Mafia
e potere
1ª parte
La mafia, per essere tale, deve
controllare il territorio; ciò vuole dire necessariamente «fare politica».
Per poter realizzare i suoi «affari» -che sono alla base della esistenza
stessa di questo tipo di criminalità- deve instaurare rapporti con quella che
viene definita «società civile» e con il mondo politico ed economico. I
rapporti con la «società civile» del territorio controllato sono basati sulla
forza attraverso la quale si ottiene l'omertà o anche il consenso. I rapporti
politici ed economici sono fatti di legami palesi ed occulti, di scambi di
favori, di controllo del voti, di minacce, di infiltrazioni, di
condizionamenti. Quando i rapporti politici ed economici si rompono e gli
apparati dello Stato combattono veramente la mafia, essa va in crisi perché
incomincia e perdere il controllo dei territorio e quindi il consenso e
l'omertà. La storia della mafia e del suo sviluppo è quindi, soprattutto,
storia dei suoi legami con il mondo politico ed economico. Già nel primi anni
dell'Unità d'Italia la Mafia ha i suoi legami con il potere politico ed
economico, ma essi sono di sudditanza: il nobile o il borghese, con i voti
dei mafiosi va a fare il deputato a Roma, mentre i mafiosi, con l'appoggio
del nobile e del borghese, vanno a fare i consiglieri nei paesi della
Sicilia. In quel periodo l'opera della mafia è essenzialmente legata
all'agricoltura: impone guardiani nel campi, tangenti sulle greggi e,
soprattutto, cerca di monopolizzare il controllo delle acque, indispensabili
all'agricoltura stessa. Alle elezioni dei 1876 l'opposizione ottiene
in Sicilia ben 43 deputati su 48 e c'è l'avvento al potere della sinistra,
con il governo De Pretis, proprio grazie al voti determinanti dei deputati
siciliani. Si comincia a dire che la vittoria della sinistra è stata
agevolata proprio dal mafiosi e che con la vittoria della sinistra ha vinto
l'opposizione mafiosa. «Nel 1895 (età di Giolitti) -scrive il giudice Rosario
Minna in "Breve storia della mafia"- il generale Mirzi, su ordine
del governo, parte da Palermo e va ad Alcamo per far scarcerare un mafioso la
cui famiglia è essenziale per l'elezione a deputato dei candidato
governativo». In Sicilia le elezioni tra la fine dell'800 e l'inizio del '900
-anche se non esiste il suffragio universale- non hanno nulla di diverso da
quelle dei giorni nostri: ciechi che votano, fucilate e attentati. Nel 1905, a Grammichele, la
mafia spara sul contadini: 18 morti e 200 feriti. Tra la fine del '800 e
l'inizio dei '900, vengono assassinati anche alcuni sindacalisti. Nel 1909 la
mafia uccide a Palermo il poliziotto italo-americano Joe Petrosino impegnato
in indagini proprio sulla mafia. Dell'omicidio viene accusato il boss don
Vito Cascio-Ferro. Al processo, però, don Vito si salva perché un deputato
palermitano testimonia che all'ora dell'omicidio il mafioso era a pranzo in
casa sua. Nel maggio del 1924, Mussolini -capo di un governo di coalizione-
va in Sicilia e, a Piana dei Greci, il sindaco Francesco
Cuccia sull'auto gli dice che non c'era bisogno di tutti quei carabinieri e
poliziotti mobilitati in quanto, essendo sotto la sua protezione, non avrebbe
potuto avere «dispiacenze». Mussolini interruppe la visita e tornò a Roma.
Nella capitale convocò i suoi collaboratori e chiese un uomo da mandare in Sicilia
a combattere la mafia.
Venne fuori il nome di Cesare Mori che, da Prefetto di
Bologna, aveva ordinato al carabinieri di sparare sugli squadristi. Bocchini,
capo della polizia, disse che Mori non era fascista e non capiva niente di
politica. Mussolini gli ribattè che non voleva un politicante e chiuse il
discorso dicendo: «Spero che sia duro con i mafiosi come lo è stato con i
miei squadristi». Mori venne nominato Prefetto di Trapani e dopo pochi giorni
era già in Sicilia. Nell'ottobre del 1925, venne quindi spostato a Palermo
con l'incarico preciso di combattere la mafia. Sull'opera
di Mori in Sicilia si è molto discusso nel dopoguerra e si continua a
discutere ogni qualvolta il problema mafioso si ripresenta nella sua
drammaticità: alcuni -come la televisione di Stato- hanno messo in risalto
una eccessiva durezza del «Prefetto di ferro»; altri hanno cercato di
accreditare la tesi secondo cui Mori avrebbe colpito solo personaggi
secondari (tesi sostenuta anche su "la Repubblica"
del 26 luglio). Si tratta quasi sempre di affermazioni dettate da interessi
di parte, al fine di impedire una seria discussione sul perché del rinascere
della mafia e del suo continuo espandersi nel dopoguerra. Gli studiosi più
seri -anche se antifascisti- sono, però, di tutt'altro parere. Il giudice
Minna, nella citata "Breve storia della mafia", scrive: «Mori,
abile anche nel chiedere ai siciliani di muoversi per primi per liberarsi dai
mafiosi, assesta alla mafia una botta tremenda. Migliaia sono i mafiosi che
se non vengono incarcerati, almeno finiscono per un buon periodo in una
caserma dei carabinieri o in un commissariato di pubblica sicurezza, e i
mafiosi vanno a piedi da casa loro alle caserme, ammanettati per le strade
dei loro paesi, così essi perdona la faccia [...] Mori colpisce duramente i
sindaci e i consiglieri comunali mafiosi che numerosi vanno in galera o al
confino (a cominciare da Cuccia di Piana dei Greci) sotto l'accusa di
associazione per delinquere di tipo mafioso. [ ... ] Anche preti mafiosi è
avvocati capimafia seguono in galera i loro complici mafiosi. [...] Dal 1925
al 1931 numerosi sono i processi che si celebrano contro la mafia, con oltre
100 imputati per volta, e si concludono con pesantissime condanne». In galera
fino alla morte finisce anche don Vito Cascio-Ferro. «E la prima volta
-prosegue Minna- che lo Stato italiano, con Mussolini, usa la violenza
specificamente e direttamente contro la mafia. [...] Tanti sono allora i
mafiosi che, secondo la leggenda che comincia a sorgere su Mori, si danno
spontaneamente nelle mani del prefetto, dopo anni e anni di impunità e di
comoda latitanza». Sergio Turone, nel libro "Corrotti e corruttori"
scrive: «Sul finire degli anni venti il regime fascista -il cui autoritarismo
ferreo ovviamente, non poteva tollerare l'esistenza di un contropotere quale
quello della mafia aveva profuso molte energie nella lotta contro questo tipo
di criminalità organizzata, e la quale aveva inferto molti duri colpi». Lo
storico e giornalista Arrigo Petacco è ancora più chiaro. Ha infatti scritto:
«La mafia [...] ha sempre vinto. Tranne una volta. [...] Accadde in epoca
fascista e l'operazione vittoriosa fu personalmente sponsorizzata dallo
stesso Mussolini». Mori «con alle spalle, oltre che un'eccezionale carriera
di polizia, tre clamorose operazioni antimafia naufragate al momento giusto
per i soliti intrighi tra mafia e politica, [...] ai suoi uomini assegnò
poche semplici direttive.
1) Ottenere subito un successo clamoroso (e lo ottenne deportando nelle isole
migliaia di sospetti, impiegando anche l'esercito e ponendo l'assedio a
interi paesi dominati dai briganti.
2) Seminare il terrore: se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più.
3) Distinguere fra «pesci grossi» e «pesci piccoli»; massima durezza con i
primi, tolleranza con i secondi.
4) Riaprire tutti i processi di mafia precedentemente archiviati.
