1918. Il tradimento degli Alleati contro l’Italia
Non
si erano ancora fermati gli ultimi combattimenti della Grande Guerra,
che già gli imperi dell’est e dell’ovest andavano in frantumi. Prima il
russo, poi il turco e infine, con uno stillicidio di dichiarazioni
d’indipendenza, l’austro-ungarico: il 24 ottobre 1918 l’Ungheria
spezzava il vincolo dualistico e se ne andava per la sua strada; il 28
ottobre si dichiarava indipendente la Boemia (l’odierna Cechia); il 29
era la volta di Croazia e Slovenia; il 30 della Slovacchia.
di Michele Rallo da La Risacca n.62
Il 1° novembre, infine, l’esercito
austriaco abbandonava i territori balcanici conquistati e si ritirava a
nord del Danubio. Quella data segnava, di fatto, la fine delle ostilità
sul nostro fronte orientale, anche se l’armistizio sarebbe intervenuto
ufficialmente due giorni dopo.
Apparentemente l’Italia aveva non
soltanto vinto la guerra, ma anche ottenuto un grande risultato
geo-strategico: l’eliminazione dell’inquietante presenza austriaca ai
nostri confini orientali e sull’altra riva dell’Adriatico. Questo – si
ricordi – era stato il principale motivo del nostro intervento nel
conflitto. Adesso sarebbe stato
il momento di mettere all’incasso le cambiali rilasciateci dai nostri
cari alleati; prima tra tutte, quella che avrebbe dovuto vederci
succedere all’Austria in un ruolo egemonico non soltanto nell’Adriatico,
ma nell’intera area danubiano-balcanica.
GELOSIE FRANCESI
Se nonché – come si è già accennato –
a quel ruolo aspirava anche la Francia, sebbene non potesse
rivendicarlo apertamente a causa degli impegni assunti per coinvolgerci
nel conflitto. Già durante la guerra, Parigi si era fatto un dovere di
metterci i bastoni tra le ruote nei Balcani. Non in prima persona,
naturalmente, ma ricorrendo a fiancheggiatori esterni: in Albania come
nell’Epiro, come nel Montenegro che – dopo il matrimonio della
principessa Elena con Vittorio Emanuele III – era di fatto transitato
nella sfera d’influenza italiana.
Poi, quando l’armistizio con la
Bulgaria (29 settembre) aveva chiaramente delineato l’imminente
conclusione della guerra, i francesi avevano apertamente assunto il
ruolo di referenti della Serbia. In quei giorni – si tenga presente – ai
confini meridionali dell’Austria e nella penisola balcanica le truppe
italiane e le serbe procedevano all’occupazione di porzioni del
territorio nemico che erano teoricamente destinate alla loro
amministrazione provvisoria, o al loro possesso definitivo dopo la firma
degli armistizi e dei trattati di pace.
Era in quella fase che si dispiegava
una manovra francese tendente a favorire al massimo l’espansionismo
serbo; e ciò, oltre che sul piano politico-diplomatico, anche fornendo
il maggior sostegno militare possibile alle forze di Belgrado nella loro
corsa ad occupare tutto l’occupabile, nell’evidente proposito di
invocare poi l’uti possidetis in sede armistiziale.
Ciò, evidentemente, costituiva una
chiara manifestazione di ostilità da parte della Francia (appoggiata da
Inghilterra e Stati Uniti) nei confronti dell’Italia, i cui obiettivi di
egemonia adriatica erano del tutto incompatibili con le spropositate
ambizioni della Serbia. Belgrado, infatti, mirava – tra l’altro – ad
acquisire l’intero versante nord-occidentale della penisola balcanica:
Istria, Quarnaro, Slovenia, Croazia-Slavonia, Dalmazia, Montenegro,
Albania settentrionale e centrale; tutti territori che Roma aspirava o a
rendere indipendenti (sia pur egemonizzandoli), o – in piccola parte –
ad annettere al proprio territorio nazionale.
