Pisanò, fascista diventato giornalista nell’Italia divisa del dopoguerra
Può sembrare strano, ma il primo narratore della guerra civile italiana fu un militare fascista, Giorgio Pisanò. Era nato a Ferrara il 30 gennaio 1924, il primo di cinque figli di Luigi, un funzionario dello Stato in servizio presso le Prefetture. L’armistizio dell’8 settembre 1943 sorprese la famiglia a Pistoia. Giorgio aveva diciannove anni ed era un fascista convinto. Quel giorno vide una città impazzita di gioia dove tutti erano convinti che la guerra fosse conclusa. Guardò civili sputare sul tricolore e, in preda all’angoscia, riparò dentro un portone e pianse per lo sfacelo che osservava: l’armistizio, il tradimento della monarchia, il mondo che gli crollava addosso. Un ragazzo della sua età lo scorse e gli propose: «Dobbiamo fare qualcosa contro questa vergogna». Con altri ragazzi corsero alla caserma Gavinana e riaprirono la sede del Fascio chiusa il 25 luglio. Di lì a poco arrivò alla Gavinana un reparto tedesco. Il comandante, di fronte a quei ragazzi con armi in pugno, disse: «Bene, vi affidiamo la città di Pistoia». E se ne andò.
Pisanò si arruolò nei reparti della Repubblica sociale. Era nello stesso tempo un ufficiale della X Mas e un tenente delle Brigate nere, assegnato ai servizi speciali nel comando generale di quel corpo più politico che militare. Come tanti dei suoi camerati che si ritrovarono nel ridotto inesistente della Valtellina, anche lui venne catturato dai partigiani. Scampò alla fucilazione perché sembrava uno dei tanti prigionieri fascisti. Passò di carcere in carcere, alla fine fu rinchiuso in due campi di concentramento inglesi a Terni e a Rimini e lì rimase sino al 7 novembre 1946. Ecco quello che ho poi appreso io da Paolo Pisanò, fratello minore di Giorgio. Il primo passo nella carta stampata Giorgio lo fece nel Meridiano d’Italia, un settimanale di destra che usciva a Milano. Lo dirigeva Franco De Agazio, un giornalista battagliero e dotato di grande coraggio. La Milano del primo dopoguerra era un territorio proibito per i superstiti del Fascio. Il Pci considerava De Agazio un nemico per l’inchiesta sull’oro di Dongo. E perché era stato il primo a rivelare il nome del giustiziere di Mussolini: Walter Audisio, un comunista di Alessandria.
Con quell’inchiesta sul tesoro di Dongo De Agazio firmò la sua condanna a morte. Mentre si stava recando al giornale, una banda comunista milanese che si definiva Volante rossa lo uccise per strada. Alla direzione del Meridiano gli successe il nipote Franco Maria Servello. Aveva ventisei anni e in seguito sarebbe diventato un dirigente nazionale del Msi e un parlamentare esperto. L’incontro tra Servello e Pisanò andò come meglio non poteva. Nel 1948 uscirono parecchi articoli di Giorgio che si occupavano anche dei misteri legati alla figura di chi aveva ucciso Mussolini. Lui scartava Audisio e persino Aldo Lampredi, un dirigente dell’apparato clandestino del Pci. E puntava su Luigi Longo, il leader delle Brigate Garibaldi nell’Italia occupata dai tedeschi. Poi successore di Togliatti al vertice delle Botteghe oscure. Aveva ragione? Nessuno lo saprà mai. L’unico fatto sicuro è che i comunisti decisero di ammazzarlo. All’inizio del 1952, a Como, una sera gli spararono mentre accompagnava a casa la sorella Francesca, centralinista ai telefoni della città. Giorgio rispose con la rivoltella che portava sempre con sé e i due fratelli riuscirono a tornare a casa incolumi. Neppure in quel caso si lasciò intimorire e continuò con le sue inchieste sui delitti del dopoguerra e sull’oro di Dongo.
Pure i socialisti impararono a conoscerlo e a odiarlo. L’Avanti dipinse così il suo lavoro di giornalista investigativo: «L’inconcludente collezione di voci di un poliziotto dilettante fascista». La grande stagione di Pisanò giornalista iniziò nel 1954 quando, a trent’anni, venne assunto da Oggi, il settimanale fondato da Angelo Rizzoli e diretto da Edilio Rusconi. Nel luglio 1960, Rusconi lo incaricò di un’impresa mai tentata da nessun rotocalco: la ricerca di materiale fotografico e documentario sulla guerra tra italiani. La prima delle 18 puntate uscì nell’agosto di quello stesso anno. All’inizio del 1963 Pisanò ruppe con Rusconi e si mise in proprio. Fu una separazione fortunata perché spinse Giorgio ad affrontare la sua prova più importante: la Storia della guerra civile in Italia. Fu la prima ricerca storica preparata, scritta e illustrata come un rotocalco. Il primo fascicolo uscì il 20 febbraio 1965 e l’ultimo, la dispensa numero 93, apparve il 31 gennaio 1967. Le vendite furono strabilianti anche per le centinaia di fotografie inedite scovate dappertutto dal team di Pisanò.
In seguito Giorgio scrisse «Gli ultimi in grigioverde. Storie delle forze armate della Rsi». Il suo ultimo azzardo fu di far rivivere Il Candido di Giovannino Guareschi. L’autore di Don Camillo e Peppone accettò di fondare con Pisanò la casa editrice Valpadana, ma nel luglio 1968 morì a Cervia. L’inizio della seconda vita del Candido portava la data del 17 luglio 1968 e Giorgio lo diresse per 24 anni. Si scontrò con un nuovo nemico: le Brigate rosse. Riuscì a salvarsi insieme ai colleghi della redazione perché era l’ultimo giorno di Carnevale e la sede del giornale era deserta. Un giorno il fratello Paolo mi spiegò che nel lungo lavoro di ricercatore storico in fondo Giorgio aveva reso onore al Pci. Può apparire un paradosso, ma era davvero così. L’artefice della guerra civile era stato il partito di Longo, Secchia e Togliatti. Senza i comunisti quel conflitto, con tutti i suoi orrori, in Italia non sarebbe neppure cominciato. Mi sembra un giudizio sul quale possiamo convenire.
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