giovedì 28 marzo 2019

LE “FAVOLOSE RICCHEZZE DI MUSSOLINI NASCOSTE ALL’ESTERO”


LE “FAVOLOSE RICCHEZZE DI MUSSOLINI NASCOSTE ALL’ESTERO”

di Maurizio Barozzi
 
«Il mito che Mussolini morì senza una lira è stato smentito dalla rivista “Oggi” con la scoperta nel dicembre 2000 negli archivi statunitensi di un rapporto declassificato dell’OSS, scritto da Allen Dulles a Berna il 4 aprile 1945 e indirizzato al Dipartimento di stato (sic!), intitolato Flight of Italian Capital. Il rapporto (650.3/SH-O) descrive il modo nel quale Mussolini aveva trasferito ingenti somme fuori dall’Italia prima e durante la Seconda guerra mondiale nascoste in conti cifrati presso banche svizzere. Secondo il Bulletin de Crédit et de Finance, banche svizzere accumularono 300 milioni di franchi svizzeri in settanta conti segreti di italiani dei quali 2500 miliardi in lire (di oggi) nel conto a nome di Mussolini».[1]
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Con queste apodittiche e infami parole (in quanto appunto non dimostrate) uno scrittore, che con molta superficialità alcuni vogliono far passare per storico, ex agente dell’Oss in Italia, tale Peter Tompikins, che noi nelle nostre ricerche ne abbiamo da tempo cancellato i testi da consultare, dopo averne riscontato la ricorrente inattendibilità, volle riallacciarsi ad un servizio del settimanale, di certo non “storico” (anzi palese rotocalco anche sensazionalistico e scandalistico) “Oggi”, [2] per rilanciare questa che, a nostro avviso, non era altro che una diceria nata all’estero, forse per supportare a latere una campagna di stampa internazionale (probabilmente ispirata dal World Jewish Council) e inerente presunti ingenti fondi ebraici occultati dai nazisti in banche svizzere e di cui si voleva poi chiedere la restituzione.

Con il tempo infatti questa “diceria” su Mussolini non ha avuto riscontri concreti, ed è stata abbandonata da molti storici, tranne ovviamente quelli che si rifanno alle tesi, o per meglio dire, a quelli che per noi sono “teoremi”, dello storico Mauro Canali da tempo impegnato a sostenere presunte tangenti che venivano riscosse da Mussolini & Co. e che, secondo lui furono la causa del delitto Matteotti. [3]

Ma andiamo per ordine e consideriamo prima questa diceria, rilanciata dal Tompkins e ripresa dal servizio del settimanale “Oggi”, ovvero la vicenda dei segreti “arricchimenti” di Mussolini nascosti all’estero, una inchiesta però con omissioni nel fornire precisi riferimenti, tante assurdità, imprecisioni e sballati riferimenti storici, secondo la quale il Duce, secondo certa stampa americana, costituì una fortuna all’estero, ma non ebbe modo di utilizzarla né poterono farlo i suoi discendenti.

Secondo i denigratori di Mussolini e antifascisti vari:
«Verrebbe a cadere, così, una delle apologie che il postfascismo ha sempre coltivato: Mussolini, fucilato a Dongo e poi appeso a testa in giù in piazzale Loreto, morì povero, tanto che dalle sue tasche non cadde neppure un centesimo».
A nostro avviso non vale neppure la pena di riassumere questa storia così campata in aria, oltretutto sarebbe una fatica improba dovendo contestare tutto quello – ed è molto - che non ha chiari riferimenti, quindi inattendibile o quello che è palesemente inesatto, bastano e avanzano le considerazioni di uno storico serio come Alessandro De Felice, parente del più noto Renzo, che in un suo eccezionale e voluminoso lavoro: “Il gioco delle ombre”, [4] gli ha dedicato alcune pagine ridimensionandola ed evidenziando i tanti dati carenti, errati e riferimenti sballati che finiscono per renderla inattendibile.

Rimandiamo quindi al citato lavoro di Alessandro De Felice, il quale dopo aver rilevato che la ricostruzione di Tompkins appare alquanto confusa e piena di inesattezze e per il citato documento o rapporto “650.3/SH-O del 4 aprile 1945”, indirizzato al segretario di Stato americano, nel quale si legge: “Il Dipartimento ha ordinato una indagine per confermare un rapporto dell’agenzia sovietica Tass, riguardante una grossa somma di danaro e altri valori che sono stati trasferiti nelle banche svizzere da Mussolini e dai suoi complici”, ha fatto giustamente notare:
«Il tasso di veridicità ed attendibilità dei lanci della Agenzia russa Tass in tempo di guerra (e di guerra fredda) è, secondo noi, per usare un eufemismo, molto “approssimativo”, opinabile quando non unicamente politico, cioè inquinato di notizie manipolate ad arte o inventate di sana pianta» [A. De Felice, op. cit.].

Quindi dopo aver ampiamente riassunto il servizio di De Stefano, correlato alle tesi Canali, riportate dal settimanali “Oggi” e fatto notare varie inesattezze e incongruenze, Alessandro De Felice osserva giustamente:
«Sul sentito dire di un rapporto dell’intelligence USA, Canali e De Stefano costruiscono un castello accusatorio di sabbia che assume poi la forma di un edificio farinoso e friabile esclusivamente basato sul “collante” del fumus persecutionis quando il De Stefano parla di fantomatici conti cifrati, di cui non si forniscono i numeri, di fantomatiche banche svizzere (quali?) che avrebbero consegnato agli archivi statunitensi fantomatici documenti inerenti i presunti conti cifrati.

De Stefano dice poi che le banche svizzere sarebbero “state messe colle spalle al muro”, e per questo – affermazione altrettanto grave ed arbitraria – gli stessi imprecisati istituti di credito elvetici, attraverso loro emissari-sabotatori occulti, avrebbero provocato negli Stati Uniti gli incendi e la distruzione di “ben ottomila casse di documenti” conservate negli archivi americani (quali?). E, ci chiediamo noi, il governo di Washington nulla avrebbe sospettato e nessuna inchiesta avrebbe aperto?». [A. De Felice, op. cit.].

Ogni ulteriore commento è superfluo.

Le “favolose” ricchezze di Mussolini

Era per tutti ovvio che l’affermazione: “dalle tasche del Duce, appeso per i piedi a Piazzale Loreto , non cadde una lira”, stava a significare che Mussolini non si era appropriato di denaro pubblico o altrui, per tutti tranne che per coloro che con queste storie sguazzano nelle dicerie.

Rivediamo allora, con precisione storica, quali erano i beni, di sua proprietà, che risultavano a Mussolini nel momento in cui si allontanava dalle zone dove stavano per arrivare gli Alleati, al fine di restare libero e poter trattare una dignitosa resa, forte anche di importanti documentazioni che gli furono sottratte e fatte sparire. [5]

Come noto, invece, venne catturato a Dongo, la mattina del 27 aprile 1945.

En passant, facciamo notare, come oramai l’altra diceria, quella che voleva Mussolini in quelle ore in fuga verso la Svizzera, è stata abbandonata dalla storiografia seria, dopo che il ricercatore storico Marino Viganò, di certo non di parte fascista, ne ha dimostrato l’inconsistenza [6].

Dunque: i beni di Mussolini riscontrabili, al momento della sua morte (a parte la residenza della Rocca delle Caminate vicino Predappio, che negli anni venti, fu totalmente restaurata con un “prestito littorio”, una sottoscrizione indetta fra i cittadini della Romagna, per poi essere donata a Mussolini che la elesse sua residenza estiva migliorandola poi con fondi propri), erano costituiti dai proventi della cessione degli stabilimenti e macchinari del Popolo d’Italia, avvenuta in quei giorni, all’industriale Riccardo Cella (che li comprava per conto di terzi) e che il Duce aveva diviso con i suoi parenti, eredi del fratello, del figlio Bruno e la sorella Edvige), e dalla rimanenza di una liquidazione appena riscossa per i diritti d’autore di suoi scritti. La moglie Rachele inoltre, aveva con sé (oltre parte di questi proventi) gioielli di famiglia e molti regali, anche di valore, avuti dal Duce nel ventennio, che gli furono sequestrati dagli Alleati e poi restituiti riconoscendogli la proprietà.

Noto è che durante la Rsi, Rachele, protestò più volte con il marito, perché con il modesto stipendio di Stato che percepiva, non ce la faceva, a far fronte alle spese di una famiglia allargata a vari rifugiati, ma lui si rifiutava di farsi concedere altro che pur gli poteva spettare. Nel dopoguerra poi non sembra proprio che Rachele Guidi vedova Mussolini e i suoi figli, abbiano condotto una vita lussuosa, anzi tutt’altro e neppure che abbiano rivendicato beni nascosti al’estero, cosa che non poteva restare nascosta e si sarebbe risaputa.

