giovedì 24 marzo 2016

PONZIO PILATO

PONZIO PILATO


di Anonimo Pontino.
La figura di Ponzio Pilato nella cultura dominante, nei discorsi che capita spesso di sentire ovunque, è diventata il simbolo di chi si sottrae alle proprie responsabilità, del menefreghismo, della viltà. La cosa che mi rattrista maggiormente è vedere molti cattolici, anche sacerdoti, accogliere con leggerezza queste posizioni.
Ma le cose stanno realmente così?

Ponzio Pilato ha amministrato la Giudea per circa un decennio dal 26 al 36. Gesù ha iniziato il  suo  ministero  pubblico  nel  30  ed  è  stato  condannato  a  morte  nel  33.

All’epoca del processo a Gesù , la Giudea non era provincia romana, bensì  “federata”. Il procuratore Ponzio Pilato aveva quindi giurisdizione politico-militare soltanto sui delitti di infedeltà  a quel “foedus”, mentre,  per  tutti  gli  altri,  e  a  maggior  ragione  quelli  di  sacrilegio  contro  la  legge mosaica, la competenza  esclusiva  era  dell’autorità   locale  ebraica,  e  cioè   del  Sinedrio. 

Inoltre Pilato era stato in un certo senso sconfessato da Tiberio.

Infatti dopo il suo arrivo in Palestina Ponzio Pilato fece appendere  nel  suo  palazzo in Gerusalemme gli scudi d’oro dedicati  a  Tiberio,  muniti  d’iscrizioni  e  privi  di  simboli  che  potevano  essere ritenuti idolatrici (Filone  d’Alessandria,  De  legatione  ad  Cajum,  par.  38,  n.  299-305).  I giudei si rivolsero  a Tiberio chiedendo la rimozione degli scudi, e Pilato dovette cedere (cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, cit., II vol., pp. 439 ss.)

Pilato detestava il Sinedrio, ma non aveva più l’appoggio del suo Imperatore. Di fatto il Sinedrio mediante Tiberio aveva in mano Pilato.

Quando Pilato interrogò  accuratamente l’imputato,  la sua sentenza fu: “Io trovo quest’uomo immune da colpa”.

Quando sentì  che il presunto delitto di sedizione politica, a carattere continuativo, sarebbe iniziato in Galilea, Pilato esattamente  applicando  il  rito  vigente,  si dichiarò incompetente  per  territorio  e  rimise  la  causa  al  tetrarca  di  Galilea,  Erode  Antipa. Ebbene – registra  l’evangelista  –  quando  anche  Erode  dichiarò   Gesù   innocente  “da  quel giorno Pilato ed Erode,  che  erano  prima  in  pessimi  rapporti,  divennero  amici”.

Ma il procuratore non si fermò  li. Si impegnò  per salvare Gesù  anche al di là  del proprio dovere istituzionale tanto da compromettere il proprio “cursus honorum”. Pilato sapeva bene che Gesù  era molto popolare (non poteva essergli sfuggita la domenica delle Palme, proprio in Gerusalemme), e sapeva anche che il Sinedrio lo odiava.

Si  illuse  però  che,  ricorrendo  al  popolo,  egli  sarebbe  riuscito  –  senza  violare  la  legge  – a strappare  il  perseguitato  dalle  grinfie  del  suoi  nemici.  Sottovalutava  l’astuzia  o  la perfidia dei vertici ebraici, che, prevedendo la sua mossa, avevano provveduto a far affluire per tempo nella non grande piazza una folta schiera di loro servitori e clienti. Accade contro ogni logica che il risultato della consultazione popolare fosse “libera Barabba!”; sebbene Pilato fosse ricorso anche all’espediente  di far comparire il suo protetto in pubblico conciato in modo da indurre a compassione chiunque.

Pilato,  allora,  costatata  l’impossibilità   di  smuovere la folla obbediente al Sinedrio, grida “io sono innocente del sangue di questo giusto.” Affermazione inconciliabile con l’ipotesi che egli stesso lo avesse condannato poco prima a morte e spiegabile soltanto col fatto che la condanna fosse stata decisa e pronunziata da “altri”.

Arriviamo  alla  famosa  “lavata  di  mani”.

Il gesto di lavarsi le mani non va inteso come un non curarsi di ciò che stava per accadere. Infatti in Giudea  ci  si  lavava  le  mani  se  ci  si  imbatteva  in  un  cadavere per significare di non essere colpevole della sua uccisione (cfr. Deut., XXI, 6). L’atto di Pilato voleva significare ai giudei: “io sono innocente della morte di Gesù” (v. 24). E loro capirono benissimo e risposero: “che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (v. 25), cioè essi presero su di sé come popolo la  responsabilità  della  condanna  a  morte  di  Gesù.

Gesù  stesso  scagiona  Pilato  quando  gli  dice:  “chi  mi  ha  consegnato  a  te  è colpevole di un peccato  gravissimo.  Tu  non  avresti  nessun  potere  su  di  me  se  non  ti  fosse  stato dato dall’alto” (Jo.,  XIX,  11) ( 1) .  Gli  esegeti  interpretano  questo  versetto  nel senso che il Sinedrio  avrebbe fatto ricorso a Tiberio dal quale Pilato aveva ricevuto il potere. Pilato è solo un delegato dell’Imperatore ed il  Sinedrio  che  ha  consegnato  Gesù  a  Pilato  lo  costringe  a  condannarlo  sotto minaccia di ricorrere  all’Imperatore  del  quale  Pilato  è  solo  il  delegato (cfr. M. De Tuya, Biblia Comentada, Evangelios, vol. V, Madrid, 1964, p. 1289).

