giovedì 17 marzo 2016

NOI FASCISTI E GLI EBREI (Giorgio Pisano')


Questo saggio di estremo interesse è stato scritto da Giorgio Pisanò e pubblicato sulla rivista “Candido” nel 1986. Buona lettura .




Noi fascisti e gli ebrei

PREMESSA

Il problema ebraico; il diritto o meno alla vita dello Stato d’Israele; gli ebrei e i palestinesi; il potere sionista internazionale ieri, oggi e domani; la verità sull’olocausto degli ebrei durante la seconda guerra mondiale; i nazisti e gli ebrei; i fascisti e gli ebrei.
Sono questi i temi principali di un dibattito che, continuamente alimentato da drammatiche vicende, pone l’argomento “ebrei” al centro di violente polemiche, di contrastanti valutazioni, di duri scontri ideologici e politici, di ricorrenti ondate razziste.
Ma quasi sempre il dibattito si aggroviglia e si disperde per l’assenza di precise conoscenze storiche e di documentate argomentazioni sulle quali ancorare opinioni e fatti specifici.
Il fatto è che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi intere generazioni sono state plagiate, imbrogliate, disinformate sistematicamente da una pseudo cultura che si basa, specie per quanto riguarda le verità della storia e le interpretazioni che debbono derivarne, più che altro su tesi propagandistiche, sulle falsità, sulle invenzioni, sulle deformazioni imposte a proprio uso e consumo dai vincitori.
Così, per restare al problema ebraico, si assiste al continuo proliferare di prese di posizioni che, partendo da premesse storicamente errate, giungono ovviamente a conclusioni altrettanto sbagliate.
Riteniamo quindi utile portare un contributo di chiarezza al dibattito in corso sugli ebrei affrontando un tema specifico, che ha però molta influenza sugli atteggiamenti di molti italiani nei confronti della realtà israeliana: vale a dire i rapporti tra fascismo ed ebrei.
È dalla fine della guerra, infatti, che la propaganda antifascista si sforza a sostenere la tesi secondo la quale Mussolini e i fascisti sarebbero stati pienamente solidali con la politica antisemita del nazismo e corresponsabili delle atrocità che vengono attribuite ai tedeschi.
Una tesi finora praticamente incontrastata e quindi accettata per vera, ma che, invece, non ha alcun fondamento, come è dimostrato da una analisi delle documentazioni esistenti, specialmente di fonte ebraica.
Ecco allora, sulla scorta di documenti, ripetiamo, quasi esclusivamente di fonte ebraica e antifascista, la verità sui rapporti che intercorsero tra il fascismo e gli ebrei, dalle origini del movimento fascista nel 1919 fino agli ultimi giorni della Repubblica sociale italiana nell’aprile del 1945.
Da questi documenti, da queste testimonianze che qui pubblichiamo emerge senza possibilità di equivoci che il movimento fascista non fu mai su posizioni antiebraiche e che, nonostante la posizione ufficiale ostile alla razza ebraica assunta alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Mussolini e i fascisti si operarono con ogni mezzo, in tutta l’Europa sconvolta dalla guerra, per salvare gli israeliti perseguitati dal nazismo.
Questo libro si compone di due parti. La prima, strettamente documentaria, ristabilisce delle verità storiche che non è più consentito occultare o distorcere. La seconda consiste in una polemica che si svolse nel 1961 sulle colonne del “Meridiano d’Italia” tra il sottoscritto e il commendator Massimo Vitale, allora Presidente del Centro di Documentazione Ebraica e del Comitato Ricerche Deportati Ebrei. Una polemica che ritengo utile pubblicare nuovamente senza alcuna modifica, non solo perché suscitò allora grande interesse e mise in crisi gli organi direttivi del Centro di Documentazione Ebraica, ma soprattutto perché sviluppò e approfondì temi e aspetti del grande dramma ebraico ancora di vivissima e stretta attualità.
Giorgio Pisanò

GLI EBREI E IL FASCISMO

Nelle pagine che seguono documenteremo quale fu l’atteggiamento tenuto dal governo fascista dal 1922 fino all’aprile del 1945 nei confronti degli ebrei, con particolare riguardo al periodo che oggi viene comunemente ricordato come quello delle leggi antisemite e della persecuzione. La ricostruzione degli avvenimenti è stata da noi effettuata, mancando precise testimonianze di parte fascista, quasi esclusivamente sulla scorta di documenti ebraici ed antifascisti che citeremo di volta in volta.

Diciamo subito, comunque, che da tale documentazione emerge una realtà storicamente molto diversa da quella che una propaganda ormai più che quarantennale, è riuscita ad accreditare presso l’opinione pubblica. Tale propaganda, alimentata in maniera massiccia da organizzazioni politiche particolarmente interessate a fomentare confusioni ed equivoci, sostiene che a quei tempi si verificò una netta differenziazione tra la massa del popolo italiano, contraria ad ogni tipo di persecuzione e pronta ad aiutare, come effettivamente aiutò con ogni mezzo, gli ebrei, e il governo fascista, deciso invece a realizzare sull’esempio tedesco la più feroce, spietata e inumana caccia all’ebreo. Questa propaganda sostiene inoltre che se in Italia e nei territori europei occupati dalle truppe italiane non si giunse ai crudeli eccessi cui si abbandonarono i germanici, ciò lo si dovette al fatto che gli italiani, dai generali all’ultimo soldato, si rifiutarono di obbedire agli ordini del governo fascista e agirono di loro iniziativa in nome dei superiori princìpi di umanità.

