La storia d’Italia fu fermata nel 1943 per essere sostituita da quella delle turlupinature più abiette, da quella delle menzogne più efferate, delle falsità più luride, secondo un piano ben preciso che prevedeva la sepoltura della nostra grande Nazione, nelle loro cloache do viziosamente definite “liberatrici”.
L’intelligence
usò la droga per condurre test su detenuti, spie e psicopatici con
l’obiettivo di alterare la personalità. Senza volerlo contribuì alla
rivolta generazionale degli anni 60
NEW YORK
La Seconda guerra mondiale è finita da pochi anni. L’Europa, ancora
distrutta, è spaccata in due. L’Unione Sovietica, ormai potenza
nucleare, fa paura. L’America continua a vivere nel terrore anche quando
doma il maccartismo e mette fine alla «caccia alle streghe». È l’alba
della Guerra fredda e la Cia, convinta che gli scienziati russi stiano
cercando di trasformare l’essere umano in un’arma controllando la sua
mente e attribuendogli una nuova personalità, decide di giocare
d’anticipo affidando a un brillante chimico, Sidney Gottlieb, un
progetto che ha gli stessi obiettivi: scoprire se è possibile sopprimere
il carattere di un individuo sostituendolo con un altro creato
artificialmente.
Gottlieb, un uomo inquieto, scosso da pulsioni etiche
che lo spingono a rifiutare la religione ebraica, quella della sua
famiglia, per battere altre strade, dall’agnosticismo al buddismo zen,
accetta di guidare un programma segreto che lo porterà a usare molti
uomini come cavie (alcuni moriranno, altri impazziranno) convinto che,
per quanto alto, questo sia un prezzo che vale la pena pagare per
difendere la libertà dell’America e dell’Occidente. Ottenuta carta
bianca e molti soldi, privo di controlli, Gottlieb investe 240 mila
dollari nell’acquisto di tutte le scorte di una nuova droga, l’Lsd, che
trova in giro per il mondo. Può essere la materia prima per trasformare
la personalità: il chimico decide di sottrarla ai russi (e alla Cina di
Mao, ancora isolata ma già temuta).
Inizia, invece, a sperimentare lui l’Lsd:
prima in centri di detenzione sotto controllo americano in Germania,
Giappone e nelle Filippine. Serve a tenere i test lontani da occhi Usa
indiscreti, ma anche a ottenere l’aiuto di medici e chimici amici. detenuti non protetti (spie
nemiche, assassini psicopatici) torturati e drogati per misurare fino a
che punto può arrivare la resistenza della mente umana.
Poi Gottlieb trasferisce, in modo meno cruento,
i suoi esperimenti negli Stati Uniti: distribuisce l’Lsd a penitenziari
e ospedali psichiatrici per esperimenti di varia intensità. Questa
storia agghiacciante della quale rimangono poche tracce (gli archivi del
programma, chiamato MK-Ultra, furono distrutti quando Gottlieb lasciò
la Cia) non è inedita: alla fine degli anni Settanta il caso venne fuori
durante le indagini del Congresso sulle attività clandestine
dell’intelligence Usa. Ormai sepolto da decenni, riemerge ora nella
ricostruzione di un giornalista, Stephen Kinzer, che, dopo anni di
ricerche, ha appena pubblicato Poisoner in Chief (avvelenatore capo), un libro nel quale ricostruisce questa pagina tragica della storia americana.
Tragica e paradossale: il programma che
la Cia aveva ideato per cercare di mettere sotto controllo l’umanità
finì, invece, per alimentare involontariamente la ribellione
generazionale della controcultura californiana degli anni Sessanta e
Settanta: gli hippy e i tanti giovani che cercavano la libertà nella
droga. L’Lsd di Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo,
veniva da un esperimento sponsorizzato dalla Cia. E anche la droga di
Robert Hunter dei Grateful Dead o quella di Allen Ginsberg, il poeta
della beat generation e dell’Lsd, arrivò, indirettamente, dai massicci
acquisti dell’intelligence.
Ormai consapevole di poter distruggere una mente, ma
di non poterne creare un’altra, Gottlieb, che per i servizi segreti
produsse anche veleni — regali tossici per Fidel Castro, un fazzoletto
avvelenato per uccidere un colonnello iracheno, una freccia avvelenata
per eliminare un leader congolese, tutti attentati falliti — si ritirò
nel 1972 quando andarono via i capi della Cia che lo avevano coperto.
Passò i suoi ultimi anni creando comuni dedite alle danze folk e alla
pastorizia e facendo il filantropo: gestore di un lebbrosario in India e
poi a fianco dei malati terminali in un hospice.
Sbarco delle forze del nemico americano a Gela. I CRIMINI DI GUERRA DEL NEMICO INVASORE ANGLO-AMERICANO!
Se
i generali italiani si fossero prodigati per vincere la guerra con la
stessa determinazione che impiegarono per perderla, la Seconda guerra
mondiale probabilmente si sarebbe conclusa con una rapida vittoria
dell’Asse. Questa amara considerazione, che svolse lo stesso Mussolini
all’indomani dell’8 settembre, non è un refrain revisionista,
ma una realtà di fatto da lungo tempo acquisita dalla storiografia. Ma
tenuta ben nascosta dalla casta degli storici antifascisti e
“democratici”. Quanto scrisse Antonino Trizzino negli anni Sessanta in
due libri esplosivi come Navi e poltrone e Settembre nero
appartiene a una delle pagine più vergognose della nostra storia. In
questi due decisivi documenti si esponevano fatti, non chiacchiere. E si
dimostrò che gli alti comandi della Marina Militare vollero la
sconfitta. Collaboravano segretamente con gli inglesi, passavano
direttamente a Londra informazioni militari riservate e boicottavano le
iniziative italiane. Molti ammiragli avevano mogli americane e inglesi e
lavoravano alacremente per i nostri nemici.
Disastri decisivi come l’attacco inglese
al porto di Taranto nel novembre 1940 – che mise fuori combattimento
metà della nostra flotta, senza che venisse sparato un colpo a difesa –
oppure come la battaglia di Capo Matapan del marzo del 1941 – che costò
tre incrociatori e la morte di tremila marinai – sono stati ricondotti
al comportamento degli alti gradi della Marina italiana, che avevano
semplicemente passato tutte le informazioni al nemico. Personaggi come
l’ammiraglio Bragadin, che non mosse un dito per contrastare gli inglesi
a Taranto (che conoscevano esattamente la dislocazione di tutte le
navi, dalle corazzate alle corvette), fino all’ammiraglio Lais, che
consegnò pari pari a una spia inglese tutti i cifrari della nostra
Marina, dando il via libera agli inglesi a Matapan: di questa sostanza
era il nocciolo dirigente di una forza militare – la flotta italiana –
ai tempi molto potente e temutissima, e che poteva vantare la squadra di
sommergibili più forte del mondo. Ma che fu strozzata dalla stessa
Supermarina: inerzia, codardia e tradimento furono i segni distintivi di
quei comandi.
