domenica 12 marzo 2017

GUERRA CIVILE GRECA (1944-1949)

UNA PAGINA ORRENDA E DIMENTICATA DELLA GUERRA CIVILE GRECA (1944-1949) IL RAPIMENTO DI MASSA DEI BAMBINI EFFETTUATO DALLE BANDE PARTIGIANE COMUNISTE (di Alberto Rosselli)

UNA PAGINA ORRENDA E DIMENTICATA DELLA GUERRA CIVILE GRECA (1944-1949)
IL RAPIMENTO DI MASSA DEI BAMBINI EFFETTUATO DALLE BANDE PARTIGIANE COMUNISTE 
di Alberto Rosselli
Durante la terza fase della Guerra Civile, i comunisti avviarono una vasta campagna di sequestri ai danni di bambini e ragazzi greci, in modo da sottrarre al governo linfa vitale (anche se i capi marxisti sostennero sempre – anche dopo la fine della Guerra Civile – che tale pratica venne adottata per “porre in salvo la gioventù greca, allontanandola dai luoghi di combattimento”). Nelle regioni poste sotto il loro controllo, i comunisti non ebbero difficoltà nel censire e nell’individuare e sottrarre i fanciulli alla famiglie. Essi erano infatti in possesso dei registri di natalità di tutte le città e i villaggi.
Nel marzo 1948, i primi 2.000 ragazzini sequestrati vennero trasferiti al nord e poi espatriati in Albania, Bulgaria e Iugoslavia. Gli abitanti dei villaggi che tentarono di proteggere i fanciulli nascondendoli nei boschi, finirono fucilati o impiccati. Messa al corrente del piano comunista,la Croce Rossacercò di muoversi, ma a fronte degli enormi ostacoli trovati sul suo cammino, non riuscì a fare nulla, tranne redigere, con l’aiuto delle autorità governative e grazie alle centinaia di testimonianze dei famigliari dei sequestrati, un censimento che, dopo una serie di aggiornamenti, portò, a stabilire che i bambini sequestrati e fatti espatriare forzosamente ammontavano, alla fine del1948, a28.296 (talune fonti fanno lievitare la cifra ad oltre 30.000) unità di età compresa tra i tre e i 14 anni. Questa massa di piccoli disperati venne suddivisa per sesso e poi rinchiusa in appositi “centri di rieducazione socialista”. Secondo i dati della Croce Rossa, 18.500 bambini finirono distribuiti in 17 campi bulgari e il resto in 11 campi romeni, altrettanti ungheresi, diciotto cecoslovacchi, tre polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale e 15 iugoslavi (dove ne furono segregati dai 9.500 agli 11.600). Più dettagliatamente, sembra che nel 1950, cinquemila 132 bimbi risultassero presenti in Romania, quattromila148 inCecoslovacchia, tremila590 inPolonia, duemila859 inUngheria e2.660 inBulgaria.
Va inoltre precisato che i frequenti sequestri di fanciulli portati a compimento dai guerriglieri comunisti greci rientravano nell’ambito di una strategia di tipo geopolitico. Forti del consenso di  Tito e di quello di Stalin,  le bande marxiste del nord agirono in questo modo per cercare di separare la Macedoniagreca dal resto dello stato ellenico, per poi trasformarla in una repubblica socialista indipendente. Non a caso ai bambini di razza macedone residenti in Grecia che furono rapiti venne affibbiato l’appellativo di Detsa Begaltsi  (bambini sfollati). Detto questo, va ricordato che a molti altri bimbi greci non di origini macedoni trasferiti in Bulgaria o Iugoslavia fu poi fatto loro credere di vantare egualmente origini macedoni. Nell’estate del 1948, quando la rottura tra il leader Tito e il Cominform divenne una realtà, il dittatore iugoslavo volle sganciarsi da ogni responsabilità e di conseguenza 11.600 bambini reclusi nelle “case del Popolo” iugoslave vennero spediti in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. E tutto ciò nonostante le ripetute, vane proteste del governo greco.