Tutto ciò, come appare chiaramente dai documenti che pubblicheremo, non è esatto. Dalle testimonianze, e particolarmente da quelle di fonte ebraica, appare infatti evidente che l’atteggiamento degli italiani nei confronti degli ebrei fu ispirato non solo da motivi di umanità ma anche e soprattutto da precise disposizioni emanate dal governo fascista e personalmente da Mussolini, il quale, nonostante il suo apparente antisemitismo determinato da esigenze di politica internazionale, fu l’unico uomo politico europeo che, tra il 1938 e il 1945, si prodigò concretamente per salvare la vita a centinaia di migliaia di ebrei in tutta Europa.

Ciò premesso, entriamo in argomento ricordando prima di tutto che la penisola italiana fu l’unica regione europea dove, nel corso dei secoli, gli ebrei poterono vivere e prosperare con ampissimi margini di sicurezza. Mentre in quasi tutte le Nazioni europee le collettività israelitiche, isolate nei “ghetti”, sottoposte a discriminazioni di ogni genere, divenivano periodicamente vittime di persecuzioni spaventose e di massacri indescrivibili, in Italia la comunità ebraica poté prosperare inserendosi sempre più profondamente nella vita sociale, politica ed economica del Paese. Sta di fatto che già agli albori dell’800 il termine “ghetto” giunse a perdere in Italia quel significato spregiativo che, invece, conservò nelle altre Nazioni, e gli ebrei furono sempre più liberi di inserirsi nel tessuto connettivo della Nazione, mantenendo inalterate le loro organizzazioni comunitarie e integri i loro riti. Si giunse così all’unificazione del Paese. Gli ebrei non stettero in disparte. Parteciparono attivamente e valorosamente alle lotte per l’indipendenza, italiani fra italiani.

Al termine della prima guerra mondiale furono tra i primi ad accorrere nelle squadre d’azione fasciste. Tre ebrei triestini, i fratelli Forti, furono i fondatori del Fascio giuliano; altri parteciparono in prima linea alle attività dei Fasci di Roma, Firenze, Bologna, Genova, Ferrara e così via. Uno squadrista ferrarese ebreo, per esempio, l’avvocato Renzo Ravenna, fu poi per oltre quindici anni podestà della città estense: e ancora a guerra finita, nonostante piangesse ben quattordici familiari massacrati nei lager tedeschi, restò uno dei più strenui difensori della memoria di Italo Balbo.

Documenta lo storico Renzo De Felice, nella sua voluminosa Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi editore, 1961), che gli squadristi ebrei (intendendo per tali gli iscritti al Partito fascista prima della Marcia su Roma) furono ben 746, cifra più che notevole se si pensi che, a quell’epoca, la collettività ebraica in Italia non raggiungeva le 50 mila unità. Tanta fedeltà degli ebrei alla causa nazionale venne puntualizzata ripetutamente da Mussolini durante il periodo rivoluzionario, e in maniera particolare in un articolo apparso sul Popolo d’Italia il 19 ottobre 1920. In questo articolo il Capo del fascismo, prendendo lo spunto dalle leggi antisemite votate dall’Assemblea nazionale ungherese affermò: «L’Italia non conosce l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai».

Dopo l’avvento del fascismo, gli ebrei italiani ottennero un riconoscimento solenne con la legge del 1931 che istituiva le nuove “norme sulle comunità israelitiche e sull’unione delle comunità medesime”. Tale legge, ancora oggi in vigore, venne caldeggiata dagli stessi ebrei che intendevano giungere ad un generale riordinamento delle comunità locali, che si reggevano sulle antiche leggi varate al tempo in cui l’Italia era suddivisa in tanti staterelli. Gli studi relativi a questa legge iniziarono nel 1927 e furono affidati a un’apposita commissione formata dall’allora “Consorzio delle comunità israelitiche”, cui parteciparono Angelo Sacerdoti, rabbino di Roma, e i giuristi ebrei Mario Falco, Giulio Foa e Angelo Sullam. Nel 1929 questa commissione cedette il passo a una commissione ministeriale per la preparazione del disegno di legge, della quale fecero parte Mario Falco, Angelo Sacerdoti e Angelo Sereni, quest’ultimo presidente del Consorzio stesso.

La conclusione fu che gli israeliti italiani, grazie al governo fascista, ottennero la legislazione più liberale, più moderna, più funzionale che mai una collettività ebrea avesse ottenuto, in alcuna altra parte del mondo, in duemila anni di storia. In pieno regime totalitario, infatti, gli ebrei italiani, con la legge del 1931, furono liberi di eleggere democraticamente i loro rappresentanti, di provvedere in maniera autonoma alle loro necessità, all’amministrazione dei loro beni e alla conservazione delle tradizioni e del patrimonio storico ebraico.