Vediamo adesso, un altro aspetto a questo correlato re legato anche al delitto Matteotti, ovvero le presunte tangenti riscosse da Mussolini e le ricostruzioni storiche, o meglio la metodologia usata dallo storico Mauro Canali su questo argomento, e che noi definiamo un “teorema”, rimandando anche alla nostra inchiesta sul delitto Matteotti, reperibile nel sito:
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Il teorema di Canali

Riflettendo attentamente sui lavori e le analisi di Mauro Canali (dei quali, per carità, apprezziamo le ricerche documentali) possiamo, in definitiva sostenere che questo storico, che si vuol sostenere sia andato più in là di Renzo De Felice, ha scoperto l’acqua calda: il partito fascista, il Popolo d’Italia, e ambienti dell’entourage del governo di Mussolini, intascavano tangenti (oltre ad articoli e interviste, questo tema è sviluppato nei suoi: Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997, e la sua riedizione del 2004, più snella, elisa di alcune documentazioni, ma sostanzialmente uguale; e in Mussolini e il petrolio iracheno. L'Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze, Einaudi, 2007.

Ma si ritiene veramente che Renzo De Felce non conosceva questo andazzo, che si pratica dalla notte dei tempi, che era, ed è ancora, mezzo consueto di finanziamento dei partiti anche della Repubblica democratica del dopoguerra, tanto da causare la famosa “tangentopoli” che portò alla Seconda Repubblica (un “mani pulite” i cui veri fini non potevano di certo essere la fine di questo atavico sistema di finanziamento, visto che, infatti, è proseguito imperturbabile anche nella attuale Seconda Repubblica e nonostante che ora i partiti abbiano lauti finanziamenti di Stato.

Certo che De Felice conosceva queste cose, ma non ha scavato in tali ambiti come ha fatto Mauro Canali, perchè da buon storico sapeva perfettamente che non è in questo modo che si possono sciogliere certi dubbi e interpretare le vicende storiche.

Per altri versi sarebbe come stabilire che siccome Lenin prese ingenti finanziamenti da Wall Strett e dal servizio segreto tedesco, se se deducesse che Lenin era un uomo dell’Alta finanza e uno strumento del Kaiser. Oppure che Hitler avendo avuto finanziamenti anche da banche ebraiche era uno strumento dell’ebraismo; o ancora che Mussolini, siccome prese finanziamenti per creare il Popolo d’Italia da tutti quegli ambienti, in genere massonici, interessati a portare l’Italia in guerra a fianco dei franco britannici, e durante la guerra venne anche finanziato dagli inglesi per tenere il “fronte interno” del paese, questi era uno strumento al servizio della massoneria e un agente inglese.

Chi ragiona in questo modo dimostra di non conoscere le leggi storiche, leggi che attestano che sempre e comunque ci sono poteri e interessi che hanno convenienza a finanziare “qualcosa” o “qualcuno” e uomini e movimenti che hanno necessità di farsi finanziare.

Per la verità le presunte tangenti che Mauro Canali pretende di aver scoperto a vantaggio di Mussolini, il fratello, il Popolo d’Italia e il partito fascista, di fatto passano qui quale un interesse personale, un arricchirsi, sfruttando la raggiunta posizione di potere e questo assume un diverso aspetto, finendo per configurare Mussolini e il suo governo come una specie di Al Capone e il suo sistema gangsterico.

A parte che tutti questi illeciti arricchimenti, per la famiglia Mussolini, non si sono poi evidenziati ovvero non ci sembra che siano stati usufruiti né da lui, né dagli eredi, ci si chiede: ma come può lo storico Canali (ben noto anche all’estero, già allievo di Renzo De Felice e che è stato professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Camerino), preso da fazioso furore nel dimostrare la corruzione del Duce, corruzione che lo farebbe diventare l’assassino di Matteotti, come può dedurne, dicevamo, solo perché alcuni documenti gli fanno presupporre che una certa ricevuta, un certo versamento, un certo finanziamento, passato per le mani di Mussolini o comunque secondo lo storico, non poteva essere estraneo al Duce, la sua corruzione e tutto un sistema corruttore da questi messo in auge?

Quando invece evidenti prove e vicende dimostrano che Mussolini non poteva essere stato il mandante di quel delitto, che anzi quel delitto lo danneggiava enormemente, molto più di una denuncia per presunte tangenti; che il contesto politico del tempo dimostra che Mussolini non ha alcun interesse a far fuori Matteotti, mentre ci sono poteri forti che hanno interesse a tacitare Matteotti e far cadere Mussolini; che l’attitudine di potere di Mussolini, non è quella di un Al Capone, ma è chiaramente finalizzata a curare gli interessi della nazione; che il suo dirigismo nella prassi governativa dà enormemente fastidio ai suddetti poteri forti; che il Duce, non a caso, si è rimangiato certe promesse che aveva fatto all’Alta Banca che lo aveva finanziato nell’ascesa al potere, come quelle di creare uno Stato non ferroviere, non postelegrafonico, ecc., quindi una stato totalmente liberista, ingolosendo gli interessati alle “privatizzazioni” e invece ora mira a rafforzare lo Stato, a riportare gli interessi privati nell’interesse pubblico, e così via.

Non è questa della corruzione la prassi, l’ideologia e l’essenza politica di un uomo che poi realizzerà lo Stato del Lavoro e lo Stato sociale, la costituzione, al tempo rivoluzionaria, dell’IRI, la società socialista con la RSI, e la formulazione dottrinaria del “tutto nello Stato, niente fuori dello Stato e soprattutto niente contro lo stato”, e che invece, praticamente, si sottende, che avrebbe preso il potere per il potere, per arricchirsi, per sviluppare un sistema di corruzione e tangenti per se, per il partito, per i suoi uomini e affiliati.

Da storico accorto il Canali come può non considerare, per esempio, che la lettera - memoriale di Dumini, rimasta negli archivi statunitensi e secondo lui la prova regina che indicherebbe Arnaldo Mussolini quale fruitore di una tangente petrolifera, è una prova inattendibile, tanto più per metterla in relazione alla volontà omicida di Mussolini che freddamente organizzerebbe e dirigerebbe la soppressione di Matteotti?

Intanto il Dumini, super, reiterato e comprovato bugiardo, non è certo un teste attendibile; che le circostanze e le necessità che lo indussero a scriverla non garantiscono di certo che quanto riportato sia veritiero; che se Mussolini se la portava dietro in quelle sue ultime e pericolose ore di vita, molto probabilmente, anzi sicuramente, questa lettera era in un contesto di documenti che la confutavano e che, infatti, antifascisti nostrani e Alleati, fecero poi sparire [7]; che la presunta tangente passava per Arnaldo Mussolini, ma non è detto che era per lui personalmente; che il tutto infine, va poi contestualizzato all’epoca, e così via.

Il Canali però sorvola su tutto questo e afferma che quel reperto è la prova del coinvolgimento del Duce nel delitto.

E la stessa sicumera “tangentista” la ripete quando afferma in una intervista di aver trovato almeno tre prove di tangenti a Mussolini, una delle quali consisterebbe nella lettera delle ferrovie circa la vendita di residuati bellici, che Mussolini riceve e sigla “riservatissimo”.

Orbene, riportiamo da uno stralcio del citato servizio su “Oggi”, proprio questo passaggio, perché evidenzia bene le forzature e le congetture usate dal Mauro Canali, il quale riscontrando “ricevute” passate per Mussolini, le interpreta come una riscossione personale di tangenti.
«“Nel mio libro sulla genesi del delitto Matteotti”, precisa lo storico [Mauro Canali, n.d.r.], “sono riuscito a dimostrare almeno tre tangenti sicure e non è certo facile trovare le prove materiali della corruzione…

C’è poi una lettera del commissario straordinario delle Ferrovie, incaricato di vendere i residuati bellici della prima guerra mondiale, che scrive a Mussolini: “Le 250 mila lire (circa 400 milioni attuali, n.d.r) che ebbi a consegnarvi poche sere or sono provengono da una vendita di materiali esistenti in magazzini di corpo d’armata”. E Mussolini, sull’appunto, verga la parola “riservatissimo”. Vi sono poi altre sicure tangenti, come una di 750 mila lire (circa un miliardo di oggi, n.d.r.) fatta passare per donazione a un istituto per ciechi”».

