ELENA E IL FASCISMO CLANDESTINO
NELL'ITALIA OCCUPATA
Francesco Fatica
Elena Rega, figlia del colonnello Cosimo, superdecorato della 1°
guerra mondiale, comandante del 39° rgt. Fanteria, caduto eroicamente
in combattimento nel 1918, proprio negli ultimi giorni di guerra, crebbe
nella venerazione, nel vago ricordo del Padre e nella religione della Patria.
La Patria, come l’abbiamo sentita noi e la gran parte del popolo italiano,
sempre più profondamente legata all’Idea fascista, di cui Elena
divenne una fervente, entusiasta e fedele credente.
S’impegnò negli studi e negli sport, com’era nello stile di
vita fascista; fu appassionata particolarmente di atletica leggera fino
a divenire nel 1939 campionessa nazionale di ginnastica artistica. Il relativo
brevetto le fu consegnato a Palazzo Venezia e poi furono introdotti, Lei
e gli altri campioni, dal Duce. E di ciò fu sempre orgogliosa.
S’era iscritta alla facoltà di Chimica ed ovviamente aderì
al GUF (Gruppo Universitario Fascista) di cui divenne ben presto Fiduciaria
Femminile (dal 1938 fino al 1943, data in cui Badoglio fece sciogliere
il PNF, Partito Nazionale Fascista, e le sue organizzazioni).
Laureatasi a pieni voti, è stata l’unica analista del Laboratorio
dell’Istituto d’Igiene e Profilassi della provincia di Napoli, di cui divenne
vice direttrice.
Mobilitata civile, usava la sua potente motocicletta "Bianchi
freccia d’oro" per gli spostamenti, in città e in provincia,
inerenti ai Suoi compiti d’ufficio. Per poter più agevolmente cavalcare
il suo "cavallo d’acciaio", vestiva eleganti abiti sportivi di
foggia maschile, da Lei stessa ideati, che precorsero i tempi di cinquant’anni,
ma che all’epoca costituivano un abbigliamento rivoluzionario, poco accettabile
per il volgo e per i borghesi bigottamente conformisti e conservatori.
Ma dei commenti di costoro la nostra irruente Camerata s’infischiava, mostrando
così un aspetto esplosivo del suo carattere forte e ribelle ad ogni
pecorile conformismo.
La guerra Erano i tempi difficili ed eroici della guerra. Napoli presa
di mira quotidianamente, notte e giorno, dai bombardieri "alleati",
era stata danneggiata gravemente in tutte le sue strutture; erano i tempi
eroici in cui Riccardo Monaco e pochissimi altri piloti, votati alla morte,
si alzavano in volo con i loro minuscoli aerei da caccia per attaccare
le cosiddette "fortezze volanti"; erano i tempi in cui era difficile
sopravvivere a Napoli; si viveva praticamente rintanati, notte e giorno,
nei rifugi antiaerei, nelle gallerie della metropolitana, nei mille cunicoli
e vani sotterranei dell’antico acquedotto romano.
Ma la nostra Elena Rega, mobilitata civile ligia al dovere fino all’eccesso,
più e più volte sfidò la sorte avversa e gli odiati
bombardieri, a bordo della sua veloce motocicletta; moderna amazzone, combatteva
la sua battaglia: correva a svolgere il suo dovere con ardore di vestale,
e con cuore di guerriero, incurante del pericolo.
Ma ciò non la distoglieva tuttavia dal soccorrere la povera
gente che aveva bisogno d’aiuto; più di una volta portò a
casa sua povere donne e bambini che avevano fame, che avevano bisogno di
fare una doccia.
Allora a Napoli mancava tutto e molto spesso anche l’acqua e poi, tanti
erano coloro che erano rimasti senza casa. La solidarietà patriottica,
cristiana e fascista di Elena Rega ebbe molte occasioni di manifestarsi
allora, ma pure in seguito uniformò appassionatamente sempre la
sua condotta di vita a questa sua connaturata solidarietà, ed ebbe
perciò tanta carità anche nei riguardi degli altri esseri
viventi.
Per ragioni del suo ufficio fu inviata a far le analisi delle acque
delle Terme di Castellammare di Stabia, inquinate, ma che si raccomandava
dai superiori di far apparire potabili.
La dottoressa Rega, rigorosamente ligia al dovere, non si piegò
alle disposizioni avute ed ovviamente i "superiori" se la legarono
al dito.
I 45 giorni Ma vennero i giorni del tradimento, i giorni in cui le
oscure manovre del re e dei massoni del suo entourage esplosero apertamente
nella "seduta del Gran Consiglio del 25 luglio".
Elena reagì con tutta la vitale irruenza del suo carattere forte
e spontaneo: incitava tutti i camerati del GUF a reagire, a mantenersi
uniti, a prepararsi alla riscossa. Insieme a Lucia Vastadore e altri camerati,
ebbe violente discussioni con Nicola Foschini, Fiduciario Provinciale del
GUF di Napoli, il quale invece era fermo nel suo proposito di "dare
le consegne" alla nuova burocrazia, autonominatasi "democratica".
Con Lucia Vastadore e con altri camerati del GUF e della Legione della
Milizia Fascista Universitaria "Goffredo Mameli", Elena si prodigava
a svolgere propaganda, a rincuorare gli sfiduciati, a raccogliere gli sbandati.
Non era facile, oltre tutto i bombardamenti avevano distrutto mezza Napoli,
molti erano dovuti sfollare nei paesi, in campagna o farsi ospitare da
parenti. I mezzi di comunicazione erano stati colpiti gravemente e venivano
ripristinati faticosamente dovendo superare enormi difficoltà, sicché
si erano persi i collegamenti.
Dobbiamo considerare però che il re e Badoglio si erano affrettati
a dichiarare solennemente: «La guerra continua».
E la guerra continuava sul serio, al fronte anche se con sfortunate
vicende, non prive di atti di eroismo da parte di singoli o di piccoli
repar ti. E la guerra continuava, sempre più terroristicamente,
anche sul fronte interno.
Questa strategia di continuità, quanto mai opportuna per i "badogliardi",
questo insistente richiamo alla realtà della guerra che continuava,
ebbe la prevista e voluta conseguenza di mantenere fermi e disciplinati
i fascisti, che, educati a tenere il culto e l’interesse della Patria al
di sopra di ogni altro interesse, non potevano prendere in considerazione
l’ipotesi di una ribellione o di sommosse e neanche di chiassate di piazza,
che potessero in qualche modo ledere il fronte interno, mentre gli altri
camerati si battevano eroicamente al fronte contro forze nemiche preponderanti.
Quindi i fascisti si incontravano, quasi clandestinamente, in case
private, in piccoli gruppi spontanei e disorganizzati.
Intanto i gerarchi del fascismo più autorevoli erano stati mobilitati
e spediti lontano. Ettore Muti fu ucciso a tradimento; i reparti della
Milizia erano stati incorporati nel Regio Esercito, cambiati i comandanti
con uomini di fiducia sabauda, così i badogliani avevano fraudolentemente
disgregato le forze sane della Nazione, approfittando della forzata inerzia
dei fascisti.
Nel frattempo in città, come avveniva anche altrove, bande di
giovinastri e di perditempo, guidati e assoldati da agitatori comunisti,
si dedicavano a gesti vandalici nei riguardi di targhe, lapidi e simboli
fascisti, spesso anche di un certo valore artistico. I giovani del GUF,
con alla testa l’architetto Antonio de Pascale, invalido della guerra di
Grecia, Vito Videtta, Natale Cinquegrani e Lello Balestrieri, andavano
a caccia di queste squadre di teppisti e attaccavano briga per impedire
i loro vandalismi; ebbene Elena Rega e Lucia Vastadore pretendevano di
prender parte anche a questa specie di "spedizioni punitive",
nonostante che i maschi facessero di tutto per dissuaderle. Queste imprese
si concludevano spesso in violenti pestaggi e tafferugli.
La resa Ma quando venne reso noto il cosiddetto "armistizio",
che invece, come ormai sappiamo, era una vera e propria resa senza condizioni,
allora i fascisti si sentirono finalmente liberi di affrontare gli avversari;
lo stratagemma che li aveva inchiodati ad una disciplinata attesa, la frase:
«La guerra continua» che li aveva mantenuti fermi e subordinati,
non valeva più.