La valanga, di uomini e di mezzi che Mori rovesciò sulla Sicilia diede
immediatamente i suoi frutti [...]». «Per il quarto punto in programma fu
grande alleato di Mori il Procuratore generale Luigi Giampietro
Rinunciando alla legittima suspicione ("devono essere i siciliani
a giudicare i loro persecutori") Mori e Giampietro organizzarono
nell'isola colossali processi cui veniva data la massima pubblicità. Le
condanne furono naturalmente moltissime e sempre pesanti. Le assoluzioni
assai poche. Per gli assolti c'era comunque il confino di polizia. I due
"Torquemada", come li chiamavano i siciliani, non si fermarono
davanti a nulla. Per esempio: scoperto che molti mafiosi avevano trovato rifugio
nelle file fasciste, Mori sciolse addirittura la Federazione dei fasci di
Palermo e rinviò a giudizio il segretario [...] fu certo un atto molto
coraggioso. Assai più coraggioso di quello -mai accaduto- di sciogliere,
tanto per fare un esempio, la DC palermitana di Ciancimino».
Quest'ultima affermazione taglia corto anche sulle sciocchezze dette
nella trasmissione televisiva "Lezione di mafia". Provino i partiti
antifascisti, provi lo Stato democratico a sciogliere le sezioni di partito
in cui sono non solo infiltrati ma palesemente presenti e ben accolti i
mafiosi!
Il fascismo non operò soltanto sul piano della repressione. Se ai primi del
'900 la nobiltà siciliana possedeva i tre quarti delle terre, alla fine della
IIª Guerra Mondiale tale possesso era ridotto al 27%; se la mafia aveva
cercato di monopolizzare il controllo delle acque, lo Stato fascista operò
per garantire l'acqua ai siciliani. Caduto il fascismo per la sconfitta
militare, la mafia torna prepotentemente alla ribalta, torna ad acquisire
potere; quel potere che è la ricompensa per la collaborazione fornita agli
americani prima, durante e dopo l'invasione dell'Italia. Scrive Sergio
Turone: «[Gli americani] per agevolare il successo dello sbarco in Sicilia,
sollecitarono tramite la
mafia USA la collaborazione dei mafiosi locali. [...] Il
più noto degli intermediari Lucky Luciano, viene così liberato dal
penitenziario, graziato e rispedito in Italia. La mafia aveva già conosciuto
momenti di splendore, ed altri ne avrebbe avuti negli anni successivi,
tuttavia sempre in una posizione di marginalità rispetto al potere ufficiale.
Nel 1943, dopo lo sbarco americano, ebbe per la prima volta nella sua storia
l'onore di essere portata alla ribalta come struttura politico-amministrativa
riconosciuta, garantita dalle truppe d'occupazione. I vecchi padrini poterono
dunque aggiungere alla forza della tradizione il fresco prestigio che
procurava loro la protezione dei vincitori». Anche il giudice Minna
sottolinea il legame fra la caduta dei fascismo e la riconquista del potere
da parte dei mafiosi. Infatti scrive: «Scomparso il fascismo, i mafiosi
riapparirono prepotentemente, come è nel loro stile, in pubblico. [...] Il
generale dei Carabinieri Castellano, nel gennaio del 1945, presenta agli
americani la possibilità di mettere insieme separatisti, mafia e partiti per
governare la Sicilia contro il banditismo e la violenza generale».
Interessante in proposito una lettera del console americano a Palermo, Alfred
T. Nester, del 27 novembre 1944.
In essa si legge: «[...] Durante gli incontri segreti
tra il generale Castellano e i capi della mafia, il cav. Calogero Vizzini
aveva con sé, come consigliere, il dr. Calogero Volpe, medico
[...] Vizzini è il padrone della mafia in Sicilia». Dal canto suo, Arrigo
Petacco scrive: «[La mafia] si risvegliò infatti soltanto nel 1943 in coincidenza con
l'arrivo degli americani. Molti mafiosi poterono così rientrare dal confino
vantando addirittura improbabili meriti antifascisti. Don Calogero Vizzini,
capo supremo della nuova mafia, fu visto percorrere l'isola a bordo di una
carro armato americano: indicava agli alleati gli uomini giusti da mettere
alla guida dei comuni e delle province. Anche Genco Russo, altro boss mafioso
di grande avvenire, rientrò dal comodo confino di Chianciano dove Mori lo
aveva fatto "deportare". Anche lui si disse vittima del fascismo ed
ottenne in premio la croce di cavaliere della Repubblica.
La
"Onorata Società" era dunque tornata in sella.
Per la mafia cominciava una nuova era». E che la mafia sia ritornata con la
"democrazia" lo ammette anche il comunista Malagugini il quale,
nella dichiarazione di voto che accompagna la relazione di minoranza del PCI
sulla mafia -relazione che reca come prima firma quella di Pio La Torre-
dice: «La
Commissione Antimafia doveva offrire una risposta alla
seguente domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia
nel nostro Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la
rinascita dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali
forze politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?». Ma
non basta! Giuseppe Niccolai ricordava spesso
che l'art. 16 del Trattato di pace firmato dall'Italia alla fine della IIª
Guerra Mondiale stabilisce l'impegno dello Stato italiano a non perseguire
penalmente coloro che avevano collaborato con gli «alleati». Quando la Commissione Antimafia
-di cui Niccolai era attivissimo componente- chiese di prendere visione
dell'elenco dei nomi di «collaboratori» allegato al Trattato, quell'elenco
non si riuscì più a trovarlo. Ma noi sappiamo che a collaborare con
gli «alleati» erano stati sicuramente moltissimi mafiosi: Lucky Luciano,
appositamente liberato dal carcere; Calogero Vizzini, nominato sindaco di
Villalba; Giuseppe Genco Russo, nominato capo dell'Ufficio Assistenza Civile
del mandamento di Mussomeli; Vito Genovese -che diventerà poi il «capo dei
capi»- nominato interprete di fiducia del colonnello Charles Poletti; Max Mugnani -trafficante di droga- nominato
depositario dei magazzini farmaceutici americani in Sicilia. I mafiosi,
tornati ad operare in modo palese, instaurarono subito rapporti con il mondo
politico. Negli allegati alla relazione della Commissione Antimafia si legge:
«[...] Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò le sue scelte
politiche verso la DC.
Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali,
ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del
partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogero Vizzini e perciò della
mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue file. [...]
A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella DC; a Vallelunga Lillo
Malta passa alla DC con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra ecc.;
anche il gruppo Cammarata passò alla DC. A Mussomeli Genco Russo e tutto il
suo seguito si iscrissero alla DC assumendo la direzione della sezione». La
compenetrazione, l'unicità di interessi ed intenti fra mafia e poteri dello
Stato che si realizzano con l'arrivo degli americani, appaiono evidenti fin
dai primi anni della Repubblica ed
esplodono con il «caso Giuliano». Salvatore Giuliano non era un mafioso, era
diventato bandito perché aveva ucciso un carabiniere che lo aveva fermato con
un sacco di farina sulle spalle. Il primo maggio del 1947 la banda di
Giuliano spara, a Portella delle Ginestre, contro i contadini che
manifestano. È la prima "Strage di Stato». Beppe
Niccolai ricordava che gli ispettori-capi della polizia, Ettore Messana e
Ciro Verdiani, andavano a fare visita a Giuliano latitante; che Ciro Verdiani
consegnava a Giuliano i nomi dei carabinieri infiltrati nella sua banda, e
che lo stesso Verdiani portava al bandito il panettone per Natale, brindava
insieme a lui e lo accompagnava ai grandi magazzini di Palermo a comprarsi il
vestito. Il 5 luglio del 1950, un comunicato del Ministero
dell'Interno annunciava che Salvatore Giuliano era morto in un conflitto a
fuoco con i carabinieri. Nella relazione del colonnello Luca si diceva che il
mitra dei bandito si era inceppato dopo il dodicesimo colpo -caricatore da
40- «forse per la eccessiva compressione della molla rimasta per troppo tempo
inoperosa», e si elencavano i carabinieri che avevano partecipato al
conflitto e il numero dei colpi di mitra sparati da ciascuno di essi.