Anche qui, commenta lo storico Alessandro De Felice, nella sua opera citata:
«Si tratta in questo caso di un leit motiv caro a Canali, il quale, nel suo saggio sul delitto Matteotti teso a dimostrare la colpevolezza di Benito Mussolini nell’omicidio del deputato socialista veneto avvenuto nel giugno 1924, cerca di costruire un circuito storico univocamente monocorde con non poche forzature interpretative legate ad episodi per nulla inerenti l’oggetto della sua – peraltro apprezzabile – ricerca»
E non potrebbe avere, per esempio, aggiungiamo noi, quel versamento, finalità che non si conoscono, al limite anche tangenti, ma non necessariamente intascate personalmente dal Duce, tanto che sigla “riservatissimo, ma a quanto pare non lo fa
E comunque quante storie di questo genere potevano girare attorno ad un capo di governo e capo del partito fascista al potere? Molte ovviamente, ma andrebbero tutte contestualizzate al particolare momento storico, andrebbero messe in relazione con la politica pluriennale di Mussolini e allora ci si accorgerà facilmente che quella del Duce è una politica finalizzata allì’interesse nazionale, non a quello privato!
Uno “storico” veramente singolare questo Mauro Canali, nonostante gli indubbi meriti nelle sue ricerche, visto che costruisce un vero teorema, al pari di un giudice inquirente, laddove prima interpreta la eventuale tangente, l’eventuale finanziamento, da lui scoperto, come un interesse privato della famiglia Mussolini (in primis il fratello Arnaldo) e dei suoi intimi, quindi eleva, questa che è più che altro una sua congettura, in un movente perchè asserisce che Matteotti, sarebbe a conoscenza di questi scandali e li sta per denunciare.
Ma che Matteotti intendeva denunciare varie malversazioni, in particolare le tangenti petrolifere e quelle per il gioco d’azzardo (e neppure si sa fino a che punto e in che termini le avrebbe denunciate), sembra indiscutibile, ma che il parlamentare socialista voleva chiamare in causa personalmente Mussolini non risulta da nessuna parte.
E quindi il Canali, presupponendo di avere il movente, chiude il suo teorema e indica anche il mandante dell’omicidio di Matteotti, incurante del fatto, che smentisce la sua ipotesi, che poi questo “mandante”, cioè Mussolini, prima, durante e dopo il delitto da lui ordito si comporterebbe come un imbecille (Cfr.: Maurizio Barozzi, Il delitto Matteotti, op. cit.).
E dove sta poi scritto, ammesso e non concesso, che Mussolini avesse avuto personalmente paura di eventuali denunce di Matteotti alla Camera e quindi decida di risolvere il problema con il mezzo, l’assassinio, più pericolo e deleterio per lui, e non invece di confutarlo, di negarlo, di batterlo sul terreno a lui più consueto quello della abilità dialettica, del carisma, della forza che gli conferiva una inattaccabile maggioranza, come è ovvio e logico che sia?
Oltretutto era prevedibile fosse molto improbabile che Matteotti pubblicasse documenti “esplosivi”, tali da non poter essere confutati, discussi, tanto è vero che poi questi “documenti esplosivi” nessuno ha mai tirato fuori! E semmai ci fossero stati, non potevano di certo essere in mano solo a Matteotti e quindi era perfettamente inutile sopprimerlo.
Ci meravigliamo quindi che, tranne coloro che sono andati pedissequamente dietro al Canali nell’ottica cdi sviluppare temi antifascisti e dietrologie sul Duce, tanti altri hanno fatto spallucce e hanno considerato il “teorema” di Canali, come tale, come forzature e congetture?
Ma vediamo infine questa storia del fratello del Duce, Arnaldo Mussolini.

Arnaldo Mussolini
 
Un “cavallo di battaglia” dello storico Mauro Canali è infatti l’asserzione che il fratello del Duce Arnaldo, amico di Filippo Filippelli (giornalista, affarista e faccendiere implicato nel delitto Matteotti, n.d.r.), dovrebbe intascare una tangente petrolifera di 30 milioni (dalla americana Sinclair Oil per aver ottenuto la famosa “Concessione” nel nostro paese), cosa che non poteva essere ignorata dal Duce (se non ne fosse anche lui cointeressato) e quindi saputo che Matteotti avrebbe denunciato il malaffare, diede ordine di uccidere il parlamentare socialista.

Arnaldo Mussolini (11 gennaio 1885 – Milano, 21 dicembre 1931), di due anni più giovane di Benito, era una delle pochissime persone di cui, il malfidato Mussolini, si fidava e apprezzava, facendone il suo uomo di fiducia e confidente. Gli aveva affidato la carica, importante di direttore amministrativo del Popolo d’Italia e poi, dopo la marcia su Roma, quella di Direttore del giornale.

Si dice che fosse sensibile a qualche intrallazzo e quindi, facilmente, si facesse coinvolgere in qualche giro, ma intanto bisognerebbe distinguere tra possibile interesse personale e necessità di finanziamento del giornale di cui dirigeva l’amministrazione, perché quello che si conosce della vita e della personalità di Arnaldo non attesa che questi sia un furfante.

Si parla anche di interessi sulla Legge che doveva istituire le bische e il gioco d’azzardo (che poi Mussolini in qual che modo bloccò) e che lui avrebbe avuto alcune azioni, ma non ci sembrano comunque “traffici” di eccessiva importanza, né facilmente provabili e da giustificare un omicidio per non farli venire a galla.

Costituiscono, tutto al più, degli “scheletri nell’armadio” che potevano frenare Mussolini in qualche dura polemica con avversari facenti parte di poteri forticome infatti avvenne dopo il delitto Matteotti.

Per la presunta tangente petrolifera da 30 milioni ovviamente la cosa sarebbe diversa.

Per prima cosa però che Arnaldo abbia veramente intascato, lui personalmente, tutta o rate di questa tangente è da dimostrare, e l‘accusa si basa più che altro su delle congetture.

Ma per un momento diamolo per scontato e vediamo come potrebbero stare le cose, perché l’esame di tutti gli elementi, con confermano le asserzioni del Canali.

Dunque, Arnaldo intascherebbe questa grossa tangente (per lui personalmente o per il giornale?) la prima cosa che viene in mente sono due domande di non poco conto:

primo, come mai che poi, una volta morto Matteotti, che si sostiene ne aveva le prove e voleva denunciarle, nessuno presentò più queste prove, eppure il Matteotti da qualcuno doveva per forza averle avute, almeno che non fosse solo una “voce”, ma allora la cosa sarebbe quasi insignificante, una diceria.

Secondo, sappiamo che poi a novembre del 1924, Mussolini fece cadere gli accordi e la convenzione raggiunta dal suo governo con la Sinclair Oil: ebbene cosa fece Arnaldo, restituì la tangente? E i petrolieri che videro saltare il loro affare, a cui tanto avevano penato, cosa fecero, restarono zitti e buoni?

Come si vede siamo nel campo di illazioni e congetture, neppure troppo realistiche.

Ma quello che comunque smentisce questa ricostruzione del Canali, è l’assurdità complessiva di tutta la faccenda.

Consideriamo infatti che Mussolini al momento del delitto Matteotti era saldamente a cavallo di un governo che nelle recenti elezioni aveva vinto alla grande e quindi la maggioranza che ne scaturiva poteva vivere giorni quasi tranquilli. La stesa faccenda delle denunce di brogli e violenze fatta da Matteotti il 30 maggio alla camera, era stata brillantemente parata da Mussolini con il suo discorso del 7 giugno nel quale anzi aveva rilanciato offerte di partecipazione governativa ai socialisti.

L’unico cruccio che assillava Mussolini, infatti, oltre alla necessità di normalizzare l’ordine pubblico, era come poter raggiungere una intesa e portare al governo i socialisti moderati e i Confederali, al fine di dare al suo governo una spinta sociale e una saldezza morale che gli consentissero di varare riforme e programmi che, viceversa, avrebbero sollevato evidenti reazioni tra i conservatori e i poteri speculativi. E’ questa una fotografia di quel momento storico, ben dettagliata da Renzo De Felice e da testimonianze, sulla quale non si possono avere dubbi.

Ebbene dovremmo, invece, ritenere ora che Mussolini informato che Matteotti avrebbe denunciato la faccenda delle tangenti alla Camera e quindi coinvolto il fratello Arnaldo, se non lui stesso, ha pensato di farlo ammazzare e, detto fatto, darebbe l’ordine omicida, senza curarsi oltretutto, di nascondere minacce e acrimonia contro la sua vittima e poi, a delitto consumato, farsi travolgere dallo scandalo.