Elena, invasa dallo sdegno e dalla rabbia, moltiplicò i suoi
sforzi per riannodare le spezzate relazioni con i camerati dispersi in
tanti nuovi domicili; finalmente erano finiti i bombardamenti, ma la città
purtroppo era caduta in preda ai disordini che si incrementavano sempre
peggio: prima i saccheggi dei depositi e dei magazzini militari abbandonati,
quindi uomini irresponsabili svuotarono le carceri, poi cominciarono le
sparatorie, i posti di blocco; mancava tutto, mentre l’esercito s’era completamente
dissolto, pochi partigiani disturbavano la ritirata in atto dei tedeschi
e provocavano rappre saglie, delinquenti di ogni risma, armati, a guisa
di partigiani, delle armi abbandonate dal Regio Esercito, ne approfittavano
per razziare e poi devastare tutto quel che non potevano rubare nelle case
dei fascisti; ma chi all’epoca poteva dire di non essere stato fascista?
Quindi furono prese di mira molte case di benestanti dovunque vi fosse
la possibilità di fare un ricco bottino.
Le cose precipitarono. Qualche fascista perse ogni fiducia in una possibile
riscossa. Ci fu chi prese le armi che riuscì a trovare e sparò
disperatamente.
Aveva visto crollare, con la sconfitta del fascismo, il mondo intero;
i partigiani sparavano e per reazione, anche tanti fascisti spararono:
isolatamente, spontaneamente, disorganizzatamente, ma disperatamente cercando
la morte, tuttavia trascinando con loro quanti più nemici potessero
colpire.
Molti altri partirono per continuare a combattere con l’alleato tedesco,
per l’onore d’Italia.
Altri ancora, feriti, invalidi, costretti a restare a Napoli, decisero
di continuare la lotta per l’affermazione dell’Idea, per reagire allo sfacelo
morale e mostrare al mondo intero e agli stessi occupanti , mascherati
da "liberatori", in un grottesco carnevale con lenoni, "segnorine",
ladri e borsari neri, che non tutti gli italiani si potevano comprare con
le amlire o con le PallMall.
Si ritrovarono in pochi: i migliori.
Solevano riunirsi a casa del camerata Carlo e del figlio Antonio Picenna.
Elena era con loro, sempre presente, sempre piena di fede, sempre generosamente
pronta a dare la sua opera, sempre sollecita e valida nel portare il suo
rigoroso contributo progettuale.
Più tardi su invito di Francesco Barracu, a mezzo radio della
RSI arrivarono a Napoli dalla Calabria i principi Pignatelli per prendere
contatti con i camerati di Napoli e dare un impulso unitario al movimento
clandestino fascista.
I principi si sistemarono in una villetta al Calascione; Elena e la
principessa Maria simpatizzarono subito e s’intesero perfettamente di primo
acchito. Ma anche il principe seppe apprezzare immediatamente la viva intelligenza
e le altre qualità positive di Elena, di cui, spesso, voleva ascoltare
il parere assieme a quello della principessa.
Si ritrovarono al Calascione diverse volte, Elena Rega, Antonio de
Pascale, Nando di Nardo, il colonnello Guarino, il ten. di vascello Paolo
Poletti, ma poi ritennero prudente cambiare spesso il luogo d’incontro.
Nella villetta del Calascione i Pignatelli invitavano frequentemente
a cena generali "alleati", il capo del SIM badogliano e altre
personalità che potevano, conversando "liberamente", magari
un po’ troppo, dopo una lauta libagione, rivelare notizie militari o politiche,
che sarebbe stato opportuno tenere riservate, e che riuscivano invece di
grande utilità per la RSI e gli alleati tedeschi, una volta ricevute
le relative comunicazioni radio.
Ad una di queste cene furono invitati anche Elena Rega, Antonio de
Pascale e Nando Di Nardo, in quanto, essendo stato invitato il gen.
Wilson, Pignatelli prevedeva una più larga messe di notizie,
che tutti avrebbero dovuto sforzarsi di memorizzare.
Fu necessario fornirsi di adeguati abiti scuri, e l’inesauribile Elena
Rega provvide a reperire da uno zio scapolo, che era stato fanatico della
cosiddetta "buona società", gli abiti più convenienti,
che però dovette correre a prendere in moto nel casi no di campagna
dello zio. Furono poi mobilitate le sorelle dell’architetto per adattare
e sistemare questi abiti.
La sera si presentarono tutti e tre, elegantissimi, ma pure seccati
di dover fare le comparse mondane e per di più, poi, proprio con
gli "Alleati", che, oltre tutto, ancora una volta sfoggiarono
la loro maleducazione (american life). Wilson e gli altri, semi sdraiati
sulle poltrone, con le gambe poggiate in alto, bevevano, anzi tracannavano
e parlavano "a ruota libera", i nostri tre, assieme ai principi,
ascoltavano attentamente, rispondevano a monosillabi o provocavano chiarimenti
e …memorizzavano.
Elena Rega aveva l’abitudine di sfogarsi tracciando in un suo diario,
sui generis, pungenti ritratti delle persone conosciute, pur facendo bene
attenzione a non scrivere nulla che dovesse rimanere segreto. Così
tornò dai Pignatelli col suo "lavoro", che fece molto
divertire i principi, ma poi, più concretamente, passarono tutti
a mettere insieme e riordinare le informazioni raccolte nella serata precedente
in modo da avere un quadro il più possibile completo della situazione
politica e militare. Queste preziose notizie venivano poi trasmesse in
codice a mezzo radio al Nord.
Fascismo clandestino Quando, più tardi, fu vigliaccamente assassinato
a Firenze Giovanni Gentile, Elena ne fu particolarmente colpita, trovando
nei camerati del vertice clandestino fascista lo stesso sdegno e la stessa
volontà di reagire. Si ritrovarono tutti, in effervescente, solidale
agitazione, a casa Pignatelli: i principi, Elena, de Pascale, Di Nardo
e Guarino. Si progettava febbrilmente una reazione, ma non come avrebbero
certamente pensato i nostri nemici: cioè spargendo sangue fraterno
al Sud.
In diverse sedute prese corpo l’audace progetto di far commemorare
Giovanni Gentile a Firenze dal filosofo Benedetto Croce, che, nobilmente
memore dell’antica amicizia, aveva già acconsentito, tramite l’editore
Casella, vicino di casa e frequentatore abituale dei Pignatelli, ma del
tutto ignaro ed estraneo al movimento clandestino.
La difficoltà maggiore, ovviamente, era quella di trasferire
Croce a Firenze e di riportarlo sano e salvo a Sorrento, dove abitava.
Si fecero molte animate discussioni, si presero contatti con la RSI e con
gli alle ati tedeschi, che misero a disposizione per la particolare operazione
un sommergibile medio che avrebbe atteso l’illustre ospite avversario,
ma gentiluomo nelle acque degli isolotti dei Galli, di fronte a Positano;
i tedeschi avevano carte nautiche dettagliate di quella zona particolare,
con tutte le quote degli scandagli del fondo marino. Era stato contattato
anche il comando della X a MAS, che aveva messo a disposizione gli agenti
speciali dislocati nei dintorni di Napoli, i quali avrebbero dovuto scortare
con un rapido motoscafo il filosofo fino al trasbordo sul sommergibile.
Fu deciso che avrebbero scortato Croce anche Guarino e de Pascale,
che avrebbero risposto di persona dell’incolumità del filosofo.
Furono tenute molte riunioni, in cui vennero studiati i più
minuti dettagli.
Valerio Pignatelli, però, prese la precauzione di non tenere
tutti al corrente di tutto, se non per i dettagli che li avrebbero interessati
direttamente, o per cui era richiesta la loro particolare consulenza.
Anche nell’elaborazione di questo complesso piano, Pigna (così
si faceva confidenzialmente chiamare il principe) non trascurò di
consultare la principessa Maria ed Elena Rega, che, oltre ad essere particolarmente
intelligente era ben allenata per la sua professione ad essere anche precisa
e attenta a non trascurare ogni benché minimo particolare.
Ma per effettuare l’audace piano bisognava superare le titubanze di
Mussolini, che temeva per l’incolumità dell’avversarioospite.
