| Questo
saggio di estremo interesse è stato scritto da Giorgio Pisanò e
pubblicato sulla rivista “Candido” nel 1986. Buona lettura .
Noi fascisti e gli ebrei
PREMESSA
Il problema ebraico; il diritto o meno alla vita dello Stato d’Israele;
gli ebrei e i palestinesi; il potere sionista internazionale ieri, oggi e
domani; la verità sull’olocausto degli ebrei durante la seconda guerra
mondiale; i nazisti e gli ebrei; i fascisti e gli ebrei.
Sono questi i temi principali di un dibattito che, continuamente
alimentato da drammatiche vicende, pone l’argomento “ebrei” al centro di
violente polemiche, di contrastanti valutazioni, di duri scontri
ideologici e politici, di ricorrenti ondate razziste.
Ma quasi sempre il dibattito si aggroviglia e si disperde per l’assenza
di precise conoscenze storiche e di documentate argomentazioni sulle
quali ancorare opinioni e fatti specifici.
Il fatto è che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi intere
generazioni sono state plagiate, imbrogliate, disinformate
sistematicamente da una pseudo cultura che si basa, specie per quanto
riguarda le verità della storia e le interpretazioni che debbono
derivarne, più che altro su tesi propagandistiche, sulle falsità, sulle
invenzioni, sulle deformazioni imposte a proprio uso e consumo dai
vincitori.
Così, per restare al problema ebraico, si assiste al continuo
proliferare di prese di posizioni che, partendo da premesse storicamente
errate, giungono ovviamente a conclusioni altrettanto sbagliate.
Riteniamo quindi utile portare un contributo di chiarezza al dibattito
in corso sugli ebrei affrontando un tema specifico, che ha però molta
influenza sugli atteggiamenti di molti italiani nei confronti della
realtà israeliana: vale a dire i rapporti tra fascismo ed ebrei.
È dalla fine della guerra, infatti, che la propaganda antifascista si
sforza a sostenere la tesi secondo la quale Mussolini e i fascisti
sarebbero stati pienamente solidali con la politica antisemita del
nazismo e corresponsabili delle atrocità che vengono attribuite ai
tedeschi.
Una tesi finora praticamente incontrastata e quindi accettata per vera,
ma che, invece, non ha alcun fondamento, come è dimostrato da una
analisi delle documentazioni esistenti, specialmente di fonte ebraica.
Ecco allora, sulla scorta di documenti, ripetiamo, quasi esclusivamente
di fonte ebraica e antifascista, la verità sui rapporti che intercorsero
tra il fascismo e gli ebrei, dalle origini del movimento fascista nel
1919 fino agli ultimi giorni della Repubblica sociale italiana
nell’aprile del 1945.
Da questi documenti, da queste testimonianze che qui pubblichiamo emerge
senza possibilità di equivoci che il movimento fascista non fu mai su
posizioni antiebraiche e che, nonostante la posizione ufficiale ostile
alla razza ebraica assunta alla vigilia della Seconda guerra mondiale,
Mussolini e i fascisti si operarono con ogni mezzo, in tutta l’Europa
sconvolta dalla guerra, per salvare gli israeliti perseguitati dal
nazismo.
Questo libro si compone di due parti. La prima, strettamente
documentaria, ristabilisce delle verità storiche che non è più
consentito occultare o distorcere. La seconda consiste in una polemica
che si svolse nel 1961 sulle colonne del “Meridiano d’Italia” tra il
sottoscritto e il commendator Massimo Vitale, allora Presidente del
Centro di Documentazione Ebraica e del Comitato Ricerche Deportati
Ebrei. Una polemica che ritengo utile pubblicare nuovamente senza alcuna
modifica, non solo perché suscitò allora grande interesse e mise in
crisi gli organi direttivi del Centro di Documentazione Ebraica, ma
soprattutto perché sviluppò e approfondì temi e aspetti del grande
dramma ebraico ancora di vivissima e stretta attualità.
Giorgio Pisanò
GLI EBREI E IL FASCISMO
Nelle pagine che seguono documenteremo quale fu l’atteggiamento tenuto
dal governo fascista dal 1922 fino all’aprile del 1945 nei confronti
degli ebrei, con particolare riguardo al periodo che oggi viene
comunemente ricordato come quello delle leggi antisemite e della
persecuzione. La ricostruzione degli avvenimenti è stata da noi
effettuata, mancando precise testimonianze di parte fascista, quasi
esclusivamente sulla scorta di documenti ebraici ed antifascisti che
citeremo di volta in volta.
Diciamo subito, comunque, che da tale documentazione emerge una realtà
storicamente molto diversa da quella che una propaganda ormai più che
quarantennale, è riuscita ad accreditare presso l’opinione pubblica.
Tale propaganda, alimentata in maniera massiccia da organizzazioni
politiche particolarmente interessate a fomentare confusioni ed
equivoci, sostiene che a quei tempi si verificò una netta
differenziazione tra la massa del popolo italiano, contraria ad ogni
tipo di persecuzione e pronta ad aiutare, come effettivamente aiutò con
ogni mezzo, gli ebrei, e il governo fascista, deciso invece a realizzare
sull’esempio tedesco la più feroce, spietata e inumana caccia
all’ebreo. Questa propaganda sostiene inoltre che se in Italia e nei
territori europei occupati dalle truppe italiane non si giunse ai
crudeli eccessi cui si abbandonarono i germanici, ciò lo si dovette al
fatto che gli italiani, dai generali all’ultimo soldato, si rifiutarono
di obbedire agli ordini del governo fascista e agirono di loro
iniziativa in nome dei superiori princìpi di umanità.