Non era vero niente!
Due giorni dopo il quotidiano "l'Unità"
-in un articolo di Maurizio Ferrara- avanzava l'ipotesi che i carabinieri per
liquidare Giuliano avevano fatto ricorso alla mediazione e all'aiuto della
mafia. Sergio Turone ricorda che la ricostruzione completa dell'intera
vicenda apparve sul "l'Europeo". Fu proprio "l'Europeo" a
rivelare che Giuliano non era stato ammazzato dal carabinieri, ma era stato
assassinato, su commissione, mentre dormiva, da suo cugino Gaspare Pisciotta.
Beppe Niccolai raccontava, poi, che solo dopo
morto Giuliano era stato colpito da una raffica di mitra per dare credito
alla relazione dei carabinieri. Gaspare Pisciotta fu arrestato il 9
dicembre del 1950 e nel processo che si tenne a Viterbo, per la strage di
Portella delle Ginestre, ammise di avere ucciso Giuliano nel sonno; dichiarò
che l'incarico gli era stato affidato personalmente dal Ministro
dell'Interno, il democristiano siciliano Mario Scelba (quello della legge
contro la ricostruzione dei partito fascista!), e che la strage di Portella
delle Ginestre era stata ordinata dal democristiano Bernardo Mattarella e dai
monarchici Alliata di Montereale e Cusumano Geloso. La dichiarazione su Mario
Scelba fu giudicata estranea al processo. Mattarella, Alliata di Montereale e
Cusumano Geloso furono prosciolti in istruttoria. Pisciotta -che nel corso
del processo aveva dichiarato che banditi, polizia e mafia erano un corpo
solo, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo- fu condannato per la
strage di Portella delle Ginestre, ma il 9 febbraio del 1954 veniva
assassinato in carcere con un caffè avvelenato. Scrive in proposito Sergio
Turone -sempre nel libro "Corrotti e corruttori": «[...] Mario
Scelba non era più Ministro dell'Interno dal 16 luglio 1953. In quel delicato
ministero gli era succeduto uno dei più abili e dinamici delfini di De
Gasperi: Amintore Fanfani. Fanfani restò all'Interno fino al 18 gennaio 1954,
giorno in cui per la prima volta fu designato alla Presidenza dei Consiglio e
formò un monocolore democristiano. Nella nuova compagine governativa il
Ministero dell'Interno fu affidato a Giulio Andreotti, allora legatissimo a
Scelba. Quel governo durò in carica solo 23 giorni e cadde per la mancata
fiducia alle Camere, il 10 febbraio». A proposito delle responsabilità
politiche del delitto («le quali potrebbero coincidere o non con quelle
penali»), Turone prosegue: «Qualora si ritenga che per ottenere e progettare
un delitto fra le mura di un carcere occorra una preparazione più lunga di
tre settimane, il ministro responsabile deve essere indicato nel predecessore
di Andreotti: Fanfani. Se invece si ritenga, in teoria, che a un ministro
furbo e spregiudicato venti giorni siano sufficienti per fare organizzare la
liquidazione fisica di un testimone pericoloso carcerato, allora l'oggettiva
responsabilità politica dei fatto ricade su Andreotti. [...] Il 10 febbraio
1954 (coincidenza curiosa: proprio il giorno successivo alla morte di Pisciotta)
divenne Presidente del Consiglio Mario Scelba, che assunse, guarda caso,
anche il Ministero dell'Interno e conservò la carica per un anno e mezzo».
2ª parte
Nonostante gli avvenimenti
connessi all'arrivo degli angloamericani, nonostante il «caso Giuliano» negli
anni Cinquanta e Sessanta non sono pochi i politici e i magistrati che negano
perfino l'esistenza della mafia che, invece, agisce e celebra i suoi riti
alla luce dei sole. Da "Il venerdì di Repubblica":
«Anche in quell'anno, il '61, la festa della Madonna della Catena cadeva
nella seconda domenica di settembre [...] La processione in onore della
patrona all'improvviso si fermò, la folla voltò le spalle alla matrice e
mille occhi guardarono il vecchio sul balcone. Dietro c'era il figlio, il
primogenito. Era poco più di un ragazzo. Il vecchio lo abbracciò davanti a tutti
e tutti capirono. A Riesi, case di tufo sparse intorno alle miniere di zolfo
della Sicilia profonda, quel giorno era nato un nuovo capomafia. Da tre
generazioni i Di Cristina si tramandavano il potere, da un secolo si
passavano lo scettro dei comando sulla piazza del paese [...]». Sergio
Turone, da un volume-inchiesta sulla mafia, desume questa descrizione di
Palermo agli inizi degli anni Sessanta: «Sindaco è Salvo Lima, un giovane
fanfaniano protetto da Giovanni Gioia; e assessore ai lavori pubblici è Vito
Ciancimino, pupillo di Bernardo Mattarella. È con Lima e Ciancimino che si
accolgono numerose «osservazioni» al piano regolatore (e se ne avvantaggiano
notissimi mafiosi) e che l'80% delle licenze edilizie vengono rilasciate a
prestanome. È il periodo di massima ascesa di Angelo e Salvatore La Barbera
che trovano tutte le porte aperte al Comune; ed è quello dell'affermazione
del costruttore miliardario "don" Ciccio Vassallo». A proposito di
Giovanni Gioia, Nando Dalla Chiesa ha scritto: «Lo scrittore Michele
Pantaleone, nel suo libro "Antimafia, occasione mancata", aveva
dato a Gioia del mafioso [...] Gioia querelò sia Pantaleone sia l'editore
Einaudi. Le prove vennero fuori [...] Pantaleone ed Einaudi furono assolti.
Per la prima volta un tribunale della Repubblica
aveva riconosciuto che un ministro della Repubblica
era un mafioso». Per quanto riguarda la mappa del potere in Sicilia negli
anni immediatamente successivi, Nando Dalla Chiesa così prosegue: c'è «poi
Attilio Ruffini, ex-doroteo, già ministro della Difesa e degli Esteri In
prima fila [...] al funerali di don Calogero Volpe e poi ospite di gala a una cena
elettorale organizzata nel '79 dalla banda delinquenziale (traffico di droga)
degli Spatola e degli Inzerillo, allora membro come Lima della direzione
nazionale democristiana. [...] Il maggior potere economico è invece detenuto
dal costruttore Cassina [...] ma soprattutto dai cugini Salvo Lima e Antonio
Ardizzone, proprietario del "Giornale di Sicilia",
la cui famiglia è a sua volta in rapporti di amicizia con Michele Greco, il boss
mafioso condannato all'ergastolo per l'assassinio dei giudice Chinnici.
Altri personaggi dotati di potere reale sono Aristide Gunnella e l'avvocato
Vito Guarrasi. A proteggere Lima e Ciancimino non ci sono solo i democristiani.
Ciancimino viene eletto Sindaco di Palermo nel novembre del 1970; viene
subito presentata una mozione per le immediate dimissioni del Sindaco
«mafioso»; ma Ugo La Malfa -segretario nazionale del Partito Repubblicano, con fama di moralizzatore- invia un
telegramma in cui si dice in sostanza: «Se fate dimettere Ciancimino io
provoco la crisi su tutto il territorio nazionale ...». Gli anni Settanta,
quelli in cui i personaggi anzidetti accrescono il loro potere, sono anni
cruciali per lo sviluppo della mafia. Luciano Leggio (detto Liggio), dopo
avere eliminato don Michele Navarra, dà inizio all'era dei Corleonesi (a
proposito di Liggio, nel 1974, il giornalista Zuffino manifestò il sospetto
che questi sapesse qualcosa sulla bomba di piazza Fontana del 12 dicembre
1969). Anche se proprio durante gli anni Settanta Liggio, Alberti, Coppola,
Badalamenti ecc. finiscono o al confino, o in galera, o uccisi, la mafia non
perde potere ma, anzi, si espande, cresce, si modernizza -anche su consiglio
di "Cosa Nostra" americana- e i delitti eccellenti che prima erano
stati rarissimi (quattro in un secolo) diventano pane quotidiano.