Per quanto fossero stati attentamente studiati i particolari esecutivi,
pure non si poteva escludere una qualche imprevedibile circostanza avversa
di guerra. Pertanto l’esecuzione doveva essere rimandata fino all’ottenimento
dell’assenso del Duce.
Avendo programmato il famoso viaggio della principessa Maria in RSI,
per incontrarsi col Duce, fu deciso che Maria Pignatelli avrebbe tentato
di convincere Mussolini, durante il colloquio che era stato prestabilito.
Purtroppo, come sappiamo, al suo ritorno dal Nord, Maria Pignatelli
fu arrestata, dopo breve latitanza, per cui fu ospitata anche in casa di
Elena Rega, e seguì a breve l’arresto dello stesso principe e poi
di Guarino e Di Nardo.
La prigionia Restò quindi de Pascale ad impartire le direttive
del fascismo clandestino a Napoli ed in tutto il Sud. Il sospettoso e furbastro
maggiore Pecorella, del CS, il controspionaggio badogliano, fece arrestare
Elena Rega, ritenendola l’anello più debole della catena, ma aveva
fatto male i suoi conti.
Per fiaccarne la resistenza la fece rinchiudere nel carcere di Poggioreale,
ovviamente nel padiglione femminile, dove pure c’era una sezione politica.
Tuttavia il nostro becero maggiore, sprezzando ogni regolamento riguardo
ai detenuti politici, di prepotenza la fece espressamente rinchiudere in
cella con prostitute, ladre, accattone e borsare nere, che dapprima tentarono,
secondo quanto aveva previsto il plebeo maggiore, di offendere violentemente
una persona così diversa dalla loro miseria morale. Ma avvenne un
fatto straordinario: una di quelle disgraziate creature si erse a difesa
della dottoressa, parandosi davanti alle compagne più aggressive,
pronta ad artigliarle con le unghie protese in attacco. «Nooo!»,
urlò. E raccontò a tutte quelle megere ammansite come la
"dottoressa" l’aveva accolta in casa sua e tenuta a pranzo con
i suoi figlioletti, dopo che tutti loro, mamma e bambini, avevano potuto
fare una doccia.
Da allora in poi tutte le portarono rispetto e perfino devozione, come
sanno fare talvolta le persone colpite dalla disgrazia.
Ma nell’abietto cuore di Pecorella non potevano albergare ovviamente
sentimenti simili.
Lo spietato maggiore si beava nel vedere la sua vittima sudare freddo
sotto stringenti ed estenuanti interrogatori, sforzandosi di non rivelare
in altro modo il suo tormento. L’accanito inquirente tentò tutte
le sue consumate arti per convincere la sua "preda" a fare una
sia pur piccola ammissione: tentò con la blandizie, che mal gli
riusciva di fare, e tentò con le minacce che riuscivano naturalmente
spontanee, più credibili ed efficaci. Aveva scoperto, l’aguzzino,
che quella giovane donna, che teneva sotto i suoi metaforici artigli, non
solo aveva una enorme stima di Tonino de Pascale, ma ne era proprio innamorata.
Così tentò di terrorizzarla minacciando terribili ritorsioni
sull’oggetto dei suoi sentimenti. Tuttavia, come sappiamo, Elena Rega,
non solo aveva un carattere forte e coraggioso, ma era estremamente intelligente
e non si lasciò giocare dal rozzo e vanesio maggiore, neanche quando
questi le dichiarò, in tono suadente e quasi paterno, che da lei
e soltanto da lei dipendeva la salvezza del suo amato. Naturalmente tali
manovre laceravano l’animo di Elena, ma lei si sforzava di non darlo a
vedere e probabilmente ci riusciva, perché vedeva benissimo, da
quella attenta analizzatrice delle persone che era sempre stata, che il
Pecorella si arrabbiava stizzosamente.
Il sadico torturatore aveva fatto arrestare già una volta de
Pascale, rilasciandolo, poi, dopo una ramanzina, ma tenendolo d’occhio,
sperando che si scoprisse con qualche mossa falsa.
Nel frattempo però il controspionaggio "alleato" ruppe
gli indugi e procedette all’arresto di de Pascale con un tragicomico e
scenografico copione da operetta, circondando tutto l’isolato dove abitava
ed intimando con altoparlanti ai cittadini della zona di restare in casa.
Arrivarono, nella cieca foga della loro arrogante irruenza poliziesca,
ad arrestare qualche altro incauto, ma innocuo passante.
Gli abitanti del rione e la folla dei curiosi rapidamente radunatasi
videro scendere l’architetto fortemente scortato e portato via su una jeep,
che dovette aprirsi la strada tra due ali di folla.
La notizia fece il giro della città e per vie misteriose giunse
al carcere di Poggioreale; fu riferita ad Elena con mille precauzioni per
quell’intuito femminile che aveva fatto presagire qualcosa alle sue disgraziate,
ma ormai solidali compagne.
Naturalmente Elena ne soffrì enormemente, pur non potendo conoscere
i particolari spaventosi a cui fu sottoposto il suo Tonino, su cui Pecorella
sfogava la sua impotenza di sbirro, facendolo addirittura biliosamente
imprigionare in manicomio e pretendendo, contro ogni regola, che fosse
rinchiuso nella stessa cella dove imperversava un pazzo furioso. Tonino
de Pascale per difendersi era costretto a barricarsi addirittura sotto
la branda. Ma c’è ancora di peggio; de Pascale aveva ancora una
brutta ferita di guerra aperta sulla spalla, che secerneva pus e che aveva
bisogno di continue medicazioni.
Una suora caritatevole lo soccorreva di tanto in tanto, approfittando
dei momenti di stanca del pazzo furioso, portandogli garze sterili e disinfettanti.
Il badogliano maggiore Pecorella pensava di trovare de Pascale annichilito
dopo un tale trattamento, ma dopo molte sedute di interrogatori dové
convincersi che era tutto tempo sprecato.
Poi l’architetto de Pascale fu trasferito; doveva essere portato al
carcere di Poggioreale, i carabinieri che dovevano scortarlo erano stranamente
armati di mitra e portavano addirittura l’elmetto. Durante la traduzione
improvvisamente il portellone del furgone si spalancò, producendo
un assordante rumore, , il vecchio trabiccolo però, come se l’autista
(che non poteva non aver sentito) fosse complice, continuò la corsa
rallentando solo un poco. I carabinieri puntarono i mitra aspettando che
l’architetto cogliesse l’occasione per sgattaiolare via, ma questi ebbe
nervi saldi e non si mosse, guardando fissamente negli occhi i suoi malintenzionati
custodi. Così fu bussato all’autista che questa volta sentì;
il portellone fu chiuso dall’esterno e de Pascale fu portato ancora vivo
a Poggioreale.
Elena Rega non conobbe i particolari della criminale persecuzione di
Pecorella, se non molto più tardi; tuttavia la sua sensibilità
femminile, il suo perspicace intuito, le facevano temere il peggio: temeva
per Tonino, non temeva per sé. Era questo il maggior tormento della
sua prigionia.
Intanto i segugi del CIC (Counter Intelligence Corp) e del FSS (Field
Security Service), i servizi di controspionaggio americano ed inglese,
avevano esaminato i diari di Elena Rega, dove Ella era solita schizzare
sfoghi politici e saporose descrizioni denigratorie degli antifascisti
più in vista, e vi avevano trovato anche il ritratto, ovviamente
molto critico e pungente, del maggiore Pecorella; così, divertendosi
un po’ malvagiamente, chiesero ad Elena di leggere il pezzo che riguardava
Pecorella in presenza dello stesso. Ella non si fece pregare: coraggiosamente
lesse all’allibito ed umiliato maggiore quanto aveva scritto già
prima ancora di conoscere personalmente i suoi metodi, ma dovette sforzarsi,
lucidamente, di non aggiungere considerazioni più attuali e ben
più aggressive.
Francesco Fatica Elena
aveva un carattere fortemente impulsivo, ma riusciva, con la sua intelligenza
e forza morale, a dominarsi perfettamente quando lo richiedevano le circostanze.
Finalmente Pecorella
si stancò di infierire contro una donna che sembrava invulnerabile,
o forse, più probabilmente, furono gli "Alleati" che ritennero
di porre fine ai vani sforzi di Pecorella.
A questo punto,
per capire meglio lo svolgimento di vicende del fascismo clandestino, debbo
riportare brevemente un aspetto dei retroscena di quel periodo storico.
