giovedì 5 giugno 2014

LAVORO: SCHIAVI E PADRONI



Lavoro: schiavi e padroni
La società moderna ha visto strutturarsi al suo interno due concezioni opposte, entrambi però in difetto.
La prima visione pone la libertà (individuale/economica) al primo posto e sacrifica l'uguaglianza, divenendo liberismo, la seconda , sacrifica la libertà in nome dell'uguaglianza e sconfina nel comunismo.
Negli ultimi due secoli, la proiezione di queste due concezioni nei rapporti umani lavorativi non può che aver proposto soluzioni altrettanto in difetto o monche. Il confronto scontro, tra lavoro e capitale, non ha avuto pertanto a tutt'oggi risoluzione se non a vantaggio del capitale.
Tuttavia per motivi vari, non ultimo l'imborghesimento interiore della classe lavoratrice che sarebbe dovuta essere da supporto rivoluzionario, la supremazia avanzante del capitalista non ha rafforzato la lotta di classe ma ha coinciso piuttosto con il suo annichilimento.
L'oligarchia economica dominante, plutocrazia, fatto tesoro del monito di Rousseau: "Quando il povero non ha più nulla da mangiare , mangia il ricco", s'è industriata per non essere divorata.
Non basta , d'altro canto, come non è bastato nei regimi comunisti dire che i mezzi di produzione, cosi' come la fabbrica, sono di proprietà dello Stato per sentirsi partecipi del processo produttivo.

Cambiano i nomi, padrone privato, padrone pubblico, ma il risultato per il lavoratore è lo stesso, il rapporto di forza, dalla sua posizione angolare, rimane quello tra sfruttati e sfruttatori.
Per chi non è d'accordo non resta che l'ultima e unica arma: lo sciopero. Lo sciopero ormai, oltre che normato da rigide leggi, è difficile da attuarsi sia perché i lavoratori sono divisi da differenti contratti capestro ( ideati ad arte in nome della flessibilità), sia perché in molte aziende il sindacato è assente, latitante, quand'anche narcotizzato o ammaestrato.
Ai nostri tempi la figura classica del padrone è sfumata, s'è impersonalizzata, non più capitani d'industria, latifondisti, ma sempre più spesso holding finanziarie, multinazionali e banche, sempre meno coinvolte nell'azienda da un punto di vista umano, limitando di fatto il proprio interessamento al solo tornaconto economico. Questo in un mercato sempre più libero e globale, dove le regole di tutela si affievoliscono, la responsabilità soggettiva del capitalista si vaporizza a ovvio svantaggio del lavoratore.
Arrivati a questo punto, la lotta di classe, reazione naturale nell'era della rivoluzione industriale, oltre ad essere inadeguata è anacronistica.

Tornando alle due concezioni opposte, quali il liberismo e il comunismo, vogliamo sottolineare che se la prima dice che la giustizia è nella libertà ( non si può avere giustizia senza libertà: libertà economica e libertà di proprietà, in primis, libertà civile per finire), la seconda afferma che la vera libertà dell'uomo è nell'uguaglianza.
Il comunismo, con Marx, afferma che le disuguaglianze tra gli uomini risiedono nella ricchezza economica, quindi in primo grado nella proprietà privata. Questo in una società liberista, dove tutto è ridotto all'avere, è senz'altro vero. La proprietà privata e la divisione del lavoro, sono ragioni d'ingiustizia. Se la libertà dell'uomo si concretizza nella libertà d'accumulo incondizionato, magari benedetto anche da Dio ( vedi "Etica protestante e spirito del capitalismo" di Weber) la proprietà privata, insieme all'artificioso arricchimento della finanza, sono motivo di disuguaglianza.
D'altronde non è pensabile neanche che si possa risolvere il problema appiattendo tutti gli uomini vestendoli di una stessa casacca e negando la proprietà privata: in nome dell'uguaglianza produciamo un'altra ingiustizia.
Non ci rimane che partire dall'irrinunciabile presupposto filosofico, opposto all'individualismo delle ideologie liberali, che pone l'uomo, come fece Marx, in un contesto collettivo, ove soltanto nella società consegue la sua individualità, si conferisce alla società stessa un " importantissimo valore morale" pur garantendo la proprietà privata, ma limitando questa al fine di " non essere disintegratrice della personalità fisica e morale".
Da qui si apre uno spiraglio che porta a quella terza via, che piaccia no, tracciata dal fascismo e che rimane percorribile ed attuale.
Senza approfondire l'aspetto ideologico del fascismo, coerentemente al tema trattato, vogliamo proiettare come all'inizio avevamo fatto per il liberismo e il comunismo, questa concezione sul piano dei rapporti umani/lavorativi.

Qual è il principio di ragione che porta il lavoratore sempre a sottostare al padrone o al sistema di potere economico da lui rappresentato? Nessuno, se non un arbitrario atto di forza codificato in legge dalla giurisprudenza, il fascismo con la socializzazione interrompe questa ingiustizia.
Come insegna il sociologo Michels, un rapporto di partecipazione reale non può che avvenire tra uguali. Noi non ci accontentiamo che il lavoratore partecipi con il datore di lavoro, sarebbe semplice collaborazione, noi vogliamo che sia parte essenziale e gestionale del processo di cui fa parte. Questo non potrà che essere fattibile solo quando le parti, lavoro e capitale, braccia e denaro, avranno stesso riconoscimento giuridico e sociale, abbiano in altri termini pari dignità. Non il lavoro a servizio del capitale, ma il capitale a servizio del lavoro, non l'uomo a servizio dell'utile, ma l'utile al servizio dell'uomo.
Parlare di pari dignità tra lavoro e capitale è la chiave di volta per risolvere il problema che non ha avuto a tutt'oggi soluzione.
Certo parlare di pari dignità significa rivoluzionare il senso più profondo di questa società dove tutto è proteso ad un fine utilitaristico e dove il danaro , adottato come unico parametro di riferimento, è sublimato a nuovo ethos, ma sta a noi raccogliere la sfida.
Porre sullo stesso piano chi porta le proprie capacità professionali (manuali o intellettive), e chi ci mette i soldi oltre ad essere la via da battere è un dovere sociale per tutti quelli non disposti ad appiattire l'uomo su un piano esclusivamente economico e/o consumistico.
E' questa la visione dell'umanesimo del lavoro, la concezione antropocentrica che fu tracciata da Gentile e rafforzata da Spirito.
Chiamatela pure socializzazione, o corporativismo integrale, o comunismo con diritto alla proprietà, chiamatela, chiamiamola pure come volete, basta che sia la nostra bandiera per l'emancipazione più alta dell'uomo e del suo lavoro.
Lorenzo Chialastri - Cave (Roma)

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