Trizzino riportava, tra l’altro, il caso
del famoso agente americano Elis Zacharias che, infiltrato dal 1942 nei
nostri servizi segreti, poteva contare su larghissime complicità
nell’Alto Comando Navale italiano. Le sue testimonianze avevano
dell’incredibile: «gli era persino possibile influire perchè la flotta
italiana non intervenisse in un’azione, se così conveniva agli Alleati».
Lo stesso Zacharias spiegò nel dopoguerra che questo andazzo durava fin
dall’inizio delle ostilità. I servizi segreti britannici, in verità già
da molto prima del 10 giugno 1940, potevano contare sull’accesso
diretto ai nostri codici e alle nostre disposizioni direttamente da
Roma.
Con un simile stato di cose, non
meraviglia che una flotta come quella italiana – che non faceva dormire
sonni tranquilli a Churchill e a Cunningham – se ne sia rimasta
inutilizzata e sulla difensiva per tutto il corso della guerra, anche
quando il rapporto di forze nei confronti degli inglesi – come
nell’estate 1940 – era nettamente a nostro favore. Quando poi venivano
impegnati per forza e controvoglia in battaglia, i comandi della nostra
Marina dimostrarono regolarmente una spiccata tendenza alla
vigliaccheria o alla fuga pura e semplice davanti al nemico.
Sono più che noti i casi criminali di
Pantelleria e della piazzaforte di Augusta. Due basi inespugnabili. Che
preoccupavano non poco Eisenhower. L’11 giugno 1943 Pantelleria si
arrese agli angloamericani senza sparare un colpo. Si trattava di una
base munitissima, con artiglierie appostate entro grotte al riparo dagli
attacchi aerei. I fortissimi bombardamenti alleati praticamente neppure
la scalfirono: su una guarnigione di 7400 uomini ben armati, ci furono
trentasei – diconsi trentasei – soldati caduti. Tanto bastò per alzare
bandiera bianca e per consegnare intatto tutto l’armanento, ivi compreso
l’hangar corazzato rimasto illeso.
Il valoroso ammiraglio Pavesi ne ordinò
la resa incondizionata, facendo credere a Mussolini che la base era
andata completamente distrutta. Ad Augusta invece, dove c’erano le
batterie costiere più potenti del Mediterraneo, si fecero saltare le
difese prima ancora che gli Alleati apparissero all’orizzonte, il 10
luglio seguente. Bisogna ammettere che nessun popolo al mondo avrebbe
potuto sostenere il peso di comandi militari di così pronunciata
codardia e di così convinta dedizione al tradimento.
Nonostante
ciò, i soldati italiani, pur male armati e peggio comandati, furono
ugualmente in grado di scrivere grandi pagine di storia. E dimostrarono
spesso un coraggio poco o punto riconosciuto. E non solo a Bir-el-Gobi o
a El-Alamein o a Isbusciensky. Leggendo il recente libro di Andrea
Augello Uccidi gli italiani. Gela 1943, la battaglia dimenticata
(Mursia), si verifica che anche nel caso dell’invasione della Sicilia –
nonostante gli scandalosi comportamenti degli alti gradi – ci furono
eroismi sconosciuti e degni di miglior fortuna. Di solito si pensa che
lo sbarco angloamericano in Sicilia sia stato il risultato di un lavoro
preparatorio della mafia, che si comprò alcuni alti ufficiali
garantendosi così, unitamente ai servizi segreti alleati che godevano
della piena collaborazione dei nostri, l’immediata fuga dei comandi e
quindi, inevitabilmente, quella dei soldati semplici. E non si sbaglia.
Tuttavia, ci fu anche l’altra faccia
della medaglia. Descrivendo la battaglia che si ingaggiò a Gela dal 10
luglio ‘43, in cui sparute forze italiane e tedesche dovettero
fronteggiare la flotta d’invasione più gigantesca che fino ad allora si
fosse mai vista, Augello afferma che «i battaglioni costieri hanno fatto
molto più del loro dovere», riportando perdite gravissime, che
testimoniano di una resistenza inizialmente molto tenace. In due giorni
di lotta, a Gela rimasero sul campo più di duemila soldati e oltre
duecento ufficiali italiani. Tanto che «i fatti dimostreranno come
pochissimi alti ufficiali, demotivati e imbelli, basteranno a gettare
un’ombra, soprattutto ad Augusta e a Palermo, sul valore,
complessivamente buono e a volte straordinario, dei difensori
dell’isola». Lo stesso fenomeno delle diserzioni, nei primi giorni, fu
contenuto nei limiti fisiologici di ogni esercito. Ma fu soltanto col
tracollo psicologico del 25 luglio che, sull’esempio dei comandi che si
dettero alla fuga in zona di operazioni, si ebbe uno squagliamento
generale delle truppe: per dire, nell’agosto, la sola divisione
“Assietta” denunciò la diserzione di oltre novemila elementi. Tali
sintomi preannunciarono il disfacimento completo dell’8 settembre.
Eppure, prima dello sfacelo, per qualche
giorno la battaglia di Gela, e con essa l’intero scacchiere siciliano,
rimasero in bilico su chi fosse il vincitore. Augello riporta che,
nonostante lo strapotere aereo, la potenza di fuoco della flotta che
batteva le linee costiere e la grande superiorità di mezzi degli
americani, la serie dei nostri contrattacchi locali arrivò a un soffio
dal riportare una clamorosa vittoria. Modesti reparti corazzati leggeri
italiani riuscirono a rientrare a sorpresa nel centro di Gela, mentre
alcune colonne della divisione Hermann Goering si riportarono in vista
della spiaggia. Tanto che nella mattinata del giorno 11 luglio, come
risulta da un controverso radiomessaggio americano intercettato dagli
italiani, il generale Patton in persona avrebbe addirittura ordinato il
reimbarco. Vero o falso, è un fatto che in quelle ore «c’era molta
confusione tra le file americane e molti reparti ripiegavano con un
certo disordine verso le spiagge». La mancanza di riserve adeguate e
soprattutto il mancato coordinamento tattico tra italiani e tedeschi
(vecchia piaga di tutta la guerra) permise agli americani di cavarsela. E
questo nonostante il fatto che fossero afflitti da una storica
inefficienza: anche in Sicilia, come più tardi accadrà in Normandia e ad
Arnhem, si ebbe ad esempio il caso di lanci massicci quanto dissennati
di paracadutisti: nella sola zona di Scicli, come documenta Augello, gli
italiani ne catturarono o eliminarono oltre duecento.
