I falsi profeti del ’68
di Michele Brambilla
Un’intera generazione ubriacata dall’odio
e dalla violenza ideologica. Colpa dei cattivi maestri, di una classe
intellettuale che seminava il male con le parole. In questo articolo,
nomi e cognomi di chi ha sulla coscienza gli orrori di un’epoca da non
dimenticare
Negli ultimi mesi i giornali hanno
dedicato molto spazio alla strage di Primavalle (vedi il capitolo
‘L’omicidio dei fratelli Mattei’), nella quale due fratelli vennero arsi
vivi nel rogo della loro casa, incendiata da estremisti di sinistra.
Qual era il clima in cui si consumò quella strage, nell’aprile 1973?
Com’è possibile che qualcuno sia arrivato a dar fuoco, di notte, alla
casa di un povero spazzino per «punirlo» della sua fede politica? E
ancora: com’è possibile che gli sciagurati che appiccarono
quell’incendio – uccidendo un ragazzo di ventidue anni e un bambino di
otto – abbiano potuto farla franca grazie a una così diffusa rete di
solidarietà? Insomma: ma che paese era, quell’Italia degli anni
Settanta? Come mai tanti giovani si fecero inebriare dalla violenza?
Per arrivare a rispondere a queste domande, non si può prescindere dal contesto in cui accaddero quei fatti.
Perché, in quel «contesto», grande fu la
responsabilità della classe intellettuale italiana (quasi tutta).
Cominciamo con la lettera aperta che nell’ottobre 1971 fu inviata al
Procuratore della Repubblica di Torino, il quale aveva denunciato
direttori e militanti di Lotta Continua (un movimento di estrema
sinistra, lo diciamo per i più giovani) per istigazione a delinquere.
Nella lettera aperta si scriveva: «Testimoniamo pertanto che, quando i
cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è
strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”,
noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni
sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”,
lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, amiamo le
masse”, lo gridiamo con loro». Ma ecco il passaggio finale di quella
lettera: «Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi
in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo
sfruttamento”, ci impegniamo con loro».
Chi erano i firmatari di questa lettera,
che si impegnavano a «combattere con le armi in pugno»? Cinquanta
esponenti del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Nomi
sorprendenti. Ecco alcuni firmatari di quell’appello in cui si
annunciava la propria adesione alla lotta armata: Umberto Eco, Tinto
Brass, Cesare Zavattini, Carlo Gregoretti, Enzo Paci, Giulio A.
Maccacaro, Giulio Carlo Argan,. Salvatore Saperi, Pasquale Squitieri,
Natalia Ginzburg, Tullio De Mauro, Paolo Portoghesi, Lucio Colletti,
Paolo Mieli, Sergio Saviane, Serena Rossetti, Nelo Risi, Giovanni
Roboni. Come si vede, professori universitari, registi cinematografici,
filosofi, storici, futuri ministri, poeti, scrittori, giornalisti. In
una parola, gente che ricopriva una posizione centrale nel mondo in cui
si formano le coscienze di un popolo.
Degli isolati, quei cinquanta firmatari?
Macché. Furono più di ottocento i
rappresentanti della cultura italiana che sottoscrissero un documento
pubblicato su “L’Espresso” il 13 giugno 1971, documento in cui il
commissario Calabresi veniva definito «un torturatore» e «il
responsabile della fine di Pinelli». Prima di elencare alcuni nomi di
quegli ottocento firmatari, va ricordato che il commissario Calabresi fu
ritenuto innocente della morte dell’anarchico Pino Pinelli con una
sentenza emessa dal giudice (dichiaratamente di sinistra) Gerardo
D’Ambrosio; e che lo stesso Calabresi venne ucciso in un agguato il 17
maggio 1972 al culmine di una campagna di odio e di false accuse
scatenata contro di lui. Ed ecco dunque alcuni di quegli ottocento che
calunniarono Calabresi: i filosofi Norberto Bobbio, Lucio Colletti e
Lucio Villari; i registi cinematografici Federico Fellini, Mario
Soldati, Cesare Zavattini, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Giuliano
Montaldo, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani,
Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Salvatore Saperi, Ugo Gregoretti,
Nanni Loy; i poeti Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni e Giovanni
Giudici; i pittori Renato Guttuso, Andrea Cascella, Ernesto Treccani;
gli editori Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli; i critici
Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Morando Morandini, Fernanda Pivano;
la scienziata Margherita Hack; gli architetti Gae Aulenti, Giò Pomodoro,
Paolo Portoghesi; gli scrittori Alberto Moravia, Umberto Eco, Domenico
Porzio, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco
Fortini, Natalino Sapegno, Primo Levi, Lalla Romano; i politici Umberto
Terracini, Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Paietta; i
sindacalisti Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti; i giornalisti Eugenio
Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Giuseppe Turani, Carlo Rossella,
Camilla Cederna, Tiziano Terzani.
Si potrebbe continuare a lungo. Ma
crediamo che basti per dimostrare che il novanta per cento (per non dire
il novantanove) della cultura italiana era, allora, orientata in tal
senso. Quello era il clima. Un clima che non risparmiò i giornali. Se
molti intellettuali flirtarono (a parole, beninteso) con l’estremismo,
quando non addirittura con la lotta armata, molti giornalisti furono
maestri di disinformazione.
Per anni su quasi tutti i giornali
italiani si denunciò, giustamente, la violenza “nera” (che, sia chiaro,
c’era) ma si nascose l’esistenza di una violenza “rossa”. Ecco che cosa
scrisse Giorgio Bocca su “Il Giorno” il 23 febbraio 1975: «A me queste
Brigate rosse fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o
insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i
prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un ondata di tenerezza
perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile…».
Mentre Bocca scriveva quel pezzo, le
Brigate Rosse avevano già ucciso tre persone (i missini Mazzola e
Giralucci a Padova e il maresciallo dei carabinieri Maritano a Robbiano
di Mediglia), rapito un giudice (Mario Sossi) e organizzato l’evasione
di Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato.
Ma erano in tanti, come Bocca (che anni
dopo fece un’onesta autocritica) a scrivere che le Brigate Rosse erano
“sedicenti”, fascisti o poliziotti mascherati. Ha scritto Gianpaolo
Pansa, giornalista di sinistra e quindi non sospettabile di faziosità
destrorsa:
«A sinistra dinanzi a quei primi colpi di
pistola molti non vollero vedere né sentire. Alzava la testa un nemico
nuovo, eppure non si avvertì il pericolo e non si riconobbe da che parte
veniva. Soltanto alcuni ebbero l’onestà di ammettere subito che il
terrorismo delle Brigate rosse e dei gruppi affini nasceva in casa, tra
le file delle sinistre, e andava messo nel conto del Sessantotto, tra i
frutti marci di quella straordinaria stagione di grandi slanci, di
enormi sciocchezze e di terribili errori».
Per dare un’idea di quanto quel clima
condizionò perfino la cosiddetta “stampa borghese”, si pensi che lo
stesso rogo di Primavalle (vedi il capitolo ‘L’omicidio dei fratelli
Mattei) fu definito dal “Messaggero” di Roma come «una faida tra
fascisti» e che quando, il 2 giugno 1977, Indro Montanelli fu ferito
dalle Brigate Rosse, il “Corriere della Sera” di Piero Ottone riuscì nel
miracolo giornalistico di non mettere nel titolo il nome di Montanelli.
Cose che succedevano in quell’Italia, e
che oggi molti vorrebbero dimenticare per sempre. Ecco il contesto che
spinse tanti ragazzi – i più fragili probabilmente – a pensare di
risolvere le ingiustizie con altre, tragiche, ingiustizie.
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