Tutto ciò, come appare chiaramente dai documenti che pubblicheremo, non è
esatto. Dalle testimonianze, e particolarmente da quelle di fonte
ebraica, appare infatti evidente che l’atteggiamento degli italiani nei
confronti degli ebrei fu ispirato non solo da motivi di umanità ma anche
e soprattutto da precise disposizioni emanate dal governo fascista e
personalmente da Mussolini, il quale, nonostante il suo apparente
antisemitismo determinato da esigenze di politica internazionale, fu
l’unico uomo politico europeo che, tra il 1938 e il 1945, si prodigò
concretamente per salvare la vita a centinaia di migliaia di ebrei in
tutta Europa.
Ciò premesso, entriamo in argomento ricordando prima di tutto che la
penisola italiana fu l’unica regione europea dove, nel corso dei secoli,
gli ebrei poterono vivere e prosperare con ampissimi margini di
sicurezza. Mentre in quasi tutte le Nazioni europee le collettività
israelitiche, isolate nei “ghetti”, sottoposte a discriminazioni di ogni
genere, divenivano periodicamente vittime di persecuzioni spaventose e
di massacri indescrivibili, in Italia la comunità ebraica poté
prosperare inserendosi sempre più profondamente nella vita sociale,
politica ed economica del Paese. Sta di fatto che già agli albori
dell’800 il termine “ghetto” giunse a perdere in Italia quel significato
spregiativo che, invece, conservò nelle altre Nazioni, e gli ebrei
furono sempre più liberi di inserirsi nel tessuto connettivo della
Nazione, mantenendo inalterate le loro organizzazioni comunitarie e
integri i loro riti. Si giunse così all’unificazione del Paese. Gli
ebrei non stettero in disparte. Parteciparono attivamente e
valorosamente alle lotte per l’indipendenza, italiani fra italiani.
Al termine della prima guerra mondiale furono tra i primi ad accorrere
nelle squadre d’azione fasciste. Tre ebrei triestini, i fratelli Forti,
furono i fondatori del Fascio giuliano; altri parteciparono in prima
linea alle attività dei Fasci di Roma, Firenze, Bologna, Genova, Ferrara
e così via. Uno squadrista ferrarese ebreo, per esempio, l’avvocato
Renzo Ravenna, fu poi per oltre quindici anni podestà della città
estense: e ancora a guerra finita, nonostante piangesse ben quattordici
familiari massacrati nei lager tedeschi, restò uno dei più strenui
difensori della memoria di Italo Balbo.
Documenta lo storico Renzo De Felice, nella sua voluminosa Storia degli
ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi editore, 1961), che gli
squadristi ebrei (intendendo per tali gli iscritti al Partito fascista
prima della Marcia su Roma) furono ben 746, cifra più che notevole se si
pensi che, a quell’epoca, la collettività ebraica in Italia non
raggiungeva le 50 mila unità. Tanta fedeltà degli ebrei alla causa
nazionale venne puntualizzata ripetutamente da Mussolini durante il
periodo rivoluzionario, e in maniera particolare in un articolo apparso
sul Popolo d’Italia il 19 ottobre 1920. In questo articolo il Capo del
fascismo, prendendo lo spunto dalle leggi antisemite votate
dall’Assemblea nazionale ungherese affermò: «L’Italia non conosce
l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai».
Dopo l’avvento del fascismo, gli ebrei italiani ottennero un
riconoscimento solenne con la legge del 1931 che istituiva le nuove
“norme sulle comunità israelitiche e sull’unione delle comunità
medesime”. Tale legge, ancora oggi in vigore, venne caldeggiata dagli
stessi ebrei che intendevano giungere ad un generale riordinamento delle
comunità locali, che si reggevano sulle antiche leggi varate al tempo
in cui l’Italia era suddivisa in tanti staterelli. Gli studi relativi a
questa legge iniziarono nel 1927 e furono affidati a un’apposita
commissione formata dall’allora “Consorzio delle comunità israelitiche”,
cui parteciparono Angelo Sacerdoti, rabbino di Roma, e i giuristi ebrei
Mario Falco, Giulio Foa e Angelo Sullam. Nel 1929 questa commissione
cedette il passo a una commissione ministeriale per la preparazione del
disegno di legge, della quale fecero parte Mario Falco, Angelo Sacerdoti
e Angelo Sereni, quest’ultimo presidente del Consorzio stesso.
La conclusione fu che gli israeliti italiani, grazie al governo
fascista, ottennero la legislazione più liberale, più moderna, più
funzionale che mai una collettività ebrea avesse ottenuto, in alcuna
altra parte del mondo, in duemila anni di storia. In pieno regime
totalitario, infatti, gli ebrei italiani, con la legge del 1931, furono
liberi di eleggere democraticamente i loro rappresentanti, di provvedere
in maniera autonoma alle loro necessità, all’amministrazione dei loro
beni e alla conservazione delle tradizioni e del patrimonio storico
ebraico.