Resasi conto di quanto andava
preparandosi ai suoi danni, l’Italia intraprendeva a sua volta una
marcia forzata per prendere possesso di tutto quanto possibile, ma le
situazioni spazio-temporali le consentivano libertà di movimento solo
nel settore centrale, occupando quanto restava del vecchio dominio
austriaco del Lombardo-Veneto, e cioè il Trentino-Bolzanino e la
Giulia-Istria.
Anche questo risultato minimale,
peraltro, faceva montare su tutte le furie il presidente americano
Wilson, che – in evidente accordo coi cugini inglesi – avrebbe voluto
circoscrivere l’Italia a quella che lui riteneva essere «la sua facilmente riconoscibile frontiera etnografica»
(come recitava il nono dei Quattordici Punti). Ciò – nella mente del
grande disegnatore di confini – avrebbe dovuto portare ad attribuire
all’Italia il solo Trentino, trasformando il SudTirolo/AltoAdige e la
Giulia-Istria in due regioni autonome «senza ingerenze italiane».
L’Italia, invece, aveva la tracotanza di far avanzare le sue truppe
fino alle Alpi, la qual cosa – come si diceva – faceva infuriare il
presidente americano, perché ciò era avvenuto «senza il mio permesso».
ARROGANZA AMERICANA
A questo punto, la manovra ostile
contro i nostri interessi appariva evidente, così come evidente era
l’evolversi della stessa secondo tappe ben precise: gli accordi
Sykes-Picot, i Quattordici Punti, e adesso – in prospettiva –
l’armistizio. Il capofila degli interventisti italiani, Gabriele
d’Annunzio, coniando uno slogan destinato ad una grande fortuna, tuonava
vanamente dalle pagine del “Corriere della Sera” il 24 ottobre 1918: «Vittoria nostra, non sarai mutilata.»
Ma l’unica cosa che Roma riusciva ad
ottenere era – pochi giorni appresso – che il Comando interalleato
stabilisse genericamente i limiti e le pertinenze delle zone
d’occupazione. Quando ciò avveniva, era comunque tutto già praticamente
concluso: l’impero austrungarico si era dissolto, mentre francesi e
anglosassoni avevano insediato al potere i loro amici in quasi tutte le
nazioni successorie. All’Italia era riconosciuto soltanto il minimo
indispensabile: Trentino-AltoAdige, Giulia-Istria, una porzione di
Dalmazia, l’Albania centrale, ed una piccola partecipazione
all’occupazione congiunta del Montenegro e dell’Alta Albania; ma le era
inibito di concorrere all’occupazione dell’Austria, della Slovenia e
della Croazia.
Il 3 novembre si giungeva così,
infine, all’armistizio di Villa Giusti, armistizio che confermava le
linee che abbiamo appena riferito.
A quel punto, il disegno antitaliano e serbofilo era evidente anche per i più prudenti. «Avevo con dolore e con sdegno – scriveva il generale Caviglia – conosciuto gli articoli dell’armistizio di Villa Giusti, il quale abbandonava la nostra vittoria nelle mani di alleati infidi.»
LA QUESTIONE DI FIUME
Uno dei punti più controversi dell’armistizio di Villa Giusti era
quello relativo all’esclusione dalle pertinenze italiane di Fiume,
città portuale del Quarnaro a maggioranza italiana, posta al confine con
l’Istria, appena al di là della linea armistiziale imposta all’Italia.
Per l’esattezza – secondo il censimento austriaco del 1910 – la metà
circa dei 50.000 abitanti era di etnia italiana; seguivano poi 15.000
croati (numerosi dei quali italofili) e 10.000 ungheresi. Adesso, a
guerra finita, i numeri erano sensibilmente diversi: 33.000 italiani,
11.000 croati, 1.300 ungheresi.
La motivazione dell’esclusione di
Fiume veniva ricondotta al Patto di Londra del 1915, quando – occorre
ricordare – la dissoluzione dell’impero asburgico non era prevista, e la
città di Fiume ricadeva nell’àmbito della Croazia di pertinenza
ungherese. Allora – in previsione di una Croazia ancòra ungherese o
indipendente ma comunque non aggregata alla Serbia – era stato deciso di
non attribuire la città alla sfera italiana, ma di mantenerne la
funzione di sbocco portuale sull’Adriatico per l’Ungheria e per la
Croazia stessa.