La battaglia di Gela fu molto più
importante di quanto di solito la storiografia riporti. Il suo
svolgimento, qualora il coraggio e l’iniziativa italiana (i tedeschi in
zona erano presenti solo con pochi e inesperti reparti della Hermann
Goering) non fossero stati il frutto di isolati ufficiali, ma di una
strategia globale, dimostra che anche con pochi mezzi gli americani
potevano essere battuti. Del resto, è storia del Novecento ed anche
odierna: quando l’esercito USA – abituato ad affidare all’arma aerea il
lavoro grosso e non aduso a battaglie campali – viene affrontato da
piccole, ma tenaci unità fortemente motivate, soffre e va in confusione,
e non di rado non viene a capo della situazione e alle volte perde
anche qualche guerra importante.
A lato dei fatti d’arme, abbiamo poi il
capitolo legato ai massacri portati a termine dai “liberatori”. Sulla
scorta di una dichiarazione di Patton ai suoi ufficiali nei giorni
precedenti lo sbarco, intesa a raccomandare di non fare prigionieri tra
gli italiani, i soldati USA si comportarono di conseguenza. Caso
emblematico è il noto crimine di guerra consumato dagli americani a
Biscari, quando una settantina di prigionieri italiani vennero
massacrati e finiti con un colpo alla nuca. Ci furono violenze sui
militari e sui civili, che si sommarono agli inutili bombardamenti di
intere zone prive di interesse militare e ai mitragliamenti a bassa
quota di contadini, carretti, biciclette, secondo una prassi
“democratica” che avrà il suo apogeo nel prosieguo della guerra, in
tutta Europa. Augello commenta: «La strage dei prigionieri italiani è
quindi solo l’estrema conseguenza di una catena di violenze che non
risparmia le donne e che vede nell’annientamento dei prigionieri la
spietata vendetta per le perdite subite».
Registriamo, nel concludere, alcune
considerazioni di Augello relativamente al comportamento dei civili
siciliani nei confronti dei “liberatori”. Egli in qualche maniera
corregge l’immagine che tutti abbiamo in ricordo dei filmati visti tante
volte: masse di popolani che accolgono gli angloamericani, anziché a
fucilate, a braccia aperte, con gesti e atteggiamenti servili. L’autore
afferma che in larga parte questi comportamenti furono un lavoro della
mafia, che procurò picciotti in quantità per le necessarie
manifestazioni di giubilo. Può essere. E aggiunge che, d’altra parte, la
Sicilia nel 1944-45 «fu l’unica regione italiana in cui si verificarono
manifestazioni e persino violenti episodi insurrezionali contro il
governo Badoglio, che culminarono in sanguinosi atti di repressione».
Anche la guerra in Sicilia, insomma, ha bisogno di un bel bagno
revisionista.
Migranti, dalla Nigeria schiaffo ai “buonisti” del governo italiano
Da
Imolaoggi
ROMA, 20 NOV – “Il presidente del Senato della Repubblica Federale di Nigeria, Bukola
Saraki, ha descritto il traffico di esseri umani e l’immigrazione illegale da parte di alcuni cittadini nigeriani come una minaccia alla sicurezza nazionale che richiede risposte urgenti. Saraki parla
chiaramente di un’immagine negativa per il Paese nel mondo a causa di
questo fenomeno.
Non solo, il presidente del Senato lamenta in modo
inequivocabile che decine di migliaia di giovani nigeriani continuano a
rischiare la loro vita nel tentativo di attraversare il deserto del
Sahara e il Mar Mediterraneo con la falsa promessa di una vita migliore
in Europa. Queste parole sono uno schiaffo ai buonisti del Pd, a
Gentiloni, Renzi, Minniti, Alfano e alla sinistra italiana. E queste
parole di verita’ dimostrano come l’immigrazione illegale sia un business favorito ormai da anni dai governi italiani sono per fare un favore a qualche amico. Io mi trovo in Nigeria in questi giorni anche
per combattere contro la follia del Pd e contro un’immigrazione illegale
che distrugge il futuro degli italiani, degli europei e degli stessi
immigrati e che, nel mio Paese d’orgine, considerano un male e un
fenomeno da stroncare, come dimostrano le parole assolutamente
condivisibili del presidente Saraki.
I signori Gentiloni, Renzi, Minniti
e Alfano vengano in Nigeria e capiranno perfettamente quanto il loro finto buonismo becero sia solo uno specchietto per le allodole che nasconde un business che genera violenza e morte”. Lo afferma in un
comunicato Tony Iwobi, responsabile federale Dipartimento Sicurezza e
Immigrazione della Lega Nord. (ANSA).
(Franco Marino) - Un mio collega del mondo dell'informatica
(quello da cui provengo) mi ha chiesto, divertito, di parlare della
truffa del Movimento 5 Stelle, di Grillo. Con ben tre faccine ridenti
accanto al suo messaggio, erano evidenti i toni ironici, avendo entrambi
avuto a che fare con quello che è il VERO motore del Movimento 5
Stelle, ovvero la buonanima di Casaleggio. Infatti di tutta la storia che sta dietro al Movimento, si racconta sempre la favola e non la storia vera. La favola la conosciamo. Un
bel giorno un comico genovese molto famoso e accreditato come voce
dell'antisistema e della controinformazione si guarda allo specchio e
con un ragionamento assai poco genovese si dice: "Perché devo passare il
resto della mia vita a godermi i denari accumulati come comico? Voglio
cambiare questa società! Facciamo un movimento". Un comico idealista! Così
durante uno dei suoi spettacoli incontra (ma per caso eh? Tutto
spontaneamente!) un guru esperto di comunicazione, Gianroberto
Casaleggio il quale gli propone di aprire un blog e di curare la sua
immagine virtuale. Poiché si rendono conto che la forza comunicativa
di Grillo associata a quella organizzativa di Casaleggio possono creare
una gran cosa, ecco il Movimento 5 Stelle. Fin qui siamo alla favola.
