la
diversificazione produttiva e il superamento della “monocultura
dell’acciaio”. L’obiettivo è trasformare la fabbrica in un fattore
propulsivo per lo sviluppo locale; e in effetti si ottiene una maggiore
responsabilizzazione di Italsider nei confronti del territorio.
Il quarto momento si apre con la crisi che sconvolge la siderurgia
mondiale e si intreccia alle trasformazioni economiche degli anni ’80 e
’90. Il lungo processo di ristrutturazione – che culmina nel 1995 con la
privatizzazione – segna un passaggio traumatico: le necessità del
risanamento economico impongono un progressivo ridimensionamento della
funzione della fabbrica come fattore di sviluppo, che si accompagna alla
perdita di peso e di potere del movimento operaio. Da quel momento il
siderurgico inizia ad essere percepito sempre più come un corpo estraneo
che non dà benessere, non favorisce lo sviluppo, ma crea problemi.
L’ILVA è per decreto (D.Lgs
3 dicembre 2012, n. 207) uno stabilimento di interesse strategico
nazionale, separato dal territorio in cui sorge, difficilmente
accessibile e in opposizione alla comunità locale. Esattamente il
contrario del modello di fabbrica aperta immaginato da Olivetti a Ivrea.
La questione va inquadrata in una prospettiva
storica. Nella realtà non esistono “modelli”: ogni rapporto si sviluppa
sulla base di dinamiche concrete, che mutano nel tempo. Nei confronti
delle comunità locali le partecipazioni statali avevano un approccio che
non era quello di Olivetti, ma presentava comunque elementi molto
avanzati per gli standard del capitalismo italiano dell’epoca: Italsider
a Taranto realizza un intero quartiere per i lavoratori (l’attuale
“Paolo VI”), promuove una politica culturale intensa. Ciò non toglie
che, nel momento in cui si insedia a Taranto, l’approccio dell’azienda
al territorio è orientato da criteri squisitamente tecnico-economici. Ai
dirigenti del gruppo pubblico quella localizzazione era stata quasi
“imposta”, per cui cercano di adattarla il più possibile alle proprie
esigenze. Questo spiega, fra le altre cose, la scelta dell’area di
insediamento, a ridosso del quartiere Tamburi: era la zona più vicina
allo scalo marittimo individuato dai tecnici dell’azienda.
È
questo tipo di approccio che viene messo in discussione negli anni ’70.
Il raddoppio prospetta l’ulteriore espansione della fabbrica e una sorta
di monopolio dell’azienda su una risorsa decisiva: il mare. Intorno a
questo nodo si sviluppa uno dei momenti più importanti della vertenza
Taranto: le istituzioni locali e i sindacati cercano di ritagliare uno
spazio per la creazione di un porto pubblico – non sottoposto al
controllo esclusivo di Italsider com’era stato per i moli realizzati
fino a quel momento –, da mettere al servizio di un progetto di
diversificazione produttiva che guardasse a un ambito territoriale più
vasto della sola città di Taranto. È su queste basi che nasce il
cosiddetto “molo polisettoriale”.
Il conflitto territoriale si
intreccia a quello sociale. Il movimento operaio mette in discussione le
gerarchie di fabbrica e il particolare tipo di rapporto fra fabbrica e
città delineatosi nella fase precedente. Negli anni ’70 il siderurgico –
come tutti i grandi stabilimenti in Italia – è attraversato da
movimenti di ogni tipo. La ristrutturazione incide soprattutto su questo
elemento, riportando una “normalità aziendale” che, con i Riva, diventa
restaurazione padronale. La vecchia classe operaia lascia il posto a
personale giovane, senza cultura sindacale e con un potere contrattuale
di gran lunga inferiore. Su questa base la nuova proprietà può plasmare
una “comunità aziendale” sostanzialmente chiusa in se stessa e
contrapposta al contesto circostante, con i lavoratori in posizione
subalterna.
Un elemento che influirà in maniera decisiva sull’evoluzione dell’emergenza ambientale.