Intanto non si comprende da chi o cosa Mussolini avrebbe avuto la certezza e il dettaglio di questa specifica denuncia che Matteotti si stava accingendo a fare, perché tutto sta a indicare che Matteotti, nel suo imminente discorso, non avrebbe attaccato Mussolini direttamente, ma la sua politica che, come scrisse in quei giorni, stava facendo degenerare il fascismo in uno strumento del capitalismo e delle speculazioni.[8]

Anzi, era questo di Matteotti, quasi un invito a cambiare rotta, di cui Mussolini, intento a trovare un approccio con il PSU, passato il momento a caldo di reazione collerica, poteva benissimo apprezzare ed agganciarsi, anche perché sapeva che Matteotti stava dicendo il vero.

Ergo le minacciate denunce di Matteotti, solo relativamente potevano preoccupare Mussolini, ma preoccupavano di certo gli ambienti interessati a quelle speculazioni.

Ma anche ammettendo che invece Mussolini si sia veramente preoccupato di un possibile scandalo che coinvolgeva magari lui, il partito e il fratello, cosa farebbe, risolverebbe il caso con un omicidio del segretario del partito socialista, uomo noto anche all’estero e che passa come un irriducibile avversario de fascismo?

Ma non scherziamo! Intanto Mussolini, se pure si preoccupava di eventuali prove che poteva pubblicare Matteotti, doveva ben sapere che non è con il liquidarlo e sottrargli le sue documentazioni che risolverebbe il problema, anzi, con un delitto, metterebbe in condizioni, chi ha la copia di quelle prove, di sbandierarle con ancora più forza devastante. Quindi Mussolini, da uomo intelligente e buon tempista com’è, sa bene che non dovrebbe fare altro che prepararsi alla eventuale buriana, perché lui abile oratore ed esperto manovratore, forte di una inattaccabile maggioranza di governo, in qualche modo riuscirà a negare o tamponare queste denunce al parlamento, mentre invece, facendo assassinare Matteotti, gli crollerebbe il mondo addosso.

Come si vede quindi queste ricostruzione del Canali sono più che altro teoremi, che in alcuni punti non stanno né in cielo né in terra e vanno decisamente ridimensionate.

 
                                                                                                                        

domenica 24 marzo 2019

NORIMBERGA ULTIMO ATTO

Norimberga ultimo atto

L’impiccagione dei gerarchi nazionalsocialisti

Illegittimità del tribunale – Torture fisiche e psicologiche – Il vanto del boia


Di Giacomo Busulini - (da L’ Uomo Libero)

Norimberga fu il giudizio dei vincitori sui vinti. Non servì principi giuridici, ma gli interessi delle potenze che lo organizzarono, quelle che avevano sconfitto la Germania. Spero che di Norimberga si perda il modello.

Renzo De Felice (Rosso e Nero, 1995)

John F. Kennedy nel 1956 scriveva: “La costituzione degli Stati Uniti, che non consente l’introduzione di leggi retroattive, non è una raccolta di parole soggette a libera interpretazione: è il fondamento della nostra giustizia. E’ cosa disgustosa che a Norimberga si sia venuto meno ai nostri principi costituzionali per punire un avversario sconfitto. (…) Un processo tenuto dai vincitori a carico dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il bisogno di vendetta. E dove c’è vendetta non c’è giustizia (1)”.

Le leggi retroattive di cui parla il presidente statunitense sono uno degli elementi chiave del più famoso processo-farsa della storia. Esso fu possibile per il marchingegno con il quale la Gran Bretagna e gli stati Uniti modificarono temporaneamente le loro leggi di guerra laddove queste consentivano ai militari accusati di reati di guerra di difendersi adducendo la giustificazione di aver dovuto obbedire all’ordine di un superiore. Quella temporanea modifica fu apportata, ammisero i responsabili del War Department “per evitare che i criminali di guerra tedeschi potessero difendersi appellandosi alle leggi esistenti in Inghilterra e in America (2)”.

Elemento centrale del processo di Norimberga fu dunque il ritenere personalmente colpevoli i militari tedeschi che avevano eseguito degli ordini. E ciò anche se, viste le accuse di aggressione, di crimini di guerra e contro l’umanità (3), tutti, a Norimberga, erano colpevoli. Anche i quattro Paesi vincitori-giudici.

Su Norimberga si è detto di tutto e di più. Il processo del 1945 è stato illegittimo: i reati contestati ai tedeschi erano tutti riconducibili ai fatti della Seconda Guerra Mondiale. Nel corso della quale tanto i sovietici che gli occidentali si erano macchiati di innumerevoli delitti sia contro le popolazioni civili che nei confronti dei militari nemici.

Un esempio su tutti, Dresda rasa al suolo dai bombardamenti: zero obiettivi militari, 130.000 vittime civili inermi. La guerra per definizione fa strage di innocenti. Tuttavia nessuno, per esempio, è stato processato per aver fatto uso di gas nella prima guerra mondiale. Né nessuno è stato accusato di aggressione. Questo perché le origini di un conflitto sono sempre state decise dalle nazioni coinvolte: tutte provocate, tutte costrette a difendere la libertà e la democrazia, tutte sostanzialmente entrate in guerra per difesa. A tal proposito, la famigerata “guerra preventiva” di Bush jr. ha un precedente “nobile” proprio nella Seconda Guerra Mondiale.

La dottrina oggi trionfante, che dichiara lecita l’aggressione prima che ad aggredire sia l’avversario, giustifica l’invasione della Russia sovietica da parte di Hitler. I bolscevichi infatti vennero attaccati nel giugno 1941 battendo sul tempo l’invasione dell’Europa programmata da Stalin per il luglio.

La vexata quaestio sulla pena di morte, tornata in auge dopo l’impiccagione del presidente iracheno Saddam Hussein distrae l’opinione pubblica da un fatto altrettanto fondamentale. Se è inumano uccidere qualcuno secondo la legge, è di certo ingiusto che processi come quello di Norimberga o quello a Saddam vengano fatti solo in base al rapporto di forza che condanna il vinto al vincitore. E’ difficile escludere che non entri in gioco l’elemento vendetta o che chi vince non ritenga opportuno eliminare il suo avversario, economicamente, politicamente, militarmente, moralmente, fisicamente.

Non ci occuperemo qui già dello svolgersi del processo di Norimberga la cui ricostruzione è stata oggetto di una ricca pubblicistica oltre che di alcuni film, ma di ciò che è seguito alla sentenza, riportando alla luce i dettagli delle esecuzioni su cui oggi si preferisce stendere una coltre di silenzio.

Churchill nelle sue memorie sostiene: “I principi morali della civiltà moderna sembrano prescrivere che i capi di una nazione sconfitta in guerra siano messi a morte dai vincitori”.

L’enunciazione di un simile sbrigativo criterio di giustizia, sia pur temperato dall’idea di accollarne la paternità alla “civiltà moderna”, non era una filologica valutazione di costume, rifletteva invece il perverso criterio scelto dai vincitori per risolvere il problema della sottomissione dei vinti. I capi del popolo sconfitto andavano messi a morte, ma prima era necessario venissero spettacolarmente criminalizzati, trattati come volgari assassini. Un processo ben architettato ed una giustizia esemplare, paragonabile alle pubbliche impiccagioni del Far West, dovevano inquinare, con effetti prolungati nel tempo, l’immagine storica dei capi e rendere impossibile la rinascita della Germania danneggiando irrimediabilmente le sue fondamenta culturali e spirituali.

Il calvario dei vinti inizia subito dopo il loro arresto al fine di fiaccarne il morale e portarli al processo in condizioni psicofisiche deteriorate. Ciò in contrasto con la posizione di prigionieri di guerra degli imputati contro i quali, al momento dell’arresto, non esisteva alcuna imputazione. I capi d’accusa in base ai quali vennero processati e condannati furono infatti elaborati successivamente all’arresto e messi a punto solo verso la fine di ottobre del 1945.

Un paralizzante regime di terrore psicologico viene imposto agli imputati già prima che gli atti formali d’accusa siano a loro consegnati. Sono tenuti in assoluto isolamento nel carcere di Norimberga e sorvegliati a vista da soldati cui è vietato rispondere a qualsiasi domanda. Ogni giorno le celle vengono perquisite: i prigionieri devono partecipare alla cerimonia nudi, perché anche i loro corpi sono tenuti costantemente sotto controllo onde evitare possano nascondervi qualcosa. Sottoposti ad una dieta da fame ricevono il vitto attraverso uno spioncino e devono consumarlo da soli, come da soli devono provvedere alla pulizia delle celle. Sono costretti a mangiare senza coltello e senza forchetta. Ogni giorno a partire dalle 17.30 i prigionieri possono stare seduti e meditare nelle loro celle, poiché i loro occhiali vengono sequestrati e l’unica luce proveniente dallo spioncino non è sufficiente per la lettura. Di notte sono obbligati a riposare sul fianco destro, con le braccia fuori dalla coperta e con il viso sempre rivolto alla porta in modo da poter essere meglio sorvegliati.