Poi c'è la realtà che è ovviamente diversa. Il
grande sistema finanziario/mediatico/politico internazionale aveva già
adocchiato Grillo nei primi anni Novanta tant'è che il comico sarà, ed è
accertato, uno degli invitati al convegno che si svolge nel
transatlantico Britannia. In questo incontro, i potentati della
finanza internazionale, dopo aver attraverso la CIA con Tangentopoli
decapitato la classe politica italiana, costringeranno i governi venturi
nostrani a dare il via alle privatizzazioni industriali, ovviamente
allo scopo di arricchire ancora di più chi tiene in mano il debito
pubblico, ossia le grandi banche multinazionali. Assieme a Grillo
erano presenti Mario Draghi, Mario Monti, Emma Bonino, Giuliano Amato,
vari esponenti della famiglia Agnelli, il presidente della Banca
Warburg, Herman van der Wyck, il presidente dell’Ina, Lorenzo Pallesi,
Jeremy Seddon, direttore esecutivo della Barclays de Zoete Wedd, il
direttore generale della Confindustria, Innocenzo Cipolletta e decine di
altri manager ed economisti internazionali, invitati dalla Regina
Elisabetta in persona. Mentana era al porto di Civitavecchia con la
troupe del TG5, intervistò per qualche minuto Beppe Grillo che era
sbarcato dal tender del panfilo Britannia, Grillo al microfono che
l'inviata impugnava disse che a bordo del Britannia erano state discusse
cose molto interessanti. Negli anni a venire, Grillo terrà al
calduccio la sua immagine proponendosi come uomo cacciato dal sistema,
come uomo contro etc. e conquistandosi un largo consenso underground
attraverso la solita strategia di condurre battaglie magari anche nobili
in linea di principio alle quali tuttavia si danno risposte sbagliate
che i poteri forti smentiranno, facendoci la figura di quelli che
vengono a salvarci dalle cialtronerie di chi lotta contro il sistema. E già si sente la morale di fondo della favola: "Il sistema sarà anche brutto così com'è, ma è l'unico possibile".
Casaleggio, invece, chi era? Un giovane manager a quei tempi amministratore delegato di un'azienda che si chiamava Webegg ed era in orbita Telecom. Questa azienda, a noi che ci occupiamo di informatica, era nota per tutta una serie di cose. - Non pagava bene e non regolarmente né fornitori né dipendenti (tra cui il mio collega di cui vi parlavo in apertura) -
Era infognata di debiti e al tempo stesso manteneva un elevatissimo
tenore di vita: aveva la squadra di calcio, organizzava convention
straricche con personaggi dello spettacolo. - Si caratterizzava per
una comunicativa presso dipendenti e clienti che non era dissimile dalla
manipolazione in stile Scientology che difatti dall'azienda si è
trasferita al Movimento.
Al momento
dell'addio di Casaleggio alla webegg, cacciato a pedate da Tronchetti
Provera (il che spiega i quintali di livore di Grillo contro
quest'ultimo nei suoi show) l'azienda si ritrova con ben 30 milioni di
euro di buco di bilancio e un crollo del fatturato. Niente male.
Non basta. Quando noi parliamo della Casaleggio Associati, parliamo sempre di Casaleggio e commettiamo un errore. Perché Casaleggio non era il più importante dei soci. Il
vero socio, quello potente, con i legami che contano, che fanno la
differenza era Enrico Sassoon, il quale lasciò (ufficialmente) la
Casaleggio Associati non appena nei blog indipendenti iniziò ad emergere
la sua storia personale, tanto che chiunque sul blog di Grillo osasse
chiedere chiarimenti, anche civilmente, veniva bannato. E' capitato a me
e ad altri. Questo Sassoon, c'è da dire, ha un curriculum di tutto
rispetto: tre lauree, di cui una in economia alla Bocconi, è imparentato
con i Rothschild, una potentissima famiglia che possiede agganci nei
settori bancari e mediatici di tutto il mondo e la stessa famiglia
Sassoon è una famiglia di primo ordine della finanza internazionale. Fin qui nulla di male, non è certo un torto o una colpa avere parenti importanti. Gli
è tuttavia che il nostro non si limita ad avere un nobile lignaggio ma
ha anche la straordinaria capacità, forse agevolata dal suo pedigree, di
riuscire ad entrare nei posti di potere. Dapprima l'Ufficio Studi della Pirelli, ai tempo considerato un importante salotto economico con agganci nella politica. Ma non basta Enrico
Sassoon riesce a divenire Presidente della Camera americana del
commercio in Italia, una potente lobby ove si intrecciano gli interessi
di banche e multinazionali e che al suo interno vede realtà come JP
Morgan, Finmeccanica, Intesa San Paolo, Standard & Poor's, SISAL,
FIAT, Microsoft, Italcementi e molto altro. Tutti questi gruppi hanno recitato la loro parte nella grave crisi che stiamo vivendo. Naturalmente, quello di cui vi parlo è tutto documentato, nessun complottismo. Ora. Sappiamo
che Sassoon siede al tavolo assieme a personaggi di questo tipo che
sono contemporaneamente componenti dell'Aspen Institute Italia, un think
tank creato dal gruppo Bilderberg di cui, finalmente, si sta iniziando a
parlare, una potentissima lobby formata da tutte le elite della finanza
occidentale. Ci sono tutti. Monti, Tremonti, Draghi, Amato. E moltissimi giornalisti, tra cui ad esempio Lilli Gruber. E'
credibile che Casaleggio crei un partito antisistema quando il suo
socio in affari è una figura così potente? E' credibile che Grillo non
sappia che l'ingegnere della sua macchina da guerra abbia rapporti di
affari così stretti con uno degli uomini più potenti della finanza
internazionale? Perché nessuno dei giornali ne ha parlato? La risposta è semplicissima.
Il Movimento 5 Stelle CONVIENE AL SISTEMA. E' FIGLIO DEL SISTEMA STESSO
La
grande palla di spacciare il Movimento 5 Stelle come un qualcosa di
nato spontaneamente sui meetup, ad opera di gente incazzata, piena di
civismo va vista per ciò che è, una palla. Trattasi, invece, di un
progetto ben preciso, creato appositamente per impedire che il crescente
malcontento all'interno dei paesi provati dalla crisi, esondasse dal
controllo dell'alleanza atlantica e finisse nelle mani di altre realtà o
interne al paese o promosse da altri paesi (la Russia?). Lo stesso Grillo si lascia scappare più volte che "Se non ci fossimo noi, ci sarebbe Alba Dorata". Ha ragione lui. Il
Movimento 5 Stelle ha l'obiettivo, raccogliendo il malcontento, di
scongiurare la nascita dei tanto deprecati nazionalismi, attraverso la
creazione di una casa ove convergano tutti gli incazzati finiti vittime
del sistema, i quali non hanno in realtà niente in comune, tranne quello
di essere incazzati.