Scrive infatti lo storico De Felice nella sua opera già citata: «La nuova legge sulle comunità israelitiche approvata nel 1931 completò infine l’opera, sancendo l’inizio di una nuova fase dei rapporti tra ebrei e fascisti. Nel giro di pochi mesi anche le ultime resistenze e incomprensioni si dissiparono. Ogni possibilità dell’insorgere di un problema ebraico in Italia sembrò ai più, da una parte e dall’altra, tanto remota quanto assurda. A fare dell’antisemitismo rimasero tra i fascisti solo Preziosi e pochissimi altri … ai margini o addirittura al di fuori dell’apparato statale e delle stesse sfere dirigenti del fascismo… Il 25 febbraio 1931 Costanzo Ciano visitando il tempio di Livorno arrivò a dire pubblicamente che in Italia c’erano troppo pochi ebrei. Non può dunque destare meraviglia che persino sul sionista Israel apparissero sempre più di frequente articoli e note filofasciste. Valga per tutti il “fondo” del numero 27 ottobre 1932 in occasione del decennale della Marcia su Roma e intitolato appunto Decennale: “Dopo dieci anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in Italia è più intenso, assai più intenso di prima … In un clima storico come quello del fascismo riesce più facile ai dimentichi di ritrovare il cammino della propria coscienza, ai memori di rafforzarlo, presidiandolo di studi e di opere”».

Sempre a proposito della legge del 1931 così scrive ancora il De Felice: «Nel complesso, la nuova legge fu accolta dalla stragrande maggioranza degli ebrei molto favorevolmente. Solo da parte di alcuni rabbini si sarebbe desiderato che fosse dato loro un maggior peso nella direzione delle comunità. Tutti i principali gruppi l’accolsero con vivo compiacimento. Il 17 ottobre, all’indomani cioè della sua approvazione da parte del Consiglio dei ministri, il presidente del Consorzio telegrafò a Mussolini la “vivissima riconoscenza” degli ebrei italiani; analoghi messaggi furono inviati da quasi tutte le comunità».

Con la legge del 1931, gli ebrei italiani, il cui numero non superava le 50 mila unità, videro così consacrato il loro inserimento nella Nazione italiana. In quei giorni nessuno, certo, poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto qualche anno più avanti.

È difficile, ora, stabilire una data precisa circa l’inizio della frattura tra il fascismo e gli ebrei italiani. Ma è certo che il radicalizzarsi della lotta tra fascismo e comunismo, tra fascismo e democrazie occidentali, segnò le prime crepe in un accordo che doveva fatalmente rompersi.

Diciamo “fatalmente” a ragion veduta. Gli ebrei, infatti, non avrebbero mai potuto appoggiare sinceramente e decisamente lo sforzo di una Italia tesa a rompere l’assedio all’Europa, che capitalismo da una parte e comunismo dall’altra, stavano sempre più stringendo. Per fare ciò avrebbero dovuto dimenticare di essere ebrei, dimenticare le loro origini, i loro interessi e duemila anni di tradizione e di fede religiosa tramandate rigidamente di padre in figlio. E, sia chiaro, non diciamo questo con tono accusatorio: facciamo una constatazione, prendiamo atto di una realtà che è quella che è da millenni. Prima di sentirsi italiani o tedeschi o francesi o polacchi, e così via, gli ebrei si sono sempre sentiti ebrei. Ciò ha permesso loro in ogni tempo di restare legati a interessi e concezioni ideologiche sovranazionali. La storia moderna infatti, non è che la storia del grande capitale internazionale controllato dagli ebrei, che, di volta in volta, si è alleato a questi o a quegli interessi nazionali per distruggere o modificare quelle situazioni che minacciavano di diventare pericolose per i suoi piani o per la sua stessa sopravvivenza. Era contro natura, quindi, che gli ebrei italiani, o almeno gran parte degli ebrei italiani, facessero eccezione a questa regola proprio nel momento in cui una nuova Europa stava sorgendo dalle rovine di quella pace di Versailles che aveva visto l’ebraismo internazionale deciso a sottomettere il vecchio continente ai voleri del capitalismo anglo-americano.