Scrive infatti lo storico De Felice nella sua opera già citata: «La
nuova legge sulle comunità israelitiche approvata nel 1931 completò
infine l’opera, sancendo l’inizio di una nuova fase dei rapporti tra
ebrei e fascisti. Nel giro di pochi mesi anche le ultime resistenze e
incomprensioni si dissiparono. Ogni possibilità dell’insorgere di un
problema ebraico in Italia sembrò ai più, da una parte e dall’altra,
tanto remota quanto assurda. A fare dell’antisemitismo rimasero tra i
fascisti solo Preziosi e pochissimi altri … ai margini o addirittura al
di fuori dell’apparato statale e delle stesse sfere dirigenti del
fascismo… Il 25 febbraio 1931 Costanzo Ciano visitando il tempio di
Livorno arrivò a dire pubblicamente che in Italia c’erano troppo pochi
ebrei. Non può dunque destare meraviglia che persino sul sionista Israel
apparissero sempre più di frequente articoli e note filofasciste. Valga
per tutti il “fondo” del numero 27 ottobre 1932 in occasione del
decennale della Marcia su Roma e intitolato appunto Decennale: “Dopo
dieci anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in
Italia è più intenso, assai più intenso di prima … In un clima storico
come quello del fascismo riesce più facile ai dimentichi di ritrovare il
cammino della propria coscienza, ai memori di rafforzarlo,
presidiandolo di studi e di opere”».
Sempre a proposito della legge del 1931 così scrive ancora il De Felice:
«Nel complesso, la nuova legge fu accolta dalla stragrande maggioranza
degli ebrei molto favorevolmente. Solo da parte di alcuni rabbini si
sarebbe desiderato che fosse dato loro un maggior peso nella direzione
delle comunità. Tutti i principali gruppi l’accolsero con vivo
compiacimento. Il 17 ottobre, all’indomani cioè della sua approvazione
da parte del Consiglio dei ministri, il presidente del Consorzio
telegrafò a Mussolini la “vivissima riconoscenza” degli ebrei italiani;
analoghi messaggi furono inviati da quasi tutte le comunità».
Con la legge del 1931, gli ebrei italiani, il cui numero non superava le
50 mila unità, videro così consacrato il loro inserimento nella Nazione
italiana. In quei giorni nessuno, certo, poteva immaginare che cosa
sarebbe accaduto qualche anno più avanti.
È difficile, ora, stabilire una data precisa circa l’inizio della
frattura tra il fascismo e gli ebrei italiani. Ma è certo che il
radicalizzarsi della lotta tra fascismo e comunismo, tra fascismo e
democrazie occidentali, segnò le prime crepe in un accordo che doveva
fatalmente rompersi.
Diciamo “fatalmente” a ragion veduta. Gli ebrei, infatti, non avrebbero
mai potuto appoggiare sinceramente e decisamente lo sforzo di una Italia
tesa a rompere l’assedio all’Europa, che capitalismo da una parte e
comunismo dall’altra, stavano sempre più stringendo. Per fare ciò
avrebbero dovuto dimenticare di essere ebrei, dimenticare le loro
origini, i loro interessi e duemila anni di tradizione e di fede
religiosa tramandate rigidamente di padre in figlio. E, sia chiaro, non
diciamo questo con tono accusatorio: facciamo una constatazione,
prendiamo atto di una realtà che è quella che è da millenni. Prima di
sentirsi italiani o tedeschi o francesi o polacchi, e così via, gli
ebrei si sono sempre sentiti ebrei. Ciò ha permesso loro in ogni tempo
di restare legati a interessi e concezioni ideologiche sovranazionali.
La storia moderna infatti, non è che la storia del grande capitale
internazionale controllato dagli ebrei, che, di volta in volta, si è
alleato a questi o a quegli interessi nazionali per distruggere o
modificare quelle situazioni che minacciavano di diventare pericolose
per i suoi piani o per la sua stessa sopravvivenza. Era contro natura,
quindi, che gli ebrei italiani, o almeno gran parte degli ebrei
italiani, facessero eccezione a questa regola proprio nel momento in cui
una nuova Europa stava sorgendo dalle rovine di quella pace di
Versailles che aveva visto l’ebraismo internazionale deciso a
sottomettere il vecchio continente ai voleri del capitalismo
anglo-americano.
L’ANTISEMITISMO NAZISTA
La campagna antisemita, immediatamente scatenata dal Partito nazista una
volta giunto al potere nel 1933, i successivi primi contatti tra
fascismo e nazismo gettarono quindi una profonda inquietudine tra gli
strati più evoluti della comunità ebraica italiana. Alla sensibilità
degli israeliti, affinata da duemila anni di durissime esperienze, non
sfuggì il significato dell’incontro, sul piano europeo, delle due
rivoluzioni: non sfuggì soprattutto che l’ondata antisemita, ormai in
atto in Germania, avrebbe finito con l’estendersi a tutta l’Europa, dato
il peso preminente che, per motivi demografici, economici e militari,
il Reich avrebbe avuto in tutto in continente. Fu così che
l’antifascismo cominciò a serpeggiare in maniera abbastanza concreta tra
le file degli ebrei, specie dei più giovani. Nulla di serio, va detto
subito, ma è un fatto che alcune decine di intellettuali israeliti si
legarono fin dal 1933 non solo con i gruppi a tinta liberale e
socialdemocratica che avevano posto le loro basi soprattutto in Francia,
ma anche con i gruppi clandestini comunisti. Questi ultimi, che
agitavano le insegne della rivoluzione proletaria internazionale,
esercitavano molto fascino su vasti ambienti israeliti che, in un mondo
senza più confini, vedevano la conclusione dell’eterno vagabondare della
loro gente da una Nazione all’altra.
