Quella grande ipocrisia
sulle cause e gli scopi della Seconda guerra mondiale
di Francesco Lamendola -
La
Vulgata storiografica antifascista, sia nella versione
liberaldemocratica sia in quella (oggi obsoleta) marxista-leninista, ci ha
sempre spiegato che la seconda guerra mondiale fu scatenata interamente dalla
follia di un uomo solo, Hitler; e che essa fu combattuta dal «mondo libero»
(nonostante l’imbarazzante presenza, in esso, e in un ruolo decisivo, del
compagno Stalin) per salvare la
Polonia, un po’ come nel 1914 era stato fatto per il «poor
little Belgium», il cui triste destino aveva profondamente commosso le dame
britanniche.
Per
quanto possa sembrare incredibile, questa risibile ricostruzione dei fatti ha
retto per oltre sessant'anni, segno che non è una frase fatta quella secondo cui
la storia viene scritta dai vincitori: perché, se gli Alleati non avessero
vinto, impadronendosi della cultura e dell'informazione mondiale (basata,
quest'ultima, sulle cinque grandi agenzie di stampa internazionale: due
statunitensi, una britannica, una francese ed una sovietica), ben difficilmente
sarebbe stato possibile puntellare tante menzogne e tante mezze verità per un
tempo così lungo, insegnandole nelle aule scolastiche e universitarie e
diffondendole a mezzo di migliaia e migliaia di libri ed
articoli.
Per dirne una: come giustificare che
quelle stesse potenze democratiche che, nel 1938, avevano gettato in pasto a
Hitler la democratica Cecoslovacchia, nel 1939 firmarono una cambiale in bianco
che incoraggiava la
Polonia semifascista ad opporsi con la massima intransigenza
alle richieste di Hitler (che, per mesi, furono pacifiche e decisamente
moderate?).
Oppure: come spiegare che il 3
settembre 1939 Francia e Gran Bretagna dovevano per forza dichiarare guerra alla
Germania per salvare la
Polonia, mentre non presero la minima iniziativa contro
l'Unione Sovietica allorché, il 17 dello stesso mese, quest'ultima invase a sua
volta la sventurata Polonia (altro che «pugnalata nella schiena»!), prendendola
alle spalle?
E come spiegare il fatto che
la Francia e
la Gran
Bretagna non mossero un dito per soccorrere la Finlandia, aggredita
dall'Unione Sovietica senza alcuna dichiarazione di guerra, proprio sul finire
di quello stesso anno, eccezion fatta per il tardivo e mal concepito sbarco nel
fiordo di Narvik, dopo l'occupazione tedesca della
Norvegia?
Inoltre: come mai, se la guerra era
stata scatenata per salvare la
Polonia, né la
Francia, né la Gran Bretagna mossero un dito per aiutarla,
restandosene sulla difensiva sul fronte occidentale, mentre le divisioni
corazzate della Wehrmacht scorrazzavano per la pianura polacca e conquistavano
Varsavia in poco più di due settimane? Infatti, se davvero si desidera aiutare
qualcuno in difficoltà, e se, per farlo, si è disposti a scatenare niente meno
che un conflitto mondiale, un tale atteggiamento risulta semplicemente
incomprensibile.
Oppure le vere ragioni della
dichiarazione di guerra franco-inglese alla Germania erano completamente
diverse? Non sarebbe più onesto ammettere che la Polonia fu gettata
cinicamente in pasto ad Hitler, dopo averla aizzata ad una folle intransigenza,
pur di avere il desiderato «casus belli» contro i Tedeschi, così come, nel
dicembre 1941, Roosevelt e il governo statunitense avranno disperatamente
bisogno dell'attacco di Pearl Harbor per poter dichiarare guerra ai Giapponesi,
con tutte le apparenze della ragione e del buon
diritto?
Ancora: come è possibile sostenere che
le potenze democratiche scatenarono la guerra per difendere la libertà e
l'indipendenza della Polonia, se nel 1945 furono così accomodanti ai disegni di
Stalin volti a trasformarla in una pedina dell'impero
sovietico?