L’ANTISEMITISMO NAZISTA

La campagna antisemita, immediatamente scatenata dal Partito nazista una volta giunto al potere nel 1933, i successivi primi contatti tra fascismo e nazismo gettarono quindi una profonda inquietudine tra gli strati più evoluti della comunità ebraica italiana. Alla sensibilità degli israeliti, affinata da duemila anni di durissime esperienze, non sfuggì il significato dell’incontro, sul piano europeo, delle due rivoluzioni: non sfuggì soprattutto che l’ondata antisemita, ormai in atto in Germania, avrebbe finito con l’estendersi a tutta l’Europa, dato il peso preminente che, per motivi demografici, economici e militari, il Reich avrebbe avuto in tutto in continente. Fu così che l’antifascismo cominciò a serpeggiare in maniera abbastanza concreta tra le file degli ebrei, specie dei più giovani. Nulla di serio, va detto subito, ma è un fatto che alcune decine di intellettuali israeliti si legarono fin dal 1933 non solo con i gruppi a tinta liberale e socialdemocratica che avevano posto le loro basi soprattutto in Francia, ma anche con i gruppi clandestini comunisti. Questi ultimi, che agitavano le insegne della rivoluzione proletaria internazionale, esercitavano molto fascino su vasti ambienti israeliti che, in un mondo senza più confini, vedevano la conclusione dell’eterno vagabondare della loro gente da una Nazione all’altra.

Sta di fatto che, nella primavera del 1934, la polizia italiana arrestò a Ponte Tresa (Varese) alcuni antifascisti che rientravano dalla Svizzera con manifestini di propaganda. Si scoprì un complotto antifascista: vi facevano parte una ventina di persone in tutto. Di queste, però, undici erano ebree ed erano guidate da Leo Levi, un giovane intellettuale che poco tempo prima aveva ottenuto il “Premio Mussolini”, come migliore studente in agraria dell’Università di Bologna,e, con il premio, una cospicua somma in denaro che gli era servita poi per recarsi a Gerusalemme dove aveva pronunciato discorsi squisitamente e marcatamente anti italiani. Levi e i suoi compagni furono poi prosciolti da ogni accusa dalla Magistratura, ma la scoperta del complotto determinò una levata di scudi in senso antiebraico. «Se gli ebrei italiani», si disse da più parti «vogliono essere veramente italiani, ne saremo felici noi per primi. Ma se intendono vivere tra noi comportandosi da stranieri, come tali finiranno con l’essere trattati». La polemica non ebbe però molto seguito. La maggioranza degli ebrei italiani, che vivevano molto bene e non avevano intenzione di mettersi in urto con il regime, sconfessò l’operato degli undici arrestati. Prese vita, anzi, a Torino, un giornale, La nostra bandiera, diretto e compilato da ebrei, che dal 1934 al 1938 si prodigò perché i rapporti tra la collettività ebraica italiana e il fascismo non si alterassero. Va detto, inoltre, che La nostra bandiera fu forse l’unico giornale stampato in Italia in quel periodo, dove si attaccasse costantemente l’antisemitismo ormai imperante in Germania.

Il rapido, incalzante succedersi degli eventi allargò tuttavia la frattura tra ebrei e fascismo. Una frattura che non si vedeva e non si sentiva e della quale l’assoluta maggioranza del popolo non ebbe mai sentore. Il fatto è che gli ebrei italiani, a partire dal 1935, vissero in uno stato di crescente allarme. Era ormai chiaro che l’internazionale ebraica aveva preso posizione in senso antinazista, prima di tutto, e di conseguenza, antifascista. Ebrei erano accorsi in gran numero nelle file delle Brigate internazionali in Spagna, ebrei fuggivano ogni giorno dalla Germania. Questi ultimi, specialmente, provvidero a seminare il panico tra gli israeliti italiani. La grande maggioranza dei profughi abbandonava infatti la Germania attraverso l’Austria e il Brennero e giungeva in Italia, dove sapeva di trovare una forte collettività bene organizzata, libera di agire e capace quindi di soccorrerla. Dall’Italia, inoltre, molti profughi speravano di poter proseguire per la Palestina e sbarcare in Terra Santa. Tutta questa gente, in ogni modo (si parla di oltre 15.000 persone in pochi anni), venne ospitata in Italia senza che il governo fascista levasse un dito per ostacolare questa opera di soccorso.

Fino a tutto il 1936, comunque, i rapporti tra fascisti ed ebrei in Italia si mantennero buoni. Racconta il De Felice: «Gli ebrei parteciparono, come già si è detto, al generale entusiasmo per l’impresa africana. Oltre i mobilitati, numerosi furono coloro che partirono volontari, così come, del resto, sebbene in numero molto minore, in occasione della successiva guerra di Spagna (un ebreo, Alberto Liuzzi, caduto in Spagna, fu anche decorato di medaglia d’oro al valor militare). Per l’assistenza religiosa di tutti questi combattenti in Africa il ministero della Guerra e l’Unione delle comunità vennero anzi a un accordo per l’istituzione di un “rabbinato militare”, che provvide alla designazione di tre cappellani. Egualmente larghissima fu l’adesione alla “giornata della fede” e all’offerta dell’oro. A questa gli ebrei parteciparono non solo individualmente ma anche come comunità: alcune di queste offrirono “tutti quegli oggetti d’oro e d’argento per i quali non sussisteva al dono un esplicito impedimento rituale”. Offerte giunsero persino da ebrei residenti in lontane regioni d’oltremare, dal Congo belga e dalla Rhodesia. La vittoria e la proclamazione dell’Impero furono salutate dalla stampa ebraica con vero entusiasmo, come il trionfo del diritto e della verità sopra l’arbitrio e la menzogna e furono celebrate anche nei templi.