Tra gli ufficiali
dei servizi di controspionaggio "alleati" , in particolare nel
CIC americano, c’erano alcuni anticomunisti, che combattevano, sì,
la loro guerra senza esclusioni di colpi, ma si preoccupavano anche, intelligentemente,
del dopo.
Le regioni dell’Italia
occupata erano minacciate da un partito comuni sta, agli ordini di Mosca,
sempre più virulento; al Nord, loro stessi erano costretti a servirsi
dei partigiani comunisti, ma si rendevano conto che questi avrebbero minacciato
ancora peggio l’indipendenza della nazione italiana, in quanto erano al
servizio di Mosca. Degli uomini che si erano schierati con Badoglio e con
il re non avevano alcuna stima: avevano tradito una volta, avrebbero "badogliato"
ancora.
Dunque era necessario
preservare per le prevedibili future lotte anticomuniste, quegli italiani
che avevano dimostrato di avere una forza morale integerrima. E che si
sperava, come poi avvenne, di poter schierare, a difesa anche (e purtroppo
soprattutto) dei loro (americani) interessi, nella lotta anticomunista.
Capitava così
che (paradossalmente, ma fino ad un certo punto) alcuni "Alleati"
usassero preservare i fascisti più coraggiosi: quelli che si erano
esposti nel dissenso e nella lotta clandestina, e perché no, appena
fosse fattibile, tentassero preservare anche quegli agenti speciali della
RSI che era possibile sottrarre ai plotoni di esecuzione. Un solo esempio:
Carla Costa.
Per liberarli dalle feroci rappresaglie
dei loro biliosi avversari connazionali: li tenevano in campo di concentramento
per la durata della guerra. Ad altri toccò di restare in carcere,
ma per quegli americani c’era lo stesso impegno: non dovevano essere
abbandonati alla libidine di sterminio degli antifascisti.
Gli "Alleati" si illudevano
anche di rieducare alla democrazia i fascisti reclusi in questi campi,
ma usavano metodi controproducenti, anche perché i campi di concentramento
e le carceri erano gestiti da personale rozzo e prepotente, non proprio
scelto al meglio.
Dunque Elena Rega non fu fucilata, non
fu neanche condannata a morte; non fu giudicata da un tribunale militare
italiano, a cui pure era stata deferita e da cui fu incriminata per reati
punibili con la pena di morte, assieme ai Pignatelli, a de Pascale e ad
altri uomini di punta del fascismo clandestino e della X a MAS e allo stesso
Junio Valerio Borghese.
Il processo fu bloccato; il relativo incartamento
è tuttora "coperto dal segreto di Stato".
Per sottrarre Elena dalle grinfie dei
vari "Pecorella" al soldo dell’invasore, fu inviata "in
campo di concentramento per la durata della guerra".
"Premesso che l'immigrazione a livello sociale,
sta creando numerosi problemi alla collettività, degrado, insicurezza,
abbassamento costo del lavoro, ingiustizie sociali drammi a cui noi
cittadini Italiani siamo costretti a vivere quotidianamente, vediamo gli
immigrati in hotel oppure a bivaccare nelle piazze di ogni città, al
contrario noi tra tasse e precarietàfacciamo fatica ad arrivare alla
fine del mese.
Questi giorni a seguito dello sgombero del palazzo di Via
Curtatone abbiamo avuto modo di confrontarci con le persone, leggere
post e sentire grida di odio da parte di politici e dei partiti nei
confronti degli stranieri. I traditori della nostra Patria, in questo
modo, spostano l'attenzione dai reali responsabili dei problemi del
nostro paese!
Ad aver buttato in mezzo a una strada, lavoratori Italiani a 50 anni,
non è stato uno zingaro e nemmeno un africano. E’ stato colui che tutto
muove il "massone" Carlo De Benedetti. A fare degli italiani un peso
morto per la nostra società, è stata l'indegna signora Fornero.
A fingere di difendere i lavoratori, ma nel frattempo si facevano i
cazzi loro, non sono stati gli extracomunitari, ma i nostri sindacati
servi del sistema.
A prendere per il culo il popolo italiano dicendo una cosa e facendo l’opposto, è stato il "buffone" Renzi, non i rumeni.
A stravolgere il nostro paese facendolo diventare il paese dei
balocchi anziché imporne il rispetto, è il parlamento illegittimo
italiano, non quello tunisino.
A distruggere sanità e istruzione, sono stati i governi italiani dal dopoguerra ad oggi, non i rom.
A svendere i nostri settori strategici alle multinazionali straniere
sono stati i politicanti degli ultimi 70 anni del nostro paese, non
quelli del Congo.
A vessare con metodi medioevali chiunque provi a sopravvivere con il
poco che riesce a racimolare, sono i funzionari italiani, non libici.
A vendere o delocalizzare verso altre nazioni tutte le principali
aziende italiane, non sono stati i marocchini, ma gli imprenditori
italiani, Marchionne, Tronchetti Provera e quelli come loro.
A spingere al suicidio centinaia di poveri italiani disperati, sono stati i governanti italiani, non i profughi.
A sfruttare ogni disgrazia per guadagnarci milioni per ridistribuire
briciole, sono le grandi cooperative italiane, non quelle serbe.
I banchieri internazionali che ci rendono schiavi non sono ne Africani e ne indiani.
Mafia Camorra e Ndrangheta sono associazioni criminali Italiane non
dell’est Europa che fanno il buono e il cattivo tempo nel nostro paese
dalla caduta del regime Fascista
La Boldrini è Italiana non Egiziana ed è asservita ai poteri forti
per la distruzione del nostro paese con leggi e prese di posizione
assurde, vediamo se ha il coraggio di andare a guardare in faccia e
scusarsi per quello che la sua politica ha creato alla giovane coppia
Polacca aggredita dalle sue risorse.
L'immigrato è solo l'ultimo anello di una catena ormai marcia, che solo noi Fascisti possiamo spezzare, non facciamoci fregare!
L'odio teniamolo per chi ha rovinato questo paese e la nostra storia,
non verso chi usa le leggi di questo imbarazzante stato, prendiamocela
con chi le fa!
Gli immigrati una volta cacciata la nostra classe politica, vanno
riportati nei loro paesi di origine ed aiutati li aiutarli con
investimenti mirati (non come si è fatto finora che si è andati nei
paesi del terzo mondo solo per sfruttarli), in questo modo nessuno
avrebbe più la necessità di venire a trovare fortuna nel nostro paese,
ma sopratutto leggi certe che chiunque sbagli in Italia (Italiani
compresi) paghi pesantemente!
Cacciamo i traditori, basta lotte tra poveri, riprendiamoci la nostra
amata Italia, in ogni Patria che si rispetti è il popolo ad essere
sovrano, in Italia, purtroppo , in questo momento a farla da padrone ci
sono i politici corrotti e senza scrupoli asserviti ai poteri forti che
vogliono solo schiavi per il giochino del produci e consuma che
quotidianamente siamo costretti a vivere, riprendiamoci la nostra vita
riprendiamoci la nostra LIBERTÀ!” #ErnestoMoroni
Presidente #AzioneFrontale
L’assassino Sandro Pertini e chi lo salvò…. Benito Mussolini
Caro Nobécourt,
ho avuto solo ieri occasione di leggere su “Le Monde” del 29 aprile scorso il tuo pregevole articolo “Il y a quarante ans, l’execution sommaire de Mussolini”;
e poiché si tratta di un articolo dichiaratamente storico, e contiene
qualche inesattezza, credo che i lettori del vostro giornale abbiano
diritto a delle precisazioni, per obiettività e
completezza d’informazione. In quell’articolo, in effetti, si afferma fra l’altro:
1. che ad ordinare l’uccisione di Mussolini fu il “comitato insurrezionale” partigiano,
e cioè un triunvirato formato da Luigi Longo (comunista),
Sandro Pertini (socialista) e Leo Valiani (del Partito d’Azione), ma che
il ruolo determinante, in questa faccenda, lo ebbe verosimilmente Luigi
Longo;
2. che il giorno dopo l'”esecuzione”, il 29 aprile 1945, i cadaveri di
Mussolini, Claretta Petacci e degli altri “giustiziati”, che erano stati
appesi per i piedi alle rampe di una pompa di benzina a piazzale Loreto a Milano, vi furono staccati per ordine di Pertini;
3. che quell’esecuzione (realizzata materialmente da un gruppo di
partigiani capeggiati da Walter Audisio, detto Colonnello Valerio) ebbe
comunque il consenso più o meno tacito di tutti i partners del gioco
politico dell’epoca comprese le destre, il Generale Cadorna (comandante
militare delle forze partigiane) e lo stesso Pietro Nenni, già amico di
Mussolini ma poi diventato suo avversario e ormai diviso da lui da
troppo sangue versato. E, in definitiva, che ebbe anche il consenso di
inglesi e americani;
4. che in particolare gli americani avevano sì mandato tre missioni
per recuperare Mussolini, ma senza fretta. E gli inglesi non si erano
affatto curati del Duce;
5. che tutti costoro preferirono che Mussolini fosse ucciso
sommariamente piuttosto che processato, poiché si sarebbe trattato di un
processo più che a lui, alla politica italiana degli ultimi venti anni;
e dunque il Duce ne poteva uscire ben vivo, e magari riabilitato, come
ti aveva a suo tempo dichiarato lo stesso Longo
“Se non
l’avessimo giustiziato sarebbe stato, due ore dopo, nelle mani degli
americani e vivrebbe oggi con un pensione di ex-Presidente del
Consiglio”.