Ogni sera il tavolino e la sedia vengono rimossi dalla cella. E così, poiché non c’è alcun posto per appendere gli abiti e la biancheria, i prigionieri devono lasciarli sul pavimento. Il feldmaresciallo Keitel annota nel suo diario: Le nostre esigenze igieniche sono soddisfatte con sapone, dentifricio ed una doccia alla settimana, ma ciò è davvero insufficiente per contrastare le condizioni di vita in una cella e la sporcizia dei materassi, delle coperte (4)”.

Il movimento all’aria aperta o nei corridoi è limitato a dieci minuti al giorno. I colloqui con gli avvocati avvengono dietro il doppio ostacolo di una grata metallica e di una lastra di cristallo; gli imputati però, per maggior sicurezza, sono anche ammanettati.

Nonostante il clima della detenzione e il morale che gli eventi esterni non potevano certo contribuire a tenere alto, il contegno degli imputati fu complessivamente dignitoso. La dichiarazione conclusiva di Hermann Goring testimonia come la fermezza di questo combattente non sia stata minimamente scalfita dalle umiliazioni subite: “Non ho mai decretato la morte di nessuno, né alcuna altra atrocità, e neppure ho tollerato quelle delle quali potevo venire a conoscenza e impedire. Non volevo la guerra e non ho fatto nulla perché venisse dichiarata. Ho cercato in tutti i modi di prevenirla tramite i negoziati. Quando scoppiò feci tutto ciò che stava in me per conseguire la vittoria. La mia guida è stato l’amore ardente per il mio popolo e il desiderio della sua felicità e libertà. Di questo chiamo a testimoni l’Altissimo e il popolo tedesco (5)”.

Vae Victis. Questa è l’iscrizione che appare sopra la porta della residenza coatta del capitano Erich Priebke a Roma.

La parte del boia a Norimberga toccò ad un sergente ebreo americano, John Woods, che morirà qualche anno dopo in un incidente collaudando una sedia elettrica. Aveva deciso di continuare il mestiere, e per scrupolo professionale volle procedere a un collaudo di persona: la macchina funzionò perfettamente.

Al termine dell’esecuzione Woods disse: “Dieci in centotré minuti. Un lavoro perfetto”.

Dell’undicesimo condannato all’impiccagione, Hermann Goring, la storiografia ufficiale ricorda che si suicidò con una capsula di cianuro poche ore prima dell’esecuzione. Si omettono volutamente alcuni particolari macabri che i giustizieri preferiscono dimenticare: delusi per essersi fatti sfuggire quello che era stato il delfino di Hitler, ordinarono di appendere ugualmente il corpo alla forca. Le fotografie di questo agghiacciante vilipendio di cadavere sono state fatte sparire, ma rimane, almeno in Italia, a disdoro dei vincitori, il titolo del Corriere d’Informazione di mercoledì-giovedì 16-17 ottobre 1946: “Goring si avvelena in cella (…) il suo cadavere è stato appeso alla forca”.

La sentenza venne pronunciata il 30 settembre ed il 1° ottobre 1946. Le impiccagioni furono eseguite il 16 ottobre 1946 nella vecchia palestra del carcere dove vennero issate tre grandi forche.

Gli inglesi sono affezionati al “long drop (6)”, che però richiede un artista più che un boia. Il condannato è posto su di un palco sopra una botola. E’ legato e incappucciato (il cappuccio è sempre lo stesso). La botola si apre e il corpo precipita. La lunghezza della corda deve essere proporzionata al peso del condannato e alla sua struttura muscolare. Se va tutto bene la corda si tende, il nodo si stringe e le vertebre si spezzano causando prima l’incoscienza e poi la morte per soffocamento. La morte non è istantanea, come si scoprì a Norimberga, e il cadavere deve restare appeso almeno un’ora (a Norimberga i capi nazisti furono finiti con delle iniezioni).

L’agghiacciante descrizione dell’esecuzione è stata riportata su Storia Illustrata nel numero speciale dedicato al Processo di Norimberga (7): “Ma già da tempo la sorte dei capi nazisti è certa. Il boia è arrivato a Norimberga nel pomeriggio del 5 ottobre e più tardi dichiarerà ‘Fin da agosto mi avevano detto che dovevo eseguire questo lavoro ‘ :.

Contemporaneamente al boia giunge dall’Inghilterra, con un aereo speciale, un macabro pacco spedito dalla ditta John Edgington & co. Con sede a Londra, in Old Kent Road 108, che da un secolo fabbrica cordami per la marina mercantile e tende da campo: l’involto contiene quaranta corde in canapa italiana, lunga ognuna tre metri e dieci centimetri. Queste corde le ha fabbricate a partire dal maggio precedente un artigiano sessantunenne, piccolo e rugoso, Harry Moakes (8), che da una trentina d’anni rifornisce regolarmente il boia d’Inghilterra.

Le corde per impiccare hanno il cappio ricoperto di pelle di vitello, morbida e liscia, sia per rendere più scorrevole il nodo, sia per evitare abrasioni e ferite al collo del giustiziato. Ciascuna corda richiede una lavorazione di cinque o sei giorni, e il suo costo può essere valutato in circa 400 degli attuali euro. E’ però un articolo che la John Edgington non ha mai messo in catalogo e la sua preparazione avviene in un laboratorio posto sul retro del negozio, protetto dal massimo riserbo. Si sale sul palco attraverso una rozza scaletta di legno con tredici gradini, così come vuole la tradizionale forca americana, appoggiandosi a ringhiere fatte da assi inchiodate. Le forche dipinte di verde sono alte 4 metri e 15 centimetri.

La lunghezza della fune, secondo le prescrizioni, deve corrispondere alla statura del condannato più un margine di sicurezza di circa un metro. Al centro della piattaforma, che ha una superficie di 5 mq, c’è la botola formata da due ante che combaciano perfettamente e che si aprirà a comando del boia sotto i piedi del condannato.

Quando la botola si spalanca, il corpo del condannato precipita nell’interno del palco e sparisce completamente allo sguardo dei presenti per evitare la vista delle convulsioni dell’impiccato. Se si fa ogni cosa a dovere, la morte per impiccagione è la più rapida e la meno dolorosa: può darsi che l’agonia duri a lungo, magari qualche minuto, ma l’impiccato ha perso subito conoscenza.

Due medici, uno americano e l’altro francese, si avvicinano al primo palco, scostano la tenda nera che ricopre uno dei lati ed esaminano il corpo che ancora penzola dalla corda. Attraverso la camicia aperta sul petto ascoltano a turno il cuore. Poi il medico americano va dai quattro generali ed annuncia a bassa voce: l’impiccato è morto. Uno degli aiutanti del boia dal palco taglia la corda con un affilatissimo coltello, i necrofori rimuovono la salma e la adagiano in una delle bare preparate da tempo.

Continua Storia Illustrata: “Il carnefice gli mette il cappuccio, gli aiutanti gli legano le gambe ed i polsi con neri legacci di cuoio. La botola si apre e Streicher lancia un ultimo grido ed un saluto alla moglie: “Adele mia cara”. Il corpo sparisce sotto il palco e nel silenzio teso si ode provenire dalla botola un lamento umano, debole ma prolungato. Un giornalista sviene abbattendosi sulla scrivania, ufficiali, giudici e soldati si guardano smarriti. I due medici entrano frettolosamente sotto il palco e ne escono quasi subito scuotendo la testa in segno negativo: l’impiccato è morto ed il decesso è stato istantaneo”.

I feretri adesso sono aperti, allineati uno accanto all’altro. Ogni salma ha ancora la camicia aperta, il cappio stretto intorno al collo, la testa coperta da un panno nero. I necrofori li sollevano ad uno ad uno e li trasportano nel locale accanto deponendoli su altrettante brandine e fissando alla giacca di ognuno un cartellino con nome e cognome. I quattro fotografi autorizzati possono far scattare i loro flash.

“Gli autocarri funebri vanno verso il campo di sterminio di Dachau (9) e vi giungono in tre ore di marcia. Uno dei forni del lager dove sono stati cremati migliaia di ebrei e di antinazisti è stato riacceso fin dal giorno prima da un ex- internato, un arrotino di Monaco che ha un nome famoso: Riccardo Wagner”.