Ci vuole un bel coraggio per
continuare a sostenere a testa alta tutte queste verità di facciata, espressione
di una storiografia di comodo, ad uso e consumo dei vincitori, volta a fornire
una giustificazione per il loro cinismo, per la loro brama di dominio mondiale,
per l'ipocrisia delle loro parole d'ordine liberali e
democratiche.
Ha osservato il grande storico
francese François Furet nel suo libro «Il passato di un’illusione» (titolo
originale: «Le passé d’une illusion», Paris, Laffont, 1995; traduzione italiana
a cura di Marina Valensise, Milano, Mondatori, 1995, pp.
392-94):
«Il caso
polacco è […] tristemente simbolico, poiché riguarda il paese che è stato
all’origine della seconda guerra mondiale, prima di diventarne una delle grandi
vittime. Causa del conflitto nel settembre 1939 e primo teatro di
operazioni militari, la
Polonia ha continuato a essere l’epicentro del terremoto
europeo, dapprima divisa, saccheggiata, mortificata dalla Germania e dall’Urss,
poi oggetto di disaccordo tra l’Urss e le democrazie anglosassoni, per perdere
infine la propria indipendenza al termine d’una guerra che era scoppiata per
assicurarla. La
Polonia rivela ciò che prima e dopo il 22 giugno 1941 vi è
d’immutato nella volontà di Stalin, attraverso un succedersi di alleanze
contraddittorie. Nel 1939 e del 1940, il segretario generale aveva ottenuto dal
negoziato con Hitler un vasto insieme di territori nell’Europa orientale. Voleva
ancora quello che Molotov era andato a chiedere a Berlino nel novembre del 1940:
una sorta di protettorato su Romania, Bulgaria, Finlandia e Turchia, il
controllo dei Balcani, lo statuto d superpotenza mondiale a fianco della
Germania nazista. Di tutto questo, nulla è veramente cambiato con la nuova
disposizione delle alleanze. Anche se ci sono due differenze: Stalin
grazie ai successi del suo esercito ha continuato ad accrescere le sue ambizioni
verso l’Ovest. E ormai deve negoziare non più con Hitler, ma con Churchill e
Roosevelt.
La
vicenda polacca dimostra che egli incontra meno difficoltà con i responsabili
delle democrazie che con il dittatore nazista. Sebbene dopo il 22 giugno
abbia rapidamente riconosciuto il governo polacco di Londra, preludio alla
formazione d’un esercito polacco in territorio sovietico, Stalin rifiuta
d’includere nell’accordo qualsiasi menzione della frontiera polacco-sovietica. E
sin dall’autunno 1941 manifesta chiaramente agli inglesi la propria volontà di
conservare i territori che ha comunque ottenuto dai tedeschi. Churchill e
Roosevelt cercano di prendere tempo, rinviando a dopo la pace il tracciato dei
confini. Ma se non possono aprire subito un secondo fronte europeo, richiesto
con insistenza da Stalin, devono pur concedere qualcosa ai loro alleati, che
temono sottoscriva - sulla base del precedente del 1939 - una pace separata con
Hitler. Le democrazie pagano lo stato d’impreparazione militare in cui le ha
sorprese la guerra, cedendo in anticipo ala volontà d’espansione sovietica. Ma
bisogna considerare il peso delle illusioni: Churchill non ne ha affatto,
Roosevelt invece sì. Sull’Unione Sovietica e il suo capo, il presidente
americano s’è dimostrato ignorante e al tempo stesso ingenuo. Su Stalin nutre
stranamente idee ottimistiche al punto che è difficile immaginare che
appartengano davvero a un brillante statista. L’epoca, certo, vi si
presta. Il ricordo del patto tedesco-sovietico sfuma con gli anni, l’Armata
Rossa ha pagato con i suoi sacrifici il caro prezzo della redenzione.
Stalingrado ha cancellato gli scambi di cortesia tra Ribbentrop e Molotov. La
guerra impone la sua logica manichea, che diventa a poco a poco un’opinione
obbligata.