I  cattolici  greci  venerano  la  moglie  di  Pilato  (Claudia  Procula)  come  santa,  mentre i Copti venerano anche Pilato, la cui conversione non è storicamente testata, ma la tradizione copta vuole  che  Pilato  abbia  terminato  la  sua  vita  nel  pentimento  e  nella  pratica  delle virtù cristiane (F. Spadafora, Pilato, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1973).

Al gesto pubblico di Pilato di lavarsi le mani, soprattutto i protestanti hanno attribuito invece il  significato  di disinteressarsi,  di  tirarsi  fuori  vilmente.

Il cinema di Hollywood ha fatto il resto, cambiando  la  realtà  storica  sulla  responsabilità  del  Sinedrio  nella  morte  di  Cristo. Ma Hollywood lo sanno anche i muri che obbedisce alla lobby ebraica.



Secondo i fratelli Lémann (A. e J. Lémann, Valeur de l’assemblée qui prononça la peine de mort contre JésusChrist, ed. Lecoffre,Parigi, 1876) il  Sinedrio  era  risoluto  sin  dall’inizio ed a  priori  a  condannare Gesù,  indipendentemente  dalla  sua  innocenza.  Questi  fatti  sono  le tre decisioni prese dal Sinedrio  nelle  tre  riunioni  anteriori  a  quella  del  Venerdì  Santo:  la  condanna  a  morte  di Gesù, prima ancora che comparisse come accusato.
•          La prima riunione si tenne dal 28 al 30 settembre (Tisri)dell’anno 781 di Roma (32 d. C.). Il Vangelo parla de “l’ultimo giorno della festa dei Tabernacoli” (Io., VII, 37), che in quell’anno cominciava il 22 settembre e terminava il 28. S. Giovanni ci riferisce che Gesù aveva guarito miracolosamente un cieco nato e che “i suoi genitori, temevano i giudei; poiché i giudei avevano congiurato che se qualcuno avesse confessato che Gesù era il Cristo sarebbe stato scomunicato” (Io., IX, 22). Il decreto di scomunica era stato lanciato tra il 28 ed il 30 settembre. Ora tale decreto prova due cose:1°) che vi era stata una riunione solenne del Sinedrio, che solo aveva il potere di lanciare la “scomunica maggiore”; 2°) che in tale riunione si era parlato della morte di Gesù. Infatti l’antica Sinagoga aveva tre tipi di scomunica: la separazione (niddui ); l’esecrazione (choerem) e la morte (schammata).La separazione condannava qualcuno a vivere isolato per trenta giorni. Essa non era riservata al Sinedrio. L’esecrazione comportava una separazione completa dalla società giudaica: si era esclusi dal Tempio e votati al demonio. Solo il Sinedrio di Gerusalemme poteva infliggerla, e la pronunciò contro chiunque asserisse che Gesù era il Messia. La morte era riservata ai falsi profeti. “Ora tutto lascia supporre che il Sinedrio, il quale non esitò a lanciare l’esecrazione contro i seguaci di Gesù, dovette nella medesima riunione, deliberare se pronunciare o no contro Gesù stesso […] la pena di morte. Una vecchia tradizione talmudica dice che fu proprio così” (A. e J. Lémann, Valeur de l’assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus Christ, ed. Lecoffre,Parigi, 1876, pagg. 50-51).
•          La seconda riunione ebbe luogo nel febbraio (adar) del 782 dalla fondazione di Roma (33 d. C.), circa quattro mesi e mezzo dopo la prima. Fu in occasione della resurrezione di Lazzaro. S. Giovanni scrive: “Da quel giorno, risolsero di farlo morire” (Io., XI, 50).
Perciò nella prima riunione la condanna a morte era stata proposta, ma nella seconda la decisione è presa.
•          La terza ebbe luogo 20-25 giorni dopo la seconda, il mercoledì Santo, 12 marzo (nisan) 782 ab Urbe condita. S. Luca scrive: “Allora i Capi e gli Anziani tennero consiglio, per sapere come potersi impadronire di Gesù e farlo morire. E dicevano: non bisogna che sia durante la festa, per paura che scoppi un tumulto” (Lc ., XXIII, 1-3). Questo terzo consiglio non aveva come oggetto la condanna a morte di Gesù, poiché la sua morte eragià stata decretata nel secondo consiglio. Ora si trattava soltanto di stabilire il tempo e il modo della sua uccisione, e si decise di aspettare che fosse passata la festa di Pasqua; ma un avvenimento imprevisto li fece tornare su questa decisione: “Giuda, l’Iscariota, venne dai sommi Sacerdoti per consegnare loro Gesù” (Lc ., XXII, 3-4). Giuda, il traditore, toglie ogni incertezza al Sinedrio, la condanna di Gesù non sarà più rinviata adun giorno indeterminato dopo Pasqua, ma al primo momento favorevole.

Anonimo Pontino





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