Il17 novembre 1948,la Terza Assemblea  Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione (la n. 193) che condannò senza mezzi termini l’operato dei partigiani comunisti ellenici, e nel novembre dell’anno successivo, l’ONU richiese inutilmente (con la risoluzione n. 288) agli Stati comunisti di riconsegnare alla Grecia tutti i bambini sequestrati. Ma i governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia negarono la restituzione affermando in un comunicato congiunto “che la deportazione  era stata in realtà un atto umanitario atto a salvaguardare la vita dei bambini greci dagli orrori della Guerra Civile”.
Nulla di più falso in quanto, secondo i resoconti della Croce Rossa Internazionale forniti alle Nazioni Unite e molteplici dossier redatti dalle ambasciate e dai consolati occidentali in Europa Orientale, il vero scopo dei rapimenti portati a compimento dalle bande comuniste elleniche era ben altro. I ragazzini sequestrati, che venivano sottratti alla famiglie in quanto considerate “cellule primarie di una società contadina corrotta in quanto legata alla religione e alla monarchia”, erano solitamente trasferiti in appositi “villaggi proletari per l’infanzia” ubicati in Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria e poi, come si è visto, in altri Paesi d’oltre cortina, dove venivano sì nutriti e vestiti, ma anche sottoposti ad una martellante propaganda politica, o meglio ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con lo scopo di trasformarli in fedeli esecutori del verbo marxista. Tuttavia, stando alle memorie di Zavros Constandinides, giovane greco che, recluso per anni in Ungheria, nel 1956 riuscì a fuggire – partecipando tra l’altro alla rivolta anti sovietica di Budapest (23 ottobre al 10 -11 novembre 1956) – “pochi furono i miei coetanei a piegarsi alla dottrina comunista”. Con il compimento del tredicesimo anno di età tutti i ragazzi venivano poi impiegati, o meglio ‘schiavizzati’, per effettuare pesanti lavori di pubblica o militare utilità. Come accadde per i piccoli deportati in Ungheria, costretti ad effettuare massacranti lavori di bonifica nella regione paludosa dell’Hartchag.
Dopo la fine della Guerra Civile Greca, un ristretto nucleo di fanciulli riuscì a fare ritorno alle proprie famiglie. Tra il 1950 e il 1952, i regimi d’oltre cortina permisero ad appena 684 di essi di rimpatriare: fortuna che, nel 1963, arrise ad altri 4.000 bambini, divenuti ormai uomini. Va ricordato che anche altri fanciulli greci rapiti, poi diventati adulti, riuscirono per vie traverse a raggiungere, verso la fine degli anni Cinquanta, il confine della Germania occidentale e a mettersi in salvo.