Nel 1943,
la scoperta da parte dei nazisti dell'ossario di Katyn complica l'imbroglio
polacco, provocando da una parte la rottura tra l'Urss e il governo polacco di
Londra, dall'altra la formazione a Mosca di un'altra équipe polacca, che
annuncia il futuro potere comunista. I giochi sono già fatti anche in campo
sovietico, proprio quando (fine 1943) l'Urss proclama come suoi obiettivi di
guerra la restaurazione dell'indipendenza delle nazioni e la libera scelta del
proprio governo da parte di ciascuna di esse. Nello stesso momento Churchill e
Roosevelt, a Teheran, accettano come frontiera orientale della Polonia la linea
Curzon. È una misura che implica un ampio spostamento del territorio polacco
verso ovest, a detrimento di milioni di tedeschi che dovranno essere espulsi, il
che comporta la stretta dipendenza della futura Polonia nei confronti
dell'Urss.
A quel punto, il resto della storia è
già scritto. L'avanzata militare sovietica all'ovest rende inevitabile anche
quella parte della storia che non è stata stabilita in anticipo. L'insolubile
problema che oppone il governo Mikolajczik a Stalin è risolta sul campo
nell'agosto 1944. Al termine d'una rapida avanzata, l'Armata Rossa giunge sino a
un sobborgo di Varsavia, sulla riva destra della Vistola. Allo stesso momento,
il governo polacco di Londra decide d'affermare il suo diritto: con le sue unità
militari clandestine, fa scoppiare l'insurrezione a Varsavia. Ma il dramma è che
per vincere di fronte alle truppe tedesche ha bisogno d'una mano dell'Armata
sovietica, accampata sull'altra sponda del fiume. E questa non si muove. Il 2
ottobre, assiste da lontano alla capitolazione dell'Esercito nazionale polacco e
alla distruzione della città vecchia a Varsavia. In dicembre, il Comitato di
liberazione nazionale della Polonia, formato a Lublino su iniziativa dei russi,
si trasforma in governo provvisorio del paese, subito riconosciuto da Mosca A
Jalta, nel febbraio 1945, Churchill e Roosevelt riescono a ottenere da Stalin
soltanto la partecipazione dei polacchi di Londra a questo governo provvisorio:
è una "unione nazionale" fittizia, che non resisterà molto tempo alla situazione
sul campo.
All'epoca però nessuno si preoccupa di
questo trionfo della forza sul diritto, che corona una guerra combattuta in nome
del diritto contro la forza. L'idea comunista segna in quegli anni il culmine
del secolo, trionfando contemporaneamente nei fatti e nei
pensieri».
In questa
ricostruzione e in questa interpretazione, vi sarebbe molto da dire su un punto
importante, quello relativo alla ormai tradizionale versione della
«impreparazione militare» delle democrazie rispetto a Hitler, nel settembre del
1939.
Che si
tratti di una leggenda, lo hanno fatto notare solo pochi storici controcorrente,
ad esempio Franco Bandini che, nel suo studio «Tecnica della sconfitta», ha
mostrato come specialmente la Gran Bretagna non fosse affatto impreparata e,
anzi, Churchill avesse freddamente deciso di provocare una guerra contro
la Germania
entro il 1939-40, vale a dire prima che questa riuscisse a surclassare la flotta
inglese, ricalcando la politica inglese del 1914.
Se, poi,
gli scopi di guerra degli Alleati erano il ripristino del diritto
internazionale, della libertà di navigazione e di commercio, del diritto
all'autodecisione dei popoli, secondo lo schema contenuto nella Carta Atlantica
firmata da Churchill e Roosevelt il 14 agosto 1941 (allorché gli Stati Uniti
d'America, fatto degno di nota, non erano ancora in stato di guerra né contro il
Giappone, né contro l'Asse), come si spiega il fatto che, nel 1945, metà
dell'Europa venne gettata, senza batter ciglio, sotto il tallone di un sistema
totalitario quale non si era mai visto in qualsiasi epoca della storia moderna,
eccezion fatta per il solo nazismo?