«La conquista dell’Etiopia fu sentita da molti ebrei non solo come un fatto nazionale, ma anche come un fatto ebraico. Nella zona presso Gondar e il Lago Tana vive una popolazione di razza cuscitica e di religione giudaica, i falascià. Sin dai primi anni del nostro secolo l’ebraismo italiano aveva mostrato un certo interesse per questi correligionari africani e aveva stabilito alcuni rapporti con essi. Per un certo periodo a Firenze era esistito anche un comitato pro-falascià. La conquista dell’Etiopia accrebbe molto questo interesse, facendo sorgere il desiderio di rendere quei rapporti stabili e stretti e di cooperare direttamente all’elevamento morale, civile e religioso dei falascià. Il problema non solo fu illustrato e dibattuto ampiamente dalle organizzazioni e dalla stampa ebraiche, ma subito posto in esecuzione. Ai primi di giugno 1936 l’Unione prendeva contatti col ministro delle Colonie, Lessona, e veniva stabilito che l’Unione si sarebbe occupata dell’assistenza e dell’organizzazione degli ebrei etiopici e avrebbe subito inviato suoi rappresentanti per prendere contatto con i falascià e organizzare due comunità ad Addis Abeba e a Dire Daua. Della difficile missione furono incaricati l’avvocato Carlo Alberto Viterbo, consigliere dell’Unione, e il dottor Umberto Scazzocchio, già segretario della comunità di Roma e residente all’Asinara. Alla fine di luglio il Viterbo partì per l’AOI; giunto ad Addis Abeba, il 22 agosto, fu ricevuto dal Viceré Maresciallo Graziani che gli manifestò la sua comprensione e simpatia per gli israeliti; lo assicurò “che tutti i culti avrebbero avuto rispetto e protezione nei confini dell’Impero e che le popolazioni falascià, note per il loro spirito laborioso, avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione del governo”. Con decreto vicereale del 19 settembre 1936 fu poscia costituita la comunità di Addis Abeba e il Viterbo ne fu nominato commissario».

In realtà, nonostante quest’apparente buona armonia esistente tra il governo fascista e gli ebrei in Italia, la situazione andava deteriorandosi abbastanza rapidamente, tanto che nel 1938 si giunse all’emanazione delle cosiddette “leggi razziali”. Gli scrittori antifascisti, e in maniera particolare il De Felice, hanno teorizzato a lungo sui motivi che determinarono la promulgazione delle leggi antisemite, e sono giunti alla conclusione che l’ondata antiebraica fu, in definitiva, l’esplosione di una tendenza criminale già preesistente nell’ideologia fascista; in altro parole, la logica conclusione di un processo degenerativa già insito nelle origini del fascismo stesso.

Analizzeremo allora, sulla base della situazione esistente nell’Europa e nel mondo in quell’epoca, quali furono i veri motivi che spinsero Mussolini a imbarcarsi in un’azione antiebraica, nonostante le sue intime convinzioni nettamente contrarie a una politica antisemita, convinzioni che traspaiono anche in ogni pagina dell’opera del De Felice.

Nelle decisioni di Mussolini giocarono infatti non solo motivi politici, ma anche, come sempre, una visione molto più ampia di tutto il problema. La situazione, nel 1938, si presentava come segue. La Germania era ormai decisa a liberarsi della presenza, nel suo territorio, degli ebrei: non solo per motivi squisitamente razziali, ma soprattutto a causa dell’odio feroce che i tedeschi avevano accumulato contro gli israeliti nell’immediato dopoguerra, allorché gli speculatori e i finanzieri ebraici avevano contribuito in maniera determinante al marasma economico che si era abbattuto sul popolo tedesco. L’Inghilterra, a sua volta, che aveva ricevuto alla fine della prima guerra mondiale il compito di occupare militarmente la Palestina per preparare la formazione di uno Stato d’Israele, aveva trasformato il “mandato” in una occupazione permanente con finalità imperialistiche allo scopo di controllare, dalla Terra Santa, tutto il Medio Oriente. Non solo non permetteva agli ebrei di sbarcare, ma fucilava e impiccava gli israeliti che, in Palestina, si battevano per la realizzazione dello Stato d’Israele. Francia e Stati Uniti stavano a guardare. I russi, dal canto loro, sembravano disinteressarsi del problema nel senso che se un ebreo dava loro fastidio (come fecero nei confronti della “vecchia guardia leninista”, in gran parte composta di israeliti) lo eliminavano senza tanti complimenti.