Ciononostante, dopo la fine della Guerra Civile, moltissimi bambini non fecero più rientro in Grecia, alcuni perché avevano deciso di rimanere nei Paesi del Blocco Orientale, molti altri perché erano “misteriosamente scomparsi” nei campi di rieducazione, come riferì la Croce RossaGreca.Successivamente, la regina di Grecia Federica di Hannover creò, grazie al sostegno della Nazioni Unite,  58 “Città dei  Bambini” o Paidopolei, suscitando la violenta contestazione di tutta la sinistra europea che aveva in odio l’aristocratica tedesca) nei quali confluiranno molti orfani greci ed anche i figli di combattenti del DSE.
Ma torniamo al destino dei fanciulli dispersi in Europa Orientale. Ancora agli inizi degli anni Ottanta, in Polonia risultavano presenti circa 1.000/1.500 (alcune fonti riportano cifre ancora più elevate) greci rapiti, ancora in tenerissima età, nel 1948. Inseguito, molti di essi entrarono a fare parte del Movimento “Solidarność” (Sindacato Autonomo dei Lavoratori “Solidarietà”) fondato nel settembre 1980 da Lech Wałesa, ed alcuni vennero incarcerati anche dal regime comunista di Varsavia dopo l’introduzione della legge marziale del dicembre 1981. Nel 1989, con l’inizio del processo di democratizzazione del Paese, la quasi totalità degli ex ‘piccoli’ profughi ellenici fece domanda per ritornare in Grecia.
Nel 1985, il fenomeno del rapimento in massa dei bimbi venne ripreso dal noto regista e produttore cinematografico e televisivo inglese Peter Yates con il film Eleni, interpretato, tra gli altri, da John Malkovich e Linda Hunt. La pellicola venne però snobbata dalla quasi totalità della critica di sinistra (soprattutto quella italiana) alla quale non andò evidentemente a genio l’imbarazzante soggetto. La trama del film narra la storia, un po’ romanzata, della quarantunenne Eleni Gatzoyiannis, assassinata dai guerriglieri comunisti il 28 agosto del 1948 nel villaggio montano di Lia. La donna venne fucilata e finita con un colpo alla nuca  suo figlio Nicholas, emigrato fortunosamente in America, riuscirà poi, alla fine della Guerra Civile, a fare rientro in Grecia per capire le vere ragioni della morte di sua madre.
La tragedia dei bambini greci rimasti orfani o rapiti e deportati in Albania, Iugoslavia e Bulgaria dai partigiani comunisti per farne ‘buoni marxisti, secondo i dettami di Lenin (“dateci un ragazzino e nell’arco di otto anni lo rieducheremo”) era stata in realtà già affrontata da un altro precedente film del 1957, Il Bandito dell’Epiro (titolo originale, Action of the Tiger) del regista statunitense Terence Young. La pellicola, che si avvalse della partecipazione di parecchi attori, tra cui Van Johnson, Martine Carol e il giovane Sean Connery, narra la storia di una ragazza francese che, dopo l’instaurazione del regime marxista di Enver Hoxha, sbarca segretamente in Albania per cercare suo fratello, militante volontario comunista, scomparso durantela Guerra Civile Greca. Affianca la donna, tale Carson, un avventuriero americano che, giunto sul posto, viene a sapere della deportazione dei bambini greci in terra albanese. A quel punto, egli vuole tentare di riportare in occidente un certo numero di fanciulli scoperti in un remoto villaggio dell’interno. Lungo la loro fuga per la libertà, essi troveranno anche ex partigiani comunisti e poliziotti del regime albanese, anch’essi intenti a fuggire dal “paradiso marxista” del sanguinario Hoxha.