Nel
tuo libro racconti di personaggi come Antonio Cederna e Walter Tobagi,
giornalisti e sociologi che con le loro analisi e scrivendo anche di
Taranto raccontano la nascita di una sensibilità ambientalista. Cederna
parlò di una “industrializzazione barbarica”. A
Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali emerge già negli anni
’70, nel momento in cui una sensibilità per i frutti avvelenati dello
sviluppo economico matura in tutto l’Occidente. Il 1971 è un anno
cruciale da questo punto di vista. Italia Nostra, che aveva denunciato
la colmata a mare per il raddoppio del siderurgico, promuove un
happening
per le strade della città con artisti d’avanguardia rivendicando
“un’industrializzazione umana”; l’amministrazione provinciale organizza
un grande convegno nel quale si discutono le diverse problematiche
ambientali – dall’inquinamento atmosferico a quello delle acque –; le
sinistre, attraverso l’Arci, organizzano a loro volta un momento di
discussione per contestare la “colonizzazione” del porto. Poi è chiaro
che si media. L’Italsider ha un grande potere e ha al suo fianco il
governo. La sensibilità che emerge in quel frangente inevitabilmente
deve fare i conti con altre esigenze. D’altra parte è ancora tutto molto
prematuro. Siamo alle prime avvisaglie di una consapevolezza che
maturerà solo col tempo dopo tanti drammi e tanti traumi.
Non
è allora possibile leggere la questione dell’acciaieria di Taranto nel
solco della cosiddetta auto-colonizzazione dell’Italia, con lo
spostamento delle produzioni industriali più problematiche al Sud dove
erano meno forti le pressioni territoriali, ambientali e anche
sindacali? È una lettura sbagliata. Bisogna anzitutto
tener conto di come quell’intervento fu deciso. Alla fine degli anni
‘50 il progetto alternativo a Taranto era promosso, tra gli altri, dalla
FIAT e dal gruppo Falck, che volevano realizzare un nuovo centro
siderurgico privato a Vado Ligure. Non c’era nessuna intenzione di
spostare al Sud la produzione. Il gruppo Finsider si oppose fino
all’ultimo alla realizzazione del nuovo stabilimento al Sud, perché lo
riteneva antieconomico, troppo lontano dai principali centri di consumo,
che erano al Nord. Furono le forze progressiste a imporsi in quel caso:
la “nuova” Democrazia Cristiana di Fanfani, le sinistre, il sindacato.
Per questo credo che il concetto di “auto-colonizzazione” sia da
rigettare. Nel libro parlo piuttosto di “integrazione subalterna” di una
parte del Mezzogiorno nell’economia nazionale. Dal confronto serrato
fra politica e industria pubblica emerge una mediazione: se la prima
ottiene la localizzazione meridionale, la seconda mantiene il controllo
su tutti gli aspetti industriali dell’operazione. Il siderurgico quindi,
concepito originariamente come fattore di sviluppo dell’economia
meridionale, finisce col servire principalmente i mercati del Nord. Un
esito inevitabile, data la particolare struttura dell’economia italiana
del tempo e i limiti di un intervento pubblico poco articolato (un
approccio più estensivo sarà adottato solo alla fine degli anni ’60), ma
anche la prospettiva del mercato unico europeo, che spinge l’industria
italiana a intensificare gli sforzi di ammodernamento. In questo modo si
rafforza il legame fra il capoluogo ionico e l’economia nazionale; di
contro, il siderurgico non fornisce al contesto locale quell’impulso
verso uno sviluppo autonomo che alcuni suoi sostenitori (pensiamo a
Pasquale Saraceno) avevano prospettato. Matura così
un’industrializzazione estroflessa, in cui le forze economiche locali
hanno un ruolo marginale, anche perché troppo deboli per reggere
l’impatto di un’impresa di quel tipo. Come modificare questo quadro,
rendendo il siderurgico un fattore di modernizzazione del tessuto
produttivo locale, sarà il tema della lunga stagione di lotte degli anni
‘70.