E proprio negli anni '70 scoppia uno dei casi più clamorosi che mette in
evidenza i legami tra mafia, alta finanza e poteri politici: il "caso
Sindona". Sindona era appena un giovanotto negli anni in cui gli
americani -con l'aiuto della mafia- sbarcavano in Sicilia. Negli anni in cui
nasceva la Repubblica, Sindona
lasciava l'isola per raggiungere Milano, con in tasca alcune lettere di presentazione
per influenti personaggi dello stato post-fascista. Ambizione, intelligenza
ed "amicizie giuste" facevano in pochi anni di Michele Sindona un
potentissimo finanziere con le mani in pasta in numerose società finanziarie
e banche in Italia e in America. Nel 1973 Sindona organizzava all'Hotel Regis
di New York un pranzo in onore di Giulio Andreotti che, proprio in quella
occasione, gli attribuì il titolo di "salvatore della lira". Pochi
mesi dopo, però, l'impero finanziario del banchiere italo-americano è allo
sfascio. Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, chiama l'avvocato
Giorgio Ambrosoli per rimettere ordine in quell'impero. Beppe Niccolai, nella rubrica "Rosso e
Nero" sul "Secolo d'Italia" del 1 giugno 1984, scriveva: «C'è
una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È indirizzata
all'allora Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, capo di un
governo retto anche dai voti del PCI. Proviene dall'America. La busta reca il
recapito: Hotel Pierre Nuova York. Il bancarottiere, inseguito da un mandato
di cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente del
Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: contrastare
l'estradizione richiesta dai giudici milanesi; esercitare pressioni
sull'apparato giudiziario e amministrativo perché recedano dal comportamenti
contrari a lui, Sindona; sistemare gli affari delle banche dichiarate
fallite; opporsi alla sentenza di insolvenza [...]». Il 17 dello
stesso mese su "OP", l'agenzia di Mino Pecorelli, si poteva leggere
per come riportato da Turone: «Siamo entrati in possesso di un documento
relativo all'istruttoria Sindona - in particolare della parte che si
riferisce al professionista che percepì dal salvatore della lira il miliardo
da girare al Presidente dei Consiglio [Giulio Andreotti]. Esistono le prove
documentali che il Presidente del Consiglio ha percepito un miliardo da
Michele Sindona -che un altro miliardo è stato pagato ad un ex-segretario
politico di un partito- che ben quindici miliardi sono stati versati nelle
casse di un partito politico (lo stesso del Presidente del Consiglio e
dell'ex-segretario politico in questione)». Nella
citata rubrica "Rosso e Nero", Niccolai riportava quanto scritto da
"il
Corriere della Sera": «il 15 e il 25 luglio '78 Rodolfo
Guzzi (avvocato di Sindona arrestato per estorsione in questi giorni) viene
ricevuto a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo
mette al corrente del piano di salvataggio delle banche di Sindona. Andreotti
spiega all'interlocutore che la persona più adatta per valutarlo è il
ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il nome di Gaetano Stammati
risulterà poi nell'elenco degli iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti
che fissa l'incontro Guzzi e Stammati. Il 20 settembre '78 il ministro dei
Lavori Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi
Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo viene
riferito tanto all'on. Andreotti che all'avvocato Guzzi». Prosegue Niccolai:
«[...] Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico
Cuccia, Consigliere delegato di Mediobanca, che, minacciato di rapimento dei
figli, collabora alla stesura di un piano di salvataggio. A dire
"no" ai piani di salvataggio è ancora Giorgio Ambrosoli [...]».
Dagli atti del processo per l'assassinio dell'avvocato Ambrosoli risulta che
lo stesso avvocato il 9 gennaio '79 ricevette nel suo studio una telefonata
in cui l'interlocutore diceva che tutti davano la colpa a lui (Ambrosoli);
«sia il Grande Capo sia il
Piccolo, il signor Cuccia»; e l'anonimo telefonista
spiegava all'allibito avvocato che il Grande Capo altri non era che
Andreotti. L'11 luglio, alle ore 23,30, Ambrosoli veniva assassinato appena
sceso dalla sua auto. Ai suoi funerali nemmeno una corona dello Stato.
Qualche giorno prima aveva confessato ad un amico: «Mi minacciano di morte.
Ho sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe della
credibilità dello Stato».
Anche lui, come Dalla Chiesa, come Falcone, come Borsellino, credeva
in uno Stato che non si identifica con le istituzioni e con gli uomini che le
rappresentano! Assassinato finirà anche Mino Pecorelli. Alcuni anni dopo,
Michele Sindona -che in precedenza, per sfuggire al processo, aveva inscenato
un suo finto rapimento con l'intervento della mafia e della massoneria- verrà
estradato in Italia per essere processato. Durante le prime battute dei
processo cercherà di mandare segnali rassicuranti per i suoi amici e
protettori; cercherà di far capire che non ha intenzione di parlare. Non
verrà creduto. Finirà assassinato in carcere con una tazzina di caffè
avvelenato. Come Pisciotta. Proprio in quegli anni (gli anni 70) la Sicilia è
ancora una volta terra di esperimenti politici: si tesse la tela del
«compromesso storico» che porterà poi i comunisti nella maggioranza che
sostiene il governo Andreotti ai tempi del «caso Sindona». A guidare il PCI
siciliano è Achille Occhetto; e il PCI tesse la sua tela con il partito più
imbevuto di mafia. In quegli anni si indaga sulla scomparsa del giornalista
Mauro De Mauro, ma il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, impegnato
nelle indagini viene assassinato (agosto '77) insieme al suo amico prof.
Filippo Costa. Sul settimanale "il Candido" sta scritto: «In quel
momento non solo i dirigenti politici romani, ma anche i ras DC-PCI
dell'isola (Giovanni Gioia, Salvo Lima, Attilio Ruffini, Nino Gullotti,
Achille Occhetto, Pio La Torre) possono finalmente convenire che sull'affare
De Mauro-Scaglione è stata posta definitivamente la parola "fine".
È vero che restano ancora in vita e in attività di servizio gli antichi
dirigenti della squadra omicidi della questura di Palermo, Bruno Contrada e
Boris Giuliano, che ai tempi dell'inchiesta sulla sparizione di De Mauro
erano stati i più decisi accusatori della banda Verzotto-Guarrasi e, di
riflesso, del loro grande protettore Eugenio Cefis [ex-capo partigiano]». Il
30 maggio '78 viene assassinato anche Giuseppe Di Cristina, il pezzo da 90,
«uomo di mano del democristiano Graziano Verzotto» il quale è recentemente
rientrato in Sicilia dopo un lungo periodo di latitanza, in quanto amnistie
varie hanno annullato la condanna a suo carico. Di Giuseppe Di Cristina
-quello delle consegne in piazza durante la processione- parlava anche
Giovanni Falcone, ricordando quanto gli aveva detto il pentito Antonio
Calderone: «Per esempio, il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, deluso
dalla mancanza di aiuto concreto da parte della Democrazia Cristiana per
alleggerire le misure di sorveglianza di pubblica sicurezza, si è rivolto al
repubblicano Aristide Gunnella. Di Cristina è stato poi anche assunto in un
Istituto regionale su proposta dello stesso Gunnella». «C'è da meravigliarsi
se il Partito Repubblicano ha
raccolto "una valanga di voti" alle elezioni di Riesi, per dirla
con Calderone?»
Ma torniamo agli esperimenti politici
Ha scritto Nando Dalla Chiesa,
uomo di sinistra: «La mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente proprio
nel decennio in cui cresce -e non di poco- la forza della Sinistra.
Spiegazioni a iosa, d'accordo. Ma c'è un interrogativo inquietante. Quali
sono i princìpi che regolano tattiche, strategie, formule e soprattutto
alleanze della sinistra in quel periodo? Forse le leggi della politica che
essa pratica sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? [...] c'è
a sinistra un approccio al potere che va criticato impietosamente. Senza di
che la denuncia delle responsabilità democristiane resterà sacrosanta quanto
inefficace».