I feretri vengono scaricati e contati di nuovo.
Infine quattro soldati sollevano la prima bara, quella di Keitel e la trasportano nella baracca. Lentamente viene spinta nella bocca incandescente del forno. Poi è la volta di Goring e via via di tutti gli altri fino a Streicher. Qualche ora più tardi il forno viene spento e lasciato raffreddare, poi dallo sportello aperto i soldati raccolgono le ceneri con le pale deponendole in due bidoni della spazzatura. I recipienti vengono portati in jeep sulle rive dell’Isar, il fiume che bagna Monaco, e le ceneri disperse a palate nella corrente.

Qualora la precedente descrizione non fosse abbastanza cruda e impietosa ecco l’allucinante confessione dell’altro boia di Norimberga, Joseph Malta, intervistato da Vittorio Zucconi sul Venerdì di Repubblica (10). Tra sadismo e necrofilia lasciamo al lettore il giudizio sulla confessione di questo alfiere del nuovo ordine mondiale:

“Il primo a morire fu Ribbentrop. Morì con i denti stretti, una bollicina fra le labbra chiuse in una smorfia di disprezzo, e quando staccai il suo cadavere dalla forca pensai, cristo, quel figlio di puttana è rimasto arrogante fino all’ultimo, anche davanti al boia, ma adesso è un figlio di puttana morto, e l’ho fatto fuori io, Joe Malta, il figlio del piastrellista siciliano (…) Non rimpiango niente (…) non ho incubi, provai solo piacere, un grande, immenso piacere ad ammazzarli, e se mi chiedessero di impiccare anche questo vostro maggiore Priebke delle SS, verrei a Roma domattina (…) La guerra era finita in maggio ed io non avevo potuto fare niente per saldare i conti con quei porci. Dare una mano a impiccarli mi sembrò un modo per farlo”.

“Ho il rimpianto di essere arrivato in Germania troppo tardi con la mia forca (…) Ogni volta che mettevo il cappio intorno al collo di uno di loro, di Ribbentrop, di Keitel, di Jodl, di Streicher, di Seyss-Inquart e sentivo il loro corpo irrigidirsi nell’attesa gli mormoravo “e adesso prova tu quello che hai fatto provare a quegli innocenti…”, loro capivano tutti un po’ di inglese (…) forse mi hanno sentito prima di precipitare dentro la botola (…) lo spero”.

Sbuffa la moglie in una nube di parole e di fumo: “Quando ebbe un infarto, lo ricoverarono all’Ospedale Generale del Massachussets, in corsia, ma il primario cardiologo, che era un ebreo, scoprì chi era. Si precipitò al suo letto con gli assistenti dietro, gli strinse la mano, lo fece trasferire in una stanza privata di lusso e disse ai medici: ‘Se questo paziente muore, vi faccio impiccare tutti, come lui impiccò i nazisti’ “.

“Saliva e sangue – ricomincia lui – di impiccagioni ne feci in tutto quaranta, fra i pezzi grossi di Norimberga e i piccoli criminali minori, le SS, che venivano condannati dai tribunali straordinari. Gli impiccati impiegano fino a venti minuti per morire, prima che il cuore smetta di battere, e qualcuno non perde i sensi subito, quando il nodo gli spezza il collo, gorgogliano, gemono, si lamentano, vomitano sangue e saliva. A volte mi trovavo l’uniforme coperta di sangue, quando gli davo il colpo di grazia. Con queste mani”.

Afferra il suo cappio, lo infila al collo del giornalista, lo stringe e con le dita fredde, ancora straordinariamente forti, dà il colpo di grazia: “Ci si mette di fronte all’impiccato, lo si tiene con il braccio sinistro, con la destra si passa dietro la nuca, si afferra l’orecchio destro e si dà uno strattone forte all’indietro. Il collo si spezza, fa “snap” e lui non si lamenta più. L’osso del collo è già incrinato e cede subito, così… Ehi, non mi fissi con quegli occhi sbarrati. Non sono mica una belva. Non credo in Dio, ma se c’è un Dio sono sicuro che quando mi riceverà in cielo mi dirà: “grazie Joe, per avere fatto bene il tuo lavoro”.
“Johnny, dissi al sergente, non siamo macellai, che figura ci facciamo. Ordiniamo delle forche nuove da un carpentiere di Norimberga e facciamo mettere potenti calamite sotto il pavimento e sotto la botola, così che le due mezze porte restino aperte quanto vogliamo e il corpo possa precipitare pulito pulito”.

“Goring mi fregò, si suicidò nella sua cella inghiottendo una capsula di cianuro che nessuno ha mai saputo come gli fosse arrivata…Mi fregò? E si, ormai era un fatto personale fra noi carnefici e lui. Quando passavo davanti alla sua cella, Goring mi gridava sempre, in un inglese spezzato ma comprensibile: “Ehi, boia, non riuscirai ad ammazzarmi” e io gli gridavo di rimando: “Aspetta, aspetta, bastardo, che sto preparando una corda speciale per impiccare proprio te”. E invece la corda che doveva strangolare Goring è proprio qui, mai utilizzata, tra le dita di un pensionato in una casa di riposo di Revere Beach di Boston”.

Ma le tre forche costruite dal falegname di Norimberga, due attive e una di scorta, non difettarono di clienti. Poco dopo l’una, alle ore 01.11 del 16 ottobre, le due guardie condussero il primo condannato, il ministro degli Esteri del reich Joachim von Ribbentrop. Sotto la luce da teatro di anatomia, illuminato al neon per le riprese footografiche, salì i tredici gradini del patibolo fino al soldato scelto Joseph Malta.

“John, il sergente Woods, il capo carnefice, stava allo stik, al bastone, alla leva che apriva la botola. Io aspetto Ribbentrop al cappio”. Mentre il cappellano mormorava le preghiere della morte, Joseph Malta gli legò insieme le caviglie con una cintura militare, gli infilò la calza, come la chiamavano i boia, il cappuccio attorno al collo.

“Spinsi fino in fondo il nodo scorsoio, così, vede, per stringere il laccio attorno alla gola e perché il nodo premesse forte tra collo e nuca, perché è quello che spezza l’osso subito”, snap? “si, appunto, snap, e fa perdere i sensi al condannato, se tutto va bene”.

Poi si sistemò alle sue spalle e afferrò la corda per tenerla ben tesa e assicurare che lui andasse giù verticale.

“Se la corda è troppo lenta, il corpo casca male e non va bene, il nodo strappa la pelle dal collo, il sangue esce a fiotti e la testa rischia di strapparsi dal collo”.

I due carnefici avevano stabilito un’intesa segreta, fra loro. Per decidere quando azionare la leva e spalancare la botola avevano scelto la preghiera del cappellano come segnale.

Nei secoli dei secoli, amen! Il sergente azionò la leva, John Malta lasciò andare la corda. Il corpo di Ribbentrop sprofondò nel buco, sparendo dalla vista di tutti. Ma non alla vista di Joe.

Il figlio del piastrellista di Palermo doveva correre giù dalla scaletta, infilarsi sotto la tenda che nascondeva la base sotto il patibolo ed accertarsi che il condannato fosse privo di sensi.

“Guardavo l’angolo della testa rispetto alle spalle, nel quadrato di luce della botola tenuta aperta dalla calamita. Se l’angolo era molto acuto, voleva dire che l’osso si era spezzato bene. Se la testa era troppo dritta, gli saltavo addosso, mi aggrappavo al suo corpo, per aumentare il peso e se ancora non bastava, gli spezzavo il collo come le ho fatto vedere e se vuole glielo faccio ancora”, no grazie. “A volte erano necessari due tentativi”. Snap Snap.

Ribbentrop morì in fretta dopo aver gridato “Auguro pace per il mondo”, e il pensiero ancora infuria Joe, “se ci avesse pensato un po’ prima, il grandissimo pezzo di merda, alla pace del mondo”. Altri non furono così fortunati, i condannati più grossi, massicci, morivano meglio, grazie al loro peso. I piccoletti, i magri, dovevano soffrire.

“Il più tremendo fu Julius Streicher. Era un omuncolo e quando lo andai a vedere sotto la forca era ancora vivo, il sangue e il muco gli gorgogliavano dalla bocca in un rantolo. Mi aggrappai a lui e lo tirai più volte, e ancora non moriva”. L’impiccato e il suo carnefice avvinghiati some sacrestani alla fune di una campana. Finalmente Joe riuscì a spezzargli il collo con la sua tecnica. Snap (11).

