
Era
 il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava 
sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era 
stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema 
politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva 
potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari
(talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, 
che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, 
improvvisamente, il sistema crollava.
Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, 
inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti 
sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione 
degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo 
italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del 
paese. Con l’uragano di “Tangentopoli” gli italiani credettero che 
potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il 
governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del 
paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà
 messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”. Il 1992
 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora Ministro degli Interni 
Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, 
temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli 
attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o 
il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e 
andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal 
Ministro degli Interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e
 destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso 
dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la 
pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad 
importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche 
scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad
 alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche 
diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge 
correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a 
risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso. Su Falcone erano 
state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un 
magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano 
protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di
 polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di 
avvicinarsi. Qualcuno gridò: “Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete 
andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, 
questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, 
voi avete solo il dovere di vergognarvi”. Che la mafia stesse 
utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e
 fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si 
vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero 
caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni 
della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di 
spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba 
esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio 
un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque 
persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora 
un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.
 I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia 
volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto 
nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe 
Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano 
stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle 
“menti più fini dei mafiosi”. Falcone era un vero avversario della 
mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due
 mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e
 criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e 
costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. 
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi 
come una minaccia: “la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e
 la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo 
stato e piegarlo ai propri voleri”, Borsellino lamentava regole e leggi 
che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: 
“non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come
 quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad
 un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo 
codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle 
mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare 
da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste”. I metodi statali di 
sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi
 esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il 
Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva 
occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi 
difficoltà: “Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In 
una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota 
parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm”. Anche il Pubblico 
Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: “Su
 un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere
 qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto 
un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla
 di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti”. Nello
 stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli 
confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della 
questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo. Che gli 
assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. 
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: “Cerco
 legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia 
colombiana”. Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una 
visita a Monaco, disse: “Falcone è stato ucciso a Palermo ma 
probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove”. Probabilmente, le 
tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il 
governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta 
alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le
 persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli 
erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi 
segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a 
criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. 
Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino 
Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: “Non si può negare che 
c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i
 magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso 
per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato”. 
L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e 
Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde 
dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo 
testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore 
distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: 
“Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire 
personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi 
sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. 
Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia 
che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a
 perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel 
tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la 
quale si muove”. Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era 
qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due
 fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si 
stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. 
Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta
 efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese 
completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe 
dominato attraverso il potere finanziario. Come segnalò il presidente 
del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga 
scala per distruggere la democrazia italiana: “Il fine della criminalità
 mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più 
acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato 
democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: 
delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e 
potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – 
qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più 
terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di 
dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione 
affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica 
italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con 
quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla 
vicenda Sindona”. Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e 
finanza internazionale: “Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho 
parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo 
che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi 
mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed 
internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo 
politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? 
Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già 
investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la 
droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni 
private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno 
anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci 
riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è 
venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi 
investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche”. Anni 
dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: “Tutto nacque 
da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi 
che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e 
supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni 
internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti
 sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti 
dei leaders dei partiti di governo”. Una delle riunioni di cui parlava 
Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia(ingrandisci
 foto in alto), in navigazione lungo le coste siciliane.
 

Sul
 panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere 
anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle 
banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle 
privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In 
quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca 
d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne
 un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione 
parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora 
direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni 
Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi
 decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di 
mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la 
Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la 
Galbani. La stampa martellava su “Mani pulite”, facendo intendere che da
 quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti. Nel giugno 1992 si 
insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in 
armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. 
Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a 
consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre 
grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon 
Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in 
Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale 
che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. 
L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come 
aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e 
svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio 
economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia 
italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite 
informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune 
autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di
 molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri 
anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie 
alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece 
attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa
 di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo
 valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni. Le reti della 
Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani 
sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo 
preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della 
Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George 
Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite 
finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis,
 furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della 
Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della 
Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la 
direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum 
Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros 
era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni
 contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema 
Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece 
diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come 
l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e 
dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione 
degli stupefacenti in Europa. In seguito, i Rothschild, fedeli al loro 
modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo 
economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli 
pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che 
la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. 
L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della 
svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La 
privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo
 Raimondi, del Movimento Solidarietà: Abbiamo avuto anni di 
privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione 
della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di 
destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene 
nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive 
ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del 
Ponte di Sviluppo Eurasiatico. Qualche anno dopo la magistratura 
italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre 
del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti 
Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla 
magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros
 & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo di Soros, 
gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per 
contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo 
Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros 
indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero 
luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo 
della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, 
avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di 
speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e 
valori delle monete. Spiegano il Presidente e il segretario generale del
 “Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà”, durante 
l’esposto contro Soros: È stata… annotata nel 1992 l ‘esistenza… di un 
contatto molto stretto e particolare del sig. Soros conGerald Carrigan, 
presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte 
dell’apparato della Banca centrale americana, luogo di massima 
circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, 
stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi 
immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria “Goldman Sachs 
& co.” come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman 
Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle 
monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo 
diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia 
inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. 
Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di 
Milano e attuale presidente della “Albertini e co. SIM” di Milano, una 
delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è 
membro del consiglio di amministrazione del “Quantum Fund” di Soros. 
III. L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato 
preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht 
“Britannia” della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi 
rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, 
impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg,
 la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana 
guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e 
dal futuro ministroBeniamino Andreatta, per pianificare la 
privatizzazione dell’industria di stato italiana. A seguito dell’attacco
 speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, 
codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a 
beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli 
interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e 
dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del 
Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di 
governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni 
stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan 
Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa EIR
 (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa 
sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di 
interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il
 merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto 
singolare, di privatizzazione. I complici italiani furono il ministro 
del Tesoro Piero Barucci, l’allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini
 e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre 
responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al 
Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane 
(come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in 
segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati 
ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la 
“necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo”, pur sapendo che 
l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli 
attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni 
Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non 
cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel 
rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il 
Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: I mercati valutari e le 
borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti 
speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi 
delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione 
incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e
 da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui 
prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre 
speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase 
congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria. Il 
giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, 
riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti 
speculative sui mercati dei cambi, perché “se le banche di emissione 
tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle 
operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in
 movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco”. Le nostre 
autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano 
la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro 
economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di
 poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite 
anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello
 che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del 
crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento 
Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la 
riunione sul Britannia e quello che ne era derivato. Il 6 novembre 1993,
 l ‘allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una 
lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per
 avviare “le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del 
codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico 
mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle 
aggravanti in esso contenute”. Anche a Ciampi era evidente il reato di 
aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i 
titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni 
successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a 
prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo 
capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom 
Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto 
legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende 
energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose 
aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le 
Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione 
delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori 
postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali 
sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di 
vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la 
svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva “risanare il 
bilancio pubblico”, ma non specificavano che si trattava di pagare altro
 denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta 
straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi 
imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, 
Colaninno, Gnutti e pochi altri). Si diceva che le privatizzazioni 
avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i
 casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato
 pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad
 imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria,
 da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della 
Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di 
euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu 
rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del 
Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom 
aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario 
americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. 
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche 
dell’élite, la Chase Manhattan e laLehman Brothers, si fecero avanti per
 attuare un’opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla
 Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti
 era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua 
volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il 
titolo, che durante l’opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un 
anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro. Nel 2001 la 
Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a 
scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a
 Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il 
presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il 
controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la 
famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci 
anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto
 tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i 
titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i 
costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La 
privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo
 per truffare i piccoli azionisti. La Telecom , come molte altre 
società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse 
allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati
 privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, 
società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e 
aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, 
sono un paradiso fiscale. Gli speculatori finanziari basano la loro 
attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile
 ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi 
fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di 
interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo 
problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani 
private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che 
infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. 
Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, 
Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: 
licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, 
spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario 
genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle 
Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava 
vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della 
manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato 
un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo 
spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo 
Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di 
autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era 
opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e
 alla politica del Presidente del Consiglio. Nonostante i disastri delle
 privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna 
intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono 
disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai
 privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del 
fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i
 treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire
 e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad 
esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi 
incidenti (anche mortali). Nel 2006, l ‘amministratore delegato di 
Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla 
commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando 
un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto 
portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il Ministro dei
 Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione 
proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata
 ridotta allo sfacelo. Dietro tutto questo c’era l’élite economico 
finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg,Rockfeller, 
Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione 
dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di 
finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui 
le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o 
banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi 
controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole 
cinesi, come spiega Giuseppe Turani: “Colaninno & soci controllano 
al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 
13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla 
il 52% della Telecom”. Numerose aziende di imprenditori italiani sono 
state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e
 la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo 
obbligazioni societarie (“Bond”) con un alto margine di rischio. La 
Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso 
tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non 
far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i 
bilanci. Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione 
perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating, Standard & 
Poor’s, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa 
era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una 
procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale 
S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società 
finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a 
Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana),
 Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e 
servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione 
contabile), Grant Thornton International (società di consulenza 
finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione
 contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.). La Cirio era gestita dalla 
Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di 
banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 
milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle 
banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo 
avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre 
garanzie di onestà e di trasparenza. Grazie alle privatizzazioni, un 
gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha 
permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare 
un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. 
Agli italiani venne dato il contentino di “Mani Pulite”, che si risolse 
con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A 
causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca 
Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte 
per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di 
pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. 
Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, 
il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato 
da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati
 come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale 
Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che 
ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione 
italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non
 in quello del paese.
 
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