Chi continua ad appassionarsi alla querelle Raggi innocente o colpevole, è completamente fuori strada. Come
è fuori strada chi, per dare contro il Movimento 5 Stelle, si affida
agli sberleffi sull'incapacità della sindaca come lo è chi, per
difenderla, la definisce il baluardo contro il sistema. Movimento 5 Stelle e PD (ma anche alcuni pezzi di centrodestra) sono perfettamente speculari l'uno all'altro. Sono
i due partiti a cui è affidato il compito di svendere l'Italia agli
stranieri, da una parte con un partito che deve eseguire fisicamente il
compito e dall'altra con un movimento di opposizione che, solo a
chiacchiere, si oppone ma poi nella sostanza dei fatti, nelle cose
davvero decisive, quelle che cambiano le sorti, esprime col voto le
stesse cose del partito di governo. Laddove il PD continua a
ripianare i buchi delle banche con i soldi degli italiani (che è
sicuramente una malattia grave), il Movimento 5 Stelle tuona affinché le
banche vengano lasciate fallire (la cura peggiore della malattia che
ammazza il paziente) con l'obiettivo di svendere le banche a basso costo
ad entità straniere.
Se si volesse
davvero distruggere il Movimento 5 Stelle, invece di soffermarsi sulle
difficoltà di amministrare Roma di una povera crista messa lì e
presentata come salvatrice della patria (quando era evidente a tutti che
avrebbe incontrato grossi problemi) oppure cianciare di derive
autoritarie di Grillo o di pericolo fascista, basterebbe raccontare la
storia di Casaleggio e Sassoon. Dei fallimenti del primo e degli agganci del secondo. Solo
che in quel caso, oltre a crollare il Movimento 5 Stelle, crollerebbero
anche Partito Democratico, ampi pezzi di Forza Italia insomma tutta la
partitocrazia italiana che si fonda sugli agganci con tali realtà
finanziarie. E gli italiani capirebbero la truffa di cui sono vittime dal 1945 ad oggi.
Nel
cosiddetto “Territorio Libero di Trieste”, dopo la firma del trattato di
pace (10 febbraio 1947) non passava giorno in cui non si verificassero
incidenti tra cittadini ed Alleati, e più spesso tra patrioti italiani e
comunisti slavofili. Ci furono centinaia di feriti e numerosi arresti,
ed anche sei Caduti, falciati nel novembre 1953 ad opera della “Polizia
civile” comandata da ufficiali inglesi.
Queste tragiche vicende fecero enorme scalpore in tutta la Penisola,
dove il dramma di Trieste, della Venezia Giulia, di Fiume e della
Dalmazia era seguito con grande interesse e con forte, appassionata
partecipazione. Dimostrazioni
studentesche si susseguirono in tutta Italia, riscuotendo l'entusiasmo
popolare. Si pubblicarono numeri unici, manifesti e volantini; si
svolsero campagne giornalistiche; si tennero affollati comizi nei teatri
e nelle piazze di tante città che testimoniarono il vivo amore patrio
di una larga parte della popolazione. A Napoli, a Roma ed in tutta
Italia, in specie del Centro-Sud, nelle manifestazioni e nei relativi
cortei si innalzarono bandiere di Trieste e delle altre Città martiri
oppresse dagli slavi, con cartelli e striscioni intonati al più sentito
patriottismo. Soltanto il 5 ottobre
1954 Trieste ebbe modo di ritornare all'amministrazione italiana con la
firma del “memorandum d'intesa” tra Stati Uniti, Gran Bretagna,
Jugoslavia e Italia: una soluzione compromissoria e provvisoria. L'accordo definitivo fu
raggiunto con l'ignominioso trattato di Osimo di oltre vent’anni dopo
(10 novembre1975), con il quale l'Italia rinunciò formalmente alla
propria sovranità sulla Zona “B”, vale a dire sul comprensorio
nord-occidentale dell’Istria; e riconobbe importanti concessioni
economiche ed infrastrutturali senza contropartite, e perfino le
pensioni a cittadini jugoslavi che avevano combattuto per la
“liberazione”, ivi compresi gli assassini di tanti italiani. Infatti, il trattato di
Osimo conteneva varie disposizioni a favore di tutti i cittadini
jugoslavi che avevano prestato il servizio militare in Italia (anche per
una sola settimana): fra l’altro, prevedeva che costoro avrebbero
ricevuto su domanda una pensione mensile nell’ordine di 700 mila lire,
ed i relativi arretrati che potevano giungere a diverse decine di
milioni, secondo la data di presentazione della domanda medesima. Molti
beneficiari delle “pensioni di Osimo”, avevano partecipato ai massacri
ed agli infoibamenti di civili e militari nella Venezia Giulia, a Fiume e
in Dalmazia. C'è di più: l'On. Tina Anselmi, prima firmataria del
provvedimento, introdusse la reversibilità al coniuge superstite nella
misura del 100 per cento, diversamente da quanto accade per tutti i
pensionati italiani: mentre una vedova qualsiasi percepisce una pensione
di reversibilità ridotta al 60 per cento, quella di un partigiano
responsabile di tanti delitti si vede riconosciuto l’intero trattamento
di quiescenza del marito, anche se questi era stato un criminale di
guerra. Si calcola che l'INPS abbia erogato circa 30 mila pensioni
privilegiate a queste tipologie di soggetti: un paradosso scandaloso. Un solo concreto
esempio: nel Goriziano imperversava un truculento caporione che finiva
le sue Vittime italiane trascinandole ferocemente al suolo legate dietro
una motocicletta. La vedova, grazie al trattato di Osimo ed alla
normativa Anselmi, percepisce il 100 per cento della pensione che
l'Italia aveva graziosamente elargito al criminale. E’ inutile
aggiungere che mentre largheggiava con gli slavi, senza alcuna
distinzione di merito, lo Stato italiano fece economie inique ammassando
i profughi giuliani, fiumani e dalmati in fatiscenti campi di
concentramento smobilitati dagli Alleati, molti dei quali sarebbero
stati in essere sino al termine degli anni sessanta. Il trattato di Osimo
diede luogo a fortissime proteste, sia a Trieste che in tutta Italia, ed
a reazioni disperate dei 350 mila Esuli, che videro svanire ogni
residua speranza di tornare nelle loro terre, dove avevano lasciato
case, tombe, affetti. Eppure, il Parlamento italiano approvò la legge di
ratifica coi soli voti contrari del MSI e di pochi dissidenti della
maggioranza. Era il sigillo di un’ignominia che sarebbe ricaduta, allora
e sempre, su tutto lo Stato. Comunicazione di Angela Verdi, docente di Storia nei Licei Classici. Il
presente articolo è tratto dagli Atti del Convegno di studi storici
tenutosi a Napoli il 28 gennaio 2001, sul tema “Foibe: la storia in
cammino verso la verità”. Si ringrazia l'Istituto di Studi Storici
Economici e Sociali (ISSES) di Napoli per aver consentito il reprint
dell'intervento, con alcuni adeguamenti formali. Documento Tutto Storia
Non sappiamo come finirà la crisi di governo appena apertasi
anche se temiamo un rigurgito di “governo tecnico” ma era evidente che
l’espressione algebrica formulata nell’alleanza tra un movimento
giacobinista (giacobino e qualunquista) a matrice meridionalista ed un
movimento reazionarista (reazionario e qualunquista) a matrice
settentrionalista sarebbe giusto durato lo spazio utile alle “cose
qualunque” ed avrebbe trovato invece l’incaglio sui principi di fondo.
