SIRIA:
Tutti contro tutti
di
Dagoberto Husayn Bellucci - Damasco 11 marzo 2018
"Il
Governo della Repubblica Araba Siriana continuerà la guerra inarrestabile contro
i movimenti del terrorismo, che ha diversi nomi, fino a quando ogni millimetro
del territorio siriano sarà ripulito" e lavorerà con "la stessa determinazione"
per liberare il Paese da qualsiasi "presenza straniera illegittima"
(Comunicato diffuso dal Ministero degli Esteri siriano in data 18
Gennaio 2018)
Attualmente
sono due le offensive militari in corso: una condotta nella Ghouta orientale da
parte delle forze lealiste contro residue sacche di terroristi appartenenti a
quelle decine di formazioni paramilitari d'ispirazione salafita-wahabita-al
qaedista; l'altra condotta ormai da quasi due mesi dall'esercito turco contro
l'enclave curda di Afrin.
Le responsabilità di questa nuova escalation militare nella
martoriata Siria appaiono tutte convergere sull'amministrazione americana e
sulla sua scellerata politica di fomentare le tendenze
secessionistico-indipendentistiche della minoranza etnica curda scatenando
com'era ampiamente prevedibile la reazione turca. Anziché tentare una
normalizzazione della situazione e avviare un serio processo di pacificazione
l'America di Trump prosegue la sua azione volta a destabilizzare lo Stato
siriano.
Il fallimento della politica estera di Trump sulla Siria e, più
in generale, sul Vicino Oriente arabo-islamico appare in tutta la sua totalità
appare nettamente a poco più di 1 anno dall'elezione dell'Idiota Globale assiso
invero abbastanza sorprendentemente al vertice del sistema di potere più
importante del pianeta. Malgrado ciò "mr. Trump" (un individuo al confronto del
quale impallidirebbe perfino il peggior Berlusconi) è riuscito in ciò che non
aveva ottenuto prima alcuno dei suoi per quanto detestabili predecessori:
inimicarsi praticamente l'intero pianeta cominciando tira e molla
politico-diplomatici contro tutto e tutti riuscendo come mai prima d'ora a
dividere la stessa America. Ora sia chiara una considerazione: di quanto avviene
negli Stati Uniti poco ci importa e ancor meno potrebbe interessarci se non
fosse che quel paese rappresenta il centro nevralgico dell'Impero globale a
stelle e strisce edificato dopo la 2° Guerra Mondiale dall'elitè finanziaria che
controlla gli USA.
Appare quindi fondamentale comprendere quali saranno le prossime
mosse in politica estera di un tizio che, se si esclude la variopinta pannocchia
che si ritrova al posto dei capelli, in 14 mesi di presidenza ha fatto ben poco
ridere rendendosi quantomeno odioso a tre/quarti di pianeta (dai dirimpettai del
Messico ai popoli latino-americani tutti praticamente accusati d'ogni genere di
nefandezze e crimini passando per i paesi musulmani, non dimenticandoci la Corea
del Nord, la Cina e l'Unione Europea per i recenti dazi doganali, la Russia e
non tralasciando - dettaglio affatto insignificante - la Gran Bretagna ,
tradizionale alleato della superpotenza a stelle e strisce piuttosto scettica
sulla nuova amministrazione come recentemente dichiarato dalla premier di Londra
S.ra May).
Per quanto riguarda la situazione in Siria la politica di Trump è
risultata nella sua ambiguità decisamente pessima, non riuscendo ad abbozzare
neppure un minimale processo di pacificazione, disinteressandosi
fondamentalmente dell'evoluzione politica e degli sviluppi post-bellici che, per
una potenza globale quale quella statunitense, dovrebbero rappresentare una
inevitabile premessa per qualsiasi soluzione ragionevole che ponga fine a sette
anni di conflitto.
Niente di tutto ciò si è visto da parte di Trump. L'America ha
anzi preferito lasciare che la situazione andasse evolvendo salvo poi, a fine
dicembre scorso, ricominciare a soffiare sul fuoco dei conflitti
etnico-religiosi alimentando e dando fiato alle tendenze centrifughe della
minoranza curda fino a quel momento sostanzialmente indifferente ai giochi di
potere che, al di sopra di eserciti e milizie armate, si sono in questi sette
anni andati realizzando tra le potenze regionali e quelle internazionali
intervenute in Siria.