Quando il suo lavoro era finito, faceva un cenno d’intesa ai medici che entravano al suo posto e auscultavano il moribondo fino a quando non lo dichiaravano legalmente morto. Sette minuti dall’apertura della botola per Ribbentrop. Diciotto minuti per il piccolo Streicher. Il sergente Woods tagliava la corda in alto e altri MP, poliziotti militari, buttavano il corpo, con ancora il cappio al collo, nelle casse di pino aperte, allineate contro il muro. Dopo Ribbentrop, gli altri salirono sul patibolo vedendo i cadaveri di chi li aveva preceduti, nelle casse.

“Era una vista perfetta, per quelli”, mormora Joe, e le dita si stringono in un riflesso di nostalgia attorno al nodo scorsoio “vedevano se stessi come sarebbero stati dopo pochi secondi”.

La sera del 16 dopo le 10 esecuzioni, Joseph malta dormì “benissimo”, come ancora oggi dorme. “Non ho mai avuto dubbi né ripensamenti. Credo oggi, come credevo allora, alla pena di morte”.

“Della notte delle forche, nel ginnasio di Norimberga, non ha riportato a casa nulla. Soltanto la sua foto in divisa da MP, i documenti del suo congedo e una vecchia scatola di cartone, tipo quelle che contengono coppe e trofei. “Fagliela vedere, Joe”. Oddio tremo. Che souvenir avrà mai riportato il boia di Norimberga? La apre. Dalla scatola affiora un giocattolo infernale: se le figlie del diavolo avessero una casa di bambola, questo sarebbe il loro pezzo forte. E’ una forca, un patibolo in miniatura e in perfetta scala, completo di tutto, i tredici scalini, la cordina, il cappietto, la botolina con le calamite sotto, la tendina attorno alla base per nascondere il corpo dell’impiccato. “Me la feci fare dal carpentiere di Norimberga, è stupenda”. La accarezza. La rimira. Si arrampica sulla scaletta con le dita e titilla con l’indice il cappietto. “Liz Taylor, che è ebrea, a saputo della sua esistenza e mi aveva chiesto di comprarlo per una grossa cifra. Le ho risposto di no, non fino a quando sono vivo”. Sospira, tace. “Adesso basta – interviene Cathy, la moglie –“ che ti senti male, Joe. Oggi, è sabato, sa – insiste per cambiare discorso – e nel salone del pensionato viene un’orchestrina. Balliamo”.

Valzer per un carnefice e signora, al ballo degli spettri della nostra storia.

Solo il pubblico ministero del processo che giudicò i gerarchi nazionalsocialisti, Telford Taylor (1908-1988), ha espresso nel suo libro (12) un tardivo ripensamento rimettendo in discussione alcune delle sentenze di morte: come quella che condannò alla pena di morte Julius Streicher per propaganda antisemita. “Streicher era repellente” dice oggi Taylor “ma l’impiccagione fu sbagliata: sarebbe stato più giusto l’ergastolo. Invece i giudici lo schiacciarono come un verme”.

Tornando ai lunghi dibattimenti del dopoguerra, Taylor, arrivato all’epoca della pubblicazione all’età di 84 anni, ammette “incredibili assurdità” e punta l’indice anche sui molti vizi di forma che a suo parere inficiarono il processo di Norimberga per la scarsa legislazione internazionale. Inoltre, il magistrato ricorda che Stalin e Churchill volevano fucilare gerarchi e ufficiali nazisti piuttosto che processarli: “Norimberga” dice Taylor “fu un’invenzione americana”. Quando lo stesso Taylor, a una festa, propose il processo, un gruppo di aviatori americani gli diede del traditore: “Era l’umore del tempo”, commenta ora l’ex magistrato di Norimberga.

Lacune? Anche lacune, risponde il giudice: “Non riuscimmo, ad esempio, a incastrare i Krupp, perché nello scrivere l’atto d’accusa noi americani segnalammo il nome del più giovane”. Tra i ricordi del magistrato, alcuni macabri dettagli delle esecuzioni: il boia usò un cappio male annodato, e i condannati agonizzarono a lungo.

I processi celebrati dagli Alleati nell’immediato dopoguerra contro i “criminali di guerra” nazisti costituirono, nella storia contemporanea, il primo caso in cui i vincitori non si limitarono a giudicare i vinti, ma pretesero di distruggerli ideologicamente e culturalmente. Il processo di Norimberga, come dichiarò candidamente il procuratore degli Stati Uniti J. R. H. Jackson, rappresentava semplicemente una “continuazione degli sforzi bellici delle Nazioni Unite”, che si trovavano “tecnicamente ancora in stato di guerra con la Germania”.

Maurice Bardèche colse perfettamente lo spirito di Norimberga scrivendo che, “per scusare i crimini commessi nella (loro) condotta di guerra, (per gli Alleati) era assolutamente necessario scoprirne di ancora più gravi dall’altra parte. Bisognava assolutamente che i bombardieri inglesi e americani apparissero come la spada del Signore. Gli Alleati non avevano scelta. Se non avessero affermato solennemente, se non avessero dimostrato – non importa in che modo – che essi erano stati i salvatori dell’umanità, sarebbero stati solo degli assassini” (13). Sarebbero stati solo dei criminali di guerra che giudicavano altri criminali di guerra. Adolf Hitler divenne inevitabilmente il criminale per antonomasia e mantenne questa centralità anche nella farsa processuale che si trasformò successivamente in “storiografia”.

Per quanto riguarda invece la lezione morale che avrebbe dovuto derivarne, oggi sappiamo che il processo di Norimberga non è servito a nulla. Avrebbe dovuto costituire il deterrente stabilendo per casi analoghi la certezza di una inesorabile condanna, far sapere ai popoli che una suprema giustizia non avrebbe più consentito il ripetersi di crimini orrendi come quelli giudicati. Si è visto quanto fossero fallaci così nobili proponimenti. Le guerre d’aggressione sono continuate, c’è stato il Vietnam, c’è stato l’Afghanistan, c’è stato l’Iraq e di nuovo l’Afghanistan, c’è stato lo strazio del Libano e di gaza. La ferocia umana ha continuato a scatenarsi e i crimini più infami a perpetuarsi, basti pensare a quanto è accaduto per anni in Cambogia.

La lezione di Norimberga era stata: “Chi scatena una guerra e si macchia di crudeltà efferate pagherà di persona”, ma non risulta che abbiano pagato i vari Ariel Sharon, Pol Pot, Menghistu…Disse con freddo realismo il presidente Truman nel 1971, poco prima di morire: “E’ stato il terrore atomico, non Norimberga, a mantenere l’equilibrio del mondo”.

Sappiamo anche che il processo sollevò e forse continua a sollevare molti dubbi. Era giusto che a processare i vinti fossero i vincitori? Era giusto che si giudicasse in assenza di una legge specifica? La Società delle nazioni aveva dichiarato “reato di diritto internazionale” la guerra di aggressione, ma non aveva fatto seguito la codificazione dell’assunto. Saltava agli occhi la parzialità della chiamata in giudizio: perché nessun processo agli altri colpevoli di guerre d’aggressione? Come si potevano chiamare quelle dell’URSS alla Finlandia, alla Polonia, all’Estonia, alla Lettonia, alla Lituania, alla Bulgaria, al Giappone? Perché il silenzio sui massacri commessi dai vincitori, Katyn, Dresda, Hiroshima, Nagasaki? Nessun processo era mai stato istruito, prima di Norimberga, per punire gli Stati aggressori.

Dopo la prima guerra mondiale si intendeva processare il Kaiser, Hindemburg, Ludendorff, Tirpitz, l’Alto comando tedesco, ma non se ne era fatto nulla. Così nessun tribunale era stato istituito per giudicare l’aggressione giapponese alla Cina o quella italiana all’Etiopia. Norimberga avrebbe dovuto diventare una pietra miliare, l’esempio. O almeno, una buona intenzione: fallita come tutte le buone intenzioni. Queste cose ce le ricorda Giuseppe Mayda, studioso di quanto avvenne a Norimberga, nel suo nuovo libro dedicato a quell’avvenimento (14).

Già egli aveva scritto un precedente volume sul tema ed ora lo ha rielaborato e accresciuto, ponendosi come obiettivo, dopo aver rievocato le cose che dovremmo sapere e che forse sono state dimenticate, quelle ignorate e qui finalmente rivelate. Prima di tutte, la verità sulla fine di Goring. Il Maresciallo non rifiutava la morte, ma l’impiccagione: chiedeva d’essere fucilato e gli venne negato. La sera dell’esecuzione lo trovarono morto nella branda, sembrava dormisse: la posa però parve innaturale e una guardia diede l’allarme. Accorse il colonnello Andrus, direttore del carcere, e successe il finimondo. Com’era stato possibile eludere la scientifica organizzazione di sorveglianza dei detenuti messa in atto dagli americani? Com’era stato possibile che Goring si fosse procurato del cianuro?