Mussolini si trovò preso così in una situazione estremamente difficile e delicata. Gli schieramenti, nel 1938, si erano ormai nitidamente delineati. Il capitalismo occidentale si era già coalizzato contro la nuova Europa; il bolscevismo, al momento opportuno, non avrebbe davvero esitato ad allearsi anche con il diavolo pur di distruggere i suoi nemici più temibili: vale a dire fascisti e nazisti. L’Italia non aveva quindi che una scelta: approfondire l’alleanza con la Germania; quella Germania, in fin dei conti, nelle cui braccia era stata gettata proprio dalla politica cieca e faziosa delle classi dirigenti inglesi e francesi. Ma l’alleanza esigeva delle precise prese di posizione. Una di queste concerneva gli ebrei. Non era possibile conclamare ogni giorno una perfetta identità di vedute con la Germania sul piano sociale, politico, etico e morale e difendere a spada tratta non solo gli ebrei italiani (il che, in definitiva, era una questione che riguardava solo noi) ma anche tutti quelli che fuggivano dalla Germania.

C’era poi un altro interrogativo che esigeva una risposta. Che atteggiamento avrebbero tenuto gli ebrei italiani in caso di guerra? Si sarebbero sentiti italiani o, prima di tutto, ebrei? La risposta non poteva essere che una: si sarebbero sentiti ebrei e avrebbero parteggiato, con lo spirito e con i fatti, con tutti i loro correligionari ormai schierati sull’altra sponda. Lo scontro stava assumendo carattere di guerra santa: sarebbe stato un urto di proporzione mondiale, la lotta sarebbe stata condotta con metodi e finalità totalitarie. O di qua o di là: non ci sarebbero state vie di mezzo. Ma Mussolini fece anche un’altra valutazione. Egli pensò infatti che se anche l’Italia avesse assunto un atteggiamento preciso e ostile nei confronti degli ebrei, l’Inghilterra, molto probabilmente, sotto la spinta dell’opinione pubblica anglosassone, avrebbe aperto le porte della Palestina agli ebrei d’Europa. E centinaia di migliaia di israeliti avrebbero così potuto raggiungere la “Terra promessa” prima dello scoppio della tempesta.

Furono tutti questi motivi a spingere Mussolini a preparare le leggi razziali. Ma l’Inghilterra non mosse un dito e le porte della Palestina restarono ben chiuse.

L’”ANTISEMITISMO” FASCISTA

Eccoci giunti quindi ad analizzare nella loro effettiva sostanza quelle leggi antisemite che vengono presentate ormai da quaranta anni, dalla propaganda antifascista, come la concretizzazione più ignobile della criminalità fascista nei confronti degli ebrei.

Prima di tutto intendiamo precisare che le “leggi razziali” italiane non prevedevano assolutamente:

1) l’uso di un distintivo speciale (la stella gialla, per esempio, adottata in Germania e nei territori sottoposti alla sovranità tedesca) per gli ebrei italiani;

2) la costituzione di campi di concentramento e tanto meno, “di sterminio”;

3) l’arresto per gli ebrei italiani, in quanto tali. Fino all’8 settembre 1943 gli unici ebrei arrestati (poco più di qualche centinaio) subirono la prigione o il confino perché colpiti dalle normali leggi per la difesa dello Stato o di guerra.

Le leggi razziali vennero promulgate nel novembre del 1938 e contemplavano una serie di misure da adottare nei confronti dei cittadini italiani di razza ebraica. In teoria, queste leggi tendevano alla eliminazione degli israeliti dalla vita pubblica. Prevedevano l’esclusione dalle cariche politiche, amministrative e militari dei cittadini italiani ebrei; l’esclusione degli ebrei da ogni tipo di insegnamento: gli scolari e gli studenti ebrei di ogni ordine e grado non potevano essere più iscritti a scuole statali; gli ebrei, inoltre, non avrebbero potuto possedere o gestire aziende dove fossero impiegati più di cento dipendenti, né essere proprietari di terreni che avessero un estimo complessivo di più di 5.000 lire (di allora), o di fabbricati urbani che, in complesso, avessero un imponibile di oltre 20.000 lire (sempre di allora). Le leggi proibivano inoltre i matrimoni “misti” tra italiani non ebrei e italiani di razza israelitica; ai cittadini italiani di razza ebraica era infine vietato esercitare la professione di notaio, mentre speciali limitazioni venivano poste ai giornalisti, medici, farmacisti, veterinari, ostetriche, avvocati, ragionieri, architetti, chimici, agronomi, geometri, periti agrari e periti industriali.

Ora, tenuto presente che la collettività israelitica italiana contava, nel 1938, circa 55.000 unità, vecchi, donne e bambini compresi, vediamo in realtà a che cosa si ridusse, in pratica, l’applicazione di queste leggi.

Cominciamo col dire che in base all’articolo 14 dei “Provvedimenti per la difesa della razza” emanati in data 17 novembre 1938, la legge non veniva applicata:

a) ai componenti le famiglie dei Caduti della guerra libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei Caduti per la causa fascista;

b) a coloro che si trovavano in una delle seguenti condizioni: 1°: mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola; 2°: combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, che a-vessero almeno la croce al merito di guerra; 3° mutilati, invalidi e feriti della causa fascista; 4°: iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919, 1920, 1921, 1922 e nel secondo semestre del 1924; 5°: legionari fiumani; 6°: coloro che avessero acquisito eccezionali benemerenze. «Nei casi preveduti alla lettera 6», proseguiva la legge, «il beneficio può essere esteso ai componenti la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte».