A
scatenare questa situazione furono, il 17 gennaio scorso, le dichiarazioni
pronunciate dal Segretario di Stato USA, Rex Tillerson, il quale parlando alla
Stanford University della strategia americana in relazione al conflitto siriano
aveva sostenuto che gli USA avevano intenzione di mantenere proprie forze armate
nel Paese per un periodo di tempo indefinito. Una dichiarazione che andava nella
direzione di dare un sostegno ai miliziani curdi utilizzando il pretesto di
prevenire la rinascita del Califfato Nero salafita e spingendo per un successivo
allontanamento dalla vita politica siriana del Presidente Bashar al Assad;
strategia volta da un lato a controllare l'influenza iraniana a livello
regionale e, soprattutto, a circoscrivere quella russa ritornata decisiva per le
sorti future dell'intero Vicino Oriente.
Le dichiarazioni statunitensi apparvero chiarissime: l'America si
poneva al lato dei combattenti curdi e ne garantiva identità e rivendicazioni.
Appelli che non rimanevano lettera morta traducendosi in immediati rifornimenti
militari per le milizie curde che nel nord-ovest della Siria occupavano
stabilmente l'enclave di Afrin rappresentando una importante milizia (nota con
la sigla di YPG che sta per Unità di Protezione Popolare) dell'Esercito Libero
Siriano che per anni ha cercato di opporsi al Governo ed all'esercito di
Damasco.
Lo scorso 20 gennaio, prendendo a pretesto proprio le
sconsiderate dichiarazioni americane, il governo di Ankara ha iniziato una vasta
offensiva militare con l'obiettivo di neutralizzare sul nascere e disintegrare
il sogno curdo, appoggiato da Washington, di dotarsi di una specie di guardia di
frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nella loro provincia. Una
ipotesi che agli occhi del premier turco Erdogan suonava come una provocazione
ed il tentativo da parte dell'YPG di rafforzamento dello 'Stato curdo'.
Ankara ha dunque agito di conseguenza dando vita ad una campagna
militare (denominata piuttosto cinicamente 'Ramo d'Ulivo') che ha interessato in
questi primi due mesi la zona attorno ad Afrin, cittadina curda a circa 40 km da
Aleppo (riconquistata nel dicembre 2016 dall'esercito di Assad) e a 120 dalla
principale provincia controllata da milizie curde in Siria.
Mentre
i turchi cominciavano a bombardare sempre più pesantemente l'enclave di Afrin
(occupata secondo i media turchi e l'Agenzia di Stampa ufficiale di Ankara 'Anadolu'
da "gruppi terroristici") il Governo di Bashar al Assad decideva, con una mossa
a sorpresa, di inviare suoi reparti nella zona per cercare di aprire corridoi
umanitari attorno alla cittadina. Come riportato il 20 febbraio scorso dalla
televisione libanese 'Al Manar, di proprietà di Hizb'Allah - partito sciita
filo-iraniano al Governo a Beirut ed alleato di Assad - diversi reparti delle
forze armate lealiste e unità paramilitari fedeli al Presidente Assad avrebbero
cominciato a convergere verso la regione di Afrin.
Nelle stesse ore l'agenzia stampa 'Anadolu' riportava di attacchi
contro il territorio turco parlando di tre razzi lanciati dalla Siria
settentrionale nella provincia frontaliera di Hatay, dove sono caduti senza
causare vittime e precisando che i razzi sono caduti nel distretto di Kirikhan.
A quanto risulta la situazione a distanza di tre settimane rimane
di stallo: i turchi continuano i loro bombardamenti su Afrin mentre le milizie
popolari filo-governative inviate a sostegno della popolazione curda da Damasco
sono ad una decina di chilometri dalla città malgrado altri reparti
dell'esercito siriano stiano convergendo dalla vicina Aleppo.
Né Damasco né Ankara vorrebbero uno scontro frontale tra i loro
reparti perciò la situazione rimane momentaneamente congelata con la Russia che
ha cercato vanamente di portare all'attenzione del Consiglio di Sicurezza delle
Nazione Unite il dossier-Afrin. Gli americani, principali responsabili di questa
nuova escalation militare in Siria, al di là delle parole di prassi fino a
questo momento risultano i grandi apparentemente assenti. Questa apparente
'assenza' anche politico-diplomatica nasconde una strategia mirata a manovrare
fintanto che sarà utile le milizie curde dell'YPG per eventualmente intervenire
massicciamente in loro soccorso ...eventualità che minerebbe ulteriormente i già
fragilissimi e tesi rapporti tra Ankara e Washington ai minimi storici oramai
dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del luglio 2016.