Al riguardo debbo osservare:
1. per l’ordine di uccidere Mussolini, più che Longo fu determinante
Pertini in quanto rappresentava il Partito Socialista, all’epoca la più
importante fra le forze politiche della Resistenza italiana. In questo
partito lui aveva un peso decisivo che gli aveva consentito, ad esempio,
di essere determinante -e questo lo riconosci nel tuo articolo- anche
nel rifiuto della proposta, avanzata da Mussolini, di trasferire i suoi
poteri al Partito Socialista. Più precisamente, Pertini diede a Walter
Audisio l’ordine perentorio di recarsi a Dongo con un gruppo di uomini
scelti con cura, farsi consegnare Mussolini e i gerarchi catturati e ucciderli a tutti i costi prima che qualcuno potesse impedirlo.
Siccome però i partigiani che avevano catturato il Duce erano
riluttanti a cederlo (intendevano consegnarlo direttamente agli Alleati,
secondo le istruzioni che da tempo
costoro avevano diffuso largamente e ripetutamente fra i partigiani)
Audisio doveva ingannarli, facendo loro credere che avrebbe condotto i
prigionieri appunto dagli alleati. Audisio si presentò ai partigiani di
Dongo esibendo un ordine scritto firmato da Pertini, di consegnarli
Mussolini e gli altri.
Quei partigiani in un primo tempo rifiutarono, ma Audisio riuscì alla
fine a convincerli, ribadendo che avrebbe condotto Mussolini dagli
Alleati senza torcergli un capello. Invece quando lo ebbe nelle mani,
dopo pochi chilometri precisamente a Giulino di Mezzegra- lui e gli
altri del suo “commando” lo uccisero (o, come tu scrivi, lo massacrarono)
insieme agli altri prigionieri, secondo gli ordini di Pertini. Tutto
questo è confermato da numerose fonti ben degne di fede, e concordanti.
Mi limito qui ad indicarne una, particolarmente qualificata: la M.O.
della Resistenza Giovanni Pesce, tuttora vivente, e il suo libro “Quando cessarono gli spari” pubblicato anni fa dalla Feltrinelli, che queste circostanze narra nei dettagli senza mai essere state smentite. 2. Quell’uccisione non ebbe affatto il consenso generale, tutt’altro.
Nessuno dei leaders occidentali e ben pochi dei capi partigiani la
volevano, non confondendo certo il Duce con Hitler. Gli Alleati non si
erano affatto disinteressati della sorte di Mussolini. In particolare
gli americani, oltre ad inviare le tre missioni di cui tu parli, avevano
diramato in lungo e in largo, fra i partigiani italiani, l’istruzione
precisa che nel caso lo avessero catturato dovevano consegnarlo
direttamente, e ben vivo, agli Alleati. Gli Alleati riconoscevano in
effetti a Mussolini -come perfino ai criminali di guerra nazisti- il
diritto a un processo. E in quello che si farò, a Norimberga, fra gli
imputati era previsto anche lui, come precisa fra gli altri lo storico
Silvio Bertoldi che nel suo “Norimberga: guai ai vinti” (pubblicato anche come supplemento al n. 14/85 del settimanale “Oggi”) scrive: “A Norimberga avrebbe dovuto esserci anche Mussolini”.
Chiaro che, essendoci una bella differenza fra il Duce e i criminali
di guerra nazisti, era probabile che lui da quel processo sarebbe uscito
vivo, e magari “riabilitato” in tutto o in parte, come ti confermò Longo.
3. Quanto a Nenni, e a tanti altri capi antifascisti, non solo non
diedero il loro consenso all’uccisione di Mussolini, ma non perdoneranno
mai a Pertini quell’“esecuzione” che giudicavano di una degradante vigliaccheria.
Tanto più che, se Pertini era vivo e sano, lo doveva in gran parte
proprio a Mussolini. Quando difatti era stato a sua volta -alti e bassi
della vita- nelle mani del Duce (era stato arrestato e condannato per
cospirazione contro lo Stato) Pertini era gravemente ammalato di
tubercolosi, malattia da cui all’epoca difficilmente si guariva da
liberi, e figurarsi in prigione. Sarebbe stato facile dunque a
Mussolini eliminare definitivamente questo suo accanito nemico, poiché
nessuno si sarebbe sorpreso se in carcere la malattia avesse seguito il
suo corso abituale, e magari Pertini fosse deceduto. E invece il Duce
(sollecitato da Nenni, suo vecchio amico e conterraneo, anche se
diventato suo avversario politico) gli fece fare cure così assidue ed
efficaci da guarirlo completamente, al punto che Pertini è arrivato
all’attuale età in condizioni di salute ed efficienza eccezionali.
4. Anche per l’esposizione di
piazzale Loreto -che resta tuttora una macchia per la nostra Resistenza,
e tanto ha danneggiato l’immagine
dell’antifascismo e del popolo italiano- Pertini fu determinante. Pur
volendo supporre che non abbia ordinato precisamente di appendere
quei cadaveri per i piedi in quel piazzale (cosa comunque difficile da
escludere avendo lui concepito e pilotato fin dall’inizio l’“operazione massacro”)
non c’è dubbio che senza l’esecuzione non ci sarebbe potuta essere
neanche l’esposizione. Vero è che lui ha poi cercato di giustificarsi
sostenendo di essere intervenuto per farla finire. Ma in realtà ad
intervenire, più che
lui, fu Pietro Nenni, proprio nei suoi confronti e in modo durissimo. E
così Pertini dovette muoversi a farli staccare, quei corpi, ma non lo
fece certo a gran velocità, vista l’ulteriore durata dello spettacolo.
Si tratta di un dettaglio ben conosciuto da chi visse da vicino queste
cose, e mi consta personalmente poiché sono stato socio, in una casa
editrice, proprio di colui che a quel tempo ufficiale partigiano e
tuttora ben vivo, aveva tolto materialmente i cadaveri da piazzale
Loreto portandoli in luogo non esposto.