Sta di fatto che, nella primavera del 1934, la polizia italiana arrestò a
Ponte Tresa (Varese) alcuni antifascisti che rientravano dalla Svizzera
con manifestini di propaganda. Si scoprì un complotto antifascista: vi
facevano parte una ventina di persone in tutto. Di queste, però, undici
erano ebree ed erano guidate da Leo Levi, un giovane intellettuale che
poco tempo prima aveva ottenuto il “Premio Mussolini”, come migliore
studente in agraria dell’Università di Bologna,e, con il premio, una
cospicua somma in denaro che gli era servita poi per recarsi a
Gerusalemme dove aveva pronunciato discorsi squisitamente e marcatamente
anti italiani. Levi e i suoi compagni furono poi prosciolti da ogni
accusa dalla Magistratura, ma la scoperta del complotto determinò una
levata di scudi in senso antiebraico. «Se gli ebrei italiani», si disse
da più parti «vogliono essere veramente italiani, ne saremo felici noi
per primi. Ma se intendono vivere tra noi comportandosi da stranieri,
come tali finiranno con l’essere trattati». La polemica non ebbe però
molto seguito. La maggioranza degli ebrei italiani, che vivevano molto
bene e non avevano intenzione di mettersi in urto con il regime,
sconfessò l’operato degli undici arrestati. Prese vita, anzi, a Torino,
un giornale, La nostra bandiera, diretto e compilato da ebrei, che dal
1934 al 1938 si prodigò perché i rapporti tra la collettività ebraica
italiana e il fascismo non si alterassero. Va detto, inoltre, che La
nostra bandiera fu forse l’unico giornale stampato in Italia in quel
periodo, dove si attaccasse costantemente l’antisemitismo ormai
imperante in Germania.
Il rapido, incalzante succedersi degli eventi allargò tuttavia la
frattura tra ebrei e fascismo. Una frattura che non si vedeva e non si
sentiva e della quale l’assoluta maggioranza del popolo non ebbe mai
sentore. Il fatto è che gli ebrei italiani, a partire dal 1935, vissero
in uno stato di crescente allarme. Era ormai chiaro che l’internazionale
ebraica aveva preso posizione in senso antinazista, prima di tutto, e
di conseguenza, antifascista. Ebrei erano accorsi in gran numero nelle
file delle Brigate internazionali in Spagna, ebrei fuggivano ogni giorno
dalla Germania. Questi ultimi, specialmente, provvidero a seminare il
panico tra gli israeliti italiani. La grande maggioranza dei profughi
abbandonava infatti la Germania attraverso l’Austria e il Brennero e
giungeva in Italia, dove sapeva di trovare una forte collettività bene
organizzata, libera di agire e capace quindi di soccorrerla.
Dall’Italia, inoltre, molti profughi speravano di poter proseguire per
la Palestina e sbarcare in Terra Santa. Tutta questa gente, in ogni modo
(si parla di oltre 15.000 persone in pochi anni), venne ospitata in
Italia senza che il governo fascista levasse un dito per ostacolare
questa opera di soccorso.
Fino a tutto il 1936, comunque, i rapporti tra fascisti ed ebrei in
Italia si mantennero buoni. Racconta il De Felice: «Gli ebrei
parteciparono, come già si è detto, al generale entusiasmo per l’impresa
africana. Oltre i mobilitati, numerosi furono coloro che partirono
volontari, così come, del resto, sebbene in numero molto minore, in
occasione della successiva guerra di Spagna (un ebreo, Alberto Liuzzi,
caduto in Spagna, fu anche decorato di medaglia d’oro al valor
militare). Per l’assistenza religiosa di tutti questi combattenti in
Africa il ministero della Guerra e l’Unione delle comunità vennero anzi a
un accordo per l’istituzione di un “rabbinato militare”, che provvide
alla designazione di tre cappellani. Egualmente larghissima fu
l’adesione alla “giornata della fede” e all’offerta dell’oro. A questa
gli ebrei parteciparono non solo individualmente ma anche come comunità:
alcune di queste offrirono “tutti quegli oggetti d’oro e d’argento per i
quali non sussisteva al dono un esplicito impedimento rituale”. Offerte
giunsero persino da ebrei residenti in lontane regioni d’oltremare, dal
Congo belga e dalla Rhodesia. La vittoria e la proclamazione
dell’Impero furono salutate dalla stampa ebraica con vero entusiasmo,
come il trionfo del diritto e della verità sopra l’arbitrio e la
menzogna e furono celebrate anche nei templi.
