domenica 3 marzo 2019

Lo schiavismo in Somalia fu debellatodal Governo Fascista

Lo schiavismo in Somalia fu debellato   dal primo governatore fascista

L’8 dicembre 1923, quando il de Vecchi sbarcò a Mogadiscio, molte zone della Somalia erano ancora soggette allo schiavismo praticato da diversi clan ai danni dei clan più deboli e piccoli.
Il de Vecchi con decisione volle porre fino a questa barbara usanza di sfruttamento degli esseri umani.
Ma il suo intervento creò subito alcuni attriti: “Non veniamo da lei a nessun costo poiché lei ha rotto il patto che c’era tra noi. Tutti i nostri schiavi sono fuggiti e passati dalla sua parte e lei ha dato l’ordine di liberarli – scriveva il 12 marzo 1924 il capo dei Galgial Bersane, Scek Agi Assan Bersane, al Residente italiano di Mahaddei – Quest’azione non ci rende felici. Secondo la nostra legge, noi possiamo mettere i nostri schiavi in prigione e sottoporli a lavoro forzato. Per il Profeta e per tutti i Santi, noi siamo buonissimi Mussulmani. Il governo ha le sue leggi e noi abbiamo le nostre; noi non accettiamo nessuna legge se non la nostra. La nostra legge è la legge di Allah e del Profeta; noi non siamo come altra gente, lei non ha mai visto la nostra gente arruolata come Gogles, nessuna delle nostre donne è passata dalla sua parte. Ora, se lei ci rimanda tutti i nostri schiavi, sia quelli che si sono uniti a voi prima che quelli che sono venuti successivamente, scortati da 30 o 40 Gogles, e fa tutto ciò che le stiamo chiedendo, va bene. Se lei non lo fa, noi non veniamo da lei come richiesto nella sua lettera. Noi rispettiamo tutti i Mussulmani e il governo, ma non quelli che sono in guerra con noi. Lei conosce la natura dei suoi assoggettati. Perché ha fatto questo ai nostri schiavi? Se ha bisogno di tranquillità tra i suoi assoggettati, ci faccia questo favore, altrimenti sarà ritenuto responsabile di quanto accadrà. Se verrà nella nostra terra a farci guerra, noi ci difenderemo con ogni mezzo come abbiamo fatto contro i Darvisci. Allah ha detto ‘Un piccolo gruppo può combattere e sconfiggere un grande gruppo’. Il mondo sta per finire, mancano solo 58 anni alla fine. Noi non vogliamo stare al mondo, è meglio morire in seno alla Legge Islamica. Tutti i Mussulmani sono un unico corpo compatto.”
Dunque in Somalia un nuovo ordine andava creandosi con l’avvento del fascismo, contro l’oppressione dei forti, che avrebbe creato una nuova stabilità sociale per un miglior destino di quei clan sottomessi e schiavizzati. Non c’è dunque da meravigliarsi se fra i somali ve ne fossero, non pochi, che passarono con piacere dalla parte del Governo.
Però è interessante notare come “lo stile e la sostanza della lettera sono in totale contrasto con il carattere della lotta nazionalista e anti-colonialista attribuita a questo religioso negli anni ’70 dal regime militare somalo. Lo Sheikh sembrava più preoccupato per la perdita dei suoi schiavi che per altre considerazioni. Rivendicava il diritto di sfruttare e disumanizzare altri esseri umani nati liberi come lui in nome della religione.”(2)
Lo Sheikh Hassan fu sconfitto e “i ribelli somali presto furono convinti che i pochi possono essere sconfitti dai molti.”(3)
Il capo ribelle fu catturato il 4 aprile e condannato a trent’anni di prigione dal Tribunale Regionale del Uebi Scebeli, secondo le regolari leggi della magistratura per gli ordinamenti delle Colonie, redatte prima dell’avvento del fascismo e mai modificate. Morì di malaria il 28 gennaio 1927 nella prigione centrale di Mogadiscio.
Chi dunque in tempi recenti parla di schiavismo italiano in Somalia non solo tace questi documenti ma anche fa finta di non ricordare che gli italiani, storicamente, sia ben chiaro, non hanno mai avuto tradizioni di schiavismo di sorta e che questa prassi venne portata avanti negli anni, come per esempio durante la conquista dell’Etiopia, quando il Generale De Bono, come primo atto in quelle terre promulgò, il 3 ottobre 1935, l’abolizione della schiavitù nel Tigrè.
Non va inoltre dimenticato che in Africa la tratta degli schiavi era il commercio più lucrativo che ci fosse e che per secoli aveva scoraggiato qualunque altra forma di commercio e che la sua iniquità fu una tarda scoperta della coscienza europea cristiana e l’abolizione della stessa un mero interesse commerciale inglese. Nel XVIII sec. i piantatori delle Indie occidentali, che per le loro piantagioni di zucchero si servivano di manodopera servile, iniziarono a portare con sé in Inghilterra i loro schiavi domestici divenendo un facile bersaglio per gli attacchi dei Cristiani più radicali. Nella legge inglese siccome non era previsto nulla che assomigliasse alla schiavitù, nel 1772 Lord Mansfield, a capo di un piccolo gruppo di pressione, composto soprattutto da cristiani evangelici, ebbe la sua prima vittoria attraverso una implacabile campagna contro il traffico inglese di schiavi, che arrivò più tardi anche nei territori britannici d’oltremare colpendo così l’istituto della schiavitù.
Fu così che nel 1807 il Parlamento inglese votò una legge che dichiarava illegale il traffico degli schiavi per tutti i sudditi britannici, imponendo per decreto, quattro anni dopo, multe altissime per chi seguitasse in quel commercio, sancendo così il termine della loro tratta degli schiavi.
Ma una volta abbandonata la schiavitù, l’Inghilterra si diede subito a reprimerne tale pratica da parte delle altre nazioni, non certo per pura filantropia ma per semplici ragioni commerciali: la soppressione sul piano internazionale di tale esercizio, prima che potessero svilupparsi scambi regolari fra l’Africa e l’Europa, fu dovuta a prevenire la concorrenza che avrebbe messo in crisi i loro commerci.
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di Alberto Alpozzi – © Tutti i diritti riservati
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