Non bisogna dimenticare inoltre l’intervento del Cardinale di Milano
Ildefonso Schuster, che in quei giorni si era interessato perchè
Mussolini si consegnasse spontaneamente, con garanzia della vita. Costui
affermò:
“Solo i barbari possono permettersi simili gesta”
e si affrettò ad adoperarsi
presso il comando partigiano perchè lo spettacolo avesse fine; come
testimonia fra gli altri Monsignor Angelo Majo, arciprete del Duomo
di Milano. 5. Pertini fece dunque uccidere
Mussolini contro la volontà degli Alleati e della gran parte dei capi
della Resistenza, ingannando quegli stessi suoi compagni partigiani che
avevano catturato il Duce e volevano che restasse ben vivo. 6. Sul perchè Pertini avesse
tanta fretta di uccidere Mussolini, che gli aveva salvata la vita e la
salute, c’è da considerare che all’epoca molti pensavano, a torto o a
ragione, che gli Alleati intendevano rimettere il Duce al vertice dello
Stato italiano, sia pure con poteri limitati (come si regolarono ad
esempio per il Giappone). Ma ciò avrebbe impedito che quella carica andasse invece (come in Jugoslavia per Tito e in Cina per Mao Tse Tung) a un capo partigiano, fra i quali uno dei favoriti era appunto Pertini.C’è poi il mistero dell’oro di Dongo, cioè del tesoro della Repubblica di Salò che Mussolini aveva con sé quando fu catturato, e che scomparve come nebbia al sole. Mistero che non sarebbe stato tale se Pertini non avesse fatto uccidere Mussolini.Quanti hanno cercato di testimoniare su quella sparizione sono stati tutti, a loro volta, “misteriosamente” uccisi. 7. Comunque Nenni non perdonerà
mai il massacro del Duce, e finché lui ebbe peso nella vita politica
italiana (e cioè fino ad una decina d’anni fa, prima che l’età lo
prostrasse) Pertini fu condannato ad una specie di emarginazione tacita
nel Partito Socialista e nella vita politica italiana, tanto da non
avere incarichi politici di rilievo, neanche di semplice ministro. Era
solo, in pratica, l’uomo politico più rappresentativo di Savona e della
sezione socialista di quella città. Sezione che tuttavia -è emerso poi- è
assai ben piazzata per avere la palma della più corrotta fra le sezioni
provinciali di tutti i partiti politici italiani, compresa
la Democrazia Cristiana; visto che diverse decine di suoi esponenti,
dirigenti e membri sono stati messi in prigione o, comunque, incriminati
per intrallazzi particolarmente vasti (caso Teardi). Solo quando
Nenni, invecchiato, perse autorità, Pertini poté riemergere ed avere la
carica di Presidente della Camera, da cui è poi passato a Presidente
della Repubblica
raggiungendo finalmente il vertice dello Stato, sia pure con tre decenni
di ritardo. E quando, dopo qualche tempo, qualcuno ventilò
l’opportunità di una sua dimissione, Pertini replicò: “Hic manebo optime”. Esattamente come aveva risposto a suo tempo Mussolini… Tutto ciò può sorprendere chi è
abituato all’immagine agiografica di Pertini abitualmente diffusa dai
mass media, in Italia e altrove. Ma questa immagine, che pare messa a
punto con estrema cura, si spiega considerando i potenti e vasti
interessi che si servono di essa come efficace copertura dei gravissimi
abusi che prosperano in Italia su vasta scala. Ma la realtà storica -ed io
sono il primo a dispiacermene come italiano- è ben diversa, e non a caso
ha reso improponibile l’assegnazione a Pertini di un premio Nobel per
la pace, che pure era stata ventilata; o che fosse lui a celebrare, con
un discorso ufficiale al Parlamento europeo, la fine della guerra e la
riconciliazione generale… Il più bello è che poi Pertini si prende la libertà di definire “assassino” uno come Scalzone che, fino a prova contraria, non ha mai ucciso nessuno, e del resto non è mai stato incolpato di questo. Che cosa fu, quello di Pertini
ai danni di Mussolini, se non l’assassinio “politico” di un prigioniero
indifeso? Il quale, per di più, quando lo aveva avuto a sua volta in
suo potere gli aveva salvato la vita e la salute, facendolo curare come
lui stesso non aveva saputo fare?
E’ giusto che i lettori de “Le Monde” queste cose vengano a saperle, appunto per obiettività e completezza di informazione. Con vive cordialità.
Stefano Surace
Da parte sua, Sandro Pertini si limitò a ricordare solo quanto segue:
”Quando mi dissero che il cadavere
di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie e
Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla
ci sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete
indietro la folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna:
giustizia era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei
cadaveri. Mi dettero tutti ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani,
Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si precipitarono a piazzale Loreto, con
me, per porre fine allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già
stati appesi al distributore della benzina. Così ordinai che fossero
rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e
non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace
per terra“. – Sandro Pertini –
“Nenni venne fatto prigioniero dai camerati in
Francia per 24 giorni, il 5 aprile 1943 viene consegnato dagli stessi,
ai carabinieri italiani al Brennero con l’ordine di accompagnarlo al
confino di Ponza. Tutto questo su ESPRESSA RICHIESTA del suo amico il
DUCE . Dopo il massacro di quest’ultimo, e la rivoltante codardia
partigiana di quel fine aprile 45, lo stesso Nenni scriverà sull’AVANTI,
circa colui che gli salvò la vita.. “giustizia è stata fatta !” Perciò
deduco che Nenni era una merda di uomo”.
“Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche”.
Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è
vero che il suo agire lo portò, come attestò e dimostrò Carlo
Silvestri, esponente socialista (ma anche Piero Parini, Renzo Montagna e
altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la
vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben
individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini,
ecc., fu “ripagato” con le parole di Sandro Pertini, il partigiano
estremista che in quei giorni di fine aprile ’45 sbraitò alla radio che
Mussolini:
Lo Stato
Nazionalpopolare della Società sottolinea la valenza delle radici fondamentali
dell’appartenenza ad un Popolo-Nazione con l’apporto della ricchezza di
tradizioni, storia e pensiero ed il progetto di coinvolgimento corale del popolo
nella partecipazione reale alla gestione dello Stato!
Fine dello Stato
nazionalpopolare è quello di strutturare e sviluppare una comunità nazionale in
cui i valori spirituali, culturali ed etici, uniti a quelli della tradizione
nazionale, siano prioritari rispetto alla soddisfazione delle pure esigenze
materiali che pure sono considerate importanti, ma solamente se compatibili con
i suddetti valori.
Una comunità Nazionale
in cui tutti abbiano uguali possibilità ed in cui i meriti e le capacità siano
l’unico parametro di giudizio per una scala di gerarchie, ma non di censo; di
riconoscimento e di responsabilità, ma non di privilegio.
Questo modello sociale,
che ha le sue radici nella costituzione della Repubblica Sociale Italiana, si
propone di realizzare, nell’ambito di uno Stato del lavoro, la
socializzazione delle aziende e di sviluppare sempre di più la partecipazione
consapevole e responsabile della popolazione al controllo ed alla gestione della
cosa pubblica in modo diretto e reale e non semplicemente per delega
politica.
Il capitale ed il
lavoro costituiscono, nella visione Nazionalpopolare, non più due
parametri in contrasto come nella visione marxista della lotta di classe o in
quella capitalista del massimo profitto, ma elementi costitutivi di una
sinergia, nell’ambito e tra i confini dello Stato Etico che controlla, bilancia
e corregge il peso e l’importanza di entrambi.
In questo ambito,
assume particolare importanza il concetto di sviluppo compatibile
intendendo con questo termine che ogni sviluppo economico troverà il suo limite
nel rispetto della natura e del ciclo ecologico della vita sul pianeta così come
nella salvaguardia dei valori spirituali e della solidarietà
sociale.
La solidarietà sociale
è lo sfondo in cui si svolge la vita e l’azione politica dello Stato e ne
costituisce la caratterizzazione primaria ed essenziale, pur se non l’unica, cui
essa tende.
Lo Stato
Nazionalpopolare si inquadra nella più ampia unità politica e Nazionale
dell’Europa di cui l’Italia fa parte integrante per storia, per
tradizioni e per vocazione e promuove un’idea Europea in cui ogni singola
Nazione sia il tassello specifico e complementare delle altre, in un comune
progetto politico, sociale e culturale di reciproca integrazione con pari
dignità e nel rispetto delle singole peculiarità.
Nell’ambito
dell’economia mondiale, lo Stato nazionalpopolare tende a favorire lo sviluppo
di tutti i popoli, in clima di equità e contro lo sfruttamento neocolonialista,
ma secondo percorsi autonomi ed al di fuori del mondialismo
liberalcapitalista che privilegia il profitto anche a scapito degli
equilibri e della giustizia sociale.