I giornalisti invitati ad assistere alle esecuzioni si trovavano già all’interno del carcere e erano stati condotti in visita alle celle e agli impianti funebri, perché si rendessero conto della perfezione dei preparativi, di come nulla fosse sfuggito alla regia statunitense. Ed ecco, proprio allora, la beffa: il più importante tra i criminali di guerra di Hitler gli era sfuggito di mano, irridendoli. Furono febbrilmente ricercati i colpevoli, senza venire a capo di nulla. Si sospettò di tutti, la moglie, la figlia, il cappellano, l’avvocato, i militari di guardia, perfino i giornalisti. Nessuno di costoro c’entrava.

Cominciarono a comparire i mitomani, generali delle SS amici del Maresciallo, ex paracadutisti, tanti altri. La verità oggi si compone: la fiala del cianuro la fornì a Goring il tenente americano Wheelis, che durante il processo non aveva mai nascosto, pensate un po’, la sua simpatia per i “criminali” nazisti. Wheelis aveva portato clandestinamente lettere di Goring alla moglie e viceversa, aveva accettato un orologio d’oro e una penna stilografica pure d’oro in segno di amicizia; insomma, veniva clamorosamente meno ai suoi compiti e nessuno se ne accorgeva. L’ufficiale americano consegnò il veleno al cappellano tedesco Gerecke, il quale lo trasmise all’urologo Pflucker perché lo desse al condannato solo in extremis un paio d’ore prima dell’esecuzione.

Un’ultima considerazione. L’Europa ha posto l’abolizione della pena di morte fra le condizioni per l’ammissione della Turchia nella CEE. Giusto. Contemporaneamente, accettiamo come nostro alleato di riferimento e leader della Nato un paese che la pena di morte non solo la pratica ma la diffonde. E’ vero che gli USA sono il Paese di Dio, ma non è una contraddizione? Questo è il nuovo ordine mondiale e il prossimo paradiso in terra. Però i “criminali di guerra” sembrano essere stati solo i nazisti. Gli altri la faranno sempre franca.

Giacomo Busulini

NOTE:

1) Intervento a sostegno del senatore repubblicano Robert Taft che aveva condannato il processo di Norimberga come una violazione dei più basilari principi della giustizia statunitense e internazionalmente accettati come standard per la giustizia. John Kennedy, Ritratti del coraggio, Gaffi, 2008.
2) Brandley F. Smith, The road to Nuremberg, Basic Books, 1981.
3) Sulla dibattuta questione delle norme tacitamente riconosciute a livello mondiale a proposito di “crimini di guerra e contro l’umanità” così si espresse la senatrice indiana Savitri Devi: “Una moralità che valga per tutta l’umanità non esiste. Si sostiene essere, la gravità dei cosiddetti crimini di guerra e contro l’umanità, in aperto contrasto con una ipotetica coscienza universale. Ebbene, questa troppo celebrata coscienza universale non esiste. Non è mai esistita. Si tratta al più dell’assieme dei pregiudizi esistenti nell’ambito di ogni singola civiltà Il che vuol dire che non è universale”, in Souvenir set reflections, Edizioni Mukherj, New Delhi e Calcutta, 1976, pag. 254.
4) David Irving, Norimberga ultima battaglia, Settimo Sigillo, 2002.
5) Piero Sella, l’Occidente contro l’Europa, edizioni dell’Uomo Libero, 1985.
6) Charles Duff, Manuale del Boia, Adelphi, 1998. La prima edizione di questo libro scritto da un cattolico nordirlandese, membro del servizio diplomatico britannico, fu pubblicato nel 1928 e riporta un lungo sottotitolo: “Breve introduzione alla nobile arte dell’impiccare, con molte altre informazioni utili su come rompere il collo, strozzare, strangolare, asfissiare, decapitare e fulminare con la corrente elettrica; e anche dati e suggerimenti per il boia, una descrizione del metodo di uccidere del defunto signor Berry, la sua tabella operativa delle altezze di caduta; e inoltre un prontuario del boia per fare questi calcoli e certi altri argomenti di particolare interesse, incluse le grandi impiccagioni di Norimberga”. Tutto molto castigato perché lo si possa leggere e tenere in tutte le faniglie. Da quando era stato pubblicato per la prima volta a Londra, nel 1928, il libro ha avuto una grande fortuna. Fu tradotto in molte lingue. Uscì anche in tedesco e nella Germania di Weimar. L’autore ricorda che “quando Hitler arrivò al potere una copia venne pubblicamente bruciata a Lipsia dai nazisti”. “Temo che non l’abbiano apprezzato”, il commento. In Inghilterra ebbe invece un’enorme fortuna (un po’ meno in America). Il libro ebbe un ruolo decisivo nel dare vita al movimento di opinione che avrebbe portato all’abolizione della forca in Inghilterra nel 1973. Le edizioni del dopoguerra furono aggiornate con una relazione, nella stessa vena, dell’impiccagione dei gerarchi nazisti condannati a Norimberga. Un giornale francese scrisse che gli impiccati avevano impiegato “un tempo anormale a morire”, erano defunti per strangolamento e non per rottura delle vertebre, alcuni erano andati a sbattere contro l’orlo della piattaforma. Il sergente maggiore John C. Woods, 43 anni, di San Antonio nel Texas, che nei suoi 15 anni da boia dell’esercito americano aveva impiccato 347 commilitoni, difese la propria professionalità: “Le sole persone che possono diffondere notizie del genere sono dilettanti che chiaramente non ne capiscono niente. Se dubitate della mia parola chiedete al servizio sanitario. L’ufficiale medico mi ha detto subito dopo: “Non ne hai sbagliata una”. L’uomo non è diventato meno crudele col passare di quella cosa illusoria che si chiama tempo, anche se in quasi tutte le parti del mondo è diventato più ipocrita di quello che era”: così leggiamo in margine a questo pamphlet di pura vena swiftiana, del quale si può dire con tutta tranquillità che è agghiacciante. Fa parte essenziale dell’ipocrisia moderna spostare il dibattito sulla pena di morte verso altre questioni di principio, senza prima accertare che cosa sia di fatto una pena capitale. E proprio questo deplora Duff, col suo magistrale sarcasmo. Se, come argomentano i suoi difensori, la pena di morte ha una funzione dissuasiva, perché rendere quasi clandestine le esecuzioni capitali e non farne invece “il più grande spettacolo del mondo?”. All’alto valore pedagogico si aggiungerebbe quel tocco sanguinario che ha sempre attratto il grande pubblico. Oggi invece l’impiccagione – anche per il suo aspetto di “art pour l’art”, che tende a renderla una manifestazione elitaria – continua ad essere apprezzata soltanto da sceriffi, guardie carcerarie e rappresentanti del clero. A questo malcostume Duff vuole ovviare divulgando i fatti della cerimonia – a cominciare dalle atroci modalità della morte per strangolamento che in genere sopravviene in questi casi, invece della più celere e “pulita” morte per slogamento dell’osso del collo, che è la massima aspirazione nell’arte del boia.
7) Il processo di Norimberga, Storia Illustrata n. 156, novembre 1970.
8) L’addetto che preparò con tanta cura e meticolosità il nodo scorsoio per le corde della forca morì poco dopo in un incidente, capottatosi fuori strada con la sua auto, finì strangolato dalla cintura di sicurezza.
9) Il campo di Dachau non fa parte dell’elenco dei “campi di sterminio” della storiografia olocaustica.
10) www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=53081
11) Dennis Bark e David Gress, A History of West Germany, volume II, Blackwell, Oxford, 1989, le ultime parole di Julius Streicher prima di essere impiccato furono: “Heil Hitler! Questa è la mia celebrazione del Purim 1946. Io vado da Dio. I bolscevichi un giorno vi impiccheranno tutti”. La festa ebraica del Purim, citata nelle ultime parole, ricorda la sconfitta del nobile persiano Haman e l’impiccagione dei suoi dieci figli ricordata nel Rotolo di Ester. Haman e i suoi figli erano nemici del popolo ebraico; probabilmente Streicher fece un parallelo tra sé e gli altri nove imputati nazionalsocialisti condannati a morte (l’undicesimo, Goring, si era suicidato la notte precedente) ed i figli di Haman accusati ingiustamente dal “perverso giudeo”.
12) Telford Taylor, Anatomia dei processi di Norimberga, Rizzoli, 2005.
13) Maurice bardèche, Norimberga o la terra promessa, Effepi, 2000.
14) Giuseppe Mayda, I dossier segreti di Norimberga, Mursia, 2007.