«La conquista dell’Etiopia fu sentita da molti ebrei non solo come un
fatto nazionale, ma anche come un fatto ebraico. Nella zona presso
Gondar e il Lago Tana vive una popolazione di razza cuscitica e di
religione giudaica, i falascià. Sin dai primi anni del nostro secolo
l’ebraismo italiano aveva mostrato un certo interesse per questi
correligionari africani e aveva stabilito alcuni rapporti con essi. Per
un certo periodo a Firenze era esistito anche un comitato pro-falascià.
La conquista dell’Etiopia accrebbe molto questo interesse, facendo
sorgere il desiderio di rendere quei rapporti stabili e stretti e di
cooperare direttamente all’elevamento morale, civile e religioso dei
falascià. Il problema non solo fu illustrato e dibattuto ampiamente
dalle organizzazioni e dalla stampa ebraiche, ma subito posto in
esecuzione. Ai primi di giugno 1936 l’Unione prendeva contatti col
ministro delle Colonie, Lessona, e veniva stabilito che l’Unione si
sarebbe occupata dell’assistenza e dell’organizzazione degli ebrei
etiopici e avrebbe subito inviato suoi rappresentanti per prendere
contatto con i falascià e organizzare due comunità ad Addis Abeba e a
Dire Daua. Della difficile missione furono incaricati l’avvocato Carlo
Alberto Viterbo, consigliere dell’Unione, e il dottor Umberto
Scazzocchio, già segretario della comunità di Roma e residente
all’Asinara. Alla fine di luglio il Viterbo partì per l’AOI; giunto ad
Addis Abeba, il 22 agosto, fu ricevuto dal Viceré Maresciallo Graziani
che gli manifestò la sua comprensione e simpatia per gli israeliti; lo
assicurò “che tutti i culti avrebbero avuto rispetto e protezione nei
confini dell’Impero e che le popolazioni falascià, note per il loro
spirito laborioso, avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione
del governo”. Con decreto vicereale del 19 settembre 1936 fu poscia
costituita la comunità di Addis Abeba e il Viterbo ne fu nominato
commissario».
In realtà, nonostante quest’apparente buona armonia esistente tra il
governo fascista e gli ebrei in Italia, la situazione andava
deteriorandosi abbastanza rapidamente, tanto che nel 1938 si giunse
all’emanazione delle cosiddette “leggi razziali”. Gli scrittori
antifascisti, e in maniera particolare il De Felice, hanno teorizzato a
lungo sui motivi che determinarono la promulgazione delle leggi
antisemite, e sono giunti alla conclusione che l’ondata antiebraica fu,
in definitiva, l’esplosione di una tendenza criminale già preesistente
nell’ideologia fascista; in altro parole, la logica conclusione di un
processo degenerativa già insito nelle origini del fascismo stesso.
Analizzeremo allora, sulla base della situazione esistente nell’Europa e
nel mondo in quell’epoca, quali furono i veri motivi che spinsero
Mussolini a imbarcarsi in un’azione antiebraica, nonostante le sue
intime convinzioni nettamente contrarie a una politica antisemita,
convinzioni che traspaiono anche in ogni pagina dell’opera del De
Felice.
Nelle decisioni di Mussolini giocarono infatti non solo motivi politici,
ma anche, come sempre, una visione molto più ampia di tutto il
problema. La situazione, nel 1938, si presentava come segue. La Germania
era ormai decisa a liberarsi della presenza, nel suo territorio, degli
ebrei: non solo per motivi squisitamente razziali, ma soprattutto a
causa dell’odio feroce che i tedeschi avevano accumulato contro gli
israeliti nell’immediato dopoguerra, allorché gli speculatori e i
finanzieri ebraici avevano contribuito in maniera determinante al
marasma economico che si era abbattuto sul popolo tedesco.
L’Inghilterra, a sua volta, che aveva ricevuto alla fine della prima
guerra mondiale il compito di occupare militarmente la Palestina per
preparare la formazione di uno Stato d’Israele, aveva trasformato il
“mandato” in una occupazione permanente con finalità imperialistiche
allo scopo di controllare, dalla Terra Santa, tutto il Medio Oriente.
Non solo non permetteva agli ebrei di sbarcare, ma fucilava e impiccava
gli israeliti che, in Palestina, si battevano per la realizzazione dello
Stato d’Israele. Francia e Stati Uniti stavano a guardare. I russi, dal
canto loro, sembravano disinteressarsi del problema nel senso che se un
ebreo dava loro fastidio (come fecero nei confronti della “vecchia
guardia leninista”, in gran parte composta di israeliti) lo eliminavano
senza tanti complimenti.
Mussolini si trovò preso così in una situazione estremamente difficile e
delicata. Gli schieramenti, nel 1938, si erano ormai nitidamente
delineati. Il capitalismo occidentale si era già coalizzato contro la
nuova Europa; il bolscevismo, al momento opportuno, non avrebbe davvero
esitato ad allearsi anche con il diavolo pur di distruggere i suoi
nemici più temibili: vale a dire fascisti e nazisti. L’Italia non aveva
quindi che una scelta: approfondire l’alleanza con la Germania; quella
Germania, in fin dei conti, nelle cui braccia era stata gettata proprio
dalla politica cieca e faziosa delle classi dirigenti inglesi e
francesi. Ma l’alleanza esigeva delle precise prese di posizione. Una di
queste concerneva gli ebrei. Non era possibile conclamare ogni giorno
una perfetta identità di vedute con la Germania sul piano sociale,
politico, etico e morale e difendere a spada tratta non solo gli ebrei
italiani (il che, in definitiva, era una questione che riguardava solo
noi) ma anche tutti quelli che fuggivano dalla Germania.