Eventualità che oltretutto non potrebbe trovare consensi
tantomeno lungo l'asse 'russo-sciita' con il Governo siriano intenzionato a
riconquistare e porre sotto la propria sovranità quante più possibili porzioni
del proprio territorio nazionale martoriato, spezzettato in enclavi
etnico-linguistiche e influenze straniere di gruppuscoli terroristici o
eserciti.
Fin dall'inizio delle operazioni militari turche nel nord-ovest
del paese l'Agenzia nazionale 'Sana' avevano parlato di 'indebite interferenze'
mentre il Governo di Bashar al Assad dichiarava che la presenza militare degli
Stati Uniti costituiva una "aggressione nei confronti della sovranità del Paese"
promettendo la ferma intenzione di liberare lo Stato da qualunque presenza
militare "illegittima".
Secondo un comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri
siriano del 18 gennaio scorso "la presenza militare americana nel territorio
siriano è illegittima e costituisce una chiara violazione del diritto
internazionale e un'aggressione nei confronti della sovranità nazionale"
Lo stesso comunicato proseguiva sostenendo che la Siria ritiene
che interferire negli affare interni di uno Stato costituisca una chiara
violazione del diritto internazionale che difende il rispetto della sovranità
nazionale sostenendo altresì che tutta l'azione svolta dagli Stati Uniti in
Siria fino ad oggi abbia l'obiettivo di proteggere il cosiddetto "Stato
Islamico" (noto come ISIS sulla stampa mondiale ma nominato 'Daesh' nel mondo
arabo-musulmano) creato finanziato e militarmente sostenuto dalla precedente
amministrazione Obama.
Risulta pertanto evidente il rapporto di causa-effetto
determinato dalle dichiarazioni del Segretario di Stato USA rispetto alle
successive reazioni turche e siriane. Tillerson d'altronde aveva continuo
affermando chiaramente che la minaccia principale per gli interessi americani
nel Vicino Oriente fosse la Repubblica Islamica dell'Iran alleata di Assad
sostenendo inoltre che considerava un "gravissimo errore" commesso dall'ex
Presidente Barack Obama "il ritiro delle truppe USA dall'Iraq prima che la
minaccia estremista fosse eliminata" fallendo inoltre nel processo di
normalizzazione politica e stabilizzazione della Libia.
Secondo il Dipartimento di Stato USA almeno 2000 americani
combattono in Siria (dichiarazione del 6 dicembre scorso) mentre il 13 novembre
precedente il Segretario alla Difesa, James Mattis, aveva anticipato Tillerson
sostenendo che gli USA avrebbero mantenuto una presenza militare in Siria con il
pretesto di neutralizzare ed eliminare definitivamente l'ISIS e di contribuire
alla pacificazione del Paese.
Inutile dire che queste belle parole si rivelino per ciò che
sono: pretestuose chiacchiere con le quali perdurare la situazione di
destabilizzazione politico-militare della Siria alla quale gli USA hanno
contribuito fin dal marzo 2011 quando - sull'onda emotiva della cosiddetta
"primavera araba" aizzata ed eterodiretta dalla Tunisia alla Libia ed all'Egitto
da organizzazioni sedicenti "rivoluzionarie", i professionisti del caos
organizzato, quali Otpor , centro di destabilizzazione già attivo nel passato
nelle agitazioni che sconvolsero Serbia. Ucraina e Georgia (le rivoluzioni
'arancioni' o 'colorate' made in USA) e nota filiale sediziosa sotto controllo
C.I.A. - per prima l'amministrazione Obama preferì sacrificare vecchi ma
oramai inutilizzabili 'amici' di un tempo (Hosni Mubarak al Cairo, Zine el
Abidine Ben Alì a Tunisi) sull'altare della propria strategia per il
Vicino Oriente che comprendeva un'offensiva diplomatica senza precedenti contro
la Repubblica Islamica dell'Iran ed i suoi alleati regionali.
Infatti sono sette anni che gli USA combattono in territorio
siriano al fianco delle cosiddette Syrian Democratic Forces (SDF) variegato
fronte multi-etnico e multi-religioso composto da una minoranza di elementi
locali (curdi soprattutto e alcune milizie sunnite) e da una maggioranza
di elementi provenienti dall'area del Caucaso , da Armenia, Cecenia,
Turkmenistan ma anche Kosovo - lo Stato-pusher d'Europa voluto da Washington
dopo l'aggressione alla Serbia di Milosevic nella primavera 1999 - e Asia
centrale.
Bashar al Assad si era riferito lo scorso 16 dicembre parlando
delle Forze Democratiche Siriane e bollandoli come "traditori" che lavorano "per
un Paese straniero, in particolare sotto il comando americano".