Il primo resoconto del Times di Londra del15 marzo 1948

Oltre alle testimonianze della Croce Rossa Internazionale, riprese anche dai rappresentanti diplomatici occidentali presenti ad Atene, riportiamo il primo vero e proprio resoconto giornalistico straniero dell’epoca sulla tragedia dei bambini in corso in Grecia, stilato il 15 marzo 1948 dalla redazione del Times di Londra. Quale testimonianza diretta ne riassumiamo in parte il contenuto. “Nell’abbandonato municipio di Kozani [Macedonia occidentale, n.d.a.] – riporta la testata inglese – una piccola città situata nelle montagne dell’Ellade, dodici tra contadine e contadini macedoni furono soccorsi dagli uomini di una squadra inviata sul posto dalle Nazioni Unite. Quegli individui riferirono di essere rimasti per molto tempo ostaggio dei guerriglieri ‘rossi’ del generale Markos Vafiadis. Nel loro ostico dialetto greco-slavo-albanese raccontarono la loro avventura. Avvolta in uno scialle nero, una donna, la cinquantenne Athena Papalexiou, narrò per prima la sua storia. “Una volta giunti nel nostro villaggio, gli Andartes (i partigiani comunisti) registrarono tutti i bambini tra i tre e i 14 anni”, dopodiché dissero ai genitori che i loro figli sarebbero stati trasferiti all’estero, nei vicini Paesi comunisti, per essere nutriti ed assistiti in apposite Case della Gioventù”. “Vi dissero se un giorno i vostri figli sarebbero ritornati?”, chiese alla donna un funzionario delle Nazioni Unite. “No di certo. E poi era  proibito discutere la questione”. John Natsis e Zagarus Voiliotis riferirono di avere osservato tempo prima nel villaggio di Kranies un contadino fornire le generalità dei suoi tre figlioletti ad un ufficiale ribelle. “A quell’uomo i comunisti dissero di stare tranquillo e di collaborare poiché i suoi bambini sarebbero stati posti in salvo in Romania dove avrebbero ricevuto alimenti e buona istruzione. Ed aggiunsero che tutti i genitori di Kranies avrebbero dovuto fare altrettanto poiché di lì a poco “le truppe monarco-fasciste (l’Esercito regolare greco) avrebbero bombardato il villaggio”. Sulle prime – riporta sempre il quotidiano Times – molti osservatori stranieri non vollero credere alla storia dei rapimenti dei bambini compiuti dai ‘rossi’, ma poi furono costretti a ricredersi, anche in base ai resoconti stilati dai funzionari delle Nazioni Unite invitati ad indagare sul fatto dallo stesso governo di Atene […].
D’altra parte, la conferma di questi sequestri la diedero gli stessi leader ribelli. Nel marzo 1948, ‘Radio Grecia Libera’ (emittente clandestina comunista ubicata in Grecia settentrionale) annunciò che 12.000 bambini greci (8.000 dei quali provenienti dalla regione di Kastoria) erano già stati salvati ed inviati nei Paesi socialisti per scopi istruttivi, e che gli emissari di Markos presenti in Romania, Bulgaria e Iugoslavia, avevano già predisposto, con la collaborazione delle locali autorità, l’accoglienza dei ragazzi provenienti dalla Grecia (per la cronaca, quale responsabile operativo di tale operazione venne nominato Georgios Manoukas che, rifugiatosi dopo la sconfitta comunista del 1949 all’estero, nel 1961 rientrerà in Grecia, dove pubblicherà un testo sull’argomento.
A questa notizia ne fece eco una seconda, più dettagliata. Pochi giorni dopo, infatti, l’emittente di Markos annunciò che “le forze partigiane avevano provveduto a trasferire 4.884 bambini residenti in 69 villaggi della “Libera Grecia” in Albania, Yugoslavia e Bulgaria” per salvarli dagli orrori della Guerra Civile e per consentire a questi piccoli “Rifugiati Politici della Guerra Civile Greca” (in realtà, soltanto il 2% delle famiglie greche accettò spontaneamente che i propri figli venissero trasferiti all’estero) di godere di un migliore tenore di vita e soprattutto di “frequentare scuole adatte”. “La verità – commentò laconicamente un portavoce del governo di Atene – è che i ‘rossi’, attraverso i sequestri di massa, intendono privare la Grecia del suo futuro”. Di conseguenza, l’esecutivo ellenico si affrettò ad inviare un’aspra nota al comitato balcanico delle Nazioni Unite a Salonicco, accusando i comunisti di “genocidio” e chiedendo un intervento ufficiale immediato che si concretizzò, di lì a poco, con la nomina di due appositi Comitati che avrebbero dovuto raccogliere, esaminare e catalogare “con la massima celerità” tutti i casi di sequestro segnalati sul territorio dai loro osservatori. Il governo greco definì il sequestro di massa dei bambini come paidomazoma, in quanto esso richiamava alla mente i tempi in cui i turchi razziavano la popolazione ellenica.