Adesso, tuttavia, alla vigilia
dell’armistizio, la situazione appariva del tutto diversa da quella del
1915, con la Croazia destinata non si sa bene da chi ad essere assorbita
dalla Serbia tramite il nascente Stato artificiale “jugoslavo”.
L’Italia, quindi, chiedeva di poter includere anche Fiume entro la
propria linea armistiziale; non essendo concepibile che si fornisse alla
Serbia uno sbocco portuale pericolosamente vicino – per considerazioni
di ordine commerciale ma anche di natura militare – a quello di Trieste.
Ma i nostri alleati erano irremovibili: Fiume era evidentemente considerata estranea alla «facilmente riconoscibile frontiera etnografica» dell’Italia, e veniva quindi assegnata alla competenza serba.
Il 29 ottobre, così, Fiume era occupata dai serbi e dai serbofili del Comitato Nazionale croato-sloveno.
Il giorno seguente, tuttavia, l’organismo rappresentativo della città –
il Consiglio Nazionale Fiumano – ne proclamava l’annessione al Regno
d’Italia, invocando esplicitamente il principio di autodeterminazione
dei popoli ed i Quattordici Punti. Ma – come i fatti dimostreranno poi
al di là di ogni dubbio – il principio di autodeterminazione non sarebbe
mai stato applicato alle popolazioni del Regno Serbo-Croato-Sloveno: e
non solo alla fiumana, ma anche alla dalmata, alla croata, alla slovena,
alla montenegrina, alla macedone, alla kosovara, alla bosniaca.
Ma torniamo a Fiume, dove gli
occupanti serbi – sia pure con una certa prudenza – prendevano a
maramaldeggiare sulla popolazione italiana, sperando forse che, secondo
gli sperimentati cànoni della pulizia etnica, questa si acconciasse a
emigrare ed a togliere il disturbo.
Chiamato in soccorso dal Consiglio
Nazionale Fiumano, il governo italiano mandava dapprima alcune navi da
guerra (4 novembre) e poi – di fronte al perdurare degli atteggiamenti
antitaliani dei serbi – il 17 novembre invadeva la città con una forza
di terra di 13.000 uomini. Gli americani – nel tentativo di evitare che
l’occupazione avesse una matrice univocamente italiana – inviavano anche
un loro battaglione, la cui presenza serviva a dare all’occupazione di
Fiume una connotazione “internazionale”.
A quel punto – prudentemente – i
serbi facevano le valigie e toglievano il disturbo. La situazione
sembrava ormai avviata verso una pur faticosa stabilizzazione. Ma
improvvisamente i francesi rimettevano tutto in discussione: con un
gesto di scorrettezza inaudita tra alleati, il 28 novembre invadevano a
loro volta la città (con una sovrapposizione di occupazioni unica nella
storia della diplomazia europea) e il 10 dicembre dichiaravano Fiume
come compresa nella sfera d’occupazione dell’Armée d’Orient.
Iniziava una difficile convivenza fra
italiani e francesi, fino a quando – sette mesi più tardi – le
rispettive truppe non incroceranno le armi. Saranno i “Vespri Fiumani”,
che lasceranno sul terreno nove caduti francesi e un italiano. Ma di
questo parleremo un’altra volta.
N O T E
Si veda «Il balletto dei Trattati» su “La Risacca” di febbraio.
2 Anno 1918. www.cronologia.it/ [2006].
3 Anno 1918. Cit.
4 In realtà, alcuni dei dettagli saranno stabiliti dal lodo Foch del dicembre successivo.
5 Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Garzanti editore, Milano 1948.
6 Il Comitato Nazionale (Narodno Vijece)
era una sorta di governo provvisorio di Croazia e Slovenia, sorto dagli
ambienti serbofili e favorevoli alla creazione di uno Stato
“jugoslavo”, cioè degli Slavi del Sud.
7 Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Cit.
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