Questo approccio non riguarda solo la Sicilia
Franco Martelli, in "La
guerra mafiosa", scrive: «C'era comunque, e soprattutto nelle forze di
sinistra, un difetto di origine: le organizzazioni mafiose, laddove
esistevano, non essendosi ovunque caratterizzate come sostegno agii agrari
(ciò era avvenuto più nella zona di Gioia Tauro, di meno nella lonica e
sull'Aspromonte) venivano viste pur sempre come forma di ribellione e di
reazione, quasi che il riscatto potesse passare anche, dopo tutto, attraverso
questa prima fase per così dire grezza della rivolta. La cosiddetta
"repubblica" di Caulonia del marzo '45 ne era stata illuminante
testimonianza». E a questo punto Martelli riporta quanto sostenuto da Sharo
Gambino nel suo libro "Mafia. La lunga notte della Calabria",
proprio a proposito della "Repubblica
rossa" di Caulonia: «È certo comunque che presero parte alla rivolta
anche i mafiosi, ovvero i braccianti aderenti alle "ndrine" locali.
È altrettanto certo che la rivolta si nutrì di comportamenti e persino di
rituali mafiosi». E che la sinistra -e i comunisti in prima fila- avessero
attenzioni a dir poco benevole nei confronti della mafia lo dimostra quanto
scritto il 26 aprile '44, sul settimanale della Federazione Provinciale di
Palermo del PCI, in un articolo intitolato "La mafia".
Ecco una significativa parte:
«I componenti della vecchia
mafia nelle lotte per la conquista delle terre non avranno più bisogno di
mettersi fuorilegge: solo adattandosi ai nuovi tempi e al nuovi bisogni di
unione con tutti i lavoratori essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed
emanciparsi economicamente come tutti i contadini. Il separatismo e la mafia
hanno interessi diametralmente opposti: se questa oggi è allettata dai
latifondisti con lauti stipendi e larghi utili per il concorso al
contrabbando, è perché essa è utile; ma se per caso domani i latifondisti si dovessero
di nuovo consolidare, troverebbero un altro Mori per reprimere nuovamente i
loro alleati». Quale sia stato poi l'approccio dei comunisti alla politica e
soprattutto al potere è dimostrato dal fatto che perfino Pio La Torre nel
dicembre dei '74, in
tempo di compromesso storico e di crescita mafiosa, dichiarava: «Do atto che
in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è stato un processo critico,
autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno sforzo di rinnovamento che si
tenta (in mezzo a mille difficoltà di portare avanti [...] Non vi è dubbio
che la presa della mafia e il suo potere sull'elettorato in Sicilia si siano
ridotti e si sono ridotti per tutto quello di progresso e di sviluppo che in
Sicilia c'è stato». Mentre la mafia cresceva ed aumentava il suo potere, Pio
La Torre diceva, al contrario, che la sua forza e il suo potere si
riducevano.
Tutto ciò perché Il PCI e la DC si erano messi
d'accordo
Lo stesso Pio La Torre nella
relazione dei PCI nella Commissione antimafia -che è una relazione di
compromesso- difendeva Vito Guarrasi, il cui nome compariva più volte negli
atti della Commissione stessa. Per difenderlo -diceva- «dagli attacchi della
destra fascista». Chi sia Vito Guarrasi lo dice -oltre alle numerose
citazioni negli atti dell'Antimafia- anche una pagina dei memoriale di
Giuseppe Insalaco, il sindaco di Palermo assassinato dalla mafia. Insalaco
scriveva che Guarrasi, quale inviato dal conte Cassina, lo voleva convincere
a scegliere la trattativa privata per «quell'appalto»; in questo modo avrebbe
evitato di essere travolto da una vicenda giudiziaria che stava maturando al
Palazzo di Giustizia contro di lui, e di cui Guarrasi era misteriosamente a
conoscenza. Nel diario di Rocco Chinnici -il magistrato assassinato dalla
mafia- c'è un appunto in data 17 aprile '81. Eccolo:
«Ore 18, viene a trovarmi il marchese De Seta; dopo avermi raccontato delle
sue vicende con l'avvocato Guarrasi, mi fa presente che costui è intimo amico
dei senatore Emanuele Macaluso. Mi riferisce che alla galleria d'arte
"La Tavolozza" (il cui proprietario effettivo è Renato Guttuso) si
recava spesso il dott. Boris Giuliano, il quale in quella sede, parlando con
Leonardo Sciascia e qualche altro, si riteneva certo che responsabile del
sequestro Di Mauro era proprio il Guarrasi [Boris Giuliano era il
vice-questore di Palermo poi assassinato dalla mafia]». Scriveva Niccolai: «Importante Vito Guarrasi per il
PCI. Al punto che il 30 maggio '74 [...] Emanuele Macaluso, direttore de
"l'Unità" inviò al ministro dell'interno un'interrogazione,
chiedendo, in modo perentorio, l'allontanamento dal servizio dei questore
Angelo Mangano perché costui, in dichiarazioni rese davanti alla Corte di
Assise di Palermo, aveva osato dire, sul conto di Guarrasi, quello che oggi
si trova scritto sui diari di Rocco Chinnici: Vito Guarrasi, la testa
pensante della mafia in Sicilia». Macaluso, chiamato in causa dalla
pubblicazione dei diari di Chinnici, fece emanare una precisazione in cui
affermava che la sua amicizia con Guarrasi era conseguenza dei rapporti che
lo stesso Guarrasi intratteneva con tutto il gruppo dirigente comunista
siciliano, e ricordava che Guarrasi era stato candidato nel '48 nelle liste
del Fronte Popolare, era stato poi amministratore del «giornale democratico
di Palermo "l'Ora" e consigliere giuridico di Enrico Mattei e
dell'ENI». I rapporti di Guarrasi con il PCI -secondo Macaluso- si sarebbero
poi interrotti dopo l'esperienza del governo di Milazzo. Peccato che
l'interrogazione dello stesso Macaluso, prima riportata, sia successiva di
quasi quindici anni a quel governo siciliano. Pio La Torre finirà poi
massacrato dalla mafia e Niccolai invitava ad
andare a guardare all'appalto del Palazzo dei Congressi di Palermo, («un
appalto di diversi miliardi. Una ditta cara a sinistra, data per vincente, e
che poi non ce la fa») e al racconto che si fa nella relazione di minoranza
dei MSI -redatta dallo stesso Niccolai e definita «una cosa seria» da
Leonardo Sciascia- «della convenzione che il Comune di Palermo stipula con la ditta Vaselli
negli anni '60, per il rinnovo dell'appalto della nettezza urbana. E si
troverà che anche Pio La Torre si portava dietro i suoi peccatucci, tipici di
una situazione, quella siciliana, dove il PCI è stato sempre non forza di
opposizione, ma di potere, niente altro che forza di potere».
Altri fatti ancora mostrano quale sia stato -e quale sia ancora-
l'approccio dei PCI (e della sinistra in generale) al potere e alla politica.
Fatti che fanno capire e che fanno apparire «naturale» quello che è successo
in questi anni in Sicilia, a Milano (tangentopoli) e in ogni angolo d'Italia.