Fermo restando che non consideriamo nemmeno troppo
profonde le radici ideologiche insite nei due movimenti sopracitati –
ancorché figliastri del peggio della repubblica antifascista nata sulle
baionette atlantiche e con l’aiuto dei sicari prezzolati filosoviet – é
certo che l’Italia avrebbe bisogno di ben altro.
Per cui le prossime elezioni, che comunque ci saranno o
ad autunno o al massimo in primavera, non porteranno nulla di buono
agli italiani che nel frattempo verranno stritolati ancor di piu’ sul
piano sociale ed economico dalla piovra eurocratica attraverso misure
coercitive non opponibili da parte di mezze calzette come i Di Maio, i
Di Battista, i Salvini, i Gentiloni o Zingaretti di turno.
E l’Italia resterà sempre il maggior porto d’approdo
dell’infinita mare umana che – é stato deciso da chi ha in mano le leve
generali da sempre salvo una parentesi di qualche decennio del secolo
scorso – dal continente africano deve invadere il continente europeo
Ragioni sufficienti che ci portano a dichiarare sin da
adesso la nostra prosecuzione coerente di volontà astensionistica ai
ludi cartacei quale azione di lotta. Rimaniamo coerenti con la nostra
impostazione di rappresentare la continuità ideale con i principi
fondativi socialisti nazionali propri dell’esperienza statuale di quella
Repubblica Sociale Italiana che, unica, aveva in sé i punti
programmatici fondamentali per preservare la Comunità di Stirpe nel
benessere sociale e nella fecondità del Lavoro.
Le uniche elezioni utili e necessarie ed urgenti
dovrebbero essere solo quelle relative alla indizione di una rinnovata
Assemblea Costituente a totale rappresentanza del popolo italiano che
promulghi una nuova Carta della Comunità e da lì procedere alla
revisione di ogni trattato internazionale emesso in contrasto con gli
interessi nazionali e sotto ricatto di paesi terzi.
Senza recuperare l’originaria forza di comunione di
sangue e suolo quello che ci prospettano gli arlecchini di turno sono
solo baggianate e fumisterie, al di là di certi effetti speciali magari
finanziati da terzi, e Noi in quanto Uomini Liberi, Sociali e Nazionali
abbiamo altri orizzonti da perseguire ed altri modelli di virtu’ a cui
volgere il pensiero.
Siamo sempre piu’ certi che lungo questo stretto
sentiero troveremo sempre maggiormente altri patrioti a marciare spalla a
spalla, ognuno con le proprie insegne ma nel garrire inequivocabile di
una unica bandiera che porta scritto Onore e Fedeltà.
LE OPERAZIONI DEI SOMMERGIBILI GIAPPONESI LUNGO LE COSTE OCCIDENTALI STATUNITENSI 1941-1942.
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Di Alberto Rosselli.
Nella
primavera del 1941, il Comando Supremo della Marina Imperiale giapponese,
predispose, in caso di ostilità con gli Stati Uniti, un piano per colpire con
mezzi subacquei il nemico sul suo stesso territorio nazionale. E data la grande
distanza che separava il Giappone e le sue basi del Pacifico dalla costa
occidentale nordamericana, gli strateghi di Tokyo decisero di utilizzare per
tali missioni sommergibili di grosso tonnellaggio, dotati di grande autonomia.
Tra il 18 e il
24 dicembre 1941, nove sottomarini giapponesi da grande crociera appartenenti
al tipo A e B (I-9, I-10, I-17, I-19,
I-15, I-21, I-23, I-25 e I-26)raggiunsero
a scaglioni le posizioni ad essi assegnate al largo della costa nemica,
iniziando a navigare in prossimità di importanti obiettivi portuali,
industriali e urbani1.
I comandanti
delle unità nipponiche dovevano assolvere ad un duplice compito: intercettare
ed affondare il maggior numero di unità americane e alleate civili e militari
(soprattutto petroliere e portaerei) e cannoneggiare, qualora si fosse
verificata l’occasione, stazioni radio e impianti ubicati lungo il litorale
nemico. L’I-19 si posizionò davanti a Los Angeles, l’I-15 al
largo di San Francisco, l’I-25 davanti alla foce del fiume Columbia e l’I-26
all’imboccatura dello Stretto di Juan de Fuca, la via d’acqua che conduce al
porto di Seattle. L’I-9 si posizionò in prossimità di Capo Blanco
(Oregon), l’I-17 al largo di Capo Mendocino (California), l’I-23
davanti alla Baia di Monterey (California), l’I-21 al largo della Baia
di Estero (California) e l’I-10 davanti a San Diego (California).
Poco prima dell’alba del 18 dicembre, l’I-17 (2.500
tonnellate di dislocamento) emerse in superficie a circa 15 miglia da
Capo Mendocino e una delle vedette del comandante Kozo Nishino avvistò
tra i piovaschi un mercantile americano (il Samoa) che stava
facendo rotta su san Diego con un carico di legname. Per risparmiare i
preziosi siluri, Nishino decise di attaccare l’unità nemica con il pezzo
di coperta da 140 millimetri. Giunto a poche centinaia di metri dalla
preda, Nishino fece aprire il fuoco, ma il mare piuttosto mosso impedì
al pezzo di centrare subito il Samoa, il comandante del quale,
capitano Nels Sinnes, tentò di manovrare per evitare i colpi. Dopo avere
tirato cinque o sei bordate, e non avendo ottenuto alcun risultato
apprezzabile, Nishino ordinò di silurare la nave. Incredibilmente però,
l’ordigno, lanciato da brevissima distanza, sfilò sotto lo scafo
americano, esplodendo oltre l’obiettivo.
Data la
pessima visibilità, Nishino pensò di avere sicuramente colpito l’unità e si
allontanò, comunicando via radio al comandante dell’I-15 che navigava
nei paraggi il risultato dell’operazione. Sinnes, nel frattempo, aveva fatto
fermare le macchine, nella speranza che il sommergibile nemico si allontanasse.
Poi, verso le 7 del mattino seguente riprese la sua rotta e a tutta velocità si
diresse su San Diego, che raggiunse due giorni più tardi.