C’era poi un altro interrogativo che esigeva una risposta. Che
atteggiamento avrebbero tenuto gli ebrei italiani in caso di guerra? Si
sarebbero sentiti italiani o, prima di tutto, ebrei? La risposta non
poteva essere che una: si sarebbero sentiti ebrei e avrebbero
parteggiato, con lo spirito e con i fatti, con tutti i loro
correligionari ormai schierati sull’altra sponda. Lo scontro stava
assumendo carattere di guerra santa: sarebbe stato un urto di
proporzione mondiale, la lotta sarebbe stata condotta con metodi e
finalità totalitarie. O di qua o di là: non ci sarebbero state vie di
mezzo. Ma Mussolini fece anche un’altra valutazione. Egli pensò infatti
che se anche l’Italia avesse assunto un atteggiamento preciso e ostile
nei confronti degli ebrei, l’Inghilterra, molto probabilmente, sotto la
spinta dell’opinione pubblica anglosassone, avrebbe aperto le porte
della Palestina agli ebrei d’Europa. E centinaia di migliaia di
israeliti avrebbero così potuto raggiungere la “Terra promessa” prima
dello scoppio della tempesta.
Furono tutti questi motivi a spingere Mussolini a preparare le leggi
razziali. Ma l’Inghilterra non mosse un dito e le porte della Palestina
restarono ben chiuse.
L’”ANTISEMITISMO” FASCISTA
Eccoci giunti quindi ad analizzare nella loro effettiva sostanza quelle
leggi antisemite che vengono presentate ormai da quaranta anni, dalla
propaganda antifascista, come la concretizzazione più ignobile della
criminalità fascista nei confronti degli ebrei.
Prima di tutto intendiamo precisare che le “leggi razziali” italiane non prevedevano assolutamente:
1) l’uso di un distintivo speciale (la stella gialla, per esempio,
adottata in Germania e nei territori sottoposti alla sovranità tedesca)
per gli ebrei italiani;
2) la costituzione di campi di concentramento e tanto meno, “di sterminio”;
3) l’arresto per gli ebrei italiani, in quanto tali. Fino all’8
settembre 1943 gli unici ebrei arrestati (poco più di qualche centinaio)
subirono la prigione o il confino perché colpiti dalle normali leggi
per la difesa dello Stato o di guerra.
Le leggi razziali vennero promulgate nel novembre del 1938 e
contemplavano una serie di misure da adottare nei confronti dei
cittadini italiani di razza ebraica. In teoria, queste leggi tendevano
alla eliminazione degli israeliti dalla vita pubblica. Prevedevano
l’esclusione dalle cariche politiche, amministrative e militari dei
cittadini italiani ebrei; l’esclusione degli ebrei da ogni tipo di
insegnamento: gli scolari e gli studenti ebrei di ogni ordine e grado
non potevano essere più iscritti a scuole statali; gli ebrei, inoltre,
non avrebbero potuto possedere o gestire aziende dove fossero impiegati
più di cento dipendenti, né essere proprietari di terreni che avessero
un estimo complessivo di più di 5.000 lire (di allora), o di fabbricati
urbani che, in complesso, avessero un imponibile di oltre 20.000 lire
(sempre di allora). Le leggi proibivano inoltre i matrimoni “misti” tra
italiani non ebrei e italiani di razza israelitica; ai cittadini
italiani di razza ebraica era infine vietato esercitare la professione
di notaio, mentre speciali limitazioni venivano poste ai giornalisti,
medici, farmacisti, veterinari, ostetriche, avvocati, ragionieri,
architetti, chimici, agronomi, geometri, periti agrari e periti
industriali.
Ora, tenuto presente che la collettività israelitica italiana contava,
nel 1938, circa 55.000 unità, vecchi, donne e bambini compresi, vediamo
in realtà a che cosa si ridusse, in pratica, l’applicazione di queste
leggi.
Cominciamo col dire che in base all’articolo 14 dei “Provvedimenti per
la difesa della razza” emanati in data 17 novembre 1938, la legge non
veniva applicata:
a) ai componenti le famiglie dei Caduti della guerra libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei Caduti per la causa fascista;
b) a coloro che si trovavano in una delle seguenti condizioni: 1°:
mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore
nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola; 2°: combattenti
nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, che a-vessero almeno
la croce al merito di guerra; 3° mutilati, invalidi e feriti della causa
fascista; 4°: iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919,
1920, 1921, 1922 e nel secondo semestre del 1924; 5°: legionari fiumani;
6°: coloro che avessero acquisito eccezionali benemerenze. «Nei casi
preveduti alla lettera 6», proseguiva la legge, «il beneficio può essere
esteso ai componenti la famiglia delle persone ivi elencate, anche se
queste siano premorte».