Non v’è chi non veda come queste discriminazioni avessero il potere, già in partenza, di ridurre di molto il numero degli israeliti italiani che potevano essere colpiti dalla legge. Ma analizziamo il resto.

SCUOLE. Decisa l’esclusione dalle scuole pubbliche degli insegnanti e degli studenti ebrei, ecco i provvedimenti che il governo prese subito dopo. Li trascriviamo integralmente dal “Testo unico delle norme emanate per la difesa della razza nella scuola italiana”:

Articolo 5: «Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese dello Stato, speciali sezioni di scuola elementare nella località il cui numero di essi non sia inferiore a 10. Le comunità israelitiche possono aprire, con l’autorizzazione del ministro per l’Educazione nazionale, scuole elementari con effetti legali per i fanciulli di razza ebraica, e mantenere all’uopo quelle esistenti. Per gli scrutini e per gli esami nelle dette scuole, il Regio provveditore agli studi nomina un commissario. Nelle scuole elementari di cui al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica; i programmi di studio saranno quegli stessi stabiliti per le scuole frequentate da alunni italiani, eccettuato l’insegnamento della religione cattolica; i libri saranno quelli dello Stato, con opportuni adattamenti, approvati dal ministero per la Educazione nazionale, dovendo la spesa di tali adattamenti gravare sulle comunità israelitiche».

Articolo 6: «Scuole di istruzione media per alunni di razza ebraica potranno essere istituite dalle comunità israelitiche o da persone di razza ebraica. Dovranno all’uopo osservarsi le disposizioni relative all’istituzione di scuole private. Alle scuole stesse potrà essere concesso il beneficio del valore legale degli studi e degli esami, ai sensi dell’articolo 15 del Regio decreto legge del 3 giugno 1938-XVI, n. 928, quando abbiano ottenuto di fare parte in qualità di associate dell’Ente nazionale per l’insegnamento medio: in tal caso i programmi di studio saranno quegli stessi stabiliti per le scuole corrispondenti frequentate da alunni italiani, eccettuati gli insegnamenti della religione e della cultura militare. Nelle scuole di istruzione media di cui al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica e potranno essere adottati libri di testo di autori di razza ebraica».

Articolo 8: «Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il personale di razza ebraica appartenente ai ruoli per gli uffici e gli impieghi di cui al precedente art. 1, è dispensato dal servizio, e ammesso a fare valere i titoli per l’eventuale trattamento di quiescenza ai sensi delle disposizioni generali per la difesa della razza italiana. Al personale stesso, per il periodo di sospensione di cui all’articolo 3 del Regio decreto legge 5 settembre 1938-XVI, n.1390, vengono integralmente corrisposti i normali emolumenti spettanti ai funzionari in servizio».

Articolo 10: «In deroga al precedente articolo 2 (che diceva: “Nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica”) possono essere ammessi in via trasitoria a proseguire gli studi universitari studenti di razza ebraica già iscritti nei passati anni accademici a Università o Istituti superiori del Regno. La stessa disposizione si applica agli studenti iscritti ai corsi superiori e di perfezionamento per i diplomati nei regi conservatori, alle regie accademie di belle arti e ai corsi della regia accademia di arte drammatica in Roma, per accedere ai quali occorre un titolo di studi medi di secondo grado o un titolo equipollente. Il presente articolo si applica anche agli studenti stranieri, in deroga alle disposizioni che vietano agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno».

Come si vede, tra “discriminazioni”, “deroghe” e così via, la legge, già di per sé molto blanda, in quanto finiva con l’applicare nei confronti degli ebrei, sia pure accentuandole, le normali disposizioni sempre adottate nei confronti degli stranieri, perdeva moltissimo del suo iniziale vigore. Vale quindi la pena di analizzare anche gli altri aspetti.

ESTROMISSIONE DEGLI EBREI DALLE LORO PROPRIETÀ. Abbiamo visto prima i limiti delle proprietà concesse agli ebrei. In realtà, però, che cosa accadde? Che gli ebrei, le proprietà, non le perdettero. A parte il fatto che i patrimoni degli israeliti “discriminati” (una categoria molto vasta cui appartenevano i più abbienti tra gli ebrei Italiani) non vennero toccati, per tutti gli altri venne escogitata una legge che, in pratica, permetteva agli ebrei di vendere case e terreni a un apposito Ente. Non ci furono confische. Anzi, in base all’articolo delle “Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica” emanate il 9 febbraio 1939, venne stabilito che: «In deroga alle disposizioni degli articoli 4 e 5, il cittadino italiano di razza ebraica può fare donazione dei beni ai discendenti non considerati di razza ebraica». Una formula, questa, come è facile immaginare, che permise a moltissimi ebrei di affiliare cittadini non israeliti e trasferire loro, con falsi atti di donazione, le loro proprietà in attesa di tempi migliori.