Arriviamo alla situazione recente: nel 2010
Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi,
addirittura con decreto legge spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in
vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 per il benzo(a)pirene,
una sostanza cancerogena prodotta dall’acciaieria. La regione Puglia,
vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre
all’azienda di ridurre le emissioni. Com’è stata possibile una deriva
delle contraddizioni attorno al siderurgico di Taranto fino alla
promulgazione di leggi contrarie alla Costituzione e allo stato di
diritto, come ha sentenziato la Corte Europea di Strasburgo lo scorso 24
maggio condannando lo stato italiano per violazione dei diritti umani a
causa della mancata bonifica dell’ILVA? Allo storico
interessa capire come si sono sviluppate certe dinamiche, non emettere
giudizi. La questione centrale a me sembra consista nei ritardi e nelle
contraddizioni che hanno caratterizzato l’adeguamento dell’Italia ai più
elevati standard di protezione dell’ambiente. Dopo la contestazione
degli anni ’70 in Occidente si è iniziata a costruire un’articolazione
tecnica e legislativa per controllare, reprimere e prevenire i fenomeni
di inquinamento. L’Italia non solo arriva in ritardo rispetto ai
principali paesi europei, ma si rivela spesso inadempiente. Da questo
punto di vista la vicenda di Taranto è emblematica. Prendiamo un
provvedimento importante come l’Autorizzazione Integrata Ambientale
(AIA). Questa nasce per dare attuazione alla cosiddetta “direttiva IPPC (
Integrated Pollution Prevention and Control)”
dell’Unione Europea sulle emissioni industriali: la norma è emanata nel
1996, l’Italia la recepisce nel 1999, ma solo nel 2005 viene finalmente
istituita la procedura per il rilascio delle AIA. L’iter che riguarda
Ilva si apre addirittura nel settembre 2007, a poche settimane dalla
scadenza dei termini per il rilascio dell’autorizzazione fissati dalla
direttiva del ’96, e si prolunga fino all’agosto 2011. In tutto questo
tempo, attraverso una trattativa fra governo e azienda – in cui cerca di
svolgere un ruolo anche la Regione Puglia che, al contrario di quello
che dicevi, è molto attiva sul fronte ambientale a partire
dall’insediamento della giunta Vendola – si cerca di far adottare a Ilva
alcune delle “migliori tecniche disponibili” necessarie per ridurre le
emissioni nocive. Ma l’esito è controverso.
Nell’ultimo
capitolo del libro faccio un parallelo con l’acciaieria di Duisburg, in
Germania, molto simile a quella di Taranto. A Duisburg nei primi anni
2000 vengono interamente sostituite le batterie dei forni a
coke
– dove il carbon fossile si trasforma nel combustibile per gli
altoforni –, e l’intera cokeria viene allontanata dal centro abitato:
un’operazione che costa alla ThyssenKrupp circa ottocento milioni di
euro. In quella stessa fase, e negli anni successivi, gli interventi
realizzati a Taranto sono molto meno radicali. A Duisburg il problema
del benzo(a)pirene – un cancerogeno della famiglia degli Idrocarburi
policiclici aromatici (IPA) – viene sostanzialmente risolto, mentre a
Taranto ancora nel 2011, dopo tutti gli interventi di adeguamento
realizzati dall’azienda, le concentrazioni di quella sostanza continuano
a superare il valore-obiettivo sancito dalla legge. Si arriva così al
2012, all’inchiesta della magistratura che porterà al sequestro
dell’impianto, che nasce anche da una perizia chimica che dimostra come
le tecniche adottate dall’Ilva fossero in ritardo rispetto alla
normativa europea, che intanto aveva subito più di un aggiornamento.
L’Ilva dei Riva, insomma, accumula un significativo
gap tecnologico rispetto ai principali concorrenti europei in tema di
performance
ambientali. Questo vuol dire che si poteva fare lo stesso anche a
Taranto: le tecniche per risolvere il problema esistevano. Sono mancate
due cose: una politica in grado di anteporre l’interesse pubblico a
quello dell’azienda e un’azienda abbastanza forte da reggere quella mole
di investimenti. In Germania l’operazione di ammodernamento delle
cokerie è stata fatta anche con il coordinamento del Land del Nord Reno
Vestfalia, nel quadro di una programmazione pubblica, ma è stata pagata
con i soldi della ThyssenKrupp.
Nell’ultimo capitolo
del tuo libro “Fuoco alle polveri” e nell’epilogo racconti il
susseguirsi delle vicende giudiziarie e delle mobilitazioni cittadine
più recenti, però non offri una soluzione né una proposta.
Lo storico non può dare soluzioni: deve provare a ricostruire i fatti.
Io credo che si siano persi anni preziosi, dal 2012 ad oggi, per
consegnare definitivamente il problema dell’emergenza ambientale ai
libri di storia. Qualcosa è stato fatto, ma nulla di risolutivo. Oggi ci
troviamo in una fase gravida di incognite e di fatto il processo di
risanamento è nelle mani di una multinazionale. Mi auguro che la
prossima edizione non si chiuda come nella canzone di Springsteen che
apre il libro: con una città ancora più impoverita e allo sbando.
* direttore Editoriale di Medicina Democratica