Il 20
dicembre, l’I-17 ebbe la sua seconda opportunità, intercettando alle
13.30 la petroliera Emidio (appartenente alla Socony-Vacuum Oil
Company). L’unità, che da Seattle stava dirigendosi, priva di carico, a San
Francisco, venne individuata a circa 20 miglia da Capo Mendocino. Nishino cercò
di avvicinarsi all’obiettivo dal lato destro di poppa, ma giunto ad un quarto
di miglio, l’equipaggio della petroliera si accorse della sua presenza. Il
comandante della nave, Clark Farrow, tentò allora la fuga, scaricando nel
contempo tutta la zavorra. Tuttavia, la superiore velocità del sommergibile
giapponese permise a Nishino di raggiungere in breve la nave che, nel
frattempo, aveva iniziato a lanciare l’SOS. Giunto a distanza di tiro, il
sottomarino armò il pezzo da 140 millimetri e aprì il fuoco, polverizzando
l’antenna radio della petroliera e danneggiando alcune sovrastrutture
dell’unità. In rapida sequenza altri due proiettili colpirono nuovamente lo
scafo. Farrow fermò quindi le macchine e fece calare le scialuppe, una delle
quali venne improvvisamente centrata da una salva che fece volare in mare tre marinai
dei 36 che componevano l’equipaggio.
Dopo avere
sparato l’ultimo colpo, il sommergibile giapponese si immerse, proprio pochi
minuti prima dell’arrivo in zona di due aerei statunitensi che avevano captato
l’SOS lanciato dalla petroliera attaccata. Uno degli aerei sganciò una bomba di
profondità che, tuttavia, non danneggiò il sommergibile giapponese.
Quest’ultimo però, essendo deciso a non mollare la preda, rimase comunque in
zona per risalire, circa mezz’ora dopo, a quota periscopica, per tentare di
silurare la petroliera. Giunto a non più di 200 metri dal bersaglio il
comandante Nishino fece lanciare un ordigno che, pur colpendo lo scafo, non
riuscì ad affondarlo. La nave, trasportata dalla forte corrente, andò poi ad
incagliarsi su una secca situata a ben 85 miglia di distanza dal luogo di
siluramento, davanti a Crescent City (California).
Il giorno
seguente, 31 marinai americani sopravvissuti a bordo delle scialuppe, vennero
recuperati da un battello della guardia costiera statunitense, al largo della
Baia di Humbolt. Proprio in quelle ore, un altro battello giapponese, l’I-23
del capitano Genichi Shibata, che operava in una zona non distante,
intercettò e silurò, circa 330 miglia a sud, al largo di Santa Cruz, un’altra
petroliera americana, la Agriworld da 6.771 tonnellate, appartenente
alla Richfield Oil Company. Giunto ad una distanza di circa 450 metri
dall’obiettivo, il sommergibile giapponese colpì l’unità nemica con un siluro
che esplose sul lato poppiero destro della nave (comandata dal capitano
Frederick Goncalves). Pur essendo stato danneggiato dal siluro, lo scafo puntò
verso la costa con un andamento zigzagante in modo da impedire all’I-23 –
che nel frattempo era emerso nonostante il mare molto mosso – di aggiustare la
mira con il suo pezzo di bordo. Dopo avere scagliato otto inutili proiettili
contro il bersaglio il sottomarino fu costretto a desistere e ad immergersi,
consentendo alla Agriworld di dare il segnale di SOS e di guadagnare la
costa della penisola di Monterey, sotto lo sguardo di una numerosa folla di
civili assiepata sulla spiaggia.
La mattina del
22 dicembre, il sottomarino I-21 al comando del capitano Kanji
Matsumura,intercettò al largo di Point Arguello – situato circa 55
miglia a nord di Santa Barbara – la petroliera H.M. Story, appartenente
alla Standard Oil Company. L’unità giapponese emerse e tirò una
cannonata contro la nave americana che tuttavia riuscì a cambiare rotta
nascondendosi dietro una fitta cortina fumogena. Temendo di perdere la preda,
il capitano Matsumura si immerse e lanciò un paio di siluri contro la
petroliera che comunque riuscì ad evitarli. Pochi minuti dopo intervennero
alcuni aerei della Guardia Costiera statunitense che sganciarono diverse bombe
di profondità contro il sommergibile, costringendolo a fuggire in direzione
sud. Anche l’attacco dell’I-21 fu osservato da alcuni civili che
passeggiavano lungo la spiaggia.
Verso le ore
3.00 del giorno seguente, Matsumura intercettò, a circa sei miglia dalla
località costiera di Cayucas (California), una seconda petroliera, la vecchia Larry
Doheney, appartenente alla Richfield Oil Company, che navigava
vuota. L’I-21 emerse e i marinai giapponesi fecero tuonare il cannone.
Il comandante della nave, capitano Roy Brieland, vide esplodere in acqua un
paio di colpi e quindi iniziò fare zigzagare la nave. Dopo circa cinque minuti,
approfittando di un’accostata della petroliera, Matsumura le lanciò contro un
siluro che, dopo essere passato sotto la chiglia della nave, andò ad esplodere
contro la scogliera, svegliando tutti gli abitanti del non lontano villaggio
costiero di Cayucas. Fallito anche il secondo bersaglio, lo sfortunato
Matsumura prese il largo. Ma dopo poco più di due ore incontrò una terza
petroliera, la Montebello della Union Oil Company che, carica,
aveva lasciato il terminal della società di appartenenza situato in prossimità
di Avila.
La nave, agli
ordini del capitano Olaf Eckstrom, tentò per circa dieci minuti di zigzagare,
ma alla fine venne centrata da un siluro. Calate le scialuppe in mare l’equipaggio
(35 uomini) si mise in salvo, proprio mentre il sommergibile, ormai emerso,
iniziava a cannoneggiare la nave. La Montebello affondò nel giro di 45
minuti. Secondo la testimonianza dei marinai, il sottomarino mitragliò con il
suo impianto da 25 millimetri anche le scialuppe e quindi si immerse. I
naufraghi raggiunsero poi la spiaggia a sud della cittadina di Cambria.
La mattina del
24 dicembre, al largo di San Diego, l’I-19 tentò di affondare la goletta
di legno Barbara Olson, ma il siluro le passò sotto la chiglia
esplodendo circa 200 metri oltre. Udito il boato, il cacciasommergibili Amethyst
in perlustrazione al largo di Los Angeles, intervenne a tutta forza in soccorso
della Barbara Olson, ma quando la raggiunse constatò che il sommergibile
giapponese si era già dileguato. Quattro ore più tardi, L’I-19 guadagnò
le acque prospicienti il vecchio faro di Point Fermin (Canale di Catalina),
incrociando poco dopo il piroscafo Absaroka da 5.700 tonnellate della McCormick
Steamship Company , che navigava carico di legname. Il sommergibile lanciò
contro la nave due siluri, uno dei quali colpì il bersaglio. La scena venne
osservata da terra da alcuni soldati addetti ad una batteria costiera. Il
capitano Louie Pringle ordinò ai suoi 33 uomini di abbassare le scialuppe e di
abbandonare la nave, non prima di avere lanciato l’SOS.