Non v’è chi non veda come queste discriminazioni avessero il potere, già
in partenza, di ridurre di molto il numero degli israeliti italiani che
potevano essere colpiti dalla legge. Ma analizziamo il resto.
SCUOLE. Decisa l’esclusione dalle scuole pubbliche degli insegnanti e
degli studenti ebrei, ecco i provvedimenti che il governo prese subito
dopo. Li trascriviamo integralmente dal “Testo unico delle norme emanate
per la difesa della razza nella scuola italiana”:
Articolo 5: «Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese
dello Stato, speciali sezioni di scuola elementare nella località il cui
numero di essi non sia inferiore a 10. Le comunità israelitiche possono
aprire, con l’autorizzazione del ministro per l’Educazione nazionale,
scuole elementari con effetti legali per i fanciulli di razza ebraica, e
mantenere all’uopo quelle esistenti. Per gli scrutini e per gli esami
nelle dette scuole, il Regio provveditore agli studi nomina un
commissario. Nelle scuole elementari di cui al presente articolo il
personale potrà essere di razza ebraica; i programmi di studio saranno
quegli stessi stabiliti per le scuole frequentate da alunni italiani,
eccettuato l’insegnamento della religione cattolica; i libri saranno
quelli dello Stato, con opportuni adattamenti, approvati dal ministero
per la Educazione nazionale, dovendo la spesa di tali adattamenti
gravare sulle comunità israelitiche».
Articolo 6: «Scuole di istruzione media per alunni di razza ebraica
potranno essere istituite dalle comunità israelitiche o da persone di
razza ebraica. Dovranno all’uopo osservarsi le disposizioni relative
all’istituzione di scuole private. Alle scuole stesse potrà essere
concesso il beneficio del valore legale degli studi e degli esami, ai
sensi dell’articolo 15 del Regio decreto legge del 3 giugno 1938-XVI, n.
928, quando abbiano ottenuto di fare parte in qualità di associate
dell’Ente nazionale per l’insegnamento medio: in tal caso i programmi di
studio saranno quegli stessi stabiliti per le scuole corrispondenti
frequentate da alunni italiani, eccettuati gli insegnamenti della
religione e della cultura militare. Nelle scuole di istruzione media di
cui al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica e
potranno essere adottati libri di testo di autori di razza ebraica».
Articolo 8: «Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il
personale di razza ebraica appartenente ai ruoli per gli uffici e gli
impieghi di cui al precedente art. 1, è dispensato dal servizio, e
ammesso a fare valere i titoli per l’eventuale trattamento di quiescenza
ai sensi delle disposizioni generali per la difesa della razza
italiana. Al personale stesso, per il periodo di sospensione di cui
all’articolo 3 del Regio decreto legge 5 settembre 1938-XVI, n.1390,
vengono integralmente corrisposti i normali emolumenti spettanti ai
funzionari in servizio».
Articolo 10: «In deroga al precedente articolo 2 (che diceva: “Nelle
scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private frequentate da alunni
italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica”) possono
essere ammessi in via trasitoria a proseguire gli studi universitari
studenti di razza ebraica già iscritti nei passati anni accademici a
Università o Istituti superiori del Regno. La stessa disposizione si
applica agli studenti iscritti ai corsi superiori e di perfezionamento
per i diplomati nei regi conservatori, alle regie accademie di belle
arti e ai corsi della regia accademia di arte drammatica in Roma, per
accedere ai quali occorre un titolo di studi medi di secondo grado o un
titolo equipollente. Il presente articolo si applica anche agli studenti
stranieri, in deroga alle disposizioni che vietano agli ebrei stranieri
di fissare stabile dimora nel Regno».
Come si vede, tra “discriminazioni”, “deroghe” e così via, la legge, già
di per sé molto blanda, in quanto finiva con l’applicare nei confronti
degli ebrei, sia pure accentuandole, le normali disposizioni sempre
adottate nei confronti degli stranieri, perdeva moltissimo del suo
iniziale vigore. Vale quindi la pena di analizzare anche gli altri
aspetti.
ESTROMISSIONE DEGLI EBREI DALLE LORO PROPRIETÀ. Abbiamo visto prima i
limiti delle proprietà concesse agli ebrei. In realtà, però, che cosa
accadde? Che gli ebrei, le proprietà, non le perdettero. A parte il
fatto che i patrimoni degli israeliti “discriminati” (una categoria
molto vasta cui appartenevano i più abbienti tra gli ebrei Italiani) non
vennero toccati, per tutti gli altri venne escogitata una legge che,
in pratica, permetteva agli ebrei di vendere case e terreni a un
apposito Ente. Non ci furono confische. Anzi, in base all’articolo delle
“Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività
industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica”
emanate il 9 febbraio 1939, venne stabilito che: «In deroga alle
disposizioni degli articoli 4 e 5, il cittadino italiano di razza
ebraica può fare donazione dei beni ai discendenti non considerati di
razza ebraica». Una formula, questa, come è facile immaginare, che
permise a moltissimi ebrei di affiliare cittadini non israeliti e
trasferire loro, con falsi atti di donazione, le loro proprietà in
attesa di tempi migliori.
