IL FASCISMO E LA LOTTA CONTRO LA MAFIA
QUADERNI
DELL'ISTITUTO SICILIANO
DI STUDI POLITICI
ED ECONOMICI
NUOVA SERIE -
PALERMO
GIUSEPPE TRICOLI
IL FASCISMO E LA LOTTA
CONTRO LA MAFIA
1) - La Sicilia "sequestrata"
Negli anni immediatamente precedenti il
primo conflitto mondiale, Giovanni Gentile, in una serie di saggi pubblicati
sulla crociana "La Critica", dopo aver
ripercorso le varie fasi del movimento intellettuale dell'isola nell'età
moderna, riteneva di poter concludere le sue
riflessioni con la tesi del "Tramonto della cultura siciliana", nel
senso di una benefica e positiva confluenza di questa ultima nell'ambito della
più vasta ed unitaria cultura nazionale italiana.[DF1] In realtà, la tesi gentiliana
corrispondeva più al grande sforzo della cultura idealistica italiana di creare
moralmente, come atto di volontà, una salda coscienza unitaria, che alla realtà
effettuale del momento storico. E, comunque, se essa
aveva un riscontro in certa cultura accademica, non egualmente si poteva
affermare per il complessivo quadro politico, economico e sociale dell'isola,
che, in tal caso, più puntuale doveva, invece, considerarsi il riferimento,
ancora, a una Sicilia "sequestrata", secondo l'immagine che lo stesso
Gentile aveva coniato per i secoli precedenti.
Ancora nel primo dopoguerra, il grande fermento di idee e il notevole movimento degli
spiriti - che nella penisola aveva sostanziato l'opposizione
dell'intellettualismo più moderno e vivace al blocco giolittiano
e, successivamente, si era travasato nella tematica interventistica
e nel crogiolo della "guerra rivoluzionaria", animando i livelli più
significativi del dibattito politico-culturale del periodo post-bellico - in
Sicilia riusciva a trovare appena una flebile eco in ristretti circoli,
impossibilitato, come era, a penetrare in profondità nella realtà politica e
sociale, dominata da un rigido sistema che, nello involucro della cosidetta ideologia sicilianista,
perpetuava i tradizionali interessi del latifondismo
agrario, attorno a cui si aggregava, in un blocco più che compatto, grazie alla
fitta rete di mediazioni delle cosche mafiose, delle sette massoniche, delle
clientele locali, la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica siciliana.
Certo, l'isola
non aveva ignorato e non ignorava i movimenti ideologici e culturali nuovi: e
l'illuminismo, il romanticismo, il liberalismo, il socialismo erano, sia pure
con ritardo, penetrati in Sicilia, ma qui, passati attraverso il filtro del sicilianismo, avevano finito col perdere la loro carica di
novità, col devitalizzarsi ed, insomma, ad acconciarsi, infine, alla situazione
esistente e a integrarsi, in ultima analisi, nel blocco storico dominante,
contribuendo a perpetuare uno stato di sostanziale immobilismo. [DF2]
Sicché non deve meravigliare che, alla conclusione
del conflitto mondiale, lo stesso movimento combattentistico, che nelle altre
parti d'Italia avrebbe portato tanti fermenti nuovi e
incuberà, negli anni travagliati tra il '19 ed il '22, gran parte del fenomeno
fascista, in Sicilia, dopo aver tentato, di acquistare una fisionomia autonoma,
finisse per essere irretito, prima, nella fitta rete del complesso sistema partitico-clientelare e fagocitato, poi, nelle coalizioni
dei partiti esistenti: dal liberalismo orlandiano,
alla nittiana democrazia sociale, al socialriformismo. 2) -
2) - II
fascismo siciliano delle origini
In una siffatta situazione, di immobilismo quasi astorico e di
conformismo, si può facilmente comprendere come improbo dovesse presentarsi il
compito della penetrazione in Sicilia del fascismo: espressione di una cultura
"eretica" e di una politica massacrante. Non mancavano, è vero,
nell'isola, focolai di cultura interessanti per i fermenti nuovi, grazie al
magistero di alcune figure emergenti, ma già di
autentico spessore intellettuale, che si enucleavano ed esprimevano attorno
alle idee del nazionalismo, del futurismo, Cfr. G. Iannelli-
L'azione futurista in Sicilia ... in F.T. Marinetti - Teoria e invenzione futurista - Milano.
1968, pp. 452 sgg. [DF3] del
dannunzianesimo e del fascismo.
Nella Sicilia orientale, fervidi erano i
nuclei che si formavano attorno al professore Edoardo
Cimbali, titolare della cattedra di Diritto Intemazionale
a Catania, in cui si distinguevano i nomi dei fratelli Grazio e Luigi Condorelli o di Gaetano Zingali,
destinati a diventare grandi nomi della cultura medica e giuridica; ovvero
quelli che si raccoglievano con lannelli, Nicastro ed altri nelle redazioni delle riviste e dei
giornaletti del futurismo politico. Ancora, giovanissimi intellettuali come Aniante, Anfuso, Vitaliano Brancati, Giuseppe Villaroel, con
fogli più o meno effimeri e con l'ardore attivistico, esprimevano sulla
tastiera dei motivi fascisti, dannunziani e nazionalisti la
loro rivolta contro l'Italia passatista, cercando di squarciare la fitta
e grigia tela del conformismo culturale o la plumbea e pesante atmosfera della
provincia siciliana. [DF4] Ma si trattava, fondamentalmente, di persone, gruppi e
nuclei i quali, ancorché esprimessero fermenti di respiro europeo e nazionale,
finivano col risultare emarginati, con l'apparire veri e propri déracines, in una realta
culturale, come quella siciliana, sostanzialmente marginale, sicché le loro
idee non riuscivano ad avere incidenza politica e tanto meno a formare una base
di massa.
Ancora più desolante era la situazione
nella Sicilia occidentale, dove il latifondo e la mafia erano le manifestazioni
più evidenti di un quadro di arretratezza e di
immobilismo e dove soltanto attorno ad uno storico già affermato come Francesco
Èrcole, il circolo di Alfredo Cucco e Biagio Pace - giovani
intellettuali destinati ad avere un nome nel campo degli studi di medicina ed
archeologia - con un gruppo di studenti, arditi, reduci e il periodico "La
Fiamma Nazionale"., si sforzavano di propagandare le istanze nazional-fasciste.
Un'eccezione, in questo quadro globale, può considerarsi la situazione della Sicilia
sud-orientale, dove, tra la fine del 1920 e gli inizi del '21, analogamente a
quanto avveniva nella pianura padana e nelle Puglie,
era riuscito ad affermarsi il cosidetto
"fascismo rurale" che aveva raggiunto anche una consistente forza
organizzativa: espressione del dinamismo politico e sociale di una zona che
aveva portato i quadri produttivistici dei piccoli e medi imprenditori
agricoli, peraltro penalizzati da una negativa congiuntura economica, a
scontrarsi con un'agitazione rossa fomentata in chiave chiaramente bolscevica e
diretta al boicottaggio della produzione e all'occupazione indiscriminata anche
di terre ben coltivate. Un'eccezione che non modifica tuttavia il quadro
generale della precarietà del fascismo siciliano antemarcia,
esemplificato dalla assenza di liste fasciste alle
elezioni politiche del '21 che vedono, invece, nella penisola, il primo grande
successo del nuovo movimento e la formazione di una sua rappresentanza
parlamentare.
3) - La lotta al sistema
Cosicché, all'indomani
della marcia su Roma, gli ambienti egemoni siciliani, nel focalizzare, in modo
strumentale e mistificante, il fascismo nella loro logica conservatrice, come
movimento "restauratore dell'ordine", potevano affermare che esso non
era stato necessario in Sicilia, perché la società siciliana aveva saputo
preservarsi autonomamente dal "pericolo rosso".
Un'interpretazione con cui i tradizionali
ceti dominati tentavano un'ennesima manovra gattopardesca, per irretire il
fascismo nelle spire avvolgenti della tradizionale logica sicilianista
e, in definitiva, per inglobarlo nel proprio quadro ideologico e privarlo di ogni funzione politica nell'isola.
Un'interpretazione, comunque,
contro cui reagirà Giovanni Gentile nel suo famoso discorso palermitano del 31
marzo 1924.[DF5]
"In Sicilia, si dice", -
affermerà il filosofo dell'idealismo -" è mancata quell'opera lunga e
insistente di corrosione dello Stato e della coscienza nazionale che fu esercitata in altre province dal socialismo in tutte le
sue forme e degenerazioni. È mancata la malattia; or come può giovare la
medicina? E perché vi si dovrebbe ricorrere? Fascismo,
ho sentito più volte affermare con grande sicurezza,
non c'è in Sicilia, perché non v'era stato il nemico, che il Fascismo è nato a
combattere".
Un'opinione comune, abilmente diffusa e
propagandata, con una sottile manovra volta a mostrare il carattere contingente
del movimento fascista, contro cui Giovanni Gentile
prendeva posizione per rivendicare, invece, l'ampio respiro spirituale e
politico del fascismo, ricostruirne le origini culturali, metterne in evidenza
la sostanza ideologica nuova e, al di là del contingente e' riduttivo
significato antibolscevico, assumerlo al ruolo di protagonista del rinnovamento
e della trasformazione dello spirito, dello stato e della società italiani.
Al fascismo siciliano, in particolare.
Gentile riconosceva il compito di combattere, per sgombrare gli "strati
ancora spessi di vecchi detriti della corrotta politichetta
delle clientele campanilistiche o parlamentari", per sconfìggere
certi "vecchi che sorridono, fanno i conti, impettiti per le loro aderenze
coi soliti manipolatori e traffichini che non si danno
ancora per vinti". E concludeva con una
esortazione ai giovani siciliani che era, nel contempo, un chiaro messaggio
politico:
"Voi siete i portatori di uno spirito
rinnovatore, che farà sorgere, numerose, armate della fede invincibile, le
falangi che spazzeranno, non ne dubitate, tutte queste tarlate carcasse che
ingombrano ancora i circoli e le piazze".
Gentile, dunque, metteva l'accento proprio
su quelle motivazioni che avevano animato culturalmente ed attivistica-mente,
ancorché, a volte, non razionalmente chiarite, quel movimento incandescente del
primo nazionalfascismo in cui l'estetismo dannunziano
e futurista, da una parte, l'arditismo e l'attivismo
combattentistico, dall'altra, nel fondersi coi miti
patriottici e nazionalistici, si risolvevano volontaristicamente
in un'evasione dalla realtà presente che traduceva concretamente il ripudio
della vecchia Italia provinciale e passatista ed esprimeva l'istanza di una
società nuova, moderna, europea. Un'evasione e un ripudio che avevano bisogno
di esprimersi in forme idealistiche e irrazionalistiche, in un attivismo
frenetico e "vociante", quanto più la realtà si presentava torpida,
sorda ed immobile, come appunto in Sicilia, ma non per ciò mancavano di indicare
politicamente gli obiettivi da colpire: che erano quelli dei vecchi partiti,
delle camarille locali, dei gruppi di interesse, delle
cricche personali, delle cosche maliose. Insomma, proprio l'assenza o la scarsa
virulenza, in Sicilia, del pericolo rosso, del bolscevismo, avevano fatto
porre, nella pubblicistica e nei primi documenti programmatici del nazional-fascismo siciliano, l'accento sulle istanze fondamentali del movimento e, in particolare, sulla
fatiscenza del sistema liberale, come si manifestava nell'isola con i mille
particolarismi culturalmente stantii, moralmente corrotti, politicamente trasformisti,
mediati dalla mafiosità locale, in funzione di
cerniera, a favore del blocco di potere economicamente fondato sulla rendita
latifondistica.
Fin dal novembre del 1919, "La Fiamma
Nazionale" di Alfredo Cucco e Stefano Rizzone Viola - un periodico che, mutuando a livello
siciliano i temi più pregnanti della rivolta antigiolittiana,
così come erano stati filtrati, nell'anteguerra, dall'esperienza vociana e dalle riviste del nazionalismo corradiniano, e gli argomenti della polemica politica
post-bellica, alimentata dai concetti della "guerra rivoluzionaria" e
della "vittoria mutilata", sarebbe stato, per tanto tempo nell'isola,
l'espressione più lucida di un personale politico nazional-fascista
emergente, in opposizione ai quadri del vecchio mondo liberale, mobilitati in
un'azione di ricomposizione e di restaurazione del quadro politico prebellico -
aveva individua-to, con sufficiente approssimazione, in un articolo che si può
già considerare programmatico, gli obiettivi da colpire ed il metodo da
seguire.
"Ci siamo posti contro uomini che non
rappresentano partiti, ma personalità" - scriveva l'articolista -
"non interessi nazionali in generale, ma interessi di cricche e di
clientele burocratiche. La nostra non è opera di sedizione, ma di integrazione e,
risanando, non faremo la nostra debolezza, ma quella degli avversar!". [DF6](6)
Un tema destinato ad essere ricorrente in
quella diffusa, anche se spesso effimera, a causa delle carenze
finanziarie, stampa periodica nazionalfascista che
spontaneamente nasceva un pò ovunque in Sicilia,
grazie all'entusiasmo di giovani studenti e combattenti: fogli come "II
fascio di Siracusa", "II fascio di Comiso",
il "Giornale" di Catania, nel professare la loro profonda fede
antibolscevica, con altrettanta decisione esprimevano il loro netto rifiuto nei
riguardi del vecchio mondo liberale, giudicato decrepito e corrotto.[DF7]
Un messaggio che, se non riusciva a
penetrare diffusamente nell'opinione pubblica siciliana o ad aggregare una base
di massa, tuttavia veniva valutato obiettivamente come
una sfida al vecchio ordine, cui non sfuggiva la carica rinnovatrice e
rivoluzionaria, sempre pericolosa in prospettiva, rappresentata da una sezione
del fascio, aperta talvolta nel cuore della profonda provincia siciliana e
presidiata da un pugno di giovani reduci i quali, al di là del chiarimento
intellettuale, avevano colto nel lampo illuminante dell'esaltante esperienza
bellica, tutta l'arretratezza, la fatiscenza e l'ingiustizia del sistema
mafioso, contro cui non esitavano a rivolgere il loro gesto beffardo e
dissacratore.
Durante il periodo "antemarcia" in cui sarebbero caduti trucidati, ad opera dei rossi, Gigino Gattuso
a Caltanissetta e Giorgio Schirò
a Piana dei Greci, cadevano vittime di agguati mafiosi il giovane fascista di Misilmeri Mariano De Caro, che, alcuni anni dopo, il
prefetto Mori avrebbe ricordato come
"partecipe di un'avanguardia sulle insidiate vie di un sogno
di redenzione cui egli diede con
siciliana passione la sua balda
giovinezza quando il farlo parea follia ed era
eroismo",[DF8] ed a
Vita, "soggiogata dalle grigie brume mafìose",
il locale segretario del fascio Domenico
Perricone "colpito a morte dal piombo proditorio della delinquenza, mal
rassegnata a cedere di fronte al
Fascismo".[DF9]
E tuttavia, l'intimidazione mafìosa e, ancor più, il gretto conformismo degli ambienti locali, ben
irretiti nella tradizionale rete di interessi gestiti dai ceti dominanti, grazie alla
mediazione delle vecchie clientele
politiche, dovevano dimostrarsi ben resistenti, pur al cospetto dei generosi
sforzi del giovane nazionalfascismo se, ancora nel
1922, questo non era in grado di potere esprimere, specialmente nella Sicilia
Occidentale, una sia pur modesta rete organizzativa e, soprattutto, di
mobilitare le coscienze siciliane attorno al programma del movimento nazionale
con uno spirito nuovo, oltre il vecchio e deplorevole costume del favoritismo e
della corruzione. Nonostante il prodigarsi dei quadri centrali del
nazionalismo, del fascismo e del sindacalismo nazionale che con Federzoni e Zanetti, l'uno, con Starace, Teruzzi e Bolzon, l'altro, tentavano di conferire ai rispettivi
movimenti una fisionomia sempre più marcata, al fine di dare maggiore
incisività e capacità di penetrazione alla loro azione, i risultati non
potevano, certo, dirsi soddisfacenti e la Sicilia continuava a dimostrarsi
impenetrabile nel suo vecchio involucro, sicché essa minacciava di diventare,
come affermava un documento del Comitato Centrale fascista dell'agosto del '22,
il ricettacolo di "tutto il marciume che noi cacceremo da Roma", se
non si fosse pensato a riscattarlo in tempo da
"tutte le incrostazioni e gli infeudamenti del
passato".[DF10]
4) Manovre gattopardesche
La marcia su Roma e l'avvento al potere di
Mussolini avrebbero modificato radicalmente il tipo di rapporto fino allora
esistente tra la società politica siciliana ed il fascismo: secondo una
secolare, sperimentata prassi, poi resa efficacemente dal Tornasi di Lanpedusa nell'immagine del gattopardismo,
gli ambienti più influenti della società siciliana incominceranno a muoversi,
inizialmente, attraverso il loro personale di fiducia, sia al vertice, sia
negli ambienti locali, con una manovra avvolgente mirante a coprire i vasti
vuoti dell'organizzazione fascista nelle province siciliane, per conquistare il
fascismo dal di dentro e, in definitiva, per
coinvolgerlo ed integrarlo nel tradizionale blocco dominante.
Si inizia così
una difficile ed insidiosa partita le cui infinite mosse sono ben riflesse nel
vasto carteggio della direzione del P.N.F, del
ministero degli Interni e della segreteria particolare di Mussolini [DF11],
partita in cui il fascismo doveva contemperare varie e spesso contrastanti
esigenze: da un lato, svolgere un'azione di proselitismo, per conquistare
all'organizzazione fascista, in Sicilia, quella base sociale che fino allora
era praticamente mancata, nonché irrobustire, e spesso sostituire, i quadri
dirigenti, con l'inserimento di personale politico social-mente qualificato,
epurare, inoltre, come d'altronde avveniva in gran parte dell'Italia, il
movimento originario da quelle frange che dimostravano di concepire la violenza
come fine a se stessa e non come strumento rivoluzionario; da un altro canto,
nello stesso tempo, evitare di farsi travolgere dall'ondata di adesioni, di
profferte, di pressioni, spesso espresse in modo subdolo e accattivante,
resistere alla tentazione di guardare principalmente ad una prospettiva
elettorale - che pur era importante, al fine di conquistare al nuovo governo
fascista, almeno in quel frangente, una propria e sicura base parlamentare -
orientarsi efficacemente, per secemere quanto in
certa emergente fronda e resistenza dei quadri del primo fascismo siciliano ci
fosse di sicura, di sincera difesa della purezza ideologica e della linea
politica e quanto di preoccupazione per il mantenimento delle posizioni
personali. Insomma, bisognava saper svolgere opera non semplice di selezione,
al fine di riuscire a mantenere al giovane movimento fascista una chiara
fisionomia politica ed una salda autonomia in questo difficile impatto con una
realtà politica e sociale siciliana, più o meno occultamente manovrata da un
ceto dominante, ben affinato, da una secolare e prammatistica
politica, nell'arte di assorbire in modo indolore le "novità" o di
travolgerle, come già avvertiva nel Cinquecento, un politologo del tempo,
Scipione Di Castro, nel tentativo di fare evitare le insidie siciliane al nuovo
viceré di Sicilia Marcantonio Colonna.
Gramsci, [DF12]
Dorso [DF13]
e Gobetti, [DF14]
nell'infuriare della polemica politica contro il fascismo, a proposito di
questo rapporto tra fascismo e realtà siciliana, meridionale in genere, hanno
scritto di una sostanziale cooptazione e integrazione
del movimento fascinsta nel blocco agrario, ovvero di
una ennesima operazione trasformistica che realizzava,
col governo fascista, un blocco di potere sostanzialmente non diverso da quello
instaurato dalla Sinistra e dal sistema giolittiano.
Si tratta però di un giudizio schematizzante che, pur avendo influenzato la
storiografia del secondo dopoguerra sul fascismo, con il suo classismo e/o
moralismo, non regge ormai a una seria revisione
storiografica che scruti ed osservi in profondità i reali processi politici ed
i suoi complicati meccanismi, come si attuano e si muovono in Sicilia dalla
fine del '22, attraverso i travagliati anni del fascismo parlamentare, fino ai
primi passi dell'organizzazione dello stato totalitario.
Senza avere la pretesa qui, che non è
questa la sede, di chiarire, in tutte le sue vaste e complesse dimensioni, come
si risolva il problema dei rapporti tra fascismo e sistema liberale nella sua
versione siciliana - e non soltanto, ovviamente, sul piano istituzionale, ma
anche su quello dei concreti rapporti politici, sociali ed economici con il
ceto dominante che ne era l'espressione reale ed
egemonica - ci limitiamo qui a soffermarci sulla linea politica adottata dal
fascismo nei riguardi della mafia, per attribuire tuttavia ai risultati di
questa indagine un valore paradigmatico, considerata la valenza sociologicamente e politologicamente
interessante del fenomeno mafioso, come efficace e sperimentata cerniera del
sistema siciliano nel rapporto tra ceto dominante e popolazione, come elemento
di saldatura e cementazione del tradizionale blocco di potere isolano. Tanto
più che, nei mesi in cui il nuovo governo fascista muove i suoi primi passi, i
quadri più qualificati del potere siciliano, convinti ancora forse del
carattere provvisorio ed effimero dell'esperienza mussoliniana,
pur manifestando nei suoi confronti il proprio apprezzamento, avendola
valutata, ovviamente, nei limiti di una funzione restauratrice dell'ordine, si
astengono dal tentativo di controllare
ed egemonizzare direttamente ed immediatamente il movimento fascista,
preferendo, invece, muovere, in tal senso, le pedine dei quadri più ambigui del
localismo municipale, della mafiosità di provincia
ovvero alcune delle figure più marginali del personale politico.
Ebbene, al cospetto di tale
ambigua manovra, l'azione compiuta dal fascismo, attraverso l'iniziativa
politica del quadri più lucidi del movimento isolano,
il lavorìo dei prefetti e la costante vigilanza e
presenza in Sicilia di alcuni dirigenti nazionali del P.N.F.,
dimostra e sottolinea la volontà politica,
pur in una delicata fase di transizione, quale è quella tra la fine del
'22 e le elezioni politiche dell'aprile del '24, di combattere drasticamente il tentativo di inquinamento e
di condizionamento del movimento, di preservarne l'autonomia, rispetto
alle componenti più
caratterizzanti del vecchio sistema. Al di là della
facile conquista di consensi e di indiscriminate aggregazioni, per rendere
solido un puro trapasso di potere, l'impegno è rivolto alla creazione di un
"partito nuovo" che realizzi, invece, eliminando l'usato costume della
"delega" e del riconoscimento della mediazione al vecchio blocco di
potere, la presenza dello Stato nell'isola, in una prospettiva di rinnovamento
della società siciliana. Tale volontà è dimostrata, già tra il novembre e il
dicembre del '22, non solo dall'azione dimostrativa antimafiosa compiuta dal nazionalfascismo
palermitano, sotto la guida di Alfredo Cucco, a Corleone e Marineo, per
protestare contro l'ennesimo eccidio mafioso, [DF15]
ma dalla vigilante azione pubblicistica degli organi più avveduti del fascismo
siciliano che, per esempio, mettono in guardia di fronte all'improvviso filofascismo dell'onorevole Drago, un deputato social-riformista fortemente compromesso con le cosche
delle Madonie, proprio "mentre il fascismo in
pieno accordo col nazionalismo si
accingeva] a muovere una fiera lotta alla mafia rurale". [DF16]
Una vigilanza che permane in una
costante tensione politica e morale nel corso del '23, nel periodo, cioè, in cui, grazie alla maggiore intensità dell'azione
governativa fascista, per la valorizzazione dei miti nazionali ed il riconoscimento
dei sacrifici bellici, in loro nome sopportati, si manifesta un impetuoso
movimento di spontanea adesione all'organizzazione del P.N.F.,
da parte di vasti strati di piccola borghesia, proveniente dal combattentismo,
in cui tentano di inserirsi
abilmente anche personaggi ambigui ed arnesi mafiosi in cerca di nuove
protezioni e di comodi mimetismi.
"È la mafia, questa piovra immensa e
molteplice dai tentacoli profondi ed implacabili, ma tenaci ed adunchi, che
assieme al vecchio deputato complice e cointeressato, tenta di insinuarsi nel
campo fascista e, sotto la maschera tricolore e littoria, rifarsi la verginità
o la impunità o una nuova possibilità di vita",
incalzava la "Fiamma Nazionale" di Palermo, [DF17]
mentre la "Giovane Sicilia" avvertiva che "troppo celermente,
forse, in molti luoghi si è ceduto a questi politicanti fino ad ieri
rappresentanti e protettori della malavita, che sotto l'etichetta fascista
perpetuano ora metodi e sistemi che devono essere per sempre sepolti". [DF18]
A questa azione
di vigilanza e denunzia del più cosciente e vigilante nazionalfascismo
siciliano si accompagna immediatamente quella del governo che non esita ad incaricare i prefetti affinchè
indaghino e sollecitamente gli riferiscano sul tentativo di occupazione
dell'organizzazione fascista, da parte dei quadri della mafiosità
locale. E il prefetto di Palermo non tarda a rispondere, denunciando le manovre
di infiltrazione di elementi mafiosi nelle sezioni
fasciste, "per potere esercitare qualche influenza sulle direttive del
movimento, in specie nei centri rurali e in ogni caso per essere
preventivamente e tempestivamente informati dei propositi del partito e del
governo in rapporto alla mafia", mentre quello di Girgenti
rileva la "infiltrazione di elementi non degni dell'ammissione nel Partito
Nazionale Fascista sia per i loro precedenti penali, come nei riguardi del loro
contegno non corretto". [DF19]
La risposta politica del partito e immediata ed incalzante: Piero Bolzon viene subito nominato
Commissario straordinario per la Sicilia e con lui compiono un'intensa e
continua attività ispettiva, nelle varie zone della Sicilia, i dirigenti
nazionali Starace, Rocca e Giunta, per sconfiggere
l'iniziativa insidiosa ed avvolgente della mafia e dei suoi mandanti,
un'attività che culmina nel convegno di Siracusa del 27 e 28 novembre 1923, con
la partecipazione dei prefetti e dei quadri dirigenti del fascismo siciliano,
dal quale scaturisce una perentoria direttiva, contenuta in una circolare del
segretario nazionale del P.N.F. Francesco Giunta inviata,
a tutte le federazioni siciliane. [DF20]
5) - II
rifiuto della "delega"
Al cospetto della manovra subdola,
modulata secondo il vellutato stile
gattopardesco, sugli atteggiamenti sornioni ed
ammiccanti, sui tasti del trasformismo più tentacolare, messo in atto dai quadri delle mafie locali, la
qualità della linea, della volontà
politica dei dirigenti nazionali del P.N.F. emerge in tutta la sua limpidezza e coerenza, a conferma ed a
salvaguardia di
un'autonomia difesa e garantita, in funzione di un rinnovamento della società italiana: si dispone
immediatamente una profonda revisione
dei quadri e della base dell'organizzazione fascista in Sicilia, si provvede alla epurazione ed
espulsione di tutti quegli iscritti non
in regola con il certificato penale o dal passato politico molto compromesso e compromettente,
si impone come interlocutore politico
principale il movimento combattentistico,
perché sia questo il canale privilegiato cui attingere nuove energie per il fascismo siciliano.
Un'operazione, questa, difficile e
problematica e, sotto molti aspetti, tormentosa, perché condizionata dai comportamenti di un secolare
e radicato costume politico, esasperatamente
localistico e individualistico, che non poteva certo
essere debellato nel giro di poche settimane e di pochi mesi, ma, tuttavia,
un'operazione che viene portata avanti con sincera
determinazione, provocando un acceso scontro tra una volontà politica
fortemente rinnovatrice in Sicilia e un passato che, sentendosi fortemente
minacciato, tentava ancora una volta di sopravvivere, di occupare il nuovo per sconfìggerlo dal di dentro ed egemonizzarlo. Ed è, questo,
il dato storicamente più rilevante, al di là del
giudizio di certa storiografia siciliana fondata sugli schemi ideologici, cui
condiziona i processi reali.
Il nuovo governo fascista, nonostante
avesse preso coscienza della debolezza strutturale dell'originario fascismo
siciliano anzi proprio in ragione di ciò, non era disponibile per il facile
conseguimento di una diffusa base di consenso alla propria azione ed allo
stesso movimento, in virtù del rilascio della sperimentata "delega"
alle tradizionali forze egemoni siciliane, come era
avvenuto nei secoli con il tranquillo dominio delle monarchie straniere e,
ancora dopo l'unità d'Italia, per l'esercizio del potere in Sicilia, da parte
dei governi della Sinistra, fino a quelli giolittiani.
Al contrario - ed è questa la novità che caratterizza il rapporto tra il
governo fascista e la realtà siciliana - si punta all'affermazione piena
dell'autorità dello Stato, mediante l'eliminazione di qualsiasi mediazione con
i vecchi blocchi egemoni e la creazione di un moderno partito di massa, dai
caratteri culturali e politici fortemente innovatori, in grado di radicarsi
autonomamente nella base sociale e di sostenere l'azione rinnovatrice del
governo di Mussolini. [DF21]
In questa lucida e coerente strategia, la mafia risultava proprio il primo obiettivo da colpire senza
tentennamenti, per eliminare l'elemento di coesione e di cerniera
politico-sociale utilizzato dai vertici del potere siciliano, nella sua doppia
funzione di ceto politico locale intermedio e di braccio armato e intimidatorio,
ai fini del controllo della base sociale. Soltanto attraverso questa opera di compressione, di persecuzione, di isolamento
del nucleo più ferreo dell'antico blocco egemone, in attesa dell'attacco finale
e dell'annichilimento, si sarebbe potuto evitare di affidare sostanzialmente al
trasformismo dei vecchi partiti del sistema giolittiano
la gestione del nuovo corso - in cui il fascismo sarebbe stato soltanto una
superficiale ed irrilevante copertura formale - per potere battere con successo
la strada di un condizionamento, prima, di una frantumazione, poi, quanto più
possibile indolore, degli stessi partiti ancien regime, e conseguire, infine, di
aggregare, in modo non condizionante, al movimento fascista, assieme alle nuove
forze politiche e sociali emergenti, come quella del combattentismo, anche le
personalità più sane, meno compromesse o marginali, ma valide, del mondo
politico siciliano. Ed è quanto puntual-mente avviene, durante i primi mesi del
'24, - quando si prepara la lista del "blocco nazionale" in Sicilia,
per le imminenti elezioni della
primavera - in cui il fascismo, grazie alla accorta
opera condotta precedentemente sulla complessa realtà politica siciliana, può
svolgere una trattativa che evita accuratamente i vecchi partiti nella loro
globalità, non cede ai suggerimenti ed ai consigli interessati dei quadri
dell'agraria isolana [DF22]
ed avvicina, invece, singolarmente, secondo le linee di un preventivo disegno
selettivo, le personalità del liberalismo nazionale, della democrazia sociale,
del socialriformismo che, in tempi non sospetti,
avevano dimostrato di coltivare sinceramente i valori nazionali o di possedere
tensioni non superficiali di carattere popolare e sociale e, perciò, davano
sufficiente garanzia per l'assolvimento di quegli impegni rigeneratori che
Mussolini aveva assunto nei confronti della società italiana. Opera di
mediazione certamente, quella operata in Sicilia dal
fascismo con la tattica elettorale del "blocco nazionale" che, però,
mentre assicurava un successo elettorale al fascismo isolano, che sarebbe
venuto clamoroso e al di là di ogni aspettativa, si concludeva non solo con
l'elezione di una maggioranza di "homines
novi" [DF23]
provenienti dalle file del fascismo e del combattentismo, ma anche con il
mantenimento di una indiscutibile autonomia, da parte del P.N.F,
se non addirittura con l'egemonizzazione di quelle
forze che, fino a quindici mesi prima, occupavano ancora la quasi totalità
degli spazi politici e sociali dell'isola.
Ne può contrastare questa tesi il rilievo
storiografico, secondo cui lo straordinario consenso al blocco nazionale sia
stato reso possibile anche grazie al rastrellamento di voti operato in suo
favore dai quadri della mafia, anzitutto perché questo fu
dovuto in gran parte alla mediazione di un personaggio come Orlando -
officiato e pressato dal fascismo a capeggiare la lista del "blocco
nazionale", in virtù del richiamo carismatico che gli proveniva dal suo
recente alone di "Presidente della Vittoria" e non certamente in
quanto tradizionalmente beneficiario dell'apporto elettorale conferitegli dalla
mafiosità del circondario di Partinico
- e, poi, perché quel sostegno fu dato più generalmente non tanto perché sia
stato sollecitato - avendo, Mussolini.,
in occasione del V Congresso dei prefetti, nel gennaio del '24, preannunciato ulteriori
provvedimenti contro la mafia [DF24]
- quanto per l'ennesimo tentativo di alcune mafie locali, non ancora ovviamente consapevoli
della realtà nuova e diversa che il
fascismo rappresentava rispetto al passato - di
crearsi fresche benemerenze, nella speranza di ipotecare in tal modo una futura benevola condiscendenza in
loro favore.
6) - Mussolini in Sicilia
D'altronde, da lì a qualche settimana, a
fare svanire ogni illusione sulla
possibilità che il fascismo potesse rappresentare, come tanti avevano sperato in Sicilia, al
vertice e alla base, una nuova versione
del trasformismo politico, disposto a rilasciare deleghe ai potentati siciliani
e, perciò, a concedere, con la mediazione
di questi, spazio al manutengolismo mafioso; a
fare capire che il nuovo movimento
rappresentava un'autentica rottura col
passato, malgrado i meccanismi indolori che l'avevano portato al potere, avrebbe
provveduto lo stesso Mussolini, finalmente venuto in Sicilia per una lunga
visita - dopo la brevissima apparizione dell'anno precedente - durante la quale
avrebbe sgombrato il campo da ogni pur minima possibilità di equivoco circa le
reali intenzioni del governo per la Sicilia. Un'azione di rottura che non avrebbe atteso la svolta, fino a quel momento inopinata e
non prevedibile, imposta dalle conseguenze del delitto Matteotti e, quindi,
della fine del regime parlamentare e della creazione dello Stato totalitario.
Il 6 maggio 1924, esattamente due giorni
dopo lo sbarco a Palermo dall'incrociatore "Dante", Benito.Mussolini, agli esordi del viaggio che lo avrebbe
portato per tutta la Sicilia, a Piana dei Greci poteva già prendere coscienza,
col suo sensibile intuito, della nozione di mafia, come costume, come
"morbosità psichica", come autorità di tipo tribale, attraverso il
personaggio grottesco di don Ciccio Cuccia, sindaco di
quel comune, che già era riuscito a diventare, con uno stratagemma,
"compare" di Vittorio Emanuele III [DF25](26).
Quello che lo stesso Mussolini avrebbe definito "l'ineffabile sindaco che
trovava modo di farsi fotografare in
tutte le occasioni solenni" [DF26](27),
così si sarebbe
rivolto, tra il meravigliato e l'offeso, al Presidente del Consiglio
arrivato nel piccolo centro del palermitano con la scorta di polizia e carabinieri: "Voscienza, signor capitano... viene con mia (me) e non ha
bisogno di temere niente. Che bisogno aveva di tanti
sbirri?" [DF27](28)
Qualche giorno dopo, nel discorso di Girgenti, Mussolini avrebbe affermato: "Voi avete dei
bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato
di strade, di acqua, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà
e l'incolumità dei cittadini che lavorano. Ebbene vi
dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini
dai delitti dei criminali. Non deve essere più oltre tollerato che poche
centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano,
danneggino una popolazione magnifica come la vostra". [DF28]
In tal modo, il capo del fascismo, con profonda intuizione della complessità
del fenomeno mafioso, mentre poneva l'accento sull'aspetto palese ed urgente
che riguardava l'ordine pubblico e, quindi, la credibilità
dello Stato a gestire efficacemente, attraverso i suoi canali istituzionali, lo
sviluppo ordinato e legale della società siciliana, coglieva anche la valenza
deformante e distorta di un certo animus, di un modello comportamentale
siciliano - risultato di una lunga sedimentazione storica - che era, al
contempo, causa ed effetto di una diversità rispetto allo spirito, storicamente
affermatesi, della civiltà europea.
7) - La rottura col passato
Mussolini concludeva
il suo viaggio in Sicilia il 13 maggio 1924: con una immediatezza che non
lasciava alcun margine di dubbio, a distanza di qualche giorno dal rientro a
Roma, il giorno 28 dello stesso mese, Cesare Mori veniva nominato prefetto di
Trapani, per iniziare da qui la sua tenace lotta contro la mafia. [DF29]
Appena un anno dopo sarebbe passato a Palermo con l'investitura di superprefetto:
il periodo aventiniano, nel risucchiare sul fronte
antifascista la frazione dello schieramento liberale, capeggiata da Vittorio
Emanuele Orlando, che aveva aderito precedentemente al
blocco nazionale, portando con se i tradizionali quadri intermedi della mafiosità del retroterra palermitano, aveva ulteriormente
contribuito a rendere più chiara la situazione, ad accelerare i tempi di una
volontà politica che era risultata chiara e determinata fin dai primi mesi del
'23. D'altronde, lo scontro
elettorale intervenuto nell'agosto del
1925, nelle elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale di Palermo,
tra la lista fascista e la coalizione antifascista,
che aveva raccolto attorno ad Orlando gli esponenti delle forze politiche del
mondo prefascista, aveva acquistato un pregnante
significato paradigmatico, nel momento in cui l'ex Presidente del Consiglio,
nel suo famoso discorso palermitano della fine di luglio, aveva organicamente,
anche dal punto di vista ideologico, inscritto la mafia nel quadro concettuale
del liberalismo siciliano.
"Or io dico, signori, che se per
mafia si intende il senso dell'onore portato fino alla
esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata
fino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole,
la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono tutti questi sentimenti, e questi
atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di
contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono
fiero di esserlo": [DF30]
la pseudo-cultura mafiosa, orgogliosamente
rivendicata, quasi in un estremo tentativo di difesa delle garanzie liberali
minacciate dal fascismo, finiva con lo squarciare clamorosamente i veli che
coprivano il reale misero orizzonte della libertà, come era concepita dal
vecchio mondo liberale siciliano [DF31]
e, paradossalmente, contribuiva a chiarire, agli occhi di strati sempre più
vasti dell'opinione pubblica siciliana, che la lotta alla mafia intrapresa dal
fascismo andava al di là di una pur rilevante operazione di polizia, per la
restaurazione dell'ordine pubblico, ma acquistava un notevole significato ideologico,
nel senso che calava nella coscienza popolare siciliana il concetto dello stato
moderno, quello che non aveva mai conosciuto, e la funzione nuova che, in
questo senso, rappresentava il partito fascista.
Del resto, i quadri intellettuali del
fascismo palermitano non si erano certo lasciati sfuggire l'occasione
per colpire Orlando nel fianco che aveva lasciato imprudentemente scoperto e a
chi protestava, per il reato di "lesa maestà", nei riguardi del
personaggio politico e dello scienziato del diritto, molto elegantemente si
ribatteva: "... i meriti dell'onorevole Orlando noi non li discutiamo in
questa sede, ma la Sicilia non li ha mai conosciuti nei metodi di lotta locali,
dove egli ha goduto e in parte gode i favori di una clientela personale
costruita con scarsa preoccupazione dell'educazione civica dell'Isola e in
particolare del suo collegio". [DF32]
II fascismo riusciva, così, a crearsi
autonomamente un terreno nuovo di
coltura non solo nell'orizzonte mentale dei ceti borghesi, ma anche nei
sentimenti dell'anima popolare, su cui si sarebbero poggiate le fondamenta di
un moderno partito di massa, diverso da quelli tradizionali dell'Italia
liberale.
Erano le fondamenta che il fascismo
siciliano dimostrava di avere intuito quando scriveva che, di fronte alla coalizione antifascista, si ergeva "la forza
invincibile della nuova Sicilia" che non era più disponibile a dividersi
tra le parrocchie del politicantismo, infetto ed
affaristico, ma affermava "la fede in una libertà che mai fu conosciuta:
nella libertà degli uomini onesti, dei patrioti non asserviti alle clientele e
alle maffie politiche, ignari dei traffici grossolani
e miserabili tra gli uomini che avevano il dovere di schiacciare la delinquenza
stessa." [DF33](35)
8) - II prefetto di ferro
È in questa ottica
che bisogna focalizzare il senso politico-ideologico della cosidetta
operazione Morì respingendo ogni tentativo, anche storiografico, teso a
rinchiuderla negli schemi riduttivi di
una pur efficace azione di polizia. D'altronde,
Mori era stato già, per diversi anni, funzionario giolittiano
in Sicilia, ma, pur essendosi rivelato, sin d'allora, uomo capace di osservare e valutare, con penetrante acutezza
intellettuale, i risvolti
demo-psicologici del fenomeno mafioso e pur
avendo dimostrato notevole perizia e qualità
professionali nel pensare ed attuare
sistemi di lotta efficaci, e per tanti versi innovativi, al fine di adattare la forza di intervento
dello Stato alla peculiarità della
situazione siciliana, non era certamente riuscito a conseguire alcun risultato apprezzabile e
definitivo. [DF34]
Aveva potuto soltanto acquistare quella esperienza intellettuale e tecnica che adesso Mussolini riteneva
estremamente utile, perché, nel quadro
della concezione ideologica del fascismo e
della volontà etica e politica dello stato fascista, potesse sgombrare il campo, intanto, da quei fenomeni
che avevano impedito la presenza delle
istituzioni in Sicilia. In definitiva, il successo dell'azione di Mori sarebbe
stato possibile solo in quanto si inquadrava in una
precisa strategia del fascismo volta a recuperare la Sicilia allo Stato: è
quanto avrebbe sottolineato Michele
Bianchi, nel 1928, a Palermo quando affermerà: "Mori era stato prima due
volte in Sicilia, ma non aveva vinto: se ora egli vince, è perché c'è il governo
fascista, e soprattutto, perché c'è un Capo come il nostro". [DF35](37)
E, in realtà, 1' "operazione
Mori" è rimasta come valore esemplare nella coscienza popolare siciliana,
è diventata rilevante elemento valutativo della politica e dello stato fascista;
[DF36](38)
permane, ancora oggi, come riferimento storico e paradigmatico edificante,
proprio perché essa si inscriveva in una visione nuova
e moderna, non soltanto culturalmente, nel senso di un rinnovamento degli
spiriti, quale veniva proponendosi e diffondendosi, non solo pedagogicamente
per l'intervento delle idee nella concreta azione sociale, come frutto dello
idealismo e dell'insegnamento gentiliano, ma anche
perché essa penetrava e fermentava positivamente ogni settore, dischiudeva
nuovi orizzonti, conferiva nuovi stimoli alle competenze tecniche e all'impegno
professionale, realizzando una evoluzione dell'intervento di polizia e
dell'azione giudiziaria, integrando per
la prima volta i sistemi della lotta alla mafia con l'azione psicologica di massa e con quella pedagogica,
con direttive di politica
economica-sociale, al fine di rimuovere i motivi che, per secoli, avevano dato alla mafia in
Sicilia una base sociale di massa.
"Il fascismo che ha liberato
l'Italia da tante piaghe, cauterizzerà,
se necessario col ferro e col fuoco, la piaga della delinquenza siciliana": [DF37]
con questa immagine bellica, Mussolini trasferiva dal
fronte esterno a quello interno il concetto
di "guerra rivoluzionaria", con cui aveva già concettualmente sostanziato il suo interventismo nel 1914-15,
e dava un'impronta di sapore etico, e per certi versi pionieristico, alla lotta
alla mafia.
Cesare Mori - "un soldato, non un burocrate ...un
assaltatore, non un covatore di poltrone frau" - [DF38]
seppe dimostrarsi un fedele interprete -
quasi in versione antropomorfica, al fine di calarsi efficacemente
nell'immagine popolare, con funzione
catartica ed educativa - della manifestazione volontaristica ed etica del nuovo
Stato fascista, con un'azione continua,
tambureggiante e, a volte, spettacolare, spesso personalmente condotta con notevole coraggio e sprezzo del
pericolo. Arrivato a Palermo il 23 ottobre del 1925, [DF39](41)
qualche settimana dopo annunciava chiaramente il suo programma: "....troppo spesso si è fatto e si fa credere che manìa e malvivenza siano un che di inevitabile e di
indispensabile al processo dialogico di formazione e di sviluppo della vita e
della coscienza collettiva sociale e politica della Sicilia", [DF40](42)
aggiungendo, perché non ci fossero più dubbi sulla natura dell'opera che si
apprestava a svolgere: "L'ora è giunta in cui gli ostacoli si misurano, si
affrontano, si aggrediscono e si frantumano ...e se qui, oggi, si chiamano maffia e malvivenza, peggio per loro...". [DF41](43)
Era quanto si aspettava il fascismo
palermitano, che, già qualche settimana prima dell'insediamento di Mori, al
momento cioè della notizia della nomina, così si era
espresso attraverso "Sicilia Nuova", il quotidiano fascista da pochi
mesi fondato da Alfredo Cucco, per rafforzare e rendere sempre più autonoma
l'organizzazione del P.N.F.: "Noi non sapremmo
dare consigli al prefetto Mori ne sapremmo arrogarcene il diritto: gli diciamo
soltanto che la provincia di Palermo lo attende all'opera con piena, incondizionata
fiducia". [DF42]
Dalle parole, il cui tono lasciava
intravedere lo stile che avrebbe improntato l'azione di Mori, si passava ai
fatti.
Veniva così
predisposta, nelle campagne della Sicilia occidentale, una rete di
"squadriglie" o nuclei interprovinciali, dotati di mezzi celeri, ai
fini di un rapido collegamento, e coordinati direttamente dallo stesso
super-prefetto, secondo una disposizione
tattica che era stata teorizzata dalle colonne di "Gerarchia", la
rivista politico-ideologica di Mussolini, fin dall'agosto del 1922, da
Ferdinando Emanuele che aveva, appunto, avvertito la necessità di una
"vigilanza costante nel territorio della campagna equamente
ripartito", con una "unità di indirizzo e di comando", al di là
delle ripartizioni e divisioni amministrative provinciali. [DF43](45)
Certo, anche nella fase immediatamente
precedente l'arrivo di Mori, non era mancata, da parte di solerti funzionar! della polizia, un'azione investigativa coraggiosa e
penetrante, ma, come ha dovuto riconoscere persino qualche detrattore di Cesare
Mori, quest'ultimo rappresentava "la decisa volontà del governo di farla
finita una volta per tutte con la mafia e, questo sì, fu davvero determinante
per i riflessi psicologici che ne scaturivano, da soli sufficienti a
capovolgere una situazione in breve tempo". [DF44](46)
Grazie, perciò, alla collaborazione di quello che sarebbe diventato il braccio
destro di Mori, l'alierà vice commissario Giacomo Spanò, il quale aveva già preparato dei rapporti circostanziati sulla malavita madonita,
scattavano, tra la fine di novembre e il dicembre del 1925, una serie di
fulminee e clamorose operazioni, con ritmo quasi quotidiano, che davano
immediatamente la dimensione e la qualità dell'operazione in atto.
62 pericolosi mafiosi, autori di una serie
interminabile di delitti, erano arrestati, sotto l'imperversare della bufera,
in un'azione notturna, nella zona delle Madonie, a
cavallo delle province di Palermo e Caltanissetta, [DF45]
nello stesso giorno un mandato di cattura veniva
spiccato contro 96 persone tra protettori, complici, manutengoli e
favoreggiatori della mafia, 126 arresti venivano operati tra Misilmeri, Marineo e Bolognetta; una
retata di 142 delinquenti, dediti all'abigeato e alla continua grassazione dei
proprietari agricoli, veniva eseguita in territorio di Piazza Armerina [DF46];
un ulteriore blitz, compiuto nel territorio palermitano, portava all'arresto di
300 latitanti su cui pendevano mandati di cattura per una serie impressionante
di furti, rapine ed omicidi [DF47].
Ancora 86 pregiudicati, molti dei quali accusati di abigeati
e assassini!, fra cui il famoso bandito Sabatino Alongi,
erano arrestati tra Prizzi, Vicari e Alia, nonché a Carini, [DF48]
A queste azioni nelle campagne si aggiungeva una retata di borsaioli che, con
le loro imprese, affliggevano Palermo. [DF49].
Di lì a qualche giorno, scattava
un'imponente operazione, programmata ed
attuata secondo i requisiti e le caratteristiche di una vera e propria
offensiva bellica, che stringeva in un cerchio di fuoco il comune di Gangi, dove trovavano rifugio, grazie alla singolare
condizione topografica dell'abitato, appollaiato su un cocuzzolo e degradante
verso i pendii, i capi e i gregari della numerosa e feroce banda di Andaloro e Ferrarello
che, per ben 33 anni, aveva dominato nelle campagne madonite,
ovunque imponendo col terrore il proprio incondizionato dominio. [DF50]
La prosa di Petacco
[DF51]
e le immagini fìlmiche di Squitieri
[DF52]
ci hanno già raccontato le varie fasi di quell'impresa
e sopratutto ne hanno reso l'atmosfera autenticamente epica, peraltro scandita,
nelle cronache giornalistiche contemporanee, con i toni marinettiani,
evocanti l'assedio di Adrianopoli
descritto in Zang-tumb-tumb. Così, infatti, il cronista
di "Sicilia Nuova": "Gangi ha vissuto
così ore indimenticabili che hanno avuto tutte le caratteristiche della vigilia
di guerra. Stato d'assedio in tutte le sue forme, pienamente
imposto, completamente vissuto. Accerchiamento, proibizione assoluta di entrare
ed uscire dal paese, ordinanza, rombare di auto,
spiegamento di forze, muoversi concitato di nuclei di militi, che eseguivano
ciecamente gli ordini, davano effettivamente un colore di guerra a quella che
era un'eccezionalissima azione di polizia". [DF53]
La resa, scandita giorno per giorno,
all'alba del nuovo anno 1926, dalle sortite a mani alzate degli esponenti della
banda, si trasformava in un trionfo per Mori che veniva
posto da Mussolini all'ordine del giorno della opinione pubblica nazionale. [DF54]
E l'offensiva
continua determinata, senza soste, implacabile. Nel marzo del
1926: 295 arresti in territorio di Termini Imerese e
ancora a Palazzo Adriano, Marsala, Mazzarino. [DF55]
In aprile: nuovi arresti a Castelvetrano, Carini e Gibellina
[DF56];
nella notte di Pasqua, tra il 4 e 5 aprile, una retata in Mistretta
porta all'arresto di una numerosa cosca capeggiata dal "colletto
bianco", l'avvocato penalista Antonino Ortoleva,
già precedentemente arrestato [DF57];
e ancora: cattura di latitanti a Capaci [DF58],
operazione di polizia in territorio di Termini [DF59],
indagini a Palermo. [DF60]
Alla fine del mese, grazie alle azioni dei nuclei interprovinciali di P.S., ulteriori arresti vengono
eseguiti a Trappeto e Piazza Armerina, [DF61]
e poi a Raffadali, Paceco,
Piazza Armerina, Agira [DF62];
40 arresti a Girgenti (tra cui quello di Don Calò Vizzini) ed altri nella piana dei Colli, [DF63]
mentre viene finalmente arrestato il brigante maurino
Melchiorre Caudino che aveva potuto fino allora impunemente trascorrere in
libertà la propria vita delittuosa [DF64].
Anche nel successivo mese di maggio
l'azione non conosce soste: con le retate compiute dai nuclei interprovinciali
ad Aragona [DF65],
a Contessa, Bisacquino, Campofìorito,
Burgio, Chiusa Sclafani e Villafranca [DF66];
con le operazioni di polizia a San Giuseppe Jato e
San Cipirrello [DF67]
con numerosi arresti per associazione a delinquere a Cinisi e Terrasini [DF68].
Il mese di giugno si inizia
con una retata di 300 persone in territorio di Bagheria
[DF69]
e poi si continua con 66 arresti tra Palermo e Borgetto
[DF70],
la scoperta di un'associazione a delinquere a [DF71]Favara una retata a
Piana dei Colli che, assieme ai famigerati fratelli Gentile, porta in carcere
ben 160 delinquenti [DF72].
Ai primi di luglio, ancora 120 associati a
delinquere che "agivano con l'intimidazione soffocando nel sangue ogni
tentativo di rivolta al sopruso e alla violenza" [DF73]
vengono assicurati alla giustizia.
Una serie di imprese
che, oltre per l'instancabile opera di
propaganda condotta da Mori, assieme alle gerarchie del P.N.F., specialmente
nei centri agricoli del palermitano, acquista
autentici toni epici per i conflitti armati che, nelle campagne siciliane, le "squadriglie di Mori"
ingaggiano coraggiosamente con i mèmbri
delle varie bande [DF74].
Il 27 maggio del 1927, nel famoso
"discorso dell'Ascensione", pronunciato alla Camera dei Deputati, -
che era un po' il bilancio dell'attività
del governo fascista negli ultimi due anni
- Mussolini scandiva significativamente i momenti e le cifre dell'offensiva scatenata dal fascismo in
Sicilia contro il fenomeno mafioso,
evidenziando il successo dell'operazione che registrava non soltanto i risultati della repressione,
ma anche quelli del miglioramento delle
condizioni dell'ordine pubblico. Rispetto al 1923, e
fino al 1926, gli omicidi erano calati da 675 a 299, le rapine da 1200 a 298, gli abigeati da 696
a 126, le estorsioni da 238 a 121, i danneggiamenti da 1327 a 815, gli incendi
dolosi da 739 a 469, i ricatti da 16 a 2. Un successo che si
era potuto conseguire grazie al sacrificio di militari e civili testimoniato
da 11 caduti e 350 feriti nei conflitti
a fuoco, 14 medaglie d'argento e 47 di bronzo al valore militare, 6 medaglie al
valor civile, 14 attestati di pubblica benemerenza e 50 encomi solenni [DF75].
L'aspetto militare è però soltanto la
parte più eclatante e spettacolare della operazione
Mori, quella che rinverdiva, sotto la forma della bonifica sociale, gli ancora
freschi temi guerreschi della prosa pubblicistica, quella che, nel secondo
dopoguerra, sarebbe stata ripresentata all'opinione pubblica come la
manifestazione di uno stato poliziesco e brutale, conculcatore
delle istanze garantiste e della libertà del cittadino [DF76].
Nella realtà, come abbiamo detto, l'azione del governo, sospinta e assecondata
dalla magistratura, dalla volontà politica del fascismo siciliano, dalla
pubblicistica, dalla scuola, dalla cultura, si svolgeva sempre più in
profondità, ricacciando, disperdendo, vanificando quelle voci e quegli
atteggiamenti, ora stentorei ora ambigui e striscianti, che, dietro una ancora
resistente retorica della "sicilianità",
dai toni offesi e indignati, dietro il formalismo
giuridico, cercavano di ostacolare o di fermare alla superficie l'intervento innovatore dello Stato.
"La Fiamma" di
Alfredo Cucco si rivelava, ancora una
volta, come l'espressione intellettualmente e politicamente più lucida, moralmente più vigile, del fascismo
siciliano, quando individuava, proprio
nella subcultura mafìosa, l'ostacolo quasi insormontabile che aveva impedito la
penetrazione del fascismo in Sicilia
prima della marcia su Roma.
"La fede tenace dei pochi pionieri
del Fascismo ha dovuto lottare in un
ambiente corrotto dal malcostume politico che da decenni s'era infiltrato nella vita
siciliana, contro l'ostilità dei vecchi
politicanti in connubio con la delinquenza." ...scriveva l'organo del
fascismo palermitano che così continuava: "se il fascismo non ha dovuto lottare contro un
partito sovversivo organizzato e
diffuso, ha trovato però di fronte al suo progredire un ambiente poco adatto, pieno di tutte le
insidie e le perfìdie... una clientela, legata dai legami più diversi
e più sicuri a pochi uomini politici,
che avevano tutto l'interesse a che il Fascismo
non si diffondesse, per non essere privati dei privilegi e dei favori di cui godevano". [DF77]
Ma ancora più
pericolosa - continuava "La Fiamma" - la "cultura" mafìosa
si era dimostrata, quando aveva tentato di
avvolgere nella sua pesante coltre il fascismo siciliano che aveva dovuto incessantemente combattere, per non
farsi soffocare
dall'abbraccio e dai tentacoli viscidi e sinuosi della piovra. Ebbene, con la lotta senza quartiere
ingaggiata contro la mafia - concludeva l'organo fascista - "...il fìlofascismo e l'inserzionismo
dei mafiosi che hanno costituito la maggior piaga del Fascismo siciliano possono ritenersi
liquidati" [DF78].
Non era certo la prima volta che lo Stato
si era posto il problema dell'ordine
pubblico in Sicilia, che, anzi, altri
funzionari governativi, coraggiosi ed intraprendenti si erano distinti negli ultimi decenni dell'Ottocento,
ed ancora in età giolittiana,
[DF79]
tra cui lo stesso Mori, in azioni di repressione della delinquenza e delle bande; ma, questa
volta, non si trattava di colpire
soltanto i fenomeni emergenti e le manifestazioni criminali più clamorosamente turbative della
tranquillità sociale: una cultura nuova
che dava valore etico alla presenza dello
Stato aveva individuato nella mafia una subcultura di opposizione ai valori
rappresentati dallo stesso Stato moderno, ne aveva percepito l'aspetto ambiguo
e bifronte, i legami più torbidi cogli stessi ceti rappresentativi delle
istituzioni, le radici psicologiche e sociali. Bisognava
andare, quindi, avanti, colpire più in alto, recidere più profondamente, perché
la cultura più viva, i valori più moderni potessero circolare nella
mente e nella coscienza delle popolazioni, forzando il secolare
"sequestro". Perché "...di una cosa ci preoccupiamo" -
puntualizzava ancora "La Fiamma" - "che finita la guerra,
continui la guerriglia, che distrutti gli eserciti della delinquenza, i loro
stati maggiori non vengano eliminati a fondo e
possano, con le loro sorde ed oblique manovre, continuare a infettare la vita
morale e materiale della Sicilia". [DF80]
La pubblicistica e la storiografìa
dell'antifascismo hanno voluto sminuire e screditare
questo aspetto politicamente rilevante della lotta alla mafia, approfittando
del successivo coinvolgimento dello stesso Alfredo Cucco nell'azione repressiva
di Cesare Mori, al fine di operare un'artificioso e
culturalmente astratto, e perciò storicamente mistificante, separazione tra
l'operazione del "prefetto di ferro" e l'ispirazione ideologica e
politica del fascismo che la presidiava [DF81].
In realtà, l'attacco di Mori a Cucco, peraltro abilmente montato con un
castello di accuse, che sarebbe miserevolmente
crollato nel corso della lunga vicenda giudiziaria, conclusasi con
l'assoluzione piena del capo del fascismo palermitano, muoveva dalla
impossibilità di coesistenza di una diarchia formata da personalità ambedue
forti e volitive che avevano ben coscienza della straordinaria rilevanza
storica dell'impresa ed erano, per ciò stesso, destinati a scontrarsi
nell'ambizione di guidarla ed egemonizzarla [DF82].
Si tratta, in fondo, dell'aspetto siciliano del conflitto di competenza
determinatasi in tutta Italia per la gestione della nuova fase della vita
italiana, tra gli organi del P.N.F. e quelli dello Stato, sciolta
perentoriamente da Mussolini, proprio nei giorni della esplosione
della "vicenda Cucco", in favore delle gerarchle
dello Stato e cioè dei prefetti, e con la destinazione dei federali a una
funzione subalterna [DF83].
Pertanto. Cucco fu travolto, al di là di ogni dubbio o
perplessità che le accuse di Mori potevano ragionevolmente suscitare, perché
Mussolini volle dimostrare che l'opera di risanamento della Sicilia sarebbe
andata avanti senza tentennamenti e senza riguardi per alcuno, come avrebbe
dimostrato successivamente anche con la pratica destituzione, dalla carica di
comandante delle forze armate in Sicilia, del suo ex ministro della Guerra,
gen. Di Giorgio, il cui fratello era rimasto coinvolto nella repressione delle
bande mafioso del Messinese [DF84].
Che la matrice del contrasto tra Mori e
Cucco sia questa e solo questa e non certo, come pur è
stato detto, il collegamento di Cucco con la mafia, è dimostrato dal fatto che
proprio mentre la mafia si apprestava a riorganizzarsi, grazie anche alle trame
dei servizi segreti americani, ed a preparare il "fronte interno",
per lo sbarco alleato in Sicilia, nel 1943, Alfredo Cucco - riammesso da
qualche anno nel P.N.F., di cui era presto diventato
uno dei vicesegretari nazionali - lasciava l'isola e, con essa, il suo lavoro e
le sue sostanze frutto di un'intensa attività professionale, per seguire
Mussolini fino al tragico conclusivo epilogo dell'aprile del 1945. Un epilogo
che per Cucco, investito adesso dalla persecuzione antifascista per l'adesione
alla R.S.I, avrebbe comportato nuovi anni di vicende
giudiziarie, di rinunce, di sacrifici, di emarginazione,
un epilogo che esalta, nella memoria, la straordinaria personalità di un uomo,
veramente esemplare come paradigma di fedeltà alle idee, di abnegazione e di
disinteresse materiale, dimostrato con il sacrificio anche dei propri beni per
il perseguimento di fini ideali e politici [DF85].
II
9) - L'azione amministrativa
Ma ritorniamo alla
metà degli anni Venti, all'attacco fascista contro la mafia. Mori
continua implacabile e deciso, non solo con le operazioni militari, ma
anche con le indagini di polizia che frugano negli archivi, per risalire così
all'origine della formazione di molti patrimoni sospetti, da parte di famiglie
ormai inserite in un contesto economico e sociale rispettabile [DF86].
Continua, soprattutto, in modo ancora più qualificato, per la prevenzione del
fenomeno mafioso, mediante la formulazione di una nuova, efficace ed incisiva
normativa amministrativa che ancora oggi si dimostra una fonte necessaria ed
utile per l'ispirazione ed il suggerimento di azioni
amministrative valide, ai fini di impedire e prevenire l'inquinamento di tipo
mafioso.
Anche in questo caso bisogna, però, sottolineare che
l'iniziativa di Mori non era soltanto espressione della sua personale volontà e dell'impegno
dell'apparato burocratico governativo, ma
traeva ispirazione o era, comunque, assecondata dalle indicazioni che
provenivano, in tal senso, dalla
pubblicistica fascista palermitana. Già, il 10 gennaio 1926,
"La Fiamma" esortava che
"l'opera si estendesse anche nel
sorvegliare le amministrazioni comunali". "...La scoperta e
la punizione delle irregolarità
amministrative" - aggiungeva
l'organo fascista - "sarà il mezzo migliore per risanare la
vita amministrativa dei nostri comuni ed
avviarla ad uno sviluppo moderno e
regolato" [DF87].
Da questo punto di vista, esemplari sono
le due ordinanze emesse da Mori, rispettivamente, il 9 dicembre del '25 e il 5
gennaio 1926. Con la prima si sottoponeva a controllo prefettizio l'attività
dei portieri e dei custodi di case private ed esercizi alberghieri, dei gestori
delle agenzie e dei sensali del collocamento di personale, dei garagisti e
tassisti e si proibiva il diffuso malcostume della "incetta degli
ammalati": tutte attività che, specialmente in città, erano egemonizzate
dalla mafia e attraverso le quali, questa esercitava
un vero e proprio controllo sociale sul tessuto urbano [DF88].
Ma era
specialmente con la seconda ordinanza che, riguardando principalmente la
campagna, si colpiva la mafia laddove si formava, attraverso la
"protezione" e la violenza, la sua forza economica: le attività di
guardiano, curatelo, vetturale, campiere - quelle
tipiche delle mediazioni mafiose - venivano non solo sottoposte a preventiva
autorizzazione prefettizia, ma vincolate all'obbligo del domicilio nei luoghi
dove tali attività erano esercitate ed all'assunzione di responsabilità nei
riguardi dell'autorità, circa la "legittimità della presenza di persone ed
animali nei casamenti e nei terreni affidati alla loro custodia" [DF89].
Altri articoli dell'ordinanza erano
dedicati alla regolamentazione e al controllo
dell'esercizio dell'attività pastorizia e della macellazione della carne, al
fine di sanare la secolare piaga dell'abigeato, tradizionale forma di
arricchimento dei quadri mafiosi. Inoltre, le famiglie dei latitanti erano
obbligate a dimostrare la liceità del possesso del denaro, degli oggetti e dei
beni di cui godevano, pena la loro confìsca.
A queste norme si sarebbe accompagnata,
qualche mese dopo, la misura dell'abbattimento dei muri di cinta del
palermitano, occulto riparo da cui, generalmente, si sgranava il triste rosario
della lupara per le esecuzioni maliose [DF90](;
inoltre, si procedeva all'applicazione dell'ari 23 di detta ordinanza, relativa
alla istituzione della Commissione di difesa contro l'abigeato, e quindi alla
marchiatura degli animali bovini, ovini e caprini, al fine di combattere
efficacemente l'abigeato stesso con l'identificazione dei vari capi di
bestiame: un provvedimento che avrebbe dato vita all'anagrafe del bestiame [DF91].
Infine, con una terza ordinanza, adottata
il 14 marzo 1927, veniva messo ordine nell'istituto
della guardianìa, interessante i giardini dell'agro
palermitano, perché esso potesse essere tutelato "da quelle degenerazioni
ed infiltrazioni" che ne avevano fatto un "mezzo specifico di sopruso
e di sfruttamento" e "base ed alimento allo sviluppo di attività
particolarmente pericolose". Con tale provvedimento, pur permanendo la
natura privatistica del rapporto contrattuale tra
proprietari dei fondi e guardiani, quest'ultimi dovevano essere
"riconosciuti" dall'autorità di P.S. e "sottoposti alle
dipendenze di un ispettore e due vice-ispettori nominati dal prefetto e
dipendenti per il servizio dal questore..." [DF92].
In tal modo, si poteva procedere ad una
vasta epurazione del corpo dei guardiani da tutti i mafiosi e manutengoli che
"proteggevano" gli agricoltori.
L'azione amministrativa di Mori si era
andata, dunque, svolgendo, sin dall'esordio, secondo un preciso disegno che
nasceva da una lucidissima percezione sociologica del fenomeno mafioso, individuato
anche come un sistema di cerniera tra ceti dominanti e popolazione, del ceto
mafioso, focalizzato come organo di mediazione che, con l'esercizio della
protezione-intimidazione sui gruppi politico-economici e sulle masse rurali, si
era ritagliato un suo peculiare ruolo di prestigio e rispettabilità sociale ed
assicurato una consistente forza economica.
Tale sistema di cerniera era stato già
duramente colpito e sconvolto mediante l'epurazione e il controllo del corpo
dei campieri, dei guardiani e di ogni
altro gruppo socialmente mediatore, ma occorreva ulteriormente intervenire in
tal senso, per cercare di eliminare le forme di mediazione parassitaria,
laddove si manifestavano con maggiore ampiezza sociale, notevole significazione
economica e conseguente radicalizzazione.
Bisognava, cioè,
colpire la rendita parassitaria della gabella che era la solida base economica
della più potente mafia agraria espressa appunto mediante la figura del gabelloto. Anche su questo punto insisteva la pubblicistica
fascista palermitana la quale affermava che il fascismo non era disposto ad
assumere il ruolo di "campiere" dei
latifondisti e dei gabelloti e non si rassegnava a
diventare "un comodo schiavismo a favore delle zone parassitarie" [DF93];
per denunciare, infine, che "la pressione dei ceti parassitari... è ancora
così forte che la nuova vita stenta ad aprirsi un varco..."
[DF94].
La lunga pressione dei sindacati fascisti
dei lavoratori agricoli, da una parte, e quella del governo fascista, tramite
il prefetto Mori, dall'altra, avrebbe infine conseguito un risultato
importante. Nel giugno del 1927, tra la federazione dell'agricoltura e la
confederazione fascista dei lavoratori agricoli, veniva
stipulato un patto, in base al quale venivano "eliminati i gabelloti che non esercitavano nel fondo gabellato
l'industria agricola" [DF95],
col ripudio, quindi, di "tutte le forme di intermediari e di subgabelloti, ed ogni altro tipo di sfruttamento diretto ed
indiretto della proprietà e del lavoro" [DF96].
I risultati non si sarebbero fatti
attendere molto. Nel giro di pochi mesi, nella sola provincia di Palermo
potevano essere liberati dai gabellati mafìosi ben
320 fondi, per una superfìcie complessiva di 280.000
ettari [DF97].
La mafia veniva così vulnerata gravemente nel suo
braccio economico ed armato più consistente, liberandosi ampi spazi dove lo
Stato adesso avrebbe potuto esercitare la sua funzione economica, civile,
educativa.
A coronamento di questo momento
repressivo, condotto, come abbiamo visto, con moderne intuizioni organizzative
e tattiche nell'utilizzazione, sul territorio, delle forze dell'ordine, e con
norme amministrative penetranti ed efficaci, al fine di sconvolgere e colpire i
meccanismi più riposti della presenza mafiosa, si istituiva,
col decreto legge 15 luglio 1926, il confino di polizia, per isolare ugualmente
quelle persone, a carico delle quali, considerata la complessità e
particolarità del fenomeno mafioso, non si fosse raggiunto, nonostante la
abbondanza degli indizi, la prova giudiziale per una condanna. Una commissione
provinciale, presieduta dal prefetto, avrebbe potuto comminare
il confino da 1 a 5 anni, a carico di quelle "persone designate dalla
pubblica voce come capeggiatori, come complici o favoreggiatori di associazioni
aventi carattere criminoso o comunque pericolose alla pubblica sicurezza" [DF98].
10) - L'azione giudiziaria
Ma a riprova, ancora una volta, che il
successo della lotta contro la mafia non può ne deve giudicarsi in senso
restrittivo e limitato, come espressione di una volontà dello Stato calata
dall'alto, come la manifestazione della forte personalità del "prefetto di
ferro", bensì il risultato conseguito grazie alla formazione di un globale clima politico e civile di rigenerazione morale e sociale,
suscitato dal fascismo, occorre dare uno sguardo all'opera della magistratura.
Questa, - grazie ad un valoroso gruppo di eletti
magistrati: Mirabile, Luigi Malaguti, procuratore del
Rè a Termini, Ferdinando Umberto Di Blasi, giudice istruttore, stretti intono al procuratore
generale del Rè Luigi Giampietro, "che ne era
l'animatore e la guida inflessibi-le" [DF99]
- con un atteggiamento esemplare e con una interpretazione innovativa della
norma giuridica, sottratta all'astrattezza e al formalismo, ed applicata,
invece, alla peculiarità del fenomeno mafioso - a conclusione dei cosidetti "processoni",
svoltisi tra il 1928 e il 1929 - diede una sanzione giudiziaria, con una serie
interminabile di condanne, agli arresti e alle retate di bande e cosche mafìose operati da Mori [DF100].
E chi si sofferma a riflettere criticamente sul dibattito giuridico
svoltosi in quegli anni, potrà, anche in questo caso, scoprire che i problemi
tecnici, di carattere processuale e penale, furono gli stessi che si pongono
oggi e, soprattutto, che le soluzioni che si tendono oggi ad attuare, per
un'efficace soluzione giudiziaria, sono le stesse allora suggerite dal
procuratore generale Giampietro, pubblicamente lodato da Mussolini nel già
ricordato "Discorso dell'Ascensione", perché "in Sicilia ha il
coraggio di condannare i malviventi", dall'avvocato generale dello Stato
Scaduto e dallo stesso Mori.
Allora, come adesso, sorse il problema
della "legittima suspicione": "riaffiorò,
cioè, ...il dubbio che le giurie isolane potessero subire l'effetto delle immanchevoli pressioni da parte delle famiglie dei
giudicabili" e si ebbe la tentazione di un eventuale trasferimento dei
processi in Corti di Assise non siciliane. Una tentazione cui si oppose, oltre
a gran parte della magistratura palermitana, lo stesso Mori
e non solo per là convinzione dell'insufficienza a giudicare da parte di giurie
estranee che "non potevano comprendere la complessa situazione donde i
malanni traevano origine", ma, soprattutto, perché lo svolgimento dei
processi nell'ambito territoriale siciliano doveva essere, ancora una volta, la
"prova tangibile del movimento di reazione spirituale e materiale
determinatesi in Sicilia contro la mafia" [DF101].
Ma ben altri
problemi si prospettavano, alla vigilia dello svolgimento dei processi
giudiziari, che minacciavano di vanificare nei labirinti del formalismo
giuridico i successi conseguiti sul piano militare e psicologico.
Il commentatore giudiziario del
"Giornale di Sicilia", muovendo da preoccupazioni di carattere
formale, contestava l'utilità del "processone",
affermando che esso minacciava di "lasciare buon gioco all'elemento infido
che potrebbe, se opportunamente scisso in piccoli nuclei, fornire preziosi
elementi per la ricerca della verità e ne diventa, invece, l'ostacolo maggiore,
perché di fronte ad un vasto, e talvolta indefinito aggregato di materiale
d'accusa, si mantiene reticente...". Nella
realtà, egli si rendeva portavoce di quegli ambienti i quali affidavano ad un
garantismo formalistico le ultime risorse di difesa della mafia, specie di
quella fino allora protetta dall'apparente perbenismo, nel momento in cui obiettava che "quella comunanza di obiettivo che tanta profìcua è nelle operazioni di polizia è altrettanto nociva
nella minuziosa cernita del procedimento istruttorie, poiché includendo un
numero troppo vasto di giudicabili in un'unica inquadratura, i contorni dei
singoli reati da esaminare vengono a sfumare e danneggiano l'efficacia dello
accertamento delle singole responsabilità" e ambiguamente poneva l'accento
sul "proscioglimento dei rei o la condanna degli imputati innocenti: due
pericoli che diventavano maggiori davanti ad una Corte d'Assise" [DF102].
Obiezioni che però venivano liquidate dal procuratore
generale Giampietro che, nel corso della sua Relazione per l'inaugurazione
dell'anno giudiziario 1928, prendendo lo spunto dai casi impugnati di
proscioglimento in istruttoria, stigmatizzava che "ancora non sia stata
ritenuta la importanza della prova giudiziaria tutt'affatto speciale nei
processi di mafia", aggiungendo: "...Se i detenuti appartengono alla
mafia, se elementi varii dimostrano la loro unione ad
altri i quali hanno commesso delitti o fatti che la proporzione o il tentativo
di questi dimostrano, ad essi non sarà imputabile la correità morale di questi
ultimi, ma non potrà escludersi la responsabilità dell'associazione: la società
mafiosa attiva ed operante è per se stessa un'associazione a delinquere" [DF103].
E proseguiva, molto decisamente,
che "la dichiarazione processuale fatta dagli ufficiali e dagli agenti
della polizia giudiziaria... assurge all'importanza di vera e propria prova da
non potersi ritenere priva di efficacia giuridica, perché quelle dichiarazioni
di testi che vivono nei luoghi ove i fatti avvennero, che li hanno
quotidianamente in ogni modo constatato, onde non solo della veridicità, ma
anche della efficacia probatoria di essa, non è da dubitare" [DF104].
Tesi cui accedeva, l'anno dopo, in occasione
dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 1929, con ulteriori argomentazioni,
l'avvocato generale dello Stato Scaduto, per il quale non si deve pretendere
dalla pubblica accusa "la prova matematica dell'organizzazione delittuosa,
per affermare la colpabilità degli imputati. In
questo genere di reati, difficilmente l'opera indagatrice della polizia può
raggiungere la prova apodittica del "vinculum sceleris" che avvince i denunciati, aggiungendo che
"quando gli atti delittuosi vi sono stati e del genere specificato dall'aricolo 248 C.P.P., quando tali atti appaiono tra loro concatenati e
rispondenti ad un piano di attività criminosa, che non può essere del singolo
delinquente sociale o di una azione collettiva che vieppiù atterrisce e
maggiormente turba la pace sociale; quando il timore di danno più grave ha
consigliato i danneggiati del delitto a tacere e a procurarsi la restituzione
del tolto, previo corrispettivo pecuniario; quando la polizia giudiziaria, con
abile fiuto, ovunque penetrando, ovunque cogliendo impressioni, lamenti,
notizie larvate, accuse, sospetti, si è formata ed ha potuto infondere la sua
convinzione per tutto un complesso di elementi gravi e concordanti, che l'associazione esiste e ne
individua i soggetti che la compongono, si ha in tal caso un materiale di buona
fonte che concretizza quanto basta per il convincimento della sussistenza del reato" [DF105].
In definitiva, nell'ambito normativo di
un codice penale in cui non era
prevista la fattispecie del reato di associazione
a delinquere di tipo mafioso, il procuratore
Giampietro, ai fini dell'accertamento
dei reati consumati da imputati mafiosi, rivendicava "un rigido spirito di
critica processuale, maggiore
percezione della condizione ambientale": ciò per evitare
assoluzioni che determinino "la sfiducia della popolazione nella efficacia repressiva della legge e nei
dubbiosi confermi la convinzione della
invincibilità della mafia". [DF106]
Ma il conflitto tra le opposte tesi,
circa la identificazione o meno, nella fattispecie
dell'associazione a delinquere, del vincolo mafioso non si sarebbe, perciò,
rapidamente concluso, che esso, anzi, si sarebbe trasferito dalla sfera
pubblicistica e dall'ambito dibattimentale nelle sedi più strettamente
scientifico giuridiche.
Ad argomentare la tesi garantista, che rifiutava il "vinculum
sceleris" nel rapporto tra mafiosi, soccorreva
ancora la concezione romantico popolare del Pitré, secondo il quale "mafia" "valse e
vale sempre bellezza, graziosità, perfezione,
eccellenza nel suo genere", lamentando "il triste ufficio a
cui è stata condannata la voce mafia,
la quale era fino a ieri espressione
di una buona cosa e innocente, ed ora è obbligata a rappresentare cose cattive" [DF107].
Giuseppe Mario Puglia, pur non
rivendicando ormai la mafia sotto tale fattura romantica, tuttavia rifiutava la
definizione di mafia come "riunione di persone legate da un fine
criminoso", attestandosi prudentemente a riconoscerla come "una
morbosità psichica insita - con altri pregi e difetti - nel popolo siciliano"
[DF108].
Era, però, quanto gli bastava per affermare, parlando di quest'ultima
valutazione, che il legame intercorrente tra i mafiosi non si poteva certamente
considerare di carattere organicamente
delittuoso, bensì semplicemente "istintivo", il quale solo se
"intervenisse la volontà all'uopo necessaria, potrebbe degenerare - fra
delinquenti - in favoreggiamento, complicità, e anche in volontaria
associazione per delinquere, ma che allo stato puro, cioè
di simpatia bio-psicologica, non deve confondersi col
"vinculum sceleris"
[DF109].
Ed era la premessa necessaria per
attaccare in dottrina la sentenza della Corte di Appello
di Palermo che aveva condannato, appunto, per associazione a delinquere, i
mafiosi di Partinico, perché "qualunque fosse
stato l'originario significato della parola mafia.... è certo che i
verbalizzanti e le persone di contro interrogate ne hanno parlato nel
significato di delinquenza organizzata nell'unità di fine e di azione e mafiosi
chiamano gli appartenenti alla stessa" [DF110].
Di fronte a tesi,
come questa del Puglia, che, consciamente o incosciamente,
si riducevano a tentativi di copertura e difesa di un tipo di società che
doveva essere superata, non si ergevano, però, soltanto le argomentazioni già
citate di magistrati come Giampietro e Scaduto o di giudici come Ferdinando
Umberto Di Blasi [DF111],
particolarmente impegnato a portare al pubblico dibattimento atti istruttori
elaborati e precisi, ma anche la nuova scienza giuridica e una leva di giovani
magistrati. E tutti insieme riflettevano una coscienza
giuridica che interpretava una nuova più alta dimensione civile, il respiro più
ampio e profondo di una nazione che emergeva sempre più sulla scena della
storia come protagonista di una grande
civiltà.
Particolarmente impegnato in questo
senso si dimostra lo studio elaborato da Giuseppe Guido Lo Schiavo [DF112]
che liquidava le superficiali analisi del fenomeno mafioso, ancora legate alla interpretazione demopsicologica
del Pitrè, documentando l'evoluzione del fenomeno
stesso dai primi anni dell'unità
d'Italia sino all'inizio del secolo e poi agli anni Venti: un iter,
afferma il Lo Schiavo, nel corso del quale si riscontra all'inizio "non
solo l'affermazione antigiuridica della "mafia", ma addirittura
l'organizzazione sociale dei "mafiosi" in "società di cosidetto mutuo soccorso, che erano vere e proprie
associazioni per
delinquere", poiché "ogni comune aveva la propria mafia, cioè il proprio aggregato di mafiosi,
dipendente da uno o più capi, subordinati quasi a un capo supremo", e,
infine, una vera e propria organizzazione confederale formata da "staterelli che si corrispondono per vibrazioni tentacolari
invisibili da un punto all'altro della regione: dovunque c'è "un
mafioso", c'è un gregario diretto o indiretto del centro propulsore" [DF113].
Un'analisi che dimostra, anche in questo
caso, la modernità della ricerca, se sessanta anni dopo i magistrati
palermitani impegnati nello svelare le dimensioni del fenomeno mafioso degli
anni '70, sono pervenuti alle stesse conclusioni con
la individuazione della cosidetta "cupola".
"Se queste, senza reticenze o veli
pietosi, era la "mafia" di sei anni or sono" - argomentava il Lo
Schiavo nel suo saggio del 1933 - "siamo avventati ovvero esagerati quando
affermiamo che "mafia" si identifica con
"associazione per delinquere", poiché in essa ricorrono tutti gli
estremi di legge per costituire il gravissimo reato, che affliggeva e
disonorava una intera regione?" [DF114].
Non ci sembra necessario, data la matrice
puramente storiografica del nostro lavoro, addentrarci ulteriormente nell'analisi
giuridica del Lo Schiavo o citare altri studiosi. Qui
ci preme concludere che fu grazie a questa provvida
interpretazione innovativa del fenomeno mafioso, misurabile sull'impegno morale
e civile della magistratura palermitana, forgiata da una temperie
politico-culturale che finalmente, anche in Sicilia, faceva conoscere lo Stato
sotto il profilo etico, con un intervento diretto che non tollerava alcuna
delega alla mediazione delle antiche forze egemoni siciliane, che la debellatio antimafiosa di Mori potè
raggiungere i suoi fini con la sanzione giudiziaria [DF115].
Si aggiunga a ciò la vigilanza attenta e
continua di Mussolini che personalmente intervenne
spesso, con telegrammi e lettere, per l'accelerazione dei processi, le cui
lungaggini procedurali minacciavano di apparire, di fronte all'opinione
pubblica, come manifestazioni della capacità, da parte degli ambienti mafiosi,
di saper resistere alla stessa offensiva dello stato fascista, la cui
efficienza e tempestività d'azione rischiavano di essere oscurate e appannate,
con effetti avvilenti per la lievitazione in atto della nuova coscienza antimafiosa
della Sicilia. Tracce dell'intervento di
Mussolini, in tal senso, esistono già in un telegramma a
Mori del novembre del 1927, in cui, a
causa del prolungarsi del processo alla
mafia di Termini Imerese, si esprimeva la preoccupazione che "la liquidazione
giudiziaria della mafia, conditio sine qua non per la
liquidazione sociale della medesima, non
sarà esaurita prima dell'anno 2.000" [DF116].
Qualche mese dopo, il capo del governo
interveniva nuovamente sull'argomento, sollecitando a "studiare modo che
futuri processi si svolgano con un ritmo
più consono ai tempi, cioè più fascisti" [DF117].
Centinaia e centinaia di condanne si
abbatterono non soltanto su delinquenti,
malavitosi, banditi e manutengoli, ma su
tanti rispettabili "galantuomini" e "colletti bianchi":
sindaci, consiglieri comunali e provinciali, avvocati, sacerdoti, medici e
farmacisti. Il vecchio "gotha" della mafia, assieme a quello che
sarebbe stato il nuovo, nel secondo dopoguerra, assurto anche a considerevole
prestigio istituzionale: da Ciccio Cuccia a Santo Termini, sindaci di Piana dei
Greci e di San Giuseppe Jato, da Francesco Badolato a Gaspare Tedeschi,
sindaci, rispettivamen-te, di S. Cipirrello e di Villafrati, dal commendatore Bongiorno,
consigliere provinciale di Caltanissetta, a Vito Cascioferro di Bisacquino fino a
don Calò Vizzini e Genco
Russo, futuri sindaci democristiani, nel postfascismo,
di Villalba e Mussomeli -
fu liquidato con anni e anni di carcere e di confino [DF120].
I risultati furono evidenti, per quanto riguarda la situazione dell'ordine pubblico: a distanza di
due anni dalle pur significative cifre che Mussolini aveva dato nel
"Discorso dell'Ascensione", Cesare Mori, nel corso di una
manifestazione elettorale per il plebiscito, svoltasi, nel marzo 1929, al
Teatro Massimo di Palermo, poteva presentare un bilancio di rilevanza
straordinaria, per un'isola secolarmente flagellata dal fenomeno della
delinquenza e del brigantaggio: omicidi: .1925:268; 1928:25; rapine: da 298 a
14; estorsioni: da 79 a 6; grossi abigeati- da 45 a 6; )
Un bilancio che
configurava una vera e propria pace sociale e civile - entrata ormai nella leggenda con il
detto popolare oggi ricorrente: "Si
poteva dormire con le porte aperte" - e che si era potuto conseguire non soltanto con
l'azione poliziesca e giudiziaria, ma
con la presenza di uno Stato che aveva saputo
calarsi nella coscienza dei siciliani, a tal punto da riceverne la collaborazione e il consenso nella lotta
contro la mafia e la delinquenza.
E quanto ribadiva lo stesso Mori quando affermava:
"Signori, il Fascismo non ha considerato la lotta contro la mafia e la delinquenza in Sicilia come una
semplice operazione di polizia, ne ha
mai pensato che la Sicilia fosse tale da attendere la sua rinascita da provvedimenti di pubblica
sicurezza. È perciò che il fascismo considera la lotta contro la mafia e la
delinquenza non come fine a se stessa, ma semplicemente come mezzo a sgombrare
il territorio di ciò che maggiormente fino a ora si
oppose allo sviluppo delle sane e poderose energie donde l’isola è ricca" [DF121].
Ne si trattava di
dichiarazioni estemporanee, perché questa ispirazione fondamentale era già
presente nell'azione dell'uomo - spesso distortamente, e non causalmente, presentata come un'esclusiva azione militare-repressiva - in termini lucidamente programmatici,
quando affermava "che la lotta non doveva essere campagna di polizia in
più o meno grande stile, ma insurrezione di coscienze, rivolta di spiriti,
azione di popolo" [DF122].
11) - La bonifica psicologica
Questa nuova fase fu gestita da Mori, con
la collaborazione dei quadri del P.N.F, percorrendo
in lungo e in largo le campagne della Sicilia Occidentale, con un'azione
tendente a calare nella psicologia delle masse contadine la
superiore forza dello Stato, la sua funzione eroica e missionaria, in
contrapposizione alla barbarie della delinquenza e alla viltà ed ipocrisia
della mafia. Mussolini aveva avuto modo di cogliere la natura morbosa del
fenomeno mafioso che, pertanto, non poteva certamente vincersi soltanto col
ferro e col fuoco. Ciò sapeva bene lo stesso Mori che,
già precedentemente, si era cimentato nel terreno della lotta alla mafia non
soltanto con l'azione di polizia ma anche con la riflessione intellettuale, [DF123]
che adesso riproponeva in forma solenne, nel momento in cui riceveva dal professore Salvatore Riccobono, preside della palermitana Facoltà di
Giurisprudenza e alla presenza del Rettore, professore Ercole, e di tutto il
corpo accademico, la laurea "honoris causa" e pronunciava il discorso
inaugurale per un ciclo di conferenze giuridico-sociali-economiche
dell'Università. "La mafia: un'at-
titudine morbosa specifica di determinati
elementi" - spiegava, con
innegabile tono professorale, Cesare Mori - "che si realizzò traducendosi
in un sistema di oligarchie locali germinate
spontaneamente o importate le quali, solidali nella comune discendenza, stringevano l'isola in
una rete di ferro ad unico filo conduttore ed agivano polarizzando a sé
malvivenza e popolazione sul terreno di un compromesso inteso a rendere la mafia arbitra tra le due in un clima di
omertà che era astrazione dallo stato ed offesa ad ogni precetto legale, ad
ogni legge morale e ad ogni
senso di civile dignità" [DF124][DF125].
L'aspetto relativo alla formazione di una coscienza
antimafiosa era messo in rilievo anche da Alfredo Cucco, quando scriveva ai
quadri del fascismo palermitano che "il popolo siciliano dalla nostra
opera educativa deve essere condotto a vincere ogni forma di mafia, di omertà,
ogni sistema di pensiero e di spirito, che incoraggi comunque le segrete e
criminali organizzazioni" [DF126].
Bisognava, perciò, combattere la
mafia, nelle sue manifestazioni delinquenziali, col ferro e col fuoco, ma,
sotto l'aspetto di "morbosità psìchica"
doveva essere fronteggiata con un'offensiva psicologica che poteva scatenare
soltanto un uomo come Mori il quale fermamente credeva
che "polizia, in se stessa, sia soprattutto psicologia; nella funzione,
civile milizia; nel fatto, azione" [DF127].
Questa immensa opera di bonifica
psicologica venne condotta, sublimando in autentiche
sagre popolari, concluse con il rito religioso in un'aura di profondo
misticismo, gli incontri con le popolazioni rurali, dove lo Stato si presentava
ora sotto l'aspetto cavalleresco, sollecitando nei campieri
il sentimento dell'onore, prima distorto in senso mafioso, a favore del
cittadino, tanto più se debole e indifeso; ora suscitando l'amor proprio, lo
stesso carattere ribelle del siciliano, ma non più in senso antisociale, bensì
contro il sopruso e l'imposizione della mafia; uno stato che si manifestava
ancora icasticamente come garante di giustizia, a
tutela dei beni, quando rendeva un atto burocratico-amministrativo,
quale la marchiatura degli animali, una festa gioiosa celebrata assieme ai
mandriani, ai pastori e ai contadini; ed ancora, in veste consolatoria,
nell'offrire l'assistenza, in funzione socialmente redentrice, ai figli dei
delinquenti che aveva duramente perseguitato.
E così, nella conca di Roccapalumba,
nella tersa mattina primaverile del 13 maggio 1926, sullo sfondo di un suggestivo scenario naturale - e in un clima di tensione
morale e religioso molto simile a quello delle cavalieresche
sagre medievali ai 1200 tra guardiani e campieri,
soprastanti e curateli - "gente adulta, gente giovane, tutta abbronzata
dal sole, ma vigorosa per l'azione dell'aria libera" - vestiti con la
"bunaca", la tradizionale giacca dei "burgisi", col fucile in spalla e schierati in fila
sulle lucide cavalcature, per prestare il giuramento di fedeltà allo Stato,
Mori ricordava che la proprietà privata, prima difesa con ricorso "ad
uomini non sempre raccomandabili", doveva essere da loro adesso garantita
"per virile affermazione di diritto, per forza di legge e, dove
occorresse, per forza di armi" [DF128].
Allo stesso modo, a Piana dei Greci, il
lunedì di Pasqua del 5 aprile 1926, al cospetto della "caratteristica
cavalleria dei contadini", di schiere di giovani donne vestite coi tradizionali costumi albanesi, e di tutto un popolo
festante, ancora Cesare Mori dichiarava che la stessa Piana dei Greci, epurata
dalla mafia e dal suo sindaco mafioso, veniva "solennemente consacrata a
se stessa ed all'avvenire di tranquilla prosperità" [DF129].
Anche il rinnovato corpo dei guardiani
ebbe il suo battesimo solenne: in occasione della Festa del Lavoro del 21
aprile 1927, "i guardiani della conca d'oro", dopo aver sfilato in piazza Politeama, di fronte ad una marea di folla,
"inquadrati ed armati", gagliardetti in testa, "levarono alto e
possente il grido di giuramento e di lealtà nei confronti dello Stato",
mentre i palermitani prorompevano "in un interminabile entusiastico grido
di consenso, di gioia e di liberazione" [DF130].
"La mafia, la sanguinaria mafia della Conca d'Oro" - commentava Mori
-"perdeva di un tratto il suo più valido mezzo d'azione" [DF131].
Un vecchio settantaduenne, spettatore della suggestiva
cerimonia, avrebbe dato la sua voce a quella che ormai è diventata una
straordinaria leggenda che si è già trasmessa per più generazioni: "Ho 72
anni, ma muoio tranquillo perchè vedo che nelle
campagne regna ormai la pace" [DF132].
Al fine, poi, di "determinare negli
ambienti stati d'animo revulsivi...", tali da "far sentire alla
mafia, insieme con la violenta trazione dall'esterno, uno spirito espulsivo
ambientale", [DF133]
a Gangi, il paese in cui la delinquenza era stata
espugnata "manu militari", lo stesso Mori, al di là dell'ammirazione passiva della
popolazione, che riconosceva ormai in lui il mito leggendario dell'eroe vindice
e invitto, suscitava la partecipazione attiva, stimolava le qualità eroiche del
cittadino siciliano nella lotta contro la delinquenza: "Voi non avete
paura del moschetto, ma della nomea di "sbirro" - ammoniva il
prefetto di ferro - davanti a una marea di coppole nella raccolta e suggestiva
piazza trecentesca del centro madonita -
"Avvezzatevi a considerare che la lotta contro chi delinque è dovere del
cittadino onesto... Ribellatevi alle imposizioni, alle taglie, ai soprusi.
Difendetevi, contrattaccate! Io vi darò tutte le armi che possano
occorrervi, ad un patto: che le adoperiate" [DF134].
La collaborazione dei cittadini, nella
stessa lotta armata contro la delinquenza e la mafia, veniva
riconosciuta quando, alla fine del 1926, nel corso di una pubblica cerimonia
a Bisacquino,
nella piazza Triona gremita di popolo, lo stesso Mori conferiva la medaglia d'argento al
valore civile al contadino Vincenzo
Marino che aveva reagito con le armi a un
tentativo di rapina, uccidendo uno dei malfattori e catturando l'altro. "Contadino Marino! ... Io non
intendo soltanto rendere il mio tributo di omaggio al vostro valore" - disse Mori nel suo discorso - "ma dimostrare a voi e a
tutti che ... il governo di Benito Mussolini ieri, oggi e sempre, qui e
dovunque, è coi valorosi, coi coraggiosi, con tutti coloro che ieri o domani
nelle trincee di guerra, ed oggi nelle trincee del lavoro, in nome della Patria
e della dignità civile, nazionale e umana, sentono e sanno compiere il proprio
dovere di italiani, di cittadini e di lavoratori fino al sacrificio di se
stessi". In tal modo il "prefetto di ferro" sollecitava "la
redenzione della Sicilia per virtù dei suoi figli stessi" e non soltanto,
quindi, col grido "Abbasso la mafia! Abbasso la malvivenza!" che era
echeggiato nella piazza, ma con quello di "Addosso alla mafia! Addosso
alla malvivenza". [DF135]
Qualche settimana dopo, il rapporto di amore-gratitudine tra Mori e il paese dei Gangi veniva rinnovato al Teatro Massimo di Palermo, in
occasione del congresso provinciale della federazione fascista palermitana, con
la consegna, da parte delle donne di Gangi, di uno
"scapolare" - il mantello dei contadini delle Madonie
- al "prefetto contadino" che così ringraziava: "A voi signore elettissime della provata e generosa Gangi
qui venute in atto di suprema gentilezza ad onorarmi ... io affermo anzitutto
solennemente qui che il tempo degli incubi, delle ansie, delle angosce, degli
improvvisi lutti sanguinosi, è finito per sempre". [DF136]
A Castronovo,
infine, nell'offrire dei contributi assistenziali ai
figli dei carcerati, si esprimeva fiducia, sia pure ancora nei limiti di una
fede ottocentesca ed in una cornice di fattura quasi deamicisiana, nel
progresso morale, in virtù della semplice opera educativa: "Bambini, voi
oggi non capite il significato di questa cerimonia, ma ricorderete un giorno
questa giornata, ed allora ricorderete queste mie parole, le parole di
quest'uomo contro il quale qualcuno dei vostri padri ha pienamente inveito:
ebbene, ricordate la mia parola e che essa sia parola d'onore, di bontà, di
fede, parola di Dio, parola di prossimo ... siate uomini onesti, coraggiosi e
forti e che le vostre mani non maneggino altre armi se non quelle della difesa
della patria". [DF137]
12) - L'azione educativa
Ma, al di là di
queste iniziative che, molto opportunamente,
tenevano conto della natura elementare dell'anima popolare siciliana e
delle sue antiche sedimentazioni culturali, su cui si faceva leva per ottenerne
effetti catartici dal punto di vista individuale e sociale, o di proposte
educative che, nella concezione
di Mori, rimanevano pur sempre legate a modelli ottocenteschi, in Sicilia c'era
adesso la moderna cultura idealistica che assumeva l'iniziativa ed affidava
alla scuola - già riformata da Gentile, secondo un indirizzo pedagogico che, al
di là della preparazione nozionistica, in rispondenza alle ispirazioni della filosofìa attualistica, puntava
alla formazione delle coscienze - il compito di svelare e di mettere a nudo gli
aspetti tribali e mostruosi della subcultura mafiosa che dovevano apparire ripugnanti
per le nuove generazioni educate a una sublime concezione dello Stato e a una solidaristica visione della
società.
Era quanto, appunto, proponeva
"Sicilia Nuova", attraverso la prosa di Rampolla del Tindaro, secondo
cui la mafia doveva "essere combattuta nelle scuole", per
"educare l'animo della gioventù alla ripugnanza per ogni forma di omertà". [DF138]
Ed era quanto accoglieva lo stesso Mori, che già aveva inserito il momento educativo
nel suo programma di bonifica dalla
mafia [DF139]
e, perciò, adesso coglieva al volo i suggerimenti provenienti dalla nuova
cultura, rivolgendo un appello agli insegnanti fascisti siciliani convocati al
Teatro Massimo di Palermo, il 16 giugno
1926, in un convegno regionale, "perché scendessero in campo al [suo]
fianco, portando l'istinto della lotta contro la mafia e la malvivenza
nell'animo della giovane generazione". [DF140]
Assumeva, quindi, l'iniziativa di un concorso per un premio da assegnare ad un
libro che "considerando principalmente i fenomeni della mafia e
dell'omertà, miri a sfatare le leggende e i pregiudizi
che da essi discendono, a correggere le deviazioni e le deformazioni spirituali
ed etiche che ne derivano ... a conseguire nella massa ... la esatta nozione e
la corretta valutazione dei rapporti che... debbono intercedere tra l'individuo
e l'ordinamento sociale ...". Un libro che poteva conseguire l'obiettivo programmatico di
"avviare la formazione di una nuova coscienza da raggiungere nel tempo -
il quale ha in questo campo una funzione
positiva propria e necessaria che non soffre restrizioni - principalmente con
l'educazione, specie dei giovani". [DF141]
13) - La bonifica economica e sociale
Tuttavia, non sfuggiva certamente che
l'opera dello Stato in Sicilia, benché fosse riuscita in pochi anni a togliere
ogni rilevante funzione politica ai vecchi ceti dominanti e a debellare la
delinquenza, a dissolvere la distorta ed inquietante funzione della mafia, non
poteva risultare stabilmente innovativa, efficace e
duratura, se il panorama sociale non si fosse trasformato attraverso
un'incisiva azione economica, al fine di creare, per le popolazioni rurali,
civili condizioni di vita ed un miglioramento dello status sociale.
Un'esigenza che Mussolini aveva dimostrato
quanto fosse chiara nella sua coscienza politica, quando aveva collocato in uno
stesso quadro concettuale di globale rigenerazione
della Sicilia, la lotta alla mafia e la questione sociale. Ancora prima che a Girgenti affermasse la sua volontà politica
di combattere la mafia, a Palermo aveva avvertito tutta l'urgenza della
questione sociale: "Io conosco i molto antichi e per molto tempo
inappagati bisogni! So quello che vi occorre. Potrei numerare i paesi ed i
comuni che non hanno strade, che non hanno acqua: non ignoro la desolazione del
latifondo, ne mi è sconosciuta la tragedia oscura
della zolfara". [DF142]
La lotta alla mafia non poteva, quindi,
essere che il primo momento soltanto di una più grande impresa volta a rinnovare e dissodare le basi antiche e secolari
dell'arretratezza e dell'immobilismo: terreno di coltura dell'economia
latifondistica, della rendita parassitaria, del privilegio, della delinquenza e
della mafia. Queste ultime erano state debellate con lo slancio attivistico,
con l'impegno volontaristico, mutuati dalla esperienza
bellica, secondo i modelli dell'avanguardismo futurista e dell'arditismo che il fascismo combattentistico delle origini
aveva saputo travasare e infondere, anche in Sicilia, nei quadri della
burocrazia e delle forze dell'ordine.
E, infatti, l'onorevole Michelangelo
Abisso, nel corso di una lunga arringa pronunciata, nel gennaio del 1929, come
patrono di parte civile nel "processone"
contro la mafia interprovinciale, aveva precisato: "la
vittoria contro la delinquenza non è un fatto isolato: essa va inquadrata nel
nuovo ordine di cose, nel nuovo metodo di governo, in breve, è la più tangibile
manifestazione dello stato forte e veramente sovrano, contro il cui potere si
infrangono gli arbitri e le licenze di individui e di classi". [DF143]
Adesso bisognava andare avanti per
rimuovere, appunto, le basi storiche dell'arretratezza, perché la Sicilia
potesse immettersi finalmente - economicamente, socialmente e civilmente - nel
quadro nazionale.
Un programma che, non certo casualmente,
anzi in modo significativo, lo stesso Abisso poteva
tracciare proprio a conclusione della citata arringa: "Debellato il
male" - affermava il deputato fascista di Sciacca
- "occorre far seguire quella che i medici chiamerebbero cura
ricostituente, occorre ritemprare l'organismo, in modo che possa
vittoriosamente resistere ad un nuovo attacco. Occorrono strade principali e
soprattutto agrarie attraverso le quali il lavoro e la civiltà possano toccare
quelle zone remote e deserte che furono
solo accessibili alla barbarie e al delitto, occorrono borgate e case rurali
che saldino sempre più il contadino e la sua famiglia
alla terra che egli feconda, occorrono acqua e luce, telefoni e scuole che
vincano gli ultimi residui di analfabetismo e di ignoranza, occorrono opere di
irrigazione e di bonifica che consentano un più intenso sfruttamento delle
aride zolle ed impediscano il depauperamento della razza, insidiata dalla
malaria, occorrono la piccola proprietà ed una sempre più illuminata giustizia
nei rapporti tra lavoro e proprietà, sempre chiusa nella concezione gretta del
privilegio e restia alle influenze delle correnti nuove, che travolgano le
dighe e aprano irresistibilmente le vie dell'avvenire". [DF144]
Un programma che, nel comprovare la
lucidità del quadro politico-ideologico,
in cui il problema siciliano era inscritto,
richiedeva però un impegno di tipo diverso da quello di Cesare Mori e che lo stesso "prefetto di
ferro" aveva acutamente intuito,
quando aveva affermato, e lo abbiamo già ricordato, che: "la lotta contro la mafia non poteva essere considerata
soltanto come una semplice questione di polizia". [DF145]
Un programma, perciò, che richiedeva
un'azione corale di tutti gli organi dello Stato, con l'ausilio della classe
politica, delle organizzazioni di categoria e del sindacato, in direzione di
tutti i settori della vita siciliana.
La missione di Mori fu, perciò, ritenuta
compiuta da Mussolini, [DF146]
dopo ben cinque anni di permanenza in Sicilia, non perché il "prefetto di
ferro" mirasse a colpire sempre più in alto, come affermato da certa storiografìa antifascista [DF147]
-che nei frangenti più difficili il capo del governo non aveva mancato anche
per vicende discutibili, di essere vicino e solidale a
Mori con forza e convinzione - ma perché l'operazione, fin dall'inizio, era
stata giustamente considerata straordinaria, onde pervenire ad una
normalizzazione del quadro dell'ordine pubblico, anche nella accezione più
vasta di risanamento morale e di bonifica sociale, dai fenomeni più inquinanti
e devianti della società siciliana. Questa normalizzazione, grazie all'opera di
Mori, era stata raggiunta con la clamorosa azione di polizia e con la
definitiva sanzione giudiziaria data dagli organi della magistratura: adesso,
come d'altronde affermava lo stesso Mori, bisognava
provvedere "allo sviluppo delle sane e poderose energie donde l’sola è
ricca". [DF148]
Tutto ciò richiedeva un'articolata azione
politica, finanziaria ed economica, al fine di realizzare
nella campagna siciliana una serie di opere infrastrutturali
di bonifica, ma soprattutto tendente a coinvolgere la vecchia rendita in un
processo di trasformazione della struttura dell'agricoltura siciliana in senso
imprenditoriale e produttivistico, a frantumare la realtà economica e sociale
del latifondo, con l'appoderamento dello stesso e la creazione di un ambiente
umano, sano e civile.
Si trattava di un programma che già aveva
avuto la sanzione legislativa ed una solida base finanziaria con la cosidetta "legge Mussolini" del 1928, che
riprendeva e rilanciava su larga scala la politica di "bonifica
integrale", intrapresa, già da qualche anno, da Arrigo Serpieri
e che si inquadrava in quello che è stato definito il
processo di ruralizzazione, cioè la creazione di
un'agricoltura dotata di notevoli supporti infrastrutturali,
tecnicamente evoluta, in grado di esprimere un sforzo produttivistico, tale da
poter reggere il confronto con l'industria e dar vita, perciò, ad uno sviluppo
economico equilibrato [DF149].
Un programma che si prospettava come un intervento di straordinaria portata,
soprattutto per la redenzione e lo sviluppo del paesaggio agrario meridionale,
ma che, proprio nel Mezzogiorno, avrebbe tardato a decollare, sia per le remore
frapposte dalla grande proprietà, restia ad investire
finanziariamente la propria rendita per l'esecuzione di opere pubbliche, sia,
soprattutto, a causa della crisi finanziaria ed economica mondiale, dopo il
"venerdì nero" del 1929, che avrebbe richiamato le risorse
finanziarie dello Stato, prima, per la salvezza e, poi, per il rilancio del
settore industriale
Ma, superata la
crisi, la Sicilia sarebbe rientrata, soprattutto con la vittoriosa conclusione,
dell'impresa africana, in un nuovo e vasto programma di redenzione e di decollo
economico e sociale.
Per una nazione che sembrava, ormai
irresistibilmente, protesa verso l'Africa ed il Vicino
Oriente, il Mediterraneo, dopo quattro secoli di decadenza, si apprestava a
recuperare il ruolo di protagonista che aveva avuto sin sulle soglie dell'età
moderna. E per la Sicilia, diventata il "centro
geografico dell'Impero", sembrava dischiudersi veramente, come Mussolini
dichiarava di fronte all'immensa folla palermitana del 20 agosto 1937, un'epoca
"tra le più felici che ...abbia mai avuto nei suoi quattro millenni di
storia" [DF150].
L'assalto al latifondo, con il suo
programma grandioso di bonifiche, di colonizzazione, di appoderamento
e con le sue prime realizzazioni, avrebbe dato la prova tangibile che l'opera
intrapresa dal fascismo con Mori, per la liquidazione di un passato di
emarginazione, procedeva verso la trasformazione sociale ed economica, per un
rinnovamento globale della vita isolana.
La guerra e la disfatta avrebbero travolto
anche le speranze. Ma è oltremodo significativo che il
fronte agrario-mafìoso si sia ricomposto, tra il '42
e il '43, e quindi già in un momento di grave crisi dell'Italia fascista,
proprio in avversione all'iniziativa di liquidazione del latifondo siciliano,
fino a ricostituirsi come autentico blocco, prima a sostegno dello sbarco
alleato, nel luglio del '43, poi come struttura portante, anche istituzionale,
della Sicilia antifascista [DF151].
Così come è
ugualmente significativo che il fascismo sia rimasto radicato nella coscienza
collettiva del popolo siciliano, fino ad assumere i caratteri del sogno e della
leggenda, con sentimenti di rimpianto e di nostalgia, proprio in virtù della
lotta antimafia, dell'impresa africana e dell'assalto al latifondo: i tre
momenti di una intensa stagione di speranze che è rimasta, ancora una volta, un
ulteriore "risveglio onirico" per una Sicilia la cui anima, adesso,
"giace strangolata nel sottosuolo della storia" [DF152](155).
GIUSEPPE
TRICOLI
NOTE
[DF1] I
saggi di Giovanni Gentile, sulla cultura siciliana furono, poi, raccolti dallo
stesso autore nel volume: Il tramonto della cultura siciliana - Zanichelli Bologna. 1917 (ripubblicato
nella collana delle Opere di Giovanni Gentile, vol. XXX - Firenze - Sansoni, 1963).
[DF2]
Sui caratteri della cultura siciliana cfr.. in particolare, il saggio di Gaetano Falzone:
La tradizione nella cultura in "La Sicilia tra il Sette e
l'Ottocento" - Palermo - Flaccovio, 1965
[DF3] Cfr. G. Iannelli- L'azione futurista in Sicilia ... in F.T.
Marinetti - Teoria e invenzione futurista - Milano.
1968, pp. 452 sgg.
[DF4]
Sulle origini del fascismo in Sicilia cfr. le notizie sparse contenute in C. Chiurco - Storia
della Rivoluzione fasciita - Firenze. 1929, voll. 5; cfr.. inoltre. V. Sinagra -
Fascismo siciliano antemarcia in "Bollettino
storico catanese" - a.
VI (1941 i pp. 118 e sgg.: N. Sammartano - La
Sicilia fuori dalla Rivoluzione fascista Pisa, 1924: una ricostruzione cronachistica in P. Nicolosi -
Gli "antemarcia" di Sicilia - Catania. 1962. Le opere storiografìche che si sono occupate dell'argomento sono tutte svolte secondo i canoni
interpretativi di quelle che il De Felice ha definito le "ideologie
classiche". Alla storiografia cosidetta "evenenziale" appartengono: G. Miccichè: Donoguerra
e fascismo in Sicilia (1919-1927) - Roma 1966; G. Vetri
- Le origini del fascismo in Sicilia in "Nuovi Quaderni del
Meridione" - Palermo, a. XIV. fasc. n.
53 (gennaio-marzo 1976) pp. 33-81; fasc. 55 (luglio-settembre 1976), pp. 295-328. Di diverso livello critico, ma
ispirato ad un rigido modello gramsciano è il volume
di G. C. Marino Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini -
Bari, 1976. Infine, si segnala il volume collettaneo
di Barone-Lupo-Palidda-Saija-
Potere e società in Sicilia nella crisi dello stato liberale - Catania.
1977.
[DF5] G Gentile - II Fascismo e la Sicilia - Discorso pronunciato al
Teatro Massimo di Palermo il 31 marzo 1924 - Roma. 1924. Il testo si trova interamente pubblicato in prima pagina, sotto il
titolo: II fascismo e il rinnovato spirito italiano: discorso del Ministro
Gentile a Palermo in "L'Ora" - Palermo - 31 marzo-1 aprile 1924.
[DF8] Cfr. l'epitaffio dettato, per la
lapide posta in Misilmeri, dal prefetto Cesare Mori,
in memoria del Di Caro. nel "ricordo" qui
pubblicato, per la prima volta, tra le illustrazioni. Sulla cerimonia dello
scoprimento di detta lapide cfr. C.
Mori - Con la mafia ai ferri corti -
Milano. 1932, pp. 327-329.
[DF9]
G. Filiherto - Di Marco - Clima di un'impresa storica - Palermo, 1937, pp.
93-95. Anche Bartolomeo Perricone.
succeduto al fratello Domenico nella carica di segretario del fascio di Vita, sarebbe
caduto "fulminato dallo stesso piombo
proditorio forsennatamente inteso a suggellare la supremazia criminosa
della mafia di fronte al fascismo e
al suo esponente" (ibidem, p. 95).
[DF11]
Presso l'Archivio Centrale dello Stato sono particolarmente importanti i
seguenti fondi archivistici: Ministero degli Interni (Direzione generale di
Pubblica Sicurezza) - Affari Generali e Riservati - Gabinetto Pinzi: Carte Bianchi - Segreteria particolare del Duce - carteggio
ordinario (1922-1943); Mostra della Rivoluzione Fascista. Presso l'Archivio di Stato di Palermo,
particolarmente importanti sono le carte del
Gabinetto di Prefettura.
[DF12]
A. Gramsci - Sul fascismo, a cura di
E. Santarelli - Roma. 1973. V. anche R. Martinelli, La conquista fascista dello Stato in
"Studi storici", a. XV, 1974, pp. 400-412.
[DF14]
In particolare, v. Opere complete di Piero Gobetti - vol. I - Scritti Politici, a cura di P. Spriano,
Torino, 1960. pp. 585-590.
[DF18]
Riorganizzazione in "La Giovane Sicilia", 18
marzo 1923. (19) Lettera del prefetto di Palermo al ministro
dell'Interno, del 23 marzo 1923 cit. in G. Miccichè
- Dopoguerra e fascismo ... etc.,
cit. p. 144.
[DF20]
II testo del comunicato è pubblicato in:
"Giornale dell'Isola" - Catania. 29 novembre 1923: cfr. anche "Corriere di
Sicilia" - Catania. 29 novembre 1923; Il riordinamento
del fascismo siciliano in "L'Ora", 28-29 novembre 1923.
[DF21]
Ciò anche in conformità alla direttiva nazionale contenuta in un o.d.g. letto dallo stesso Mussolini all'Assemblea Nazionale
del P.N.F. del 26 gennaio 1924: "II Partito Nazionale Fascista ...
respinge nettamente ogni proposta di alleanza
elettorale, e meno ancora politica, coi
vecchi partiti di qualsiasi nome e specie ... Decide tuttavia, in conformità ai
suoi metodi, di includere nelle liste elettorali uomini di tutti i partiti ed
anche di nessun partito i quali, per il loro passato, specie durante l'intervento,
la guerra e il dopoguerra e per le loro evidenti qualità di tecnici, studiosi
siano in grado di rendere utili servigi alla nazione". (B. Mussolini -
Opera Omnia - a cura di Duilio Susmel - Firenze 1963
- voi. XX. p. 168).
[DF22]
Cfr. il memorandum dal
titolo: Situazione politica elettorale vista dalla Società degli agricoltori,
firmato da Lucio Tasca Bordonaro (cit. in G. C.
Marino - Partiti e lotta di classe in Sicilia .... etc., cit. pp. 273-274). In esso si richiedeva l'inserimento nella lista fascista di
alcuni candidati, espressione del mondo agrario, e l'esclusione, invece, dell'on. Michelangelo Abisso che aveva patrocinato la lotta
degli ex-combattenti per la quotizzazione delle terre
incolte. Nessuna di tali richieste fu accolta dal P.N.F., in sede di formazione della lista elettorale del
"blocco nazionale".
[DF23]
Fra gli altri. Alfredo Cucco, Biagio Pace, Francesco
Musetto, Rosario La Bella, Guido Jung. Salvatore di Marzo, Ruggero Romano: tutti esponenti del primo
piano del mondo culturale e
combattentistico.
[DF24]
Cfr. Rita Palidda - Potere
locale e fascismo - I caratteri della lotta politica in Potere e società in
Sicilia ...etc.. cit. p. 277.
[DF25]Cfr. La figura dell'ex sindaco di
Piana dei Greci in "Giornale di Sicilia" 1-2 giugno 1926. Sul gustoso
episodio della visita di Vittorio Emanuele III alla chiesa ortodossa di Piana dei Greci, entrando nella quale il
sovrano si sarebbe trovato improvvisamente sospinto dalla folla davanti al
fonte battesimale, per lì ritrovarsi con un neonato in braccio, il figlioletto,
appunto, del Cuccia, al quale il "papas" versava l'acqua lustrale, cfr.
le Memorie di Tina Withaker
in R. Trevelyan: Principi sotto il vulcano - Milano.
1968, pp. 437, n. 3.
[DF29]
S. Porto - Mafia e fascismo ...etc.,
cit. p.53. (31) Nel corso del 1923, e quindi prima
della ricordata nota di Mussolini al V Congresso dei prefetti, erano stati,
infatti, frequenti le disposizioni impartite dai
prefetti siciliani per una repressione del fenomeno mafioso che certamente
rispecchiava una precisa volontà politica proveniente dall'alto (cfr. R. Palidda - Potere locale e
fascismo, etc., cit. pp. 277)
[DF30]
Cfr. - "Giornale di Sicilia" - Palermo.
28-29 luglio 1925. Il brano è citato anche in A. Petacco - II
prefetto di ferro - Milano, 1975, pp. 76-77. Cfr. anche S.F. Romano - Storia della
mafia - Milano. 1963. p. 246; A. Lyttelton
- La conquista del potere. II fascismo dal 1919 al 1929 - Bari, 1974, pp.
226-227.
[DF31]
Particolarmente incisivo appare, in questo senso, il commento del Lyttelton. secondo il quale Orlando voleva contemporaneamente difendere
"Statuto e mafia", (A. Lvttelton - La conquista del potere ... etc.,
cit. pp. 226-227). Dal canto suo, S.M. Ganci (L'autonomismo siciliano
durante il fascismo in "II fascismo e le autonomie locali" - Bologna, 1973,
pp. 263-264 afferma: "Dietro le liste
"orlandiane" era schierata la mafia
agraria in piena rotta con Mussolini; erano falliti, infatti, i tentativi di alcuni esponenti mafiosi ... di inserirsi nel
sistema fascista".
[DF32]
Cfr. Maffìa e contromaffìa: editoriale di
"Sicilia Nuova" del 23 luglio 1925. E poiché la polemica su questo tema
continuava con i dirimpettai del "Gionale
di Sicilia" e del
"L'Ora", "Sicilia Nuova" insisteva: "...l'onorevole
Orlando ... ha tradotto in
linguaggio di "romanzo storico siciliano", in linguaggio di
"Beati Paoli". una questione
politica ... ora non diremo all'on. Orlando cosa sia
la manìa. Egli
ha in
proposito cognizioni così concrete che reputiamo cosa molto elegante
esimerci dal ricordarglielo". Ma l'articolista non resisteva alla
tentazione di una polemica più incisiva ed esplicita e, sia pur con linguaggio allusivo, aggiungeva: "se si percorre, putacaso, la
storia di tré o quattro anni della delinquenza comune
di un collegio siciliano, poniamo, senza particolare preferenza, di uno dei
quattro cinque nomi pronunciati dall'onorevole Farinacci,
si vedrà senza bisogno di commenti, attraverso gli archivi di P.S.. quali delicate connessioni leghino quella storia a
quelle delle clientele politiche di quegli stessi collegi, e come certi
contatti stabiliti in occasioni elettorali influissero gravemente nel corso
delle indagini e dei successivi procedimenti" (Postilla all'onorevole
Orlando, in "Sicilia Nuova": 30/7/1925).
[DF36]
Ci limitiamo qui a segnalare soltanto alcune manifestazioni
pubblicistiche coeve: Giuseppe Speciale - La mafia e l'opera del Fascismo in
Sicilia - Trapani 1927; Guglielmo Policastro -
Mussolini e la Sicilia - Mantova 1929: A. Elia e G. Nuccio - Sicilia
Nuova - Palermo: Richard Washbur
Child - Come Mussolini ha schiacciato la mafia in
"La Nacion" - Buenos Aires. 24 febbraio 1929; Ashley Brown - Sicily Past and Present - London. 1928.
[DF37]
Telegramma dì Mussolini al prefetto di Palermo, del 7 gennaio 1926. in B. Mussolini - Opera Omnia - etc..
cit. vol. XXII, p. 418. (40) Cfr. Monocolo
- Sulle Madame nevose con un Prefetto d'assalto in "Sicilia Nuova"
12-13 gennaio 1926, p. 7.
[DF39]
Cfr. Il Saluto del Prefetto Mori
in "Sicilia Nuova" - 23-24 ottobre 1925: v. pure L'entusiastico
commiato di Trapani al Prefetto Mori in "Sicilia Nuova" - 24/25
ottobre 1925. L'arrivo del Prefetto Mori in
"Giornale di Sicilia". 22-23 ottobre 1925:
L'insediamento del Prefetto Mori in "Giornale di Sicilia". 23-24 ottobre 1925.
[DF40]
II vibrato discorso del Prefetto Mori (al I Congresso
Agricolo Regionale) in "Sicilia Nuova" 17-18 novembre 1925.
[DF42]
La P.S. nella provincia di Palermo e il Prefetto Mori in
"Sicilia Nuova" - 16/17 ottobre 1925. (^bis) Cfr. C. Mori - Con la mafia ai ferri corti, etc.. cit. p. 261 sgg. Dal canto suo,
"Sicilia Nuova" commentava: " ... La
pronta ed ampia azione iniziata dal Prefetto Mori va segnalata ed esaltata in
se stessa" (cfr. Finalmente un Prefetto in
"Sicilia Nuova" - 12/13 novembre 1925. p. 41.
[DF49]
Una vasta associazione di horsaioli
scoperta dalla P.S. in "Sicilia Nuova" - 17/18 dicembre 1925.
[DF50]
Sulla posizione topografica di Gangi, che faceva di
questo paese delle Madonie il centro propulsore delle attività delittuose
di alcune tra le più feroci bande criminali, ed era perciò considerato capitale
dell' "antico regno della mafia del feudo", cfr. A. Spanò - Faccia a faccia
... etc.. cit. pp. 65 sgg.
V. anche V. D'Alessandro - Mafia e brigantaggio - Messina-Firenze. 1959, pp. 109-110.
[DF53]
I briganti Andaloro e Ferrarello
nelle mani della P.S. Dopo 33 anni di dominio, alle
intimazioni del Prefetto Mori i capihanda si
arrendono in "Sicilia Nuova" 4-5 gennaio 1926: La bonifica morale in
atto. Nuove costituzioni della banda Andaloro in
"Sicilia Nuova" 5-6 gennaio 1926. Cfr. anche: Lo sviluppo dell'azione purificafrice
intrapresa dal Prefetto Mori in "Giornale di Sicilia" 13-14 gennaio
1926: Importanti operazioni del nucleo interprovinciale di P.S. in
"Giornale di Sicilia" 16-17 febbraio 1926. Sulla
preparazione dell'operazione e sul ruolo svolto del vice-commissario Spanò cfr. anche A. Spanò - Faccia a faccia
... etc., cit. pp. 40 sgg.
[DF54]
Trattasi del telegramma del 7 gennaio 1926 già citato, peraltro pubblicato
sui giornali in seguito ad espressa
autorizzazione dello stesso Mussolini. Cfr. "Sicilia
Nuova" - 10/11 gennaio 1926: "Giornale di Sicilia".
7-8 gennaio 1926.
[DF55]
La lotta contro la delinquenza in "Giornale di Sicilia". 6-7 marzo 1926; L'opera dei nuclei interprovinciali in
"Giornale di Sicilia" 9-10 marzo 1926.
[DF59]
Le operazioni di polizia nel territorio di Termini in
"Giornale di Sicilia", 7-8 aprile 1926.
[DF62]
Nuove azioni dei nuclei interprovinciali di P.S. in
"Giornale di Sicilia", 24-25 aprile 1926: Importanti operazioni dei
nuclei speciali di P.S. in "Giornale di Sicilia", 30 aprile -
1 maggio 1926.
[DF63]
Altre operazioni dei nuclei interprovinciali di P.S. in "Giornale di
Sicilia". 1-2 maggio 1926.
[DF64]
L'arresto di Candino a San Mauro in "Giornale di
Sicilia". 1-2 maggio 1926; vedi
anche A. Spanò - Faccia a faccia ... etc.. cit. pp. 18 sgg.
[DF66]
Una importante azione dei nuclei interprovinciali di
P.S. in "Giornale di Sicilia", 18-19 maggio 1926.
[DF67]
Il risultato delle operazioni di polizia nei comuni di S. Cipirrello e S. Giuseppe Iato in "Giornale di
Sicilia". 5-6 maggio 1926.
[DF68]
Numerosi arresti a Cinisi e Terrasini
per associazione a delinquere in "Giornale di Sicilia". 26-27 maggio
1926.
[DF69]
Considerevoli forze di polizia operano trecento arresti nel territorio di Bagheria in "Giornale di Sicilia", 4-5 giugno
1926.
[DF70]
Le operazioni di polizia nel territorio di Bargello in
"Giornale di Sicilia". 1 -2 giugno 1926.
[DF71]
Un'associazione a delinquere a Favara
in "Giornale di Sicilia", 11-12 giugno 1926; v. anche Le operazioni della .squadra mobile, ibidem.
[DF72]
La tenace opera della polizia per combattere i gruppi minori
della Piana dei Colli in "Giornale
di Sicilia". 16-17 giugno 1926: L'arresto dei due
fratelli Gentile, capi della fazione mafioso della Piana dei Colli in "Giornale
dei Sicilia", 16-17 giugno 1926;
[DF74]
Sulla tattica investigativa e militare, nonché sul
valore, ai fini giudiziali, delle "retate", v. il capitolo, dallo
stesso titolo, in C. Mori - Con la mafia ai ferri corti, etc., cit. pp. 306-317
[DF76]
Di tale tesi si fa portavoce, in sede storiografica, F. Renda (Storia della Sicilia - vol. III - Palermo,
1985, pp. 384-391). Ma è, più realisticamente,
probabile che i metodi usati dalla polizia nelle indagini e negli interrogatori
non si siano discostati da quelli fino allora in uso. Del
resto, lo stesso A. Spanò, il cui giudizio è spesso
tanto acre nei riguardi del fascismo e di Mori. respinge
tali accuse, affermando che "tutto si svolse nel pieno rispetto delle leggi
dell'epoca, cioè dei codici prefascisti che davano
sufficienti garanzie", aggiungendo che "è soprattutto rimarchevole la
circostanza che nelle decine e decine di processi che si celebrarono in quegli
anni non vi fu un solo imputato, neppure uno soltanto, che lamentasse di aver
subito maltrattamenti di sorta da parte della polizia o dei carabinieri. Furono
tutti trattati con umanità, e ci si preoccupò persino delle famiglie dei
banditi rimasti in miseria" (Faccia a faccia.. etc., cit. p. 71).
[DF82]
Un riferimento al contrasto col prefetto Mori e alle successive vicende
giudiziarie è contenuto nel volume memoralistico di Alfredo Cucco - Non volevamo perdere - Bologna, 1950, pp.
7-9. Lo stesso Cucco ha dedicato a tale episodio
drammatico della sua vita l'opera: Il mio rogo. che è
tuttora inedita. Anche S. M. Ganci, storico marxista, non condivide
su questo punto le conclusioni del Petacco, le quali,
"oltre che a sostenersi su fonti unilaterali della cui obiettività si può
quantomeno dubitare, sono argomentate in modo frettoloso" (La Sicilia
contemporanea - Napoli - Palermo. 1980, p. 107).
[DF83]
Cfr. R. De Felice - Mussolini il
fascista - vol. II - L'organizzazione dello stato fascista - Torino, 1968. pp. 183 e segg.
[DF84]
Cfr. A. Petacco - II
prefetto di ferro... etc., cit., pp. 111 e segg.; R. Trevelyan -
Principi sotto il vulcano - Milano, 1968, pp. 360-361; A. Spanò - Faccia a faccia... etc., cit. pp. 62-64: G. Capri - Come
Mussolini estromise Di Giorgio in "L'osservatore
politico-letterario", a. XIX, n. 1, gennaio 1973.
[DF86]
Secondo Mori. infatti, bisognava "distinguere tra
mafia e malvivenza: battere questa principalmente negli uomini, nel sistema
associativo, nelle basi di appoggio (ricettazione e favoreggiamento) e nelle
vie di ritirata (latitanza); battere la mafia i nei suoi uomini, ma soprattutto
nella sua mentalità, nel suo prestigio, nella sua forza intimidatoria e nella
sua economia, specie nella sua consistenza patrimoniale e nella rete di interessi
di ogni specie che ne forma il tessuto connettivo e protettivo".
Come si può constatare, si ha
una lucida analisi del fenomeno, ma, soprattutto, il suggerimento per
conseguenti strumenti operativi che, quasi sessanta anni dopo, dovranno essere
riscoperti per riprendere una efficace lotta antimafia. (C. Mori - Con la mafia
a ferri corti ...etc., cit., pp. 224-225).
[DF88]
L'opera di risanamento morale del prefetto Mori in un
organico controllo di tutta la vita cittadina in "Sicilia Nuova",
9-10 dicembre 1925; Importante ordinanza del prefetto Mori in
"Giornale di Sicilia", 9-10 dicembre, 1925. L'ordinanza è pubblicata
integralmente in C. Mori - Con la mafia ai ferri corti ...etc., cit., pp. 276-281.
[DF89]
Un modello di legislazione fascista contro la delinquenza in
"Sicilia Nuova", 7-8 gennaio 1926. Anche tale ordinanza è
pubblicata in C. Mori - Con la mafia ai ferri corti, etc., cit., pp. 282-290
[DF90]
Per l'abolizione dei muri di cinta nell'agro palermitano in
"Giornale di Sicilia",
17-18 marzo 1926.
[DF92]
L'ordinanza è pubblicata in "Giornale di Sicilia", 14 marzo 1927; v.
anche C. Mori - Con la mafia afferri corti ...etc., cit., pp. 339-340.
[DF97]
Cfr. Rita Palidda - Potere
locale e fascismo: i caratteri della lotta politica in Barone-Lupo-Palidda-Saija
- Potere e Società ...etc., cit., p. 289.
[DF98]
In G.U.R.I. del 27 luglio 1926, n. 172. Tuttavia,
afferma Mori, "Non applicai tale provvedimento che in casi speciali",
ritenendo che "agli effetti dell'impressione nell'ambiente ...la miglior cosa sia sempre
quella di portare i responsabili, convinti
o indiziati che siano, al giudizio dei Magistrati competenti" (C.
Mori - Con la mafia ai ferri corti
...etc., cit.,
p. 360).
[DF100]
Cfr., in particolare, la
conclusione del processo contro la banda Andaloro di Gangi e la mafia interprovinciale: (I giudici di Termini
hanno colpito con gravi pene espiatorie tutti gli associati a delinquere delle Madonie in "Giornale di Sicilia" - 11-12 gennaio
1928; Il verdetto dei giurati nel processo per la mafia interprovinciale. Affermazioni di responsabilità per 150 dei 161 associati a
delinquere in "Giornale di Sicilia", 25-26 aprile 1929.
[DF101]
Cfr. C. Mori - Con la mafia ai ferri corti ...etc., cit.,
pp. 358-359; cfr. anche C.
Mori - Tra le zagare, oltre la foschia - Firenze, 1923, pp. 92 e segg.
[DF102]Cfr. Nino Petrucci: Dalle operazioni di polizia
alle aule di giustizia in "Giornale di Sicilia", 9-10 settembre 1926.
[DF103]
La solenne inaugurazione dell'anno giudiziario alla Corte
d'Appello in "Giornale di Sicilia", 13-14 gennaio 1928.
[DF105]
L'inaugurazione dell'anno giudiziario con un elevato discorso
di S.E. Scaduto in "Giornale di Scilia",
11-12 gennaio 1929.
[DF107]
Cfr. lo studio di G. Pitrè sulla mafia in Usi e costumi - Credenze e pregiudizi
del popolo siciliano, vol. II, Palermo, 1889, pp. 287 e sgg. Sull'argomento, v.
le considerazioni di A. Buttitta - Pitrè e la mafia in "Pitrè e
Salamone Marino", Palermo, 1967, pp. 121-129.
[DF108]
G. M. Puglia - Il mafioso non è associato per delinquere in "Scuola positiva", Vallardi, 1930, I,
pp. 452 e sgg., ripubblicato in "Antologia della
mafia" a cura di Nando Russo,
Palermo 1964, da cui citiamo, p. 605.
[DF111]Dì Ferdinando Umberto Di Blasi, oltre
alle "istruzioni più laboriose - alcuni grossi I volumi" (v. A. Spanò, op. cit.,
p. 71) dei processi del priodo Mori, cfr.: Il reato di associazione per delinquere nel codice
vigente e nel processo del nuovo codice penale in "Giurispridenza
Italiana" 1930, disp. 16.
[DF112]
G. Lo Schiavo - II reato di associazione per
delinquere nelle province siciliane - Selci Umbro, 1963; ristampato nella
rivista "La Giustizia penale" 1952; ripubblicata in
"Antologia della mafia", etc., cit., pp. 615-642, da cui citiamo.
[DF115]
II risultato fu acquisito grazie anche all'opera dell'ufficio istruttorio nello
"sceverare, controllare, contestare, e dopo ciò
riassumere, stringere e porre in esame i carichi pendenti definitivi".
Un'opera che fu svolta dalla magistraura con il
"religioso senso di responsabilità, di obiettività
e di giustizia" (Cfr. C. Mori - Con la mafia ai
ferri corti ...etc., cit., p. 358).
[DF116]
Telegramma di Mussolini a Mori del 30-11-1927 in B.
Mussolini - Opera Omnia - vol. XL - Appendice IV - Carteggio III, Roma, 1978,
p. 526.
[DF117]
Telegramma di Mussolini a Mori del 10-1-1928 in B.
Mussolini - Opera Omnia, vol. XLI - Appendice V - Carteggio IV (1928-1931) -
Roma, 1979, p. 6.
[DF118]
Nel corso di un incontro a Palazzo Venezia tra Mussolini e Mori, quest'ultimo, tra l'altro, riferiva sul "calendario
della liquidazione giudiziaria della mafia" (in B. Mussolini - Opera Omnia
- vol. XXXVII - Appendice I - Scritti (1907-1945) - Roma, 1978, p. 514.
[DF119]
Telegramma di Mussolini a Mori del 29-3-1928 in B. Mussolini Opera Omnia, etc., cit., voi. XLI, p. 67).
[DF121]
Quel che la Sicilia deve al fascismo. L'elevato discorso di S. E. Mori alla riunione plebiscitaria del
Teatro Massimo in "Giornale di Sicilia", 19-20 marzo 1929.
[DF125]Il ciclo di conferenza giuridico-sociali-economiche
inaugurato da S.E. Mori in "Giornale di Sicilia", 23-24 gennaio 1928.
[DF126]
Direttive del Segretario Federale ai "fasci" di
Palermo e provincia, in "La Fiamma", n. 1 del 3 gennaio 1926.
[DF128]
Nella solennità del Vangelo in "Giornale di Sicilia", 13-14 maggio
1926; v. anche la rievocazione che ne fa C. Mori in Con
la mafia ai ferri corti ...etc., cit.,
pp. 332-334.
[DF129]
La vibrante manifestazione di riconoscenza del popolo di
Piana dei Greci al Prefetto Mori in "Giornale di Sicilia", 6-7 aprile
1929.
[DF136]
Le direttive fasciste rinnovatrici della vita siciliana in
"Sicilia Nuova", 23 febbraio 1926.
[DF137]
cfr. "Sicilia Nuova", 12-13 novembre 1926.
Non mancano altre prove dei sentimenti di solidarietà manifestati da Mori nei
riguardi dei bisognosi. Cfr. Una nobile iniziativa di
S.E. Mori. Sussidi alimentari ai poveri e ai malati in
"Giornale di Sicilia", 19-20 marzo 1929.
[DF143]
I reati, i sistemi e i soprusi degli associati a delinquere della mafia
interprovinciale lumeggiati e stigmatizzati nell'arringa di P.C. dell'ori. Abisso in "Giornale di Sicilia", 11-12
gennaio 1929.
[DF144]
Ibidem. Sulle origini della mafia e sui modi per il suo
definitivo annientamento, secondo le valutazioni dell'Abisso, cfr. il discorso
pronunciato alla Camera dei Deputati (Legislatura XXVIII, I
sezione-Discussioni), nella tornata del 4 marzo 1927, e pubblicato sotto il
titolo Ringraziamento al regime fascista che ha debellato la mafia: discorso
alla Camera dell'on. Abisso del 1927, in
"Antologia della mafia", Palermo 1964, pp. 549-558.
[DF145]
Cfr. il citato articolo del
"Giornale di Sicilia" (19-20 marzo 1929); Quel che la Sicilia deve al
fascismo. L'elevato discorso di S.E. Mori alla riunione
plebiscitaria del Teatro Massimo.
[DF146]
L'incarico di Mori cessò il 16 giugno del 1929, in seguito ad un provvedimento
di carattere generale, con cui veniva ordinata la
messa a riposo di tutti i prefetti che avevano raggiunto il limite dei 35 anni
di servizio. La notizia fu comunicata a Mori con questo telegramma: "Con
regio decreto V.E., è stata
collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere da oggi 16 giugno. La ringraziarmo dei lunghi servizi resi al Paese". Con
successivo telegramma, Mussolini manifestò la gratitudine sua e della Nazione
al prefetto di ferro con la seguente lettera: "Con provvedimento odierno
ho collocato a riposo tutti i prefetti che, come V.E.. hanno raggiunto il periodo di compita anzianità di
servizio. Mi duole di non potere fare eccezioni a tale misura di ordine generale. In questo momento nel quale V.E. chiude
il periodo della sua attività come funzionario, voglio esprimerle ancora una
volta il mio alto elogio ed il mio vivissimo compiacimento per quanto V.E. ha compiuto a Palermo
e in Sicilia in questi quattro anni che rimarranno scolpiti nella storia della
rigenerazione morale, politica e sociale dell'Isola nobilissima.
Ho appena bisogno di aggiungere che il suo successore riceverà direttamente da
me ordini tassativi e necessari perché gli ultimi residuati di
ogni forma di criminalità comune e politica siano inesorabilmente
colpiti. Cosi l'opera di V.E. non solo non sarà interrotta, ma continuata sino
alla fine con la implacabile sistematica energia che
caratterizza il Regime Fascista. Con l'assunzione di V.E. al laticlavio, da me
proposta al Sovrano, già manifestai i miei sentimenti verso
V.E. Tali sentimenti restano immutati. Ella ha
bene meritato dalla Sicilia, dalla Nazione, dal Regime. Autorizzo a rendere di
pubblica ragione la presente." (B. Mussolini -
Opera Omnia - vol. XLI, Appendice IV - Carteggio IV (1928-1931) Roma, 1979, p.
302-303. - Cesare Mori, nominato anche Presidente di un Consorzio di bonifica nel Friuli, oltre che senatore a vita, morì a Udine il 5
luglio 1942.
[DF148]
Cfr. Quel che la Sicilia deve al Fascismo, cit., in "Giornale di
Sicilia", 19-20 marzo 1929.
[DF149]
Renzo De Felice - Mussolini il duce - Gli anni del consenso,
1929-1936 - vol. I - Torino, 1974, p. 146.
[DF150]
B. Mussolini - Il discorso di Palermo in Opera Omnia - vol.
XXVIII - Firenze 1959, pp. 240-241.
[DF151]
G. Tricoli - M. Scaglione - Bonifica integrale e
assalto al latifondo. Quaderni dell'I.S.S.P.E., nn. 5-6, Palermo
1983; Cfr. anche M.
Pantaleone - Mafia e politica - Torino, 1964 ; A. Spanò
- Faccia a faccia ...etc., cit.,
p. 89. Ma valga, più di
ogni altra parola, la dichiarazione non sospetta resa dal
senatore Alessi, primo presidente della Regione
Siciliana alla Commissione antimafia - Gruppo di lavoro per gli Enti Locali:
"ma ciò che rese conturbante la nuova situazione fu sopratutto la condotta
politica delle Autorità militari alleate occupanti, le quali sostituirono i
podestà e i presidi delle province di nomina fascista con persone reclutate in
notevole numero dal mondo della mafia, onorata, in tal modo, di rilevante
prestigio e di sensibile influenza nel nuovo corso politico ...il trapianto
della mafia nell'organizzazione politica ufficiale ebbe così forme ideologiche,
obiettivi amministrativi e contenuti di potere concreto...".
[DF152]
G. Ceronetti - Un viaggio in Italia - Milano, 1984, pp. 250-251.
TRATTO DA:
http://web.archive.org/web/20131220122055/http://www.fiammacanicatti.it/libri/tricoli.html
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