Questa legge, che, in definitiva, non spogliava gli ebrei dei loro beni, aveva uno scopo preciso: spingere gli israeliti ad abbandonare l’Italia, pagando loro un prezzo equo per le loro proprietà e dando loro la possibilità di andarsene con il capitale liquido realizzato. Lo stesso sistema, del resto, venne adottato nei confronti degli altoatesini, allorché, d’accordo con Hitler, gli allogeni vennero messi in condizione di decidere tra restare in Italia, cittadini italiani, o andarsene in Germania. Per coloro che optarono per la Germania, venne costituito un apposito Ente, che acquistò i beni degli optanti pagando i prezzi stabiliti dalle condizioni di mercato di allora.

DIVIETO PER GLI EBREI DI ESERCITARE LE LIBERE PROFESSIONI. Anche questa disposizione venne immediatamente temperata in maniera talmente vasta da renderla praticamente nulla. Si legge infatti nell’articolo 3 delle norme sulla “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica” emanate in data 29 giugno 1939: «I cittadini italiani di razza ebraica esercenti una delle professioni di cui all’art. 1, che abbiano ottenuta la discriminazione ai termini dell’articolo 14 del Regio decreto legge 17 novembre, 1938-XVI, n. 1728, saranno iscritti in “elenchi aggiunti”, da istituirsi in appendice agli albi professionali, e potranno continuare nell’esercizio della professione a norma delle vigenti disposizioni, salvo le discriminazioni previste dalla presente legge. Sono altresì istituiti, in appendice agli elenchi transitori eventualmente previsti dalle vigenti leggi o regolamenti in aggiunta agli albi professionali, elenchi aggiunti dei professionisti di razza ebraica discriminati».

Più oltre, all’articolo 21, si stabiliva: «L’esercizio professionale da parte del cittadino italiano di razza ebraica, iscritto negli elenchi speciali è soggetto alle seguenti limitazioni : 1) salvo i casi di comprovata necessità e urgenza, la professione deve essere esercitata esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica…». Il che, in sintesi significava: i professionisti di razza ebraica restano iscritti agli albi professionali, possono esercitare la professione e, sotto l’usbergo dei previsti “casi di comprovata necessità e urgenza”, possono esercitarla anche a favore di persone appartenenti alla razza non ebraica, vale a dire di qualsiasi cittadino italiano. Il che, sia chiaro, accadde regolarmente.

Sono questi i punti delle principali leggi, cosiddette “razziali”, italiane. Tutto qui: gli “orrori, le crudeltà, le persecuzioni inumane” di cui tanto si parla, sono tutte contenute negli articoli di legge che abbiamo citato.

Ma andiamo avanti, e parliamo anche del “lavoro obbligatorio” a cui il fascismo avrebbe costretto gli ebrei italiani. Ci sono, a questo proposito, delle idee molto confuse: a sentire i propagandisti antifascisti, sembrerebbe che, sferza alla mano, i fascisti abbiano costretto i cittadini israeliti a durissimi lavori forzati. Prima di tutto va detto che questa disposizione del “lavoro obbligatorio” venne emanata solo il 6 maggio 1942, quando cioè la guerra era iniziata già da due anni e gli ebrei erano ormai chiaramente schierati con i nemici dell’Asse. In secondo luogo va aggiunto che si risolse in un nulla di fatto. La legge diceva: «Con disposizione in data odierna, gli appartenenti alla razza ebraica anche se discriminati, di età dal 18° al 55° anno compresi, sono sottoposti a precettazione civile a scopo di lavoro». Gli stessi termini con cui venne formulato il decreto fanno ben capire che nessuno aveva intenzione di applicarlo. Vi si dice infatti che gli ebrei erano “sottoposti a precettazione civile”, vale a dire che potevano essere precettati per il lavoro, non che sarebbero stati senz’altro inviati a lavorare. E, in verità, quei pochi, che, per dare una parvenza di sostanza alle disposizioni, vennero mobilitati e spediti a scavare qualche fosso nelle periferie delle città dove abitavano, non si preoccuparono molto della cosa. Nel volgere di poche settimane, un po’ facendosi raccomandare, un po’ marcando visita, un po’ infischiandosene altamente delle punizioni che, del resto, non sarebbero mai arrivate, piantarono lì vanghe e badili e non si presentarono più ai campi di lavoro. E nessuno disse niente e nessuno li andò a cercare.

E veniamo ai “campi di internamento”, altro argomento graditissimo a tutti coloro che ne parlano in termini apocalittici maledicendo l’inumana “crudeltà” del regime fascista. Ebbene, sia detto una volta per tutte: IN ITALIA NON ESISTETTERO MAI CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER EBREI. DI NESSUN GENERE. Solo allo scoppio della guerra, e in nome delle più elementari misure di sicurezza, furono inviati in campi di internamento circa 15.000 EBREI STRANIERI, vale a dire tutti quelli giunti in Italia negli anni precedenti alla guerra per sfuggire alle persecuzioni antisemite germaniche.

155.000 EBREI ITALIANI NON VENNERO MAI TOCCATI: NON UNO, IN QUANTO TALE, VENNE MAI INTERNATO.
      G.P.                    
                                                                                                                                                       
















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