Anni fa Niccolai scriveva -tramite il "Giornale di Sicilia"
e "l'Unità"- una lettera (mai pubblicata perché il destinatario non
ne volle sapere di rispondere) indirizzata ad Emanuele Macaluso, «per sapere
se il PCI non partecipasse almeno in Sicilia al sistema di potere DC», e
chiedeva: «che cosa ci faceva, nel febbraio del '72, nel Consiglio di
Amministrazione della finanziaria GEFI, proprietaria del pacchetto di
maggioranza dell'ex-Banca Loria, poi Banco di Milano di Michele Sindona,
l'avvocato Calogero Cipolla, all'epoca presidente del giornale (comunista)
"l'Ora" di Palermo, consigliere di amministrazione del quotidiano
(comunista) "Paese Sera", fratello del senatore (comunista) Nicolò
Cipolla, già membro della Commissione Antimafia [...]». Quello di non
rispondere quando è in difficoltà è per Macaluso un vizio. Infatti non ha mai
voluto rispondere nemmeno alle richieste di spiegazioni sul passaggio delle
vecchie miniere baronali dalla mano privata a quella pubblica. Un «affare» a
proposito del quale Leonardo Sciascia ha scritto che «nulla capiremo della
mafia finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda». C'è poi
una dichiarazione di Maria Fais, amica della famiglia La Torre, rilasciata
dopo l'assassinio del parlamentare comunista, che si salda perfettamente con
quanto detto: «Pio sospettava che "l'Ora" e "Tele l'Ora",
testate del PCI fossero finanziate da imprenditori siciliani vicini alla
mafia». Che l'approccio alla politica dei PCI fosse uguale a quello della DC
anche fuori dalla Sicilia lo dice poi il democristiano Cirino Pomicino in una
dichiarazione del 1982. Eccola: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli
presentano un dato di continuità: quello dei rapporto tra gruppo doroteo
della DC ed amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra
Andrea Geremicca deputato ed assessore di punta comunista e Raffaele Russo,
gaviano. La gestione di ventimila alloggi da costruire e distribuire in base
alla legge Andreatta è stata manipolata da un cosiddetto comitato politico
che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei». La fine degli anni
Settanta e l'inizio degli anni Ottanta sono caratterizzati da una lunga serie
di delitti «eccellenti». Cadono, tra gli altri, il già citato Boris Giuliano,
Cesare Terranova, Michele Rejna, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Piersanti
Mattarella. Nell'aprile del 1982 muore anche -come già detto- Pio La Torre,
segretario regionale del partito Comunista. Questo delitto precede di soli
quattro mesi un altro delitto «eccellente», che è anche un delitto
annunciato: quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa
3ª parte
Dalla Chiesa, reduce dal
successo contro il terrorismo, viene nominato Prefetto di Palermo. Sembra un
segnale importante. Si crede che il governo voglia combattere davvero la
mafia. Ma è solo apparenza. Il figlio del generale, Nando, racconta nel
suo libro "Delitto imperfetto" che, prima di partire per la
Sicilia, il padre ebbe un incontro che sarebbe stato «(...) per il suo
destino un incontro cruciale: quello con Giulio Andreotti». Dopo questo
incontro il Generale avrebbe detto: «Sono andato da Andreotti e quando gli ho
detto tutto quello che so dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia».
Andreotti, dal canto suo, ha smentito che in quell’incontro si sia parlato
dei rapporti mafia-politica. Però, nel suo diario, nella pagina del 6 aprile
1982, il Generale ha lasciato scritto: «Poi ieri anche l’on. Andreotti mi ha
chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia,
si è manifestato, per via indiretta, interessato al problema. Sono stato
molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella
parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori». Chi ha
mentito? Comunque, appena Dalla Chiesa arriva in Sicilia incominciano
le polemiche sui poteri da conferirgli. E a schierarsi contro di Lui sono
proprio gli uomini e i partiti di governo che li avevano promessi e che,
secondo Nando Dalla Chiesa, erano stati posti dal padre come condizione per
l’accettazione della nomina. Comincia il socialdemocratico Carlo Vizzini
ricordando che il compito affidato al neo-prefetto era quello di «Spezzare le
pericolose collusioni tra la delinquenza organizzata e l’eversione». (Quindi
non i legami tra mafia e politica). I giornali del 13 agosto riportano la
notizia che il Ministro degli Interni Rognoni e il Presidente del Senato,
Fanfani, sono contrari all’idea di un Dalla Chiesa nazionale. Scrive il
giudice Minna: «Qualcuno del governo non vuole che Dalla Chiesa faccia il suo
dovere ...». Sul "Giornale
di Sicilia" del 18 agosto il vicario episcopale Padre Francesco Michele
Stabile dichiara: «La gente comincia a pensare che i gruppi di potere una
direzione operativa a Dalla Chiesa non vogliono dargliela perché il Prefetto
potrebbe davvero sconfiggere la mafia (...). Troppe complicità fra i pubblici
amministratori. Troppe collusioni ed anche troppe omissioni ...». E quali
fossero le collusioni lo diceva lo stesso Generale il quale, secondo il figlio,
dichiarava: «Ora sono stato mandato in Sicilia. Non ci posso far niente se lì
i più legati alla mafia sono democristiani». Ma i problemi per lui sarebbero
stati non solo con la DC, ma anche con i partiti laici. In un’intervista a
"Il Mondo", Angelo Sanza, uomo di governo democristiano, legato a
De Mita, delegato ai problemi della polizia, affermava che Dalla Chiesa non
poteva avere a Palermo compiti che sono propri di organizzazioni
centrali. Secondo Nando Dalla Chiesa il messaggio lanciato da Sanza sarebbe
stato questo: «Dalla Chiesa è un prefetto come gli altri, non ha e non avrà
nessun potere in più ...» e «Di fatto significa, ancora, che lo Stato, se
sarà toccato Dalla Chiesa, non riterrà di essere stato colpito al cuore, di
doversi mettere in guerra con la mafia». Lo stesso Nando così commenta: «Se
non sbaglio, quel messaggio ha trovato orecchie attente». In questo clima,
mentre la mafia continua ad uccidere e a far sapere che è cominciata
"l’operazione Carlo Alberto", si arriva quasi a negare l’esistenza
stessa della mafia, o almeno la collusione con i politici: il sindaco di
Palermo, Martellucci, dichiara: «Io non conosco collusioni mafiose al Comune
di Palermo», e il prefetto di Catania, Abatelli, afferma: «Qui la mafia non
esiste». Dalla Chiesa cerca allora di utilizzare la stampa per costringere il
governo ad uscire allo scoperto e a muoversi. Concede a Giorgio Bocca la
famosa intervista in cui dichiara di essere stato lasciato solo e di essere,
per questo, un facile bersaglio per la mafia. Ma il Presidente del Consiglio, il
Ministro degli Interni e tutto il governo non si muovono. Il 2
settembre, il Generale viene assassinato insieme alla giovane moglie Emanuela
Setti Carraro. Si pensa ad una talpa che avrebbe informato il commando mafioso
dell’uscita del Generale dalla Prefettura e dell’itinerario seguito. Nando
Dalla Chiesa afferma che in Prefettura lavoravano -tra gli altri- Antonio
Miceli, fratello del famigerato Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva
ospitato Sindona all’epoca del suo falso rapimento e Ciro Lo Prato,
segretario comunale di Mariano, democristiano, nipote del boss mafioso
Vincenzo Catanzaro coinvolto nell’indagine sull’assassinio del colonnello
Russo. Ma il successore di Dalla Chiesa smentisce la possibilità di
infiltrazioni. Subito dopo il delitto, su "Il Giornale",
Indro Montanelli scrive: «Chi siano i capi mafiosi e da chi siano protetti, a
Palermo lo sanno anche le pietre. È ora che vengano stanati a qualunque
prezzo e con qualunque mezzo. Chi cercherà di opporvisi non potrà che essere
considerato un (...) favoreggiatore». E ancora: «Inchiesti il Parlamento, se
vuole, ma su sé stesso» e, riferendosi alla Regione Sicilia: «Sappiamo
benissimo quanto di mafia è permeata e succube». Ai funerali i figli di Dalla
Chiesa notano la presenza, davanti alla bara, della corona inviata dalla
Presidenza della Regione Sicilia. Quella presenza -scrive Nando- fa tornare
loro in mente la frase detta dal padre: «Nei delitti di mafia la prima corona
ad arrivare è quella del mandante». La morte del Generale è un colpo per
tutta l’Italia. É chiaro a tutti che le istituzioni -governo in prima fila-
non hanno fatto nulla per permettergli di combattere sul serio la mafia. Accanto
alla ribellione nasce allora la sfiducia. La convinzione che la mafia non può
essere vinta perché la classe politica è troppo legata ad essa. Dal canto suo
il Governo cerca di inventare qualcosa di nuovo; e mentre tutti coloro che
avevano osteggiato Dalla Chiesa da vivo ne tessono le lodi da morto e negano
qualsiasi disaccordo con esso, quei poteri che Lui aveva continuamente
richiesti, che gli erano stati promessi prima e negati poi, vengono concessi
-forse ancora più ampi- al suo successore. E dal cilindro dei politicanti
nasce una nuova figura, quella dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia.