Dopo poche
decine di minuti arrivarono alcuni aerei e il caccia Amethyst che lanciò
32 bombe di profondità, non riuscendo però a colpire il sommergibile
giapponese. Nel frattempo, la nave venne agganciata da un rimorchiatore e
trascinata fino ad una spiaggia situata a sud di Fort MacArthur. Il 26 gennaio
1942, la rivista Life uscì con una copertina raffigurante l’attrice Jane
Russell, ritratta sorridente vicino alla grossa falla dello scafo della Absaroka.
Dopo una
settimana di attacchi lungo le coste occidentali statunitensi, i sommergibili
giapponesi (ad esclusione dell’I-9 che era andato in missione nelle
acque di Panama il 20 dicembre) iniziarono a selezionare, secondo gli ordini ricevuti
dal loro Comando, alcuni bersagli di terra.. Ma non se ne fece nulla. Soltanto
l’I-17 riuscì, nel tardo febbraio del ‘42, a bombardare una raffineria
di petrolio e alcune banchine vicino a Santa Barbara, rimanendo in zona per
appena 20 minuti. Tutta la squadra giapponese tornò alle proprie basi delle
Isole Marshall.
Complessivamente,
i nove sommergibili giapponesi che dal dicembre 1941 al gennaio 1942 operarono
lungo le coste occidentali statunitensi affondarono soltanto cinque tra
piroscafi e petroliere americane, per un totale di 30.370 tonnellate di stazza,
danneggiandone altre cinque per 34.299 tonnellate. Nessun sottomarino venne
però perso durante queste azioni. Dal punto di vista psicologico, queste
operazioni nipponiche causarono comunque molta apprensione nell’opinione
pubblica americana e molta preoccupazione nelle alte sfere dell’esercito e
della marina statunitensi. I giapponesi non dimostrarono di sapere approfittare
di questo vantaggio.
* *
*
Nel maggio del
1942, un’altra consistente flottiglia giapponese (composta da unità
appartenenti al Primo e al Secondo Gruppo Sottomarini) venne inviata nuovamente
lungo le coste occidentali statunitensi per cercare di arrecare danni al
naviglio nemico e alle unità operanti lungo il litorale o dirette alle Isole
Midway, Aleutine e a Panama. Il 20 giugno, davanti alle coste dell’Oregon, l’I-25
(proveniente da Guadalcanal) affondò un piroscafo, effettuando, il giorno
seguente, un breve bombardamento sul porto di Astoria.
Il 7 giugno,
l’I-26, operativo al largo della British Columbia, affondò un altro
cargo e bombardò, il giorno 20 dello stesso mese, la stazione radio situata
sull’isola di Vancouver. Anche l’I-7 colò a picco un mercantile in una
zona non precisata. Alla fine di agosto del ‘42 l’I-25 (appartenente al
Primo Gruppo Sottomarini) si spostò davanti a Capo Blanco (Oregon).
L’operazione venne condotta con il preciso scopo di vendicare l’attacco aereo
americano contro Tokyo effettuato l’aprile precedente.
L’I-25
lanciò il suo piccolo idrovolante Yokosuka E14 Y1 GLEN (pilotato dal
tenente Nobuo)con a bordo due bombe sub-alari al fosforo da 76
chilogrammi, andando a colpire una fitta foresta della non lontana dalla costa
(in località Wheeler Ridge, 4 miglia sud est di Mount Emily), provocando un
incendio2. L’aereo fece poi ritorno al sommergibile in
tutta tranquillità (secondo i resoconti del servizio di spionaggio giapponese,
sembra che ai primi di settembre il GLEN dell’I-25 abbia
effettuato una seconda, analoga missione di bombardamento sulla stessa zona
dell’Oregon, arrecando egualmente pochi danni). In seguito a questi attacchi,
il Comando Aereo Statunitense dislocò in Oregon una squadriglia di caccia P-38
per sventare altre minacce.
I primi di
ottobre, l’I-25 affondò due petroliere, la SS Camden da 6.600
tonnellate non lontano da Seattle e la SS Larry Doheney (scampata
fortunosamente all’affondamento nell’inverno del ‘41)vicino a Capo
Sebastian il 5 ottobre. Essendo rimasto con un solo siluro, l’I-25 fece
ritorno in patria (base di Yokosuka) l’11 ottobre, al termine di una buona e
difficile missione. Sulla via del ritorno sembra che l’I-25 abbia affondato per sbaglio il
sommergibile sovietico L-16 che da Vladivostok stava dirigendosi a
Panama. Il 24 ottobre, l’I-25 raggiunse Yokosuka al termine di una
missione di ben 12.000 miglia. Note. 1
I sommergibili
giapponesi impiegati tra il dicembre 1941 e l’ottobre 1942 lungo le coste
nordamericane avevano le seguenti caratteristiche: I-9 e I-10:
dislocamento normale 2.919/4.150 tonnellate; dimensioni 113,7 per 9,55 per 5,3
metri; autonomia 16.000 miglia; potenza 12.400/2.400 hp; velocità 23,5 nodi in
emersione e 8 nodi in immersione; equipaggio 114 uomini; armamento 6 tubi
lanciasiluri da 533 mm. con 18 armi più un cannone da 140/50 mm. poppiero, 2
impianti binati antiaerei da 25 mm., 1 idrovolante monomotore da ricognizione
Yokosuka E14 Y1GLEN catapultabile. I-15, I-17, I-19, I-21 I-23, I-25, I-26:
dislocamento normale 2.589/3.654 tonnellate; dimensioni 108,7 per 9,3 per 5,20;
autonomia 14.000 miglia; potenza 12.400/2.000 hp; velocità 23,6 nodi in
emersione e 8 nodi in immersione; equipaggio 101 uomini; armamento 6 tubi
lanciasiluri da 533 mm. più un cannone da 140/50 mm. poppiero, 2 mitragliere
antiaeree da 25 mm., 1 idrovolante monomotore da ricognizione GLEN
catapultabile. 2
Caratteristiche tecniche
dell’idrovolante Yokosuka E14 Y1 GLEN:
Motore 1 Hitachi Tempu da 340 HP; lunghezza 8,54 metri;
apertura alare m.11; peso al decollo 1.450 kg; velocità massima 246 kmh.;
tangenza massima metri 5.420; autonomia 880 km; armamento 1 mitragliatrice da
7,7 mm. più 60 kg. di bombe alari; equipaggio 1/2 uomini.