Taranto e l’Ilva l’industrializzazione barbarica che ha ucciso la città
Parla Salvatore Romeo, autore di “L’acciaio in fumo”, libro che
ricostruisce il tormentato rapporto tra la città e la fabbrica
siderurgica: “A Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali è
emersa già negli anni ’70, ma nulla è stato fatto per invertire la rotta
perché la politica non è stata in grado di anteporre l’interesse
pubblico a quello dell’azienda”. intervista a Salvatore Romeo di Enzo Ferrara*
“Mi
interrogo sulla mia città, su quella che è stata la sua storia e il suo
rapporto con la fabbrica, l’elemento più importante e decisivo della
storia recente di Taranto”. La tormentata storia dell’Ilva, una parabola
che da più di 50 anni trascina assieme una fabbrica e una città
nell’evoluzione della siderurgia italiana. Ad analizzarla, in un recente
libro, è Salvatore Romeo - dottore di ricerca in Storia Economica a
attualmente insegnante - con il suo L’acciaio in fumo
(Donzelli, 2019). In passato già autore di diversi articoli e saggi sul
tema e curatore di una raccolta di scritti di Alessandro Leogrande su
Taranto Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (Feltrinelli, 2018), l'abbiamo incontrato per ricostruire i fatti.
La
prima considerazione che si può fare leggendo il tuo libro è che
fortunatamente, nonostante la crisi, sembra esserci una generazione
capace di reagire e di svolgere elaborazioni profonde. La stessa
generazione di Alessandro Leogrande, una delle menti più lucide dei
nostri tempi, che già aveva dedicato a Taranto un altro libro, “Fumo
sulla città” (Fandango 2013). Voci che esprimono anche frustrazione, ma
coscienti e con un’attenzione al proprio territorio che non è comune.
Io posso parlarti della mia esperienza e di questo libro su cui lavoro
da tempo. Tutto è nato dal contatto, dal rapporto quotidiano con una
realtà oggettivamente difficile, che non ha mai pienamente assimilato la
presenza incombente del siderurgico.
In realtà, alla
fine le comunità si rimpadroniscono della propria città, del territorio,
anche nelle condizioni più deteriorate. Taranto oggi è come Seveso
negli anni ‘70 e Napoli negli ’80, o come Cengio e la val Bormida negli
anni ‘90. Non esistono luoghi infernali o paradisiaci in assoluto, ma
quali sono stati i momenti fondamentali nello sviluppo di Taranto fino a
oggi?
Individuerei quattro momenti. Il primo,
senz’altro, è l’insediamento dell’Arsenale militare, alla fine dell’800.
Quella che era un’anonima cittadina della provincia meridionale
partecipa così al “decollo” dell’industria italiana, trainato dal
“complesso militare industriale” e dalle ambizioni di grande potenza che
l’Italia continua a coltivare fino alla seconda guerra mondiale. Questo
modello entra in crisi con la sconfitta bellica; Taranto sprofonda così
in una crisi tremenda, che non è solo socio-economica: è una crisi di
identità.
Il secondo momento coincide con il dibattito che si
sviluppa negli anni ‘50 intorno alla realizzazione di un nuovo centro
siderurgico “a ciclo integrale”. Per la prima volta si afferma l’idea
che l’industria di stato dovesse servire al perseguimento di finalità
“sociali”; in particolare, allo sviluppo della parte più arretrata del
paese: il Mezzogiorno. La scelta cade su Taranto, che così viene
riconnessa alle dinamiche di fondo dell’economia nazionale.
Il
terzo momento si apre con il cosiddetto “raddoppio”, quando la potenza
produttiva del siderurgico viene portata da 5 a 10 milioni di tonnellate
di acciaio l’anno. Siamo agli inizi degli anni ’70, e buona parte di
quel decennio sarà attraversata da un’accesa conflittualità tra
l’azienda (Italsider) e la comunità locale. La contestazione riguarda
essenzialmente l’approccio strumentale di Italsider nei confronti del
territorio, la sua sostanziale indifferenza nei confronti degli impatti
problematici del siderurgico. Emerge una forte soggettività operaia che
cerca di condizionare le scelte aziendali e l’organizzazione del lavoro;
si sviluppa una grande vertenza – la “vertenza Taranto” – per la
diversificazione produttiva e il superamento della “monocultura
dell’acciaio”. L’obiettivo è trasformare la fabbrica in un fattore
propulsivo per lo sviluppo locale; e in effetti si ottiene una maggiore
responsabilizzazione di Italsider nei confronti del territorio.
Il quarto momento si apre con la crisi che sconvolge la siderurgia
mondiale e si intreccia alle trasformazioni economiche degli anni ’80 e
’90. Il lungo processo di ristrutturazione – che culmina nel 1995 con la
privatizzazione – segna un passaggio traumatico: le necessità del
risanamento economico impongono un progressivo ridimensionamento della
funzione della fabbrica come fattore di sviluppo, che si accompagna alla
perdita di peso e di potere del movimento operaio. Da quel momento il
siderurgico inizia ad essere percepito sempre più come un corpo estraneo
che non dà benessere, non favorisce lo sviluppo, ma crea problemi.
L’ILVA è per decreto (D.Lgs
3 dicembre 2012, n. 207) uno stabilimento di interesse strategico
nazionale, separato dal territorio in cui sorge, difficilmente
accessibile e in opposizione alla comunità locale. Esattamente il
contrario del modello di fabbrica aperta immaginato da Olivetti a Ivrea.
La questione va inquadrata in una prospettiva
storica. Nella realtà non esistono “modelli”: ogni rapporto si sviluppa
sulla base di dinamiche concrete, che mutano nel tempo. Nei confronti
delle comunità locali le partecipazioni statali avevano un approccio che
non era quello di Olivetti, ma presentava comunque elementi molto
avanzati per gli standard del capitalismo italiano dell’epoca: Italsider
a Taranto realizza un intero quartiere per i lavoratori (l’attuale
“Paolo VI”), promuove una politica culturale intensa. Ciò non toglie
che, nel momento in cui si insedia a Taranto, l’approccio dell’azienda
al territorio è orientato da criteri squisitamente tecnico-economici. Ai
dirigenti del gruppo pubblico quella localizzazione era stata quasi
“imposta”, per cui cercano di adattarla il più possibile alle proprie
esigenze. Questo spiega, fra le altre cose, la scelta dell’area di
insediamento, a ridosso del quartiere Tamburi: era la zona più vicina
allo scalo marittimo individuato dai tecnici dell’azienda.
È
questo tipo di approccio che viene messo in discussione negli anni ’70.
Il raddoppio prospetta l’ulteriore espansione della fabbrica e una sorta
di monopolio dell’azienda su una risorsa decisiva: il mare. Intorno a
questo nodo si sviluppa uno dei momenti più importanti della vertenza
Taranto: le istituzioni locali e i sindacati cercano di ritagliare uno
spazio per la creazione di un porto pubblico – non sottoposto al
controllo esclusivo di Italsider com’era stato per i moli realizzati
fino a quel momento –, da mettere al servizio di un progetto di
diversificazione produttiva che guardasse a un ambito territoriale più
vasto della sola città di Taranto. È su queste basi che nasce il
cosiddetto “molo polisettoriale”.
Il conflitto territoriale si
intreccia a quello sociale. Il movimento operaio mette in discussione le
gerarchie di fabbrica e il particolare tipo di rapporto fra fabbrica e
città delineatosi nella fase precedente. Negli anni ’70 il siderurgico –
come tutti i grandi stabilimenti in Italia – è attraversato da
movimenti di ogni tipo. La ristrutturazione incide soprattutto su questo
elemento, riportando una “normalità aziendale” che, con i Riva, diventa
restaurazione padronale. La vecchia classe operaia lascia il posto a
personale giovane, senza cultura sindacale e con un potere contrattuale
di gran lunga inferiore. Su questa base la nuova proprietà può plasmare
una “comunità aziendale” sostanzialmente chiusa in se stessa e
contrapposta al contesto circostante, con i lavoratori in posizione
subalterna.Un elemento che influirà in maniera decisiva sull’evoluzione dell’emergenza ambientale.
Nel
tuo libro racconti di personaggi come Antonio Cederna e Walter Tobagi,
giornalisti e sociologi che con le loro analisi e scrivendo anche di
Taranto raccontano la nascita di una sensibilità ambientalista. Cederna
parlò di una “industrializzazione barbarica”.