É questo uno dei motivi che hanno indotto lo scorso 20 febbraio
l'esercito siriano, sostenuto da alcune milizie popolari, a sferrare il suo
attacco contro la regione della Ghouta orientale.
Offensiva
tuttora in corso che vede le forze armate di Damasco impegnate a ripulire i
quartieri ad est di Damasco , noti come Ghouta orientale, fra i quali Beit Sawa
nodo cruciale e crocevia dell'intera zona dove da anni agivano indisturbati
gruppi terroristici e formazioni paramilitari sostenute da USA e Arabia
Saudita.
Considerata fin dal 2013 una spina nel fianco da parte del
Governo di Assad , la Ghouta è una vasta area controllata dalle organizzazioni
criminali armate da Washington e sostenute dalle petrolmonarchie del Golfo
all'interno delle quali operano mercenari della galassia internazionale del
terrore d'ispirazione salafita-wahabita-alqaedista responsabile principale della
stragrande maggioranza degli attentati terroristici su scala globale e della
inevitabile islamofobia che questi causano, quale effetto naturale e reazione,
in tutto l'Occidente.
Controllata principalmente da tre organizzazioni la Ghouta
orientale è infestata però da una miriade di sottogruppi e micro-formazioni
d'ispirazione islamista. I tre gruppi più influenti nella zona sono:
- al Jaysh al Islam (L'Esercito dell'Islam), gruppo terroristico
sunnita appoggiato dalla Turchia;
- al Faylaq al-Rahman (La Legione del Clemente) altro
gruppuscolo sostenuto da Ankara;
- Hayyat al-Tahrir al Sham (Fronte di Liberazione Siriano)
dichiaratamente legati ad al-Qaeda che costituiscono con i loro circa mille
combattenti il gruppo più numeroso sui un totale di circa diecimila terroristi
presenti nella regione.
É dalla Ghouta che sono stati lanciati i principali attacchi
contro Damasco ed è da lì che proveniva la maggior parte dei kamikaze che hanno
infestato Damasco e dintorno negli ultimi anni.
Il Governo di Bashar al Assad ha lanciato questa offensiva per
sradicare una volta per tutte il cancro terroristico dalla regione. Allo stato
attuale appare chiaro che la sacca dei pretesi/sedicenti 'resistenti' islamisti
stia per cadere: l'esercito nazionale siriano in tre settimane appare dilagare
ovunque spaccando l'enclave in tre parti.
Sono bastate tre settimane di raid aerei e d'artiglieria per
fiaccare definitivamente la resistenza degli assediati. I numeri sembrano
parlare chiaro: oltre un migliaio le vittime, circa quattromila i feriti di
un'offensiva che appare decisiva e che come hanno riportato molte ong ha già
fiaccato il morale dei gruppi combattenti islamisti che cominciano ad
arrendersi.
É il caso del gruppo ribelle di Jaysh al Islam , che nella
giornata del 9 marzo scorso, ha consegnato alle truppe di Assad e attraverso la
mediazione Onu un primo scaglione di suoi miliziani che verrà trasferito in
altre zone del Paese sotto controllo di fazioni ostili a Damasco accettando
l'offerta rivolta da Mosca ai combattenti di ottenere un salvacondotto ed il
trasferimento nella provincia di Idlib com'era già accaduto due anni fa nel
sobborgo meridionale di Darayya ed in occasione della caduta di Aleppo.
Le immagini provenienti dalla Ghouta orientale - e diffuse dalla
tv di Stato siriana, da quelle russe e iraniane nonché da 'Al Manar' da Beirut -
mostrano la popolazione civile terrorizzata che cerca disperatamente di fuggire
dalle zone ancora controllate dai terroristi, i tagliagole salafiti che soltanto
i mass media occidentali continuano a chiamare come "oppositori democratici" del
Governo Assad trasformato oramai da sette anni in "regime" da un'opinione
pubblica internazionale sottomessa ai cliché ed ai diktat proveniente da poche,
notissime, Agenzie di Stampa americane o britanniche che - come Reuters, CNN,
Associated Press, BBC o le loro omologhe Al Jazeera e al-Arabiya - sono al
servizio degli interessi di Washington e dei suoi alleati regionali (cominciando
da Riad).
Mentre in Siria si spara e si muore la situazione appare in via
di normalizzazione.
Washington una volta di più sembra aver 'cavalcato' il cavallo
perdente.
DA ITALIA SOCIALE
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