“Emanuele Strassera” era
un agente del governo italiano (e contemporaneamente agente dell’OSS)
risiedente allora nel Sud liberato, sbarcato sulla costa ligure da un
sommergibile USA all’inizio dell’estate 1944 ed inviato nel Nord Italia
dagli angloamericani, con il compito di coordinare la lotta partigiana e
riferire della situazione presente.
Strassera arruolò a questo scopo quattro partigiani.
Strassera aveva il compito di consegnare
un rapporto agli agenti alleati operanti in Svizzera. Al momento di
portare in Svizzera le informazioni chiese aiuto alle formazioni
partigiane vicine per essere scortato in Svizzera.
Nel Biellese era forte la Brigata comunista Garibaldi-Biella che comprendeva il 6° distaccamento “Pisacane” comandato da Francesco Moranino, detto “Gemisto” nato a Tollegno nel 1920.
Strassera contattò Moranino per l’aiuto occorrente per arrivare in Svizzera.
L’aiuto tuttavia non arrivò mai
(nonostante ci fu un messaggio radio di missione compiuta). I 5
partigiani vennero uccisi il 26 novembre 1944 in località Portula. Le
vittime furono: Emanuele Strassera, capo missione; Gennaro Santucci,
partigiano; Ezio Campasso, partigiano; Mario Francesconi, partigiano;
Giovanni Scimone: partigiano.
Successivamente, il 9 gennaio 1945
vennero uccise le spose di due dei partigiani, Maria Santucci e Maria
Francesconi, uccise con un colpo alla testa perché cercavano di scoprire
la verità sulla sorte dei loro mariti. Gli assassini cercarono di far
ricadere la responsabilità della morte delle due donne sui fascisti ed i
loro rastrellamenti.
Il fatto rimase per anni avvolto nel mistero.
Nel dopoguerra i familiari dei 5
partigiani fucilati e delle 2 donne uccise presentarono alle autorità
delle prove frutto di loro indagini. A seguito di queste prove furono
fatte delle indagini ufficiali che orientarono le responsabilità sul
partigiano Moranino, nel frattempo diventato deputato comunista.
Il Moranino fu accusato dell’eccidio dei 5 menbri della “Missione Strassera“,
il 26 novembre 1944 in località Portula, attirandoli in un’imboscata e
della sorte che il 9 gennaio 1945 toccò a due spose degli uccisi.
Il 27 gennaio 1955 la Camera dei
Deputati, con maggioranza di centrodestra, votò l’autorizzazione a
procedere nei confronti di Moranino (allora deputato del Pci) su
richiesta della Procura di Torino; l’accusa era di omicidio plurimo
aggravato e continuato ed occultamento di cadavere, ma Moranino nel
frattempo si era rifugiato in Cecoslovacchia.
Il 22 aprile 1956, il processo svoltosi a
Firenze si concluse con la condanna da parte della Corte d’Assise
all’ergastolo di Moranino per sette omicidi. Si legge nella sentenza:
«Perfino la scelta degli esecutori
dell’eccidio venne fatta tra i più delinquenti e sanguinari della
formazione. Avvenuta la fucilazione, essi si buttarono sulle vittime
depredandole di quanto avevano indosso. Nel percorso di ritorno si
fermarono a banchettare in un’osteria e per l’impresa compiuta
ricevettero in premio del denaro.»
La sentenza di condanna all’ergastolo fu confermata dalla Corte d’Assiste d’Appello nel 1957.
Nel 1958 alcuni sospetti sullo
svolgimento del processo e delle indagini, che per molti avvevano come
solo scopo un intento persecutorio contro il comandante partigiano,
portarono il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi a commutare
la pena in dieci anni di reclusione (cosa che avrebbe permesso al
Moranino di rientrare in Italia).
Il 27 aprile 1965 Francesco Moranino,
sempre esule a Praga, venne poi graziato dal presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat ma rimpatriò solo quando fu ufficialmente riconosciuto
che i fatti di cui era accusato erano “atti di guerra” (tra l’altro non da lui ordinati), connessi con la Guerra di Liberazione e quindi giuridicamente legittimi.
Il 19 maggio 1968, Pci e Psiup
annunciarono la candidatura nel collegio senatoriale di Vercelli dell’ex
deputato condannato all’ergastolo, tuttavia graziato. Il Moranino sarà
rieletto con 38.446 voti ed entrerà nella Commissione industria e
commercio del Senato. Morì, tre anni dopo, stroncato da un infarto.
Il ‘caso’ Moranino rappresenta un caso tipico.
Il delinquente è dapprima aiutato dal
PCI, dai suoi fiancheggiatori e dall’Unità, che cercano di avvalorare
prima la tesi del complotto contro la Resistenza, poi quella che i fatti
debbano inquadrarsi nella ‘Lotta di Liberazione’. Se occorre aiutando
ad espatrare l’imputato nel paradiso sovietico.
Con l’aiuto della stampa compiacente di
norma raggiungono lo scopo minimo: far applicare l’amnistia emanata da
Togliatti e quindi ridurre la pena a pochissimi anni o annullarla del
tutto.
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