La professoressa Irina Lagani, docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso al Dipartimento di Legge dell’Università Democrito in Tracia, (vedi Lagani, Irina: To “Paidomazoma”, kai ellinojugoslavikes schesis 1949-1953, Athina 1996) ha studiato a fondo il dramma del sequestro dei bambini greci e la loro deportazione nelle nazioni del blocco orientale durante l’ultima fase della Guerra Civile Greca. Stando alle sue ricerche,la Croce Rossa greca stimò che il numero complessivo dei ragazzini prelevati si aggirasse intorno alle 28.296 unità, 11.600 dei quali furono trasferiti in Iugoslavia, mentre i restanti vennero sparpagliati in Albania, Ungheria, Polonia, Romania e Cecoslovacchia. Secondo la Lagani, la storiografia greca ha però voluto obliterare ed evitare di analizzare questa scabrosa vicenda per evitare possibili attriti con le nazioni confinanti. Per la stesura del suo lavoro, l’autrice ha utilizzato materiale d’archivio inedito di ministeri degli Esteri di Gran Bretagna, Australia e Francia, poiché gli archivi greci di quel periodo risultano ancora ‘inaccessibili’.
Circa la contestualità storica,la professoressa Laganiha poi specificato che il suddetto dramma debba essere inserito nell’ambito del travagliato periodo della Guerra Fredda e nel quadro della situazione iugoslava postbellica. Non a caso, l’autrice concentra gran parte della sua attenzione sulla Iugoslavia proprio in virtù del gran numero di ragazzini deportati e rimasti in questo paese: bambini che, in seguito, furono politicizzati e trasformati in fanatici attivisti della causa indipendentista macedone, entrando a fare parte del FYROM (o Repubblica di Macedonia)
Nei suoi scritti, la Lagani solleva alcune questioni molto delicate, se non addirittura controverse. “Si è trattato di qualcosa di inevitabile? Si può dire che la Grecia ‘abbia perso’ questi ragazzi? Quella comunista (dell’ELAS) fu una politica mirata a creare una specie di ‘legione’ “giannizzera”? In che modo Gran Bretagna e Stati Uniti influenzarono il comportamento e le decisioni di Atene su questo argomento? Allo scopo di porre questi interrogativi, la Lagani analizza la politica iugoslava in relazione alla questione macedone, come pure quella greca.
Inizialmente, presso le Nazioni Unite, il governo greco affrontò il problema del rimpatrio dei bambini come parte integrante della “questione greca”: impostazione che implicava giocoforza riferimenti chiari sia di tipo umanitario sia politico, cioè relativi alle dinamiche della Guerra Fredda. Stati Uniti e Inghilterra minimizzarono la seconda opzione. Ma la mancanza di una vera politica poggiante su una maggiore pressione diplomatica nei confronti della Iugoslavia titina,  portò ad un basso numero di rimpatri, permettendo a Tito di ottenere il proprio scopo trattenendo i bambini sul suolo iugoslavo, anche a fronte del loro desiderio di riunirsi alle loro famiglie.
La Lagani esamina poi le intenzioni di Tito dietro la sua politica verso i ragazzi e conclude che fin dall’inizio il governo iugoslavo falsificò le cifre dei sequestri e delle deportazioni dei fanciulli che, come si è accennato, furono poi integrati, almeno in buona misura, nella popolazione della Repubblica Federale di Macedonia. Dalla lettura dei documenti contenuti negli archivi inglesi emerge che il Foreign Office britannico, in contrasto con il ministero degli Esteri greco, si premurò di rendere note le intenzioni di Tito, pur non preoccupandosi delle conseguenze a lungo termine delle azioni del dittatore di Belgrado. Inizialmente, il governo greco tentò la via del rimpatrio di tutti i ragazzini dalla Iugoslavia e dagli altri paesi del blocco sovietico; ma con l’andare del tempo cambiò idea. L’esecutivo di Atene era infatti preoccupato del fatto che il “lavaggio del cervello” ideologico subito dai ragazzi potesse contribuire a fare perdere ad essi la coscienza di appartenere interamente alla cultura e al popolo ellenici.
Inghilterra e Stati Uniti non sembravano condividere però queste preoccupazioni, Al contrario, essi legarono la questione del rimpatrio alla presenza di slavi nel nord della Grecia. Di conseguenza Londra e Washington sostennero il rimpatrio di bambini di lingua greca, ma non quelli di lingua ‘slava’. La ragione che sta dietro a questa politica fu che sia Usa che Regno Unito credevano che la sicurezza della Grecia sarebbe stata garantita nella misura in cui tutti gli elementi slavi avessero lasciato la Macedonia greca. Oltre a ciò, entrambe vollero favorire un riavvicinamento greco-iugoslavo, impedendo che la ‘questione delle minoranze etnico-linguistiche’ potesse in qualche modo rovinare i rapporti di buon vicinato. Va ricordato a questo proposito che, in quel periodo, sia Londra che Washington stavano lavorando alacremente per favorire la rottura tra Tito e il Cominform.
In ultima analisi, sia gli inglesi che gli americani influenzarono con la loro politica anche quella greca. E lentamente il governo di Atene dovette adattare la propria politica all’alternativa meno dolorosa. I rimpatri divennero quindi più mirati e selettivi e soltanto una piccola parte dei bambini ritornò in Grecia. E con il passare del tempo la questione, o meglio l’opportunità, di un ricongiungimento dei ragazzi espatriati forzatamente alle rispettive famiglie venne poi definitivamente accantonata.

FONTE: Breve storia della Guerra Civile Greca, 1944-1949, di Alberto Rosselli, Edizioni
Settimo Sigillo, Roma, 2009

                                                                                                                                                        

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