Si dice che, quando ebbe notizia dello
sfondamento delle proprie forze corazzate sul Volga e dell'accerchiamento della
VI Armata Tedesca, prodromo della decisiva vittoria di Stalingrado, il dittatore
sovietico si sia abbandonato ad uno dei suoi rarissimi momenti di sincerità:
adesso il gioco era fatto, nessuno gli avrebbe mai più domandato di rendere
conto dei suoi crimini: né delle stragi di massa della collettivizzazione
forzata, né delle Grandi Purghe, né del patto coi nazisti del 23 agosto 1939,
preludio alla spartizione della Polonia, né delle esecuzioni di parecchie
migliaia di ufficiali polacchi nella foresta di
Katyn.
E nemmeno di quelli che si accingeva a
compiere: la cacciata di milioni di Tedeschi dalle province orientali del Reich;
la vile dichiarazione di guerra al Giappone, già prostrato militarmente e
sconvolto dalle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki; l'instaurazione di
ferree dittature comuniste sui Paesi dell'Europa centro-orientale; la
deportazione di intere popolazioni «infedeli», come i Tartari di Crimea e o i
Cosacchi del Kuban; l'incitamento alla Corea del Nord affinché scatenasse una
offensiva contro la
Corea del Sud, rischiando - niente di meno - di precipitare una
terza guerra mondiale fin dal 1950.
La storia non processa i vincitori, ma
gli sconfitti. Questo sapeva Stalin; e questo sapevano anche Churchill e
Roosevelt.
Il primo, autore della distruzione
sistematica delle città tedesche mediante bombardamenti aerei terroristici di
proporzioni apocalittiche e militarmente ingiustificati (Amburgo, Dresda, ecc.),
che volle la seconda guerra mondiale per il miope ed egoistico disegno di
preservare l'impero coloniale britannico, che invece la Gran Bretagna dovette
liquidare poco dopo la fine della guerra (l'India ottenne l'indipendenza già nel
1947, sia pure fatalmente mutilata dalla secessione del Pakistan, ultimo colpo
di coda del colonialismo inglese).
Il secondo, che si era fatto eleggere
dai suoi connazionali promettendo di tenerli fuori dalla guerra, mentre fece di
tutto per trascinare il suo Paese nel conflitto a sostegno della Gran Bretagna,
l'antica madrepatria; e che riuscì perfettamente a creare la leggenda di
un'America costretta a intervenire controvoglia, ma decisa a battersi
disinteressatamente per il trionfo della libertà e della giustizia, mentre fin
dall'immediato dopoguerra non esitò a servirsi delle cause più discutibili,
prima fra tutte quella sionista, pur di affermare l'egemonia mondiale americana
e per porre l'intero pianeta sotto la tutela della bandiera a stelle e strisce e
dei finanzieri di Wall Street.
Proprio gli stessi che - vale la pena
di sottolinearlo -, provocando la crisi economica del 1929, avevano avuto una
responsabilità così grande nell'avvento del nazismo e, quindi, nelle vicende che
avevano portato allo scoppio della seconda guerra
mondiale.
Quanta ipocrisia nella versione
ufficiale circa le cause e gli scopi della seconda guerra mondiale, rinnovata ad
ogni anno con le trionfalistiche celebrazioni dell'anniversario del «D-day» (6
giugno 1944), ossia dello sbarco angloamericano in
Normandia!
Un solo esempio in proposito: gli
storici della Vulgata liberaldemocratica si guardano bene dal ricordare che, nei
primi giorni dopo quello sbarco, che segnava l'inizio della conquista e del
successivo dominio americano sull'Europa, buona parte delle popolazioni francesi
nelle retrovie del teatro di operazioni si auguravano la vittoria tedesca e
speravano ardentemente che le forze d'invasione venissero rigettata nelle acque
della Manica.
Ma queste cose, solo pochi storici
controcorrente, come David Irving, hanno avuto il coraggio di dirle; e hanno
pagato un prezzo molto salato per averle affermate, e sia pure sulla base di una
documentazione inoppugnabile.
Altro che tramonto delle
ideologie!
L'Europa e il mondo non hanno mai
vissuto all'ombra di una cappa ideologica pesante come quella che regna oggi,
dopo la fine della «guerra fredda»: il Pensiero Unico della democrazia liberale
e del capitalismo trionfante.
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