Questa legge, che, in definitiva, non spogliava gli ebrei dei loro beni,
aveva uno scopo preciso: spingere gli israeliti ad abbandonare
l’Italia, pagando loro un prezzo equo per le loro proprietà e dando loro
la possibilità di andarsene con il capitale liquido realizzato. Lo
stesso sistema, del resto, venne adottato nei confronti degli
altoatesini, allorché, d’accordo con Hitler, gli allogeni vennero messi
in condizione di decidere tra restare in Italia, cittadini italiani, o
andarsene in Germania. Per coloro che optarono per la Germania, venne
costituito un apposito Ente, che acquistò i beni degli optanti pagando i
prezzi stabiliti dalle condizioni di mercato di allora.
DIVIETO PER GLI EBREI DI ESERCITARE LE LIBERE PROFESSIONI. Anche questa
disposizione venne immediatamente temperata in maniera talmente vasta da
renderla praticamente nulla. Si legge infatti nell’articolo 3 delle
norme sulla “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei
cittadini di razza ebraica” emanate in data 29 giugno 1939: «I cittadini
italiani di razza ebraica esercenti una delle professioni di cui
all’art. 1, che abbiano ottenuta la discriminazione ai termini
dell’articolo 14 del Regio decreto legge 17 novembre, 1938-XVI, n. 1728,
saranno iscritti in “elenchi aggiunti”, da istituirsi in appendice agli
albi professionali, e potranno continuare nell’esercizio della
professione a norma delle vigenti disposizioni, salvo le discriminazioni
previste dalla presente legge. Sono altresì istituiti, in appendice
agli elenchi transitori eventualmente previsti dalle vigenti leggi o
regolamenti in aggiunta agli albi professionali, elenchi aggiunti dei
professionisti di razza ebraica discriminati».
Più oltre, all’articolo 21, si stabiliva: «L’esercizio professionale da
parte del cittadino italiano di razza ebraica, iscritto negli elenchi
speciali è soggetto alle seguenti limitazioni : 1) salvo i casi di
comprovata necessità e urgenza, la professione deve essere esercitata
esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica…». Il
che, in sintesi significava: i professionisti di razza ebraica restano
iscritti agli albi professionali, possono esercitare la professione e,
sotto l’usbergo dei previsti “casi di comprovata necessità e urgenza”,
possono esercitarla anche a favore di persone appartenenti alla razza
non ebraica, vale a dire di qualsiasi cittadino italiano. Il che, sia
chiaro, accadde regolarmente.
Sono questi i punti delle principali leggi, cosiddette “razziali”,
italiane. Tutto qui: gli “orrori, le crudeltà, le persecuzioni inumane”
di cui tanto si parla, sono tutte contenute negli articoli di legge che
abbiamo citato.
Ma andiamo avanti, e parliamo anche del “lavoro obbligatorio” a cui il
fascismo avrebbe costretto gli ebrei italiani. Ci sono, a questo
proposito, delle idee molto confuse: a sentire i propagandisti
antifascisti, sembrerebbe che, sferza alla mano, i fascisti abbiano
costretto i cittadini israeliti a durissimi lavori forzati. Prima di
tutto va detto che questa disposizione del “lavoro obbligatorio” venne
emanata solo il 6 maggio 1942, quando cioè la guerra era iniziata già da
due anni e gli ebrei erano ormai chiaramente schierati con i nemici
dell’Asse. In secondo luogo va aggiunto che si risolse in un nulla di
fatto. La legge diceva: «Con disposizione in data odierna, gli
appartenenti alla razza ebraica anche se discriminati, di età dal 18° al
55° anno compresi, sono sottoposti a precettazione civile a scopo di
lavoro». Gli stessi termini con cui venne formulato il decreto fanno ben
capire che nessuno aveva intenzione di applicarlo. Vi si dice infatti
che gli ebrei erano “sottoposti a precettazione civile”, vale a dire che
potevano essere precettati per il lavoro, non che sarebbero stati
senz’altro inviati a lavorare. E, in verità, quei pochi, che, per dare
una parvenza di sostanza alle disposizioni, vennero mobilitati e spediti
a scavare qualche fosso nelle periferie delle città dove abitavano, non
si preoccuparono molto della cosa. Nel volgere di poche settimane, un
po’ facendosi raccomandare, un po’ marcando visita, un po’
infischiandosene altamente delle punizioni che, del resto, non sarebbero
mai arrivate, piantarono lì vanghe e badili e non si presentarono più
ai campi di lavoro. E nessuno disse niente e nessuno li andò a cercare.
E veniamo ai “campi di internamento”, altro argomento graditissimo a
tutti coloro che ne parlano in termini apocalittici maledicendo
l’inumana “crudeltà” del regime fascista. Ebbene, sia detto una volta
per tutte: IN ITALIA NON ESISTETTERO MAI CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER
EBREI. DI NESSUN GENERE. Solo allo scoppio della guerra, e in nome delle
più elementari misure di sicurezza, furono inviati in campi di
internamento circa 15.000 EBREI STRANIERI, vale a dire tutti quelli
giunti in Italia negli anni precedenti alla guerra per sfuggire alle
persecuzioni antisemite germaniche.
155.000 EBREI ITALIANI NON VENNERO MAI TOCCATI: NON UNO, IN QUANTO TALE, VENNE MAI INTERNATO.
G.P.
|
|
Nessun commento:
Posta un commento