A
Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali emerge già negli anni
’70, nel momento in cui una sensibilità per i frutti avvelenati dello
sviluppo economico matura in tutto l’Occidente. Il 1971 è un anno
cruciale da questo punto di vista. Italia Nostra, che aveva denunciato
la colmata a mare per il raddoppio del siderurgico, promuove un happening
per le strade della città con artisti d’avanguardia rivendicando
“un’industrializzazione umana”; l’amministrazione provinciale organizza
un grande convegno nel quale si discutono le diverse problematiche
ambientali – dall’inquinamento atmosferico a quello delle acque –; le
sinistre, attraverso l’Arci, organizzano a loro volta un momento di
discussione per contestare la “colonizzazione” del porto. Poi è chiaro
che si media. L’Italsider ha un grande potere e ha al suo fianco il
governo. La sensibilità che emerge in quel frangente inevitabilmente
deve fare i conti con altre esigenze. D’altra parte è ancora tutto molto
prematuro. Siamo alle prime avvisaglie di una consapevolezza che
maturerà solo col tempo dopo tanti drammi e tanti traumi.
Non
è allora possibile leggere la questione dell’acciaieria di Taranto nel
solco della cosiddetta auto-colonizzazione dell’Italia, con lo
spostamento delle produzioni industriali più problematiche al Sud dove
erano meno forti le pressioni territoriali, ambientali e anche
sindacali?
È una lettura sbagliata. Bisogna anzitutto
tener conto di come quell’intervento fu deciso. Alla fine degli anni
‘50 il progetto alternativo a Taranto era promosso, tra gli altri, dalla
FIAT e dal gruppo Falck, che volevano realizzare un nuovo centro
siderurgico privato a Vado Ligure. Non c’era nessuna intenzione di
spostare al Sud la produzione. Il gruppo Finsider si oppose fino
all’ultimo alla realizzazione del nuovo stabilimento al Sud, perché lo
riteneva antieconomico, troppo lontano dai principali centri di consumo,
che erano al Nord. Furono le forze progressiste a imporsi in quel caso:
la “nuova” Democrazia Cristiana di Fanfani, le sinistre, il sindacato.
Per questo credo che il concetto di “auto-colonizzazione” sia da
rigettare. Nel libro parlo piuttosto di “integrazione subalterna” di una
parte del Mezzogiorno nell’economia nazionale. Dal confronto serrato
fra politica e industria pubblica emerge una mediazione: se la prima
ottiene la localizzazione meridionale, la seconda mantiene il controllo
su tutti gli aspetti industriali dell’operazione. Il siderurgico quindi,
concepito originariamente come fattore di sviluppo dell’economia
meridionale, finisce col servire principalmente i mercati del Nord. Un
esito inevitabile, data la particolare struttura dell’economia italiana
del tempo e i limiti di un intervento pubblico poco articolato (un
approccio più estensivo sarà adottato solo alla fine degli anni ’60), ma
anche la prospettiva del mercato unico europeo, che spinge l’industria
italiana a intensificare gli sforzi di ammodernamento. In questo modo si
rafforza il legame fra il capoluogo ionico e l’economia nazionale; di
contro, il siderurgico non fornisce al contesto locale quell’impulso
verso uno sviluppo autonomo che alcuni suoi sostenitori (pensiamo a
Pasquale Saraceno) avevano prospettato. Matura così
un’industrializzazione estroflessa, in cui le forze economiche locali
hanno un ruolo marginale, anche perché troppo deboli per reggere
l’impatto di un’impresa di quel tipo. Come modificare questo quadro,
rendendo il siderurgico un fattore di modernizzazione del tessuto
produttivo locale, sarà il tema della lunga stagione di lotte degli anni
‘70.
Arriviamo alla situazione recente: nel 2010
Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi,
addirittura con decreto legge spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in
vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 per il benzo(a)pirene,
una sostanza cancerogena prodotta dall’acciaieria. La regione Puglia,
vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre
all’azienda di ridurre le emissioni. Com’è stata possibile una deriva
delle contraddizioni attorno al siderurgico di Taranto fino alla
promulgazione di leggi contrarie alla Costituzione e allo stato di
diritto, come ha sentenziato la Corte Europea di Strasburgo lo scorso 24
maggio condannando lo stato italiano per violazione dei diritti umani a
causa della mancata bonifica dell’ILVA?
Allo storico
interessa capire come si sono sviluppate certe dinamiche, non emettere
giudizi. La questione centrale a me sembra consista nei ritardi e nelle
contraddizioni che hanno caratterizzato l’adeguamento dell’Italia ai più
elevati standard di protezione dell’ambiente. Dopo la contestazione
degli anni ’70 in Occidente si è iniziata a costruire un’articolazione
tecnica e legislativa per controllare, reprimere e prevenire i fenomeni
di inquinamento. L’Italia non solo arriva in ritardo rispetto ai
principali paesi europei, ma si rivela spesso inadempiente. Da questo
punto di vista la vicenda di Taranto è emblematica. Prendiamo un
provvedimento importante come l’Autorizzazione Integrata Ambientale
(AIA). Questa nasce per dare attuazione alla cosiddetta “direttiva IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control)”
dell’Unione Europea sulle emissioni industriali: la norma è emanata nel
1996, l’Italia la recepisce nel 1999, ma solo nel 2005 viene finalmente
istituita la procedura per il rilascio delle AIA. L’iter che riguarda
Ilva si apre addirittura nel settembre 2007, a poche settimane dalla
scadenza dei termini per il rilascio dell’autorizzazione fissati dalla
direttiva del ’96, e si prolunga fino all’agosto 2011. In tutto questo
tempo, attraverso una trattativa fra governo e azienda – in cui cerca di
svolgere un ruolo anche la Regione Puglia che, al contrario di quello
che dicevi, è molto attiva sul fronte ambientale a partire
dall’insediamento della giunta Vendola – si cerca di far adottare a Ilva
alcune delle “migliori tecniche disponibili” necessarie per ridurre le
emissioni nocive. Ma l’esito è controverso.
Nell’ultimo
capitolo del libro faccio un parallelo con l’acciaieria di Duisburg, in
Germania, molto simile a quella di Taranto. A Duisburg nei primi anni
2000 vengono interamente sostituite le batterie dei forni a coke
– dove il carbon fossile si trasforma nel combustibile per gli
altoforni –, e l’intera cokeria viene allontanata dal centro abitato:
un’operazione che costa alla ThyssenKrupp circa ottocento milioni di
euro. In quella stessa fase, e negli anni successivi, gli interventi
realizzati a Taranto sono molto meno radicali. A Duisburg il problema
del benzo(a)pirene – un cancerogeno della famiglia degli Idrocarburi
policiclici aromatici (IPA) – viene sostanzialmente risolto, mentre a
Taranto ancora nel 2011, dopo tutti gli interventi di adeguamento
realizzati dall’azienda, le concentrazioni di quella sostanza continuano
a superare il valore-obiettivo sancito dalla legge. Si arriva così al
2012, all’inchiesta della magistratura che porterà al sequestro
dell’impianto, che nasce anche da una perizia chimica che dimostra come
le tecniche adottate dall’Ilva fossero in ritardo rispetto alla
normativa europea, che intanto aveva subito più di un aggiornamento.
L’Ilva dei Riva, insomma, accumula un significativo gap tecnologico rispetto ai principali concorrenti europei in tema di performance
ambientali. Questo vuol dire che si poteva fare lo stesso anche a
Taranto: le tecniche per risolvere il problema esistevano. Sono mancate
due cose: una politica in grado di anteporre l’interesse pubblico a
quello dell’azienda e un’azienda abbastanza forte da reggere quella mole
di investimenti. In Germania l’operazione di ammodernamento delle
cokerie è stata fatta anche con il coordinamento del Land del Nord Reno
Vestfalia, nel quadro di una programmazione pubblica, ma è stata pagata
con i soldi della ThyssenKrupp.
Nell’ultimo capitolo
del tuo libro “Fuoco alle polveri” e nell’epilogo racconti il
susseguirsi delle vicende giudiziarie e delle mobilitazioni cittadine
più recenti, però non offri una soluzione né una proposta.
Lo storico non può dare soluzioni: deve provare a ricostruire i fatti.
Io credo che si siano persi anni preziosi, dal 2012 ad oggi, per
consegnare definitivamente il problema dell’emergenza ambientale ai
libri di storia. Qualcosa è stato fatto, ma nulla di risolutivo. Oggi ci
troviamo in una fase gravida di incognite e di fatto il processo di
risanamento è nelle mani di una multinazionale. Mi auguro che la
prossima edizione non si chiuda come nella canzone di Springsteen che
apre il libro: con una città ancora più impoverita e allo sbando.