La mafia continua, però, ad operare senza grossi problemi. Ad operare e ad
uccidere. Cadono: il procuratore della Repubblica
di Trapani, Giacomo Ciaccio Montalto; il capitano dei carabinieri, Mario
D’Aleo; il giudice Rocco Chinnici; il giornalista Giuseppe Fava; il
commissario di polizia Giuseppe Montana; il vicedirigente della squadra
mobile, Antonio Cassarà; il magistrato Giuseppe Giacomelli; il presidente
della Corte d’Appello di Palermo, Antonio Saetta; il giudice Livatino. Cadono
anche politici ed imprenditori, e non solo in Sicilia. In Calabria viene
assassinato un politico eccellente: l’ex-onorevole democristiano Lodovico
Ligato. Sempre in Calabria, dove anni prima era stato assassinato un alto
magistrato, Francesco Ferlaino, viene assassinato, nell’agosto del '91,
Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di
Cassazione. Unico fatto di grande importanza nella lotta alla mafia, negli
anni ottanta, il processo che un gruppo di magistrati riesce a mettere in
piedi in Sicilia, contro pesci piccoli e grossi della mafia, e che resiste
fino alla Cassazione. Di questo gruppo di magistrati fanno parte Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino. Giovanni Falcone raccontava che il pentito
Tommaso Buscetta gli aveva detto che Cosa Nostra, prima di arrivare
all’eliminazione fisica di un nemico esterno (come può essere un magistrato),
cerca di screditarlo. Questa tecnica viene puntualmente attuata contro di
Lui: prima i veleni del palazzo di Giustizia di Palermo, con le lettere del
corvo, poi il fallito attentato del giugno del 1989 che viene usato per
screditare il magistrato. Si arriva infatti a sostenere che esso non era
opera della mafia e che serviva come mezzo pubblicitario. Intanto, il gruppo
di magistrati che ha portato a termine gli importanti processi di mafia -per
uno di quei tanti misteri italici- è stato sciolto. Il 13 marzo '91, Falcone
viene nominato Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e
Giustizia e trasferito a Roma. L’allontanamento da Palermo non pone però il
giudice al riparo da Cosa Nostra. Il 23 maggio '92, mentre in Parlamento si
susseguono le inutili votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, Giovanni Falcone viene fatto saltare
in aria insieme alla moglie Francesca Morbillo e a tre uomini di scorta
sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Poco tempo
prima, sempre a Palermo, era stato assassinato Salvo Lima, europarlamentare
della Democrazia Cristiana, ritenuto uno degli uomini più potenti della Sicilia
e personaggio di spicco degli atti della Commissione Antimafia. Le indagini
dei magistrati palermitani sull’uccisione dell’europarlamentare e le
confessioni di alcuni mafiosi pentiti sembrano oggi avere confermato quello
che tutti sapevano: Salvo Lima era il difensore politico della mafia ed
esercitava il suo compito appoggiandosi a Giulio Andreotti. Il giudice Giuseppe Ayala
ha detto che Cosa Nostra non lascia niente al caso. La morte di Lima avrebbe
quindi dovuto far capire che all’interno dell’organizzazione si stava
giocando (e ancora si sta giocando) una partita importante, ma avrebbe -ancor
di più- dovuto fare riflettere su un dato importantissimo: se Lima è stato
eliminato vuol dire che ci sono già altri politici di non minore importanza e
potere pronti a sostituirlo nelle sue funzioni. Lo Stato non è però riuscito
a salvare Falcone. Morto Falcone, chiunque avrebbe dovuto capire che il
bersaglio immediatamente successivo sarebbe stato Paolo Borsellino.
Puntualmente, due mesi dopo la strage di Capaci, anche Borsellino salta in
aria insieme agli uomini della sua scorta. Se l’attentato a Falcone era
difficile da prevenire -nelle condizioni attuali-, quello contro Borsellino
era talmente ovvio e prevedibile, da manuale, che lascia increduli per come si
è potuto attuare. Scontato l’obiettivo: il Magistrato; possibilissimo come
obiettivo -anche a prescindere dalla presenza dello stesso- il luogo
dell’attentato: il palazzo in cui abita la madre del giudice, lasciato senza
alcuna protezione; da manuale la tecnica usata: un auto-bomba; tecnica già
usata per assassinare il giudice Chinnici. Perché, allora, chi doveva
non ha preso le necessarie precauzioni? Aveva detto Falcone: «Si muore
generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.
Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è
privi di sostegno». Anche Falcone e Borsellino erano dunque stati lasciati
soli. Come Dalla Chiesa. Ma anche Falcone e Borsellino erano diventati troppo
potenti. Ed infatti uno dei magistrati che con Falcone e Borsellino aveva
lavorato a lungo -Giuseppe Ayala-, subito dopo la strage, ha detto: «Dire
mafia è troppo poco per spiegare questa strage». La morte di Falcone, e poi
quella di Borsellino, assumono un significato politico. Perché, per esempio,
per trasferire i mafiosi dall’Ucciardone (il carcere di Palermo) si è
aspettato che fossero assassinati i due magistrati più impegnati nella lotta
a Cosa Nostra; i due magistrati che più di ogni altro avevano capito la mafia. E se,
ufficialmente, Buscetta aveva detto a Falcone che non avrebbe parlato dei
rapporti tra mafia e politici, perché le cose che avrebbe potuto dire erano
tali che avrebbero reso incredibili tutte le altre accuse, è possibile che lo
stesso non avesse lanciato ai giudici di cui si fidava almeno un segnale su
quali erano i politici da cui avrebbero dovuto guardarsi maggiormente? Il
giudice Caponetto ha confermato, in un intervista televisiva, che Buscetta,
fuori verbale, aveva fatto il nome di Salvo Lima. Adesso, secondo un
settimanale, viene fuori che lo stesso Buscetta avrebbe fatto a Falcone i
nomi dei politici che ordinavano di uccidere, proprio pochi giorni prima
della morte del magistrato. La morte di Falcone e Borsellino suscita nuove
ondate di emozione e di rabbia in tutta Italia e, come al solito, il Governo
cerca di varare misure che plachino l’opinione pubblica: i mafiosi
dell’Ucciardone vengono trasferiti e in Sicilia arriva l’esercito. Ma la
mafia non è un problema di ordine pubblico. Il giudice Ayala, in una
trasmissione televisiva, ha detto che la mafia non si combatte mandando per
le strade di Palermo ragazzi di vent’anni con il fucile in mano e che i
provvedimenti del governo sono solo di facciata e non serviranno a combattere
quella mafia che è cresciuta grazie ai governi che si sono succeduti e di cui
quello attuale prosegue la
politica. Certo la presenza di militari fa diminuire
scippi, furti e rapine; ma non si sconfigge la mafia se non c’è una volontà
politica per farlo. Diceva Giovanni Falcone: «Diversi anni fa, a Palermo fu
consumato uno degli ormai tanti omicidi eccellenti. Mentre ero immerso in
amare riflessioni squillò il telefono. Era l’Alto commissario per la lotta
alla mafia del tempo: "E ora cosa possiamo inventare per placare l’allarme
del Paese?" mi chiese». L’Alto commissario non si preoccupava tanto di
combattere la mafia, ma di cosa inventare per placare l’opinione
pubblica. Questo ed altri episodi danno, secondo Falcone, il quadro
realistico dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata.
Emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dalla impressione suscitata da
un crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può
esercitare sull’opinione pubblica. É quello che sta scritto anche in un messaggio
fatto pervenire al giudice Caponetto -padre del pool antimafia di cui
avevano fatto parte Falcone e Borsellino- da un vecchio compagno di scuola:
«... I vari Martelli non mirano a bonificare né a migliorare, pensano solo al
proprio interesse, gli basta una mossa indovinata per l’opinione pubblica.
Anche perché non è gente cui preme che la verità venga tutta a galla o sia
perseguita". Ed infatti Cosa Nostra ha continuato a colpire. Si è
salvato per miracolo un collaboratore di Borsellino e, proprio a Palermo, è
stato tranquillamente assassinato uno dei potentissimi in odore di mafia:
Ignazio Salvo. Ma questo Stato può combattere davvero e fino in fondo la
mafia?
Secondo me, no! Non può combatterla perché esso nasce non dalla resistenza
-come si dice comunemente-; nasce nel 1943 dagli accordi degli americani con
i mafiosi. Quel Vito Guarrasi di cui ho parlato era, nel 1943, ad Algeri,
insieme al generale Castellano, a trattare la resa dell’Italia. Ma Vito
Guarrasi era soltanto un sottotenente. Chi rappresentava? E poi c’è
quell’articolo 16 del Trattato di pace. Non può combattere la mafia perché i
mafiosi albergano all’interno delle istituzioni e degli onnipotenti partiti
che le occupano, e perché essa ha un potere economico enorme. Diceva Falcone:
«Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto un organizzazione parallela
...». Dopo la morte di Dalla Chiesa, Alberto Cavallari, su "Il Corriere
della sera" aveva scritto: «Dalla
Chiesa muore perché spedito al fronte senza tenere conto che dietro le sue
spalle la mafia ha invaso le retrovie, gli stati maggiori, l’intendenza, il
territorio nazionale. Che può fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come
Palermo, se Torino ha più cosche di Agrigento, se Roma è una grande
Bagheria?». Dopo l’assassinio di Falcone, Claudio Magris, sullo stesso
quotidiano: «(...) la mafia è diventata parte del corpo che dovrebbe
combatterla, si è intrecciata con gli organi dello Stato e del mondo politico
fino a rendersi indistinguibile da esso». Giuseppe Fava, il giornalista
assassinato dalla mafia, aveva scritto: «I mafiosi stanno in Parlamento, i
mafiosi a volte sono Ministri, i mafiosi banchieri, i mafiosi sono quelli che
in questo momento sono ai vertici della nazione». Su "l'Espresso"
del 5 aprile, Giorgio Bocca ha scritto che quasi la metà dei giudici riuniti
in assemblea dopo l’assassinio del giudice Livatino «(...) hanno firmato un
documento in cui si dice che la mafia vince non solo per l’insufficienza
dello Stato, ma per un preciso disegno volto a disarticolare ogni tipo di
controllo istituzionale e a mantenere gli attuali equilibri economici basati
su un intreccio sempre più potente tra attività legali e illegali su cui si
fonda il consenso al potere politico attuale». Falcone raccontava che
Buscetta gli aveva detto: «Ho fiducia in lei, giudice Falcone, come ho
fiducia nel vicequestore Gianni Di Gennaro Ma non mi fido di nessun
altro. Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di
combattere la mafia». Nel dicembre del 1983, in un convegno
tenuto a Reggio Calabria sul tema "Mafia-Stato-Società", Raffaele
Bertone, allora presidente della sezione antimafia del Consiglio Superiore
della Magistratura, aveva detto: «(...) mentre l’attacco del terrorismo alle
istituzioni aveva radici ed origini esterne ad esse, quello mafioso trova
sostegno oggettivo all’interno delle istituzioni, tra coloro che in misura
più o meno significativa le rappresentano e le esprimono».
Beppe Niccolai, nelle conclusioni della sua
relazione quale componente della Commissione Antimafia, così scriveva: «La
battaglia contro la mafia si combatte sul fronte dei partiti, debellando
prima l’omertà, o meglio l’equilibrio dei ricatti che si è stabilito fra i
partiti per poi passare, con mezzi rigorosi e alla piena luce del sole, alla
pulizia interna, senza la quale, per dirla con Leonardo Sciascia, grazie al
canale putrescente delle correnti partitocratiche, si darà sempre il caso che
l’uomo politico di statura europea, moderno, di idee avanzate, ritenuto, in
Italia e fuori, capace di guidare le sorti del governo e dello Stato, in
Sicilia risulti di fatto il più efficiente protettore degli uomini politici
indiziati di mafia, o addirittura, della mafia». Ma i partiti si sono
guardati bene dal fare pulizia, dal recidere i rapporti con la criminalità,
organizzata o meno. Diceva Giovanni Falcone: «La mafia, è un fatto notorio,
controlla gran parte dei voti in Sicilia. Il pentito Francesco Marino Mannoia
ha parlato di decine di migliaia di voti sotto influenza nella sola Palermo.
E le elezioni politiche del 1987 hanno peraltro messo in luce massicci
spostamenti di voti nei seggi elettorali più significativi». Questo
spostamento di voti «è stato provocato da Cosa Nostra per lanciare un
avvertimento alla Democrazia Cristiana, responsabile di non avere saputo
bloccare l’inchiesta antimafia dei magistrati di Palermo».
I voti sottratti alla DC -secondo Falcone- «sono confluiti verso quei partiti
che avevano assunto una posizione fortemente critica nei confronti della
magistratura: il Partito Socialista e il Partito Radicale». Sempre secondo
Falcone, alla mafia i problemi politici «non interessano più di tanto fino a
che non si sente minacciata nel suo potere o nelle sue fonti di guadagno. Le
basta fare eleggere amministratori e politici amici e a volte addirittura
membri dell’organizzazione. E ciò sia per orientare il flusso della spesa
pubblica, sia perché vengano votate delle leggi idonee a favorire le sue
opportunità di guadagno e ne vengano invece bocciate altre che potrebbero
esercitare ripercussioni nefaste sul suo giro d’affari». E che i mafiosi
sappiano bene quali uomini e quali partiti far votare lo dimostra questo
quadro della collusione e dei rapporti politica-criminalità, riferito alla
Calabria, tratto dal libro di Franco Martelli: «Scrivevano di don Mommo Piromalli
i carabinieri di Gioia Tauro, in un rapporto del 1970: "Gode delle
amicizie in seno al personale di governo, con i quali si mantiene in buoni
rapporti e dei quali gode anche protezione (...)". Tre anni dopo, nel
corso di una perquisizione nella villa Piromalli, venivano trovati i
biglietti da visita di alcuni deputati calabresi della Democrazia Cristiana e
del Partito Socialista». I De Stefano, in varie occasioni hanno fatto
campagna elettorale per il PSDI; i boss mafiosi del reggino hanno
fatto il giro della Calabria per un parlamentare democristiano; decine di
mafiosi sono stati graziati al tempo in cui era sottosegretario alla
giustizia un parlamentare repubblicano. Nel giugno 1980 «La DC al
comune di Reggio ha presentato un cugino dei De Stefano (...) risultato al
secondo posto fra gli eletti. Nel periodo elettorale, Paolo De Stefano,
rimasto a capo della famiglia dopo l’uccisione dei due fratelli, aveva
ottenuto la sospensione del soggiorno obbligato dovendo essere sottoposto ad
un processo a Reggio. (...) Nella stessa occasione, di uguale trattamento ha
goduto il boss di Rosarno Giuseppe Pesco, in permesso nel suo comune dove era
attivamente impegnato nella campagna elettorale per il PSI. (...) Casi
altrettanto clamorosi si sono registrati nel PRI che ha eletto alla Regione
Pietro Araniti, cugino del boss Santo Araniti. (...) Sempre i repubblicani
hanno fatto eleggere alla provincia di Reggio il genero di don Antonio Macrì,
Pietro Ligato. (...) Il PSI, da parte sua, aveva candidato al comune di Montebello
Ionico il latitante Paolo Fati, risultato poi primo degli eletti.
L’infiltrazione non ha risparmiato in questi anni neanche il PSI».
Francesco Mastroianni
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