Fare il saluto romano si può: "È una libertà di espressione"
Per i giudici non è reato essere fascisti e manifestare il pensiero del Ventennio
Per i giudici non è reato essere fascisti e manifestare il pensiero del Ventennio
I tempi non sono maturi, aveva scritto appena cinque anni fa la Cassazione, per sdoganare il saluto romano.
Ma adesso, dice sempre la Cassazione, il momento è arrivato.
Non è reato salutare romanamente. Anzi, di più: non è reato essere
fascisti, manifestare il pensiero fascista e l'ideologia fascista. Lo
stabilisce la Costituzione repubblicana, che tutela libertà di pensiero e
di espressione. È una sentenza di svolta, e come tale destinata a
suscitare vivaci reazioni contrapposte, quella depositata ieri dalla
Prima sezione della Suprema Corte: anche perché arriva a breve distanza
da una decisione analoga, che era andata - anche se più timidamente -
nella stessa direzione, tanto da poter ormai parlare di un orientamento
consolidato. Alla libertà di fascismo, la sentenza di ieri sembra
mettere un solo limite: agitare i gesti e i simboli del fascismo diventa
reato se in questo modo «si pongono in pericolo la tenuta dell'ordine
democratico e dei valori allo stesso sottesi». Fin quando ordine e
valori saranno ben saldi, colpire il saluto fascista vuole dire colpire
la libertà di pensarla come si vuole.
Era il 29 aprile 2014 quando centinaia di militanti dell'estrema destra milanese si ritrovarono nella zona di viale Romagna per la commemorazione del diciassettenne militante del Fronte della Gioventù Sergio Ramelli e del dirigente missino Enrico Pedenovi, uccisi rispettivamente nel 1975 e nel 1976. Marce inquadrate, giubbotti neri, teste rasate, croci celtiche e, soprattutto, saluti romani al grido di «Presente!». Vennero incriminati in nove, fotografati e identificati dalla Digos per apologia di fascismo, il reato previsto dalla legge Scelba del 1952. Lo stesso copione era andato in scena l'anno prima, anche lì con denunce e incriminazioni: era finita con la condanna a un mese di carcere degli imputati. Invece il fascicolo per il corteo dell'aprile 2014 approda sul tavolo di un giudice preliminare che proscioglie i sette imputati che avevano scelto il rito abbreviato: è il primo segnale che il clima, oltre alla giurisprudenza stanno cambiando. Quella sentenza viene poi confermata in appello e in Cassazione.
Ora arriva il secondo verdetto definitivo per altri tre partecipanti al corteo, e segna un ulteriore passo nella stessa direzione, perché riporta esplicitamente l'ideologia fascista nell'alveo delle libertà di pensiero tutelate dalla Costituzione. Respingendo il ricorso della Procura generale di Milano contro le assoluzioni, i giudici della Prima sezione scrivono che il reato previsto dalla legge Scelba «non colpisce tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all'ambiente in cui sono compiute».
Il corteo milanese non aveva «alcun intento restaurativo del regime fascista», si legge nella sentenza: «In questo senso depongono le modalità ordinate e rispettose del corteo, svoltosi in assoluto silenzio, senza inni, canti o slogan evocativi dell'ideologia fascista, senza comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti nei confronti dei presenti, senza armi o altri strumenti. Si è in tal modo escluso che la manifestazione in esame, pur in presenza di ostentazione di simboli e saluti fascisti, avesse assunto connotati da suggestionare gli astanti inducendo negli stessi sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista». La legge Scelba, dicono i giudici della Cassazione, non punisce una idea ma protegge da un pericolo: il ritorno del fascismo. Se questo pericolo non c'è, allora anche i fascisti possono dire come le pensano.
La Costituzione non gli piacerà, ma è fatta anche per loro.
Foto di repertorio
Era il 29 aprile 2014 quando centinaia di militanti dell'estrema destra milanese si ritrovarono nella zona di viale Romagna per la commemorazione del diciassettenne militante del Fronte della Gioventù Sergio Ramelli e del dirigente missino Enrico Pedenovi, uccisi rispettivamente nel 1975 e nel 1976. Marce inquadrate, giubbotti neri, teste rasate, croci celtiche e, soprattutto, saluti romani al grido di «Presente!». Vennero incriminati in nove, fotografati e identificati dalla Digos per apologia di fascismo, il reato previsto dalla legge Scelba del 1952. Lo stesso copione era andato in scena l'anno prima, anche lì con denunce e incriminazioni: era finita con la condanna a un mese di carcere degli imputati. Invece il fascicolo per il corteo dell'aprile 2014 approda sul tavolo di un giudice preliminare che proscioglie i sette imputati che avevano scelto il rito abbreviato: è il primo segnale che il clima, oltre alla giurisprudenza stanno cambiando. Quella sentenza viene poi confermata in appello e in Cassazione.
Ora arriva il secondo verdetto definitivo per altri tre partecipanti al corteo, e segna un ulteriore passo nella stessa direzione, perché riporta esplicitamente l'ideologia fascista nell'alveo delle libertà di pensiero tutelate dalla Costituzione. Respingendo il ricorso della Procura generale di Milano contro le assoluzioni, i giudici della Prima sezione scrivono che il reato previsto dalla legge Scelba «non colpisce tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all'ambiente in cui sono compiute».
Il corteo milanese non aveva «alcun intento restaurativo del regime fascista», si legge nella sentenza: «In questo senso depongono le modalità ordinate e rispettose del corteo, svoltosi in assoluto silenzio, senza inni, canti o slogan evocativi dell'ideologia fascista, senza comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti nei confronti dei presenti, senza armi o altri strumenti. Si è in tal modo escluso che la manifestazione in esame, pur in presenza di ostentazione di simboli e saluti fascisti, avesse assunto connotati da suggestionare gli astanti inducendo negli stessi sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista». La legge Scelba, dicono i giudici della Cassazione, non punisce una idea ma protegge da un pericolo: il ritorno del fascismo. Se questo pericolo non c'è, allora anche i fascisti possono dire come le pensano.
La Costituzione non gli piacerà, ma è fatta anche per loro